Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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LA MAFIA

 

IN ITALIA

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SOMMARIO

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

INTRODUZIONE. MAFIOSI PER SEMPRE.

LA MAFIA CONVIENE. MA NON ESISTE.

“PERCHE’ AVETE ARCHIVIATO MAFIA-APPALTI?”

I DEPISTAGGI.

LE ORIGINI DELLA MAFIA.

RITUALI D’INIZIAZIONE. I GIURAMENTI DELLE MAFIE.

LA 'NDRANGHETA. LA MAFIA CALABRESE.

LA COSA NOSTRA. LA PRIMA MAFIA SICILIANA.

LA STIDDA. LA SECONDA MAFIA SICILIANA.

LA SACRA CORONA UNITA. LA PRIMA MAFIA PUGLIESE.

LA SOCIETA' FOGGIANA. LA SECONDA MAFIA PUGLIESE. LA QUARTA MAFIA.

I BASILISCHI. LA MAFIA LUCANA.

LA CAMORRA. LA MAFIA CAMPANA.

LATINA. LA QUINTA MAFIA.

LE MAFIE LAZIALI. MAFIA CAPITALE.

LE MAFIE LAZIALI. LA BANDA DELLA MAGLIANA.

LE MAFIE LAZIALI. I CASAMONICA E GLI SPADA.

LA MAFIA VENETA. LA MALA DEL BRENTA.

LA MAFIA LOMBARDA.

LE ALTRE MAFIE.

NARCOS.

LA MAFIA MESSICANA. LOS ZETAS.

LA MAFIA MESSICANA. EL CHAPO ED IL CARTELLO DI SINALOA.

LA MAFIA COLOMBIANA. IL CARTELLO DI CALI’.

LA MAFIA COLOMBIANA. PABLO ESCOBAR ED IL CARTELLO DI MEDELLIN.

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato ed istruito, giudicato da “coglioni”.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

In un mondo dove sono tutti ciottiani per convenienza, pronti a spartirsi il ricavato, mi onoro di essere il solo ad essere sciasciano e come lui processato dai gendarmi dell'antimafiosità.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare. In virtù degli scandali, gli Italiani dalla memoria corta, periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che, se ottenessero quello che chiedono, nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti. La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra comunista per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare e queste manifestazioni pseudo antimafia, non è che sono propaganda per non far cessare il sostentamento?

INTRODUZIONE. MAFIOSI PER SEMPRE.

La rivolta dei sindaci dei comuni sciolti per mafia. La lettera-appello di 51 amministratori locali calabresi al ministro Minniti: “Troppo potere alle prefetture”, scrive Simona Musco il 9 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Qualcuno li chiama già «sindaci ribelli», fasce tricolori che si oppongono allo Stato anziché alla ‘ ndrangheta. E ad uno sguardo superficiale, forse, potrebbe apparire così. Ma i 51 sindaci calabresi che hanno scritto al ministro dell’Interno Marco Minniti, chiedendo un incontro per discutere degli scioglimenti delle amministrazioni per infiltrazioni mafiose, puntano solo a ricreare «un clima di serenità e fiducia», per non smettere di credere nella democrazia e nella funzione dello Stato. Uno Stato che ormai sempre più frequentemente, di fronte al sospetto della contaminazione mafiosa, decide di radere al suolo le amministrazioni anziché aiutarle. La lettera parte dal Comune di Roghudi, in provincia di Reggio Calabria, dalla mail del sindaco Pierpaolo Zavettieri. È lui a spiegare, al termine di un incontro con il prefetto di Reggio Calabria, Michele Di Bari, lo scopo suo e dei colleghi: un incontro «politico» con Minniti per poter rivedere quelle norme «che in qualche modo occludono ogni spazio democratico», ha dichiarato in un’intervista a Newz. it. La legge, ha sottolineato, s’inceppa quando consente agli organi di prefettura di intervenire senza nessuna forma di contraddittorio, «senza nessuna possibilità che vengano comprovati gli elementi posti a carico degli amministratori e attraverso i quali vengono poi applicati gli scioglimenti per i consigli comunali, così come le interdittive alle imprese». La richiesta non è quella di abrogare la norma, anzi, precisa Zavettieri, «chiediamo che avvengano sempre questi processi a favore della legalità», ma che gli stessi consentano ad amministratori e imprenditori colpiti da interdittiva «di dimostrare», l’eventuale insussistenza degli indizi posti alla base dello scioglimento. Assieme a ciò, i sindaci chiedono anche eventuali interventi sul sistema burocratico: non allo scopo di scaricare le responsabilità politiche, aggiunge Zavettieri, ma per affiancare i funzionari, azione «che non penalizzerebbe la democrazia». Gli organi politici sono infatti espressione del popolo, al contrario degli uffici, che hanno tempi di rinnovamento molto più lenti. Un intervento, dunque, non altererebbe i principi democratici, «cosa che avviene se si rimuove l’amministrazione comunale e si insedia una commissione». Un principio che qualche giorno fa anche il nuovo procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, ha in qualche modo condiviso, spiegando la necessità di pensare «a percorsi che accompagnino gli organi elettivi con un sostegno statale». Nella lettera i sindaci evidenziano le «condizioni ed i contesti» in cui si trovano ad operare le amministrazioni locali, «un pezzo di Stato, sia pure periferico che non sempre si sente tale anche perché misconosciuto dagli altri organi dello Stato presenti sul territorio». E alla collaborazione, negli ultimi anni – basti pensare che dal 2012 ben 43 amministrazioni sciolte su 81 si trovano in Calabria – si è sostituita «la cultura del sospetto» e lo Stato, anziché stare a fianco dei Comuni, è diventato «ostile». E in questo clima, aggiungono, «nessun obiettivo di crescita sociale e civile e nessuna azione efficace di contrasto alla criminalità organizzata può avere successo». Lo scioglimento è passato da strumento eccezionale a strumento ordinario, spingendo sempre più gli amministratori a cedere alla tentazione di mollare l’impegno pubblico.

I 51 Comuni sciolti per mafia che si ribellano ai commissari. «Il marcio sta nella burocrazia». I sindaci dei centri infiltrati dalle cosche scrivono al governo. «Così state uccidendo la democrazia!» Scrive Goffredo Buccini il 6 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Qualcuno cita addirittura la buonanima del Che, giurando di «sentire sulla propria pelle l’ingiustizia...». Qualcun altro denuncia immancabili complotti dei «poteri forti». Molti stiracchiano il sacrosanto «primato della politica» fino a coprire consigliere comunali fidanzate di presunti padrini, membri di maggioranza in manette, impiegati municipali asserviti alle cosche, atti amministrativi triturati dalle inchieste dei Ros. E tutti insieme, minacciando di riconsegnare a Roma le fasce tricolori, tuonano: «Così state uccidendo la democrazia!». In questa Italia che non tiene più insieme i suoi pezzi, i sindaci dei Comuni calabresi sciolti per mafia (o in odore di scioglimento) non si rivoltano contro la ‘ndrangheta ma contro lo Stato. Su 290 consigli comunali rimandati a casa dall’entrata in vigore della legge 221 del 22 luglio 1991 poi variamente modificata (nel primo blocco c’era Casal di Principe, patria della camorra), quelli calabresi sono stati 98, tre meno della Campania.

Nuovi interesse dei clan. Ma negli ultimi cinque anni la Calabria ha subìto 43 scioglimenti sugli 81 totali contro i 18 della Campania: un segno chiaro di dove si siano orientati ora gli interessi delle cosche. L’ultimo decreto s’è abbattuto un paio di settimane fa su una città importante come Lamezia Terme e su altri quattro centri calabresi minori tra cui Isola di Capo Rizzuto, nota per un’inchiesta antimafia che ha mostrato come persino il Centro d’accoglienza degli immigrati fosse finito sotto il tallone del clan Arena. Un altro colpo pare in arrivo, dato che le commissioni d’accesso agli atti sono in questo momento al lavoro a Siderno, Limbadi, Villa San Giovanni e Scilla. Questa raffica di provvedimenti è stata la scintilla della ribellione. Cinquantuno Comuni reggini hanno scritto e chiesto un incontro a Minniti, invocando una riforma «garantista» della legge. L’altro ieri sono stati ricevuti dal prefetto Michele di Bari, che ha invitato anche il presidente dell’Anci calabrese, Giuseppe Callipo, e non solo per ragioni di galateo istituzionale. Callipo, dal 2012 sindaco pd di Pizzo, è un moderato dal notevole buonsenso: «Rivolta? Metta la parola molto tra virgolette, la prego. Questa legge era e resta uno strumento fondamentale per la lotta alla ‘ndrangheta e noi su questo terreno non dobbiamo fare passi indietro ma passi avanti». Dunque? «Dunque stiamo mettendo in piedi una commissione di studio e chiediamo di rivedere la normativa in due punti: la possibilità che i sindaci abbiano garanzia di contraddittorio prima dello scioglimento e un intervento più forte sulla burocrazia; molte volte è lì che s’annida il problema e non negli organi politici che vengono sciolti». E questo è vero. Come hanno potuto sperimentare le sindache calabresi della tristemente archiviata stagione antimafia (Carmela Lanzetta in testa), la quinta colonna dei clan può stare negli uffici comunali così da assicurare il rapporto con i mafiosi chiunque vinca le elezioni. «I sindaci si sentono soli un po’ ovunque», sostiene Callipo. Vero anche questo. Federico Cafiero de Raho, per anni procuratore di Reggio e da poco capo della Procura nazionale antimafia, ha spiegato tempo fa da Lucia Annunziata le ragioni di una riforma, anche se in senso forse diverso da quello desiderato dai “ribelli”: «Bisogna andare oltre lo scioglimento, non possono bastare due anni col commissario ma nemmeno si può sospendere la democrazia. Dobbiamo pensare a percorsi che accompagnino gli organi elettivi con un sostegno statale». Il nuovo sindaco dovrebbe trovarsi accanto, da alleato, un inviato di Roma.

Nessuna lista per anni. Prospettiva non semplice in posti dove, contro lo Stato, per anni non si sono più presentate liste e i cittadini hanno smesso di votare. Nel 2007 Pietro Grasso, da procuratore antimafia, lo sintetizzò in una battuta amara: «In certi paesi come Africo, San Luca o Platì, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi». A Platì, dove infine si è tornati alle urne, si sono sfidati un parente del clan Barbaro e la figlia dell’ultimo sindaco «sciolto per mafia», la quale rivendicava a sua volta il diritto a non controllare parentele imbarazzanti in lista: «Discendo da un brigante, io!». Callipo sa bene che certe ventate «garantiste» possono gonfiare vele sbagliate: «Ma sbatteranno contro un muro. L’Anci Calabria e la maggioranza dei suoi sindaci sono contro la ‘ndrangheta». La Calabria è il luogo dove nulla è come appare, si sa. Infligge sorprese amare: come lo scioglimento di Marina di Gioiosa Ionica, retta da un sindaco vicino a “Libera”. E regala consolazioni perfino ingenue, come i reggini in fila in prefettura a firmare il «registro di cittadinanza consapevole contro la ‘ndrangheta»: proprio mentre la rivolta dei sindaci montava al piano di sopra.

Anci Calabria si unisce al coro di critiche contro lo strumento dello scioglimento dei comuni per mafia. Callipo annuncia l’istituzione di una commissione che elabori proposte di modifica della normativa e sottolinea la necessità di intervenire anche sul livello burocratico, scrive lunedì 4 dicembre 2017 "Lacnews24". Assume proporzioni sempre maggiori la sollevazione contro lo strumento dello scioglimento dei Comuni a causa di presunte infiltrazioni mafiose. Dopo la lettera inviata da 51 sindaci della Città metropolitana di Reggio Calabria al ministro Marco Minniti, per sollecitare un incontro sul tema, al coro di critiche si aggiunge ora il presidente di Anci Calabria, Gianluca Callipo, che annuncia l’istituzione di una commissione di studio, presieduta dal sindaco di Rende Marcello Manna, che possa elaborare e proporre modifiche alla normativa in vigore.

«La normativa che regola lo scioglimento dei Comuni per presunte infiltrazioni mafiose continua a mostrare enormi limiti – scrive Callipo in una nota -, con conseguenze così dirompenti sull’autonomia dei territori, che non possono essere più accettate come inevitabili effetti collaterali di uno strumento che oggi appare spesso incapace di perseguire gli scopi per i quali è stato pensato». 

Il numero uno dell’associazione dei Comuni calabresi si riferisce soprattutto a quelle amministrazioni sciolte più volte nel corso degli anni.

«Governo e Legislatore devono prendere atto che il meccanismo non funziona - continua -. Non si spiegherebbero altrimenti i ripetuti scioglimenti che in alcuni casi colpiscono lo stesso Comune due o tre volte consecutivamente, vanificando la partecipazione democratica dei cittadini alla vita delle proprie comunità. La semplice decisione di istituire una commissione di accesso agli atti diventa automaticamente una sentenza di condanna che porta immancabilmente allo scioglimento, come se tra le due cose ci fosse esclusivamente un nesso temporale, per il quale l’una segue l’altra sempre e comunque. A che serve, dunque, accedere agli atti, leggere le carte, indagare i meccanismi amministrativi, se poi l’esito è scontato sin dall’inizio?».

Callipo, inoltre, dice esplicitamente che puntare esclusivamente sulla politica non serva a molto: «Probabilmente eventuali infiltrazioni non si annidano esclusivamente nel livello politico, ma anche e soprattutto in quello burocratico. Ecco perché la normativa va cambiata, affinché diventi davvero efficace e costruttiva».

Per il presidente dell’Anci regionale, un altro elemento che deve indurre a un profondo ripensamento dell’impianto normativo è il fatto che spesso vegano colpiti dai decreti di scioglimento anche quei Comuni che si sono contraddistinti nella lotta alla mafia, con sindaci che si sono esposti in prima persona in questa difficile battaglia. «Sindaci che il giorno prima vengono elevati ad esempio da seguire - afferma Callipo -, il giorno dopo possono essere mandati a casa con infamanti sospetti alieni alla loro storia personale e politica. Ovvio che il buon nome di qualcuno non possa essere garanzia assoluta di legalità, ma non può nemmeno essere calpestato alla prima occasione senza la cautela che alcune situazioni imporrebbero, quantomeno per non generare nei cittadini la falsa convinzione che della politica, tutta la politica, non ci si possa mai fidare».

Infine, il presidente di Anci Calabria richiama proprio la lettera inviata dalla maggioranza dei sindaci reggini al ministro Minniti.

«Condivido l’iniziativa – conclude Callipo -. L’Anci è al loro fianco nel sostenere una revisione della normativa che fughi tutti i dubbi e gli equivoci che oggi dominano questa delicatissima materia».

Chiusi per mafia, scrivono G. Baldessarro e A. Bolzoni il 27 settembre 2018 su "La Repubblica". Ce ne sono alcuni che sono stati "chiusi” due e anche tre volte, in altri non si presentano più neppure le liste per scegliere un sindaco. E' la democrazia sconfitta dalle mafie. Da quando si è fatta la legge per fronteggiare l'“emergenza” dei Comuni infiltrati dal crimine - era il 1991 - in Italia sono stati inviati commissari prefettizi in 289 città e paesi. Al Sud ma da qualche tempo anche in un Nord che ha dovuto fare i conti con l'infezione, in capitali di 'Ndrangheta come Reggio Calabria e in sterminati quartieri di Roma come Ostia, a Brescello in Emilia e a Sedriano in Lombardia, nei territori dell'Aspromonte, in Puglia, in Campania e naturalmente in Sicilia. Cadono giunte di tutti i colori, destra e di sinistra, circoscrizioni, aziende sanitarie. Dove c'è invasione di boss e "condizionamenti”, il governo centrale da quasi trent'anni ha questo potere: “sciogliere”. Tenere in pugno un Comune per le mafie non è solo una questione economica, ma molto di più. E' distribuire lavoro, mantenere il consenso sociale, controllare il territorio. Affermare sovranità. La legge sullo scioglimento degli enti locali ha provato - almeno sulla carta - a rimettere le cose a posto. E, per un bel po', ha svolto efficacemente il suo compito. Però sono passati tanti anni e anche questa legge mostra oggi le sue crepe, soprattutto perché quando si cacciano sindaci e consiglieri in quegli stessi Comuni resta sempre a "comandare” una burocrazia che di solito non è meno influenzabile (e intossicata) della classe politica. A volte poi, c'è stato l'odioso sospetto che la "chiusura” sia stata determinata da scelte politiche più che criminali. Serve una revisione della legge? Bisogna cambiare qualcosa? Il dibattito sulla sua incisività e sulla sua resistenza al tempo è aperto. Con la “serie” del blog che inizia questa mattina abbiamo voluto mettere sul tavolo della discussione i contributi di studiosi ed esperti come Claudio Cavaliere e Vittorio Mete, Vittorio Martone, Doris Lo Moro, Marco Magri. C'è anche la testimonianza di Maria Cacciola, Rosanna Mallemi e Giovanna Termini, le tre funzionarie nominate in quel Comune che fu reame di Totò Riina, Corleone. E poi tanti nostri amici giornalisti che ci hanno consegnato le loro cronache dai territori. Come quella che ha ricordato il primo “quasi sindaco” mandato via con decreto presidenziale - Capo dello Stato era allora Sandro Pertini - quando ancora la legge sullo scioglimento dei Comuni non esisteva. Era il 1983. E in un paesino della Calabria, Limbadi, il più votato di tutti risultò Ciccio Mancuso, il boss dei boss della zona. Ma al di là del provvedimento del Presidente Pertini, sarebbe stato molto difficile per don Ciccio amministrare Limbadi. Era una condizione molto particolare, la sua: don Ciccio era latitante.

La democrazia battuta e mortificata per 289 volte, scrive Claudio Cavaliere - Sociologo e giornalista - il 27 settembre 2018 su "La Repubblica". Ci sono voluti quarantacinque anni di storia repubblicana per dotarsi di uno strumento di difesa contro l’invadenza della criminalità organizzata nella democrazia locale. Quasi mezzo secolo di sdegnoso disinteresse ha prodotto quella storia mancata che costringe oggi a sciogliere per mafia pezzi dello Stato, il cuore politico del rapporto istituzioni-cittadini: i Comuni appunto. Una statuaria indifferenza crollata di colpo. Di colpo, nel 1991 nasce il fenomeno, quasi si fosse stati colti alla sprovvista. Come se prima la mafia, nelle sue varie declinazioni regionali, non avesse già gestito direttamente istituzioni, risorse, enti pubblici e quant’altro. Questione di priorità, se è vero che la Repubblica dei primi decenni si pensò di difenderla rimuovendo Sindaci e inibendoli dall’elettorato passivo per anni con l’accusa di avere firmato appelli contro la bomba atomica, promosso dibattiti e manifestazioni di protesta contro i governi in carica o di avere solo espresso valutazioni ritenute non conformi. Massimo Severo Giannini scrisse di quei decreti come “offese all’intelligenza” e “buoni per la storia dell’umorismo prefettizio” e il sindaco di Bologna Dozza coniò nel 1951 l’espressione “il reato di essere sindaco”, per denunciare le condizioni in cui erano costretti ad operare i sindaci di sinistra. Certo il “puzzo acre di guerra civile” denunciato da De Gasperi fece orientare l’attenzione occhiuta e assillante dei prefetti esclusivamente verso le amministrazioni locali di sinistra considerate sediziose e pregiudizievoli per l’ordine pubblico mentre i Comuni siciliani sparirono dai radar dell’attenzione del ministero dell’interno protetti dal velo dell’autonomismo. Eppure già dopo le prime elezioni comunali del 1946 i casi di municipi in cui è evidente la gestione diretta della criminalità organizzata sono innumerevoli, ma solo per un paio di eclatanti episodi c’è traccia dell’intervento del ministero senza mai pronunciare la parola mafia che allora formalmente non esisteva. Quando nel 2016 viene sciolto per infiltrazioni il comune di Corleone i cognomi richiamati nella relazione del decreto sono quelli degli anni ‘50 citati dalle prime commissioni parlamentari antimafia, a conferma che l’infeudamento mafioso nei municipi non è una invenzione sociologica ma una condizione stabile che si misura nel tempo nella capacità di competere e di autorappresentarsi all’interno dei meccanismi codificati della democrazia locale. Sarà la mattanza degli anni ottanta e la circostanza che decine di consigli comunali sono zeppi di diffidati di P.S. a mettere fine a quella finzione. Ancora una volta sarà il sangue a dettare il tempo della reazione, con la politica costretta ad inseguire gli avvenimenti, a tenere il conto di oltre sessanta amministratori locali uccisi i cui nomi si fa fatica ancora oggi a ricordare. La legge del 1991, che prevede lo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, non riscosse l’interesse del Parlamento. Più volte, durante le votazioni sui singoli articoli, mancherà il numero legale e alla votazione finale parteciperanno giusto i deputati necessari per farla approvare. Una delle poche verità di questa legge è la rimozione di una finzione, quella della rappresentanza politica derivante dalle elezioni come indicatore sufficiente di democraticità. In sostanza si riconosce che un organo elettivo può non essere democratico. Ma lo fa utilizzando due concetti autoassolutori, quello di “infiltrazione” e “condizionamento”, incapaci di leggere e di vedere la criminalità organizzata impadronirsi dei meccanismi della democrazia e di conseguenza legittimarsi con il consenso come forza di governo. Le organizzazioni criminali non hanno bisogno di creare istituzioni parallele, l’esistente serve benissimo allo scopo. Si può vivere ed operare all’interno delle funzioni dello Stato senza dover rinunciare alla propria storia criminale. Si tratta di una vera e propria “ibridazione” delle istituzioni che avviene con regole e leggi che rimangono apparentemente il principio organizzatore della vita delle comunità. Da allora oltre un quarto di secolo non è bastato per impedire, o semplicemente per porre un argine all’occupazione mafiosa dei Comuni. In quel lontano 1991 c’era consapevolezza nel relatore della legge che in aula affermava: “[…] stiamo raschiando il barile […] perché le altre strade per risolvere il problema richiedono un qualcosa che a me sembra più difficile, e cioè un'autoriforma del potere politico. […] Di conseguenza, si è costretti ad usare strumenti legislativi, laddove sarebbero molto più incisivi e più correttamente applicabili in una dialettica democratica gli strumenti della politica.” Continuando a negare che il problema sta dentro il funzionamento della democrazia, nella raccolta del consenso, significa non trovare le vere contromisure se non i reiterati scioglimenti accompagnati da un dibattito stantìo, buono a riconoscere il radicamento della mafia ma senza essere conseguenti per procedere alla sua rimozione nelle strutture politiche, sociali e civili. Il colore politico delle amministrazioni disciolte per mafia non è mai stato una discriminante. Il 29% erano di centro-destra, il 21% di centro-sinistra, il 40% liste civiche, il resto in prevalenza monocolori di centro (9%). Neanche la demografia è una discriminante: il 32% sono piccoli comuni, dato che smentisce la tesi per cui il taglio demografico non renderebbe credibile l’interesse della mafia per comuni con bilanci minuscoli. Una teoria ingenua, che trascura l’omogeneità di funzioni tra piccoli e grandi e che ampi settori della vita locale dipendono dalla regolazione pubblica: appalti, urbanistica, licenze, usi civici, boschi, pascoli, e quant’altro sono settori a completo controllo locale. Dei 289 comuni sciolti per infiltrazioni mafiose (al netto degli annullati) 53 hanno bissato o triplicato lo scioglimento a dimostrazione che la legge, che cerca di offrire una risposta attraverso la ripetizione delle elezioni come generatrice di una dinamica di responsabilizzazione, non funziona. Come un fastidioso moscone che sbatte contro i vetri della finestra senza trovare la via d’uscita, i ripetuti scioglimenti confermano che il problema non risiede nelle norme quanto nel sistema politico in cui hanno un peso rilevante la mancanza di partecipazione partitica (specie nei piccoli comuni) e l’irrisolto problema della scelta e selezione dei candidati, in una parola la cultura politica locale, ossia il sistema di relazioni che agisce nel contesto storico-territoriale su cui non c’è ormai più alcun intervento della politica. Anche sulla burocrazia il dibattito è datato. Venticinque anni fa la legge elettorale sull’elezione diretta del sindaco fu fatta anche per questo, per battere l’irresponsabilità diffusa. Anche se vinci per un voto ti do una maggioranza netta; di più, ti do la possibilità di sceglierti la squadra di governo; di nominare i dirigenti nei settori; di scegliere il segretario comunale; di modificare a piacimento la struttura organizzativa del comune; di nominare i rappresentanti delle società partecipate; di assumere dirigenti a tempo determinato. Solo che il prezzo da pagare è uno solo, semplice, solare: la responsabilità politica ed amministrativa non il balletto irricevibile dei “non sapevo.” C’è poi il tema della risposta dello Stato, non sempre all’altezza. Il tempo medio di scioglimento di un comune infiltrato è poco più di tre anni dal momento delle elezioni. Una consiliatura ne dura cinque, con buona pace di chi definisce questa legge come preventiva. Dopo ventotto anni non esiste un ruolo ad hoc per funzionari e prefetti chiamati a guidare i comuni disciolti per infiltrazioni, come se venire da una prefettura significa “comprendere” di amministrazione locale. L’esperienza insegna che non è così. Le gestioni commissariali sono spesso deficitarie perché affidate a figure che non hanno mai avuto a che fare con i municipi, con i loro problemi, con le loro norme. Oggi sul tema dei problemi della democrazia si è finalmente aperto un largo dibattito che non ignora l’illusorietà di pensare che “elezioni regolari implichino di per sé una democrazia regolare”, cosicché gli scioglimenti dei Comuni per mafia ci invitano a ragionare in maniera meno ortodossa intorno a un fenomeno sul quale siamo lontani da una soluzione.

Antimafia, la lezione ancora attuale di Sciascia, scrive Davide Grassi su “Il Fatto Quotidiano”. Dopo aver oltrepassato il metal detector faccio il mio primo ingresso nell’aula bunker di Via Uccelli di Nemi a Milano. L’aria condizionata non c’è e quella naturale filtra dai finestroni protetti dalle inferiate. Quando il caldo diventa insopportabile, nell’interminabile attesa dell’arrivo dei detenuti, gli agenti di guardia spalancano le porte di sicurezza. Ma più le ore passano più la temperatura sale e l’aria si fa più afosa.  Nel frattempo la tribuna riservata al pubblico, alle spalle della zona in cui sono sistemati i banchi della difesa, si riempie dei familiari dei detenuti venuti ad assistere al processo. Sono naturalmente un po’ teso: mi devo costituire parte civile per l’associazione nazionale antiracket di cui faccio parte in un processo di ‘ndrangheta. Ero arrivato la notte prima e non avevo chiuso occhio. Ma non sento la stanchezza, anche se per un attimo ho temuto di non essere all’altezza dell’incarico. Quando decisi di entrare a far parte dell’associazione nazionale antimafia e di difendere le vittime di usura e di estorsione non lo feci per una questione economica. Decisi di rendermi utile, come una qualunque persona che si sente di mettersi all’opera per un fine sociale. Non chiesi mai un rimborso spese per l’attività svolta per conto dell’associazione o delle vittime né utilizzai quella strada per la mia personale carriera. A Milano, durante il processo “Infinito”, l’avvocato di un boss di ‘ndrangheta mi accusò non tanto velatamente di essere uno di quei “professionisti dell’antimafia” che faceva parte di un’associazione dedita al “turismo giudiziario”. Mi venne data l’opportunità di replicare ovviamente. Il collega aveva inoltre sollecitato la mia memoria. Quando uscì l’articolo di Leonardo Sciascia dal titolo "I professionisti dell’antimafia" sul Corriere della Sera era il 10 gennaio 1987 ed io avevo appena 11 anni. Ancora la mia adolescenza non era “distratta” dalla lettura dei quotidiani. Di quello che narrò lo scrittore siciliano de ‘Il giorno della civetta’ ne sentii parlare negli anni successivi anche per le differenti analisi e i più disparati utilizzi che ne fecero giornalisti e uomini politici. In molti non capirono, o fecero finta di non capire, il senso di quell’articolo. Sciascia, che del fenomeno mafioso era profondo conoscitore quando scriveva di “professionisti dell’antimafia” intendeva riferirsi a coloro che usavano l’antimafia per costruirsi una carriera in politica o in magistratura. Ma poiché Sciascia in quell’articolo evocò l’assegnazione di Paolo Borsellino alla Procura di Marsala, superando nella graduatoria colleghi più anziani di lui ma che non si erano mai occupati di processi di mafia, fece un esempio che lo espose a molte critiche. C’è chi credette, erroneamente, ad un attacco personale al magistrato ucciso nell’agguato mafioso di Via D’Amelio qualche anno più tardi, e non glielo perdonò. Ma la chiave di lettura dell’articolo di Sciascia, che non riguardava il caso di Borsellino, era un’altra e, nonostante siano trascorsi ben trent’anni, oggi è ancora attuale: c’è chi usa l’antimafia per fini esclusivamente personali, per cercare un consenso per sé nella logica di una assoluta autoreferenzialità. In un’intervista che rilasciò qualche giorno dopo l’uscita del tanto contestato articolo, su Il Messaggero Sciascia ritornò ancora sull‘argomento: “Ieri c’erano vantaggi a fingere d’ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi”

Quando Sciascia lasciò il Pci di Berlinguer e scoprì Pannella, scrive Luciano Lanna il 4 Aprile 2017 su "Il Dubbio". La parabola dell’intellettuale siciliano che in “Candido” racconta la sua svolta libertaria che lo avvicinò ai “nuovi filosofi” francesi e al partito radicale. Come per tante altre cose, l’anno 1977 è stato decisivo anche per l’itinerario politico- culturale di Leonardo Sciascia, lo scrittore che – forse lui solo con Pier Paolo Pasolini – può essere considerato uno dei pochi veri intellettuali del secondo Novecento italiano. È proprio in quell’anno che infatti si esprime in tutta la sua portata la vocazione libertaria dello scrittore in una esplicita presa d’atto pubblica di “rottura” con il Pci e la cultura consociativa che sarà anticipatrice degli snodi di conflitto dei decenni successivi della società italiana. Intanto, con un gesto simbolico forte, all’inizio del ’ 77 Sciascia si dimette dalla carica di consigliere comunale del Pci a Palermo. Non che fosse mai stato intellettualmente marxista o comunista, la sua formazione era semmai improntata al relativismo pirandelliano e a alcuni tratti dell’illuminismo francese. E l’unica sua “discesa in campo” fu, nel ’ 74, in occasione della campagna per il referendum per l’abolizione della legge sul divorzio, in cui erano in prima fila i radicali di Marco Pannella. E l’anno successivo, dopo tante insistenze, in vista delle elezioni comunali nel giugno ’ 75 aveva accettato di candidarsi, ma come “indipendente”, nelle liste del Pci. Ed era stato eletto, data la sua popolarità, con un fortissimo numero di preferenze. Ma durò solo tre anni. All’inizio del ’ 77, infatti, lo scrittore sbatte la porta e rompe definitivamente col Pci. Anche se i segnali di insofferenza venivano da lontano. Tanto per dire, il 15 marzo del ’ 50 Sciascia – allora maestro elementare nel suo paese, Racalmuto – aveva pubblicato un articolo- necrologio per sottolineare l’importanza dell’autore del romanzo La fattoria degli animali, decisamente antitotalitario e anticomunista. “Molto prima del 1984 è morto George Orwell” era il titolo dello scritto.

E nel ’69, proprio mentre iniziava la sua collaborazione col Corriere della Sera, dava alle stampe Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A. D., un testo che racconta, attraverso una rappresentazione teatrale, una controversia settecentesca. Ma la storia, apparentemente banale, era in realtà una metafora- denuncia antitotalitaria che descriveva i rapporti tra l’Urss e gli Stati satelliti: le iniziali A. D. identificavano infatti Alexander Dubcek, il protagonista nel ’ 68 della Primavera di Praga. Insomma, Sciascia non era mai stato il classico intellettuale organico.

Nel ’ 77 però la strategia berlingueriana del “compromesso storico” e certi accenti consociativi lo costringono alla sua “uscita di sicurezza” nel momento stesso in cui prende atto della sua totale incompatibilità con un certo mondo e le sue logiche. Non a caso subito dopo le sue dimissioni da consigliere comunale si mostra in sintonia con quanto stanno scrivendo e muovendo in Francia i “nuovi filosofi” e accetta, per il laico e filo- socialista editore Marsilio, di scrivere la prefazione al manifesto anti- totalitario La barbarie dal volto umano di Bernard-Henri Lévy, un pamphlet visto ovviamente come il fumo negli occhi da quelli del Pci.

Sciascia viene subito accusato di fare da battistrada da noi al dilagare del nuovo pensiero critico francese. E lui replicava secco: «Sono portato a credere che in Italia le dighe del conformismo e del “compromesso” li fermeranno… ma anche se dilagassero non credo che il loro pessimismo possa toccare i vertici già raggiunti dal compromesso storico, né sommergere, quindi, quel che il compromesso storico ha già sommerso». E concludeva che «non soltanto le oppressioni e i massacri della sinistra al potere offrono credibilità ai “nuovi filosofi”, ma anche le ambiguità, i giochi delle parti, le opportunistiche assenze e le elettoralistiche presenze, la desistenza (con richiamo alla Resistenza) della sinistra non ancora al potere». Parole definitive e chiare che spiegano tutto l’itinerario politico- culturale successivo della scrittore e intellettuale siciliano.

Fatto sta che dopo questi atti pubblici Sciascia manda in libreria un romanzo, forse il più autobiografico dei suoi libri, in cui tratteggia uno spaccato delle contraddizioni e dell’identità politica dell’Italia del secondo dopoguerra: Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia (nel ’77 edito da Einaudi, ora in una nuova edizione targata Adelphi). Già da una lettura immediata, il testo appare come il romanzo del disincanto politico e della perdita della fede comunista. Ma non in chiave tragica o risentita, come per altri scrittori precedenti o successivi, ma con tanta ironia e leggerezza libertaria. Come il vecchio conservatorismo siciliano, superstizioso e controriformista, la nuova religione comunista alla fine si era rivelata, per Sciascia, una illusione e lo scrittore parafrasa il percorso di Voltaire e del suo Candido. Va ricordato che il recupero dell’apologo volteriano in chiave contemporanea era stato preceduto di due anni dal regista Gualtiero Jacopetti che – con Franco Prosperi e la sceneggiatura di Claudio Quarantotto – aveva mandato nelle sale cinematografiche nel ’ 75 il film Mondo Candido, unica pellicola non documentaristica ma di fiction del regista, in cui Candido, il personaggio di Voltaire, che vive nel castello in Westfalia, dopo essere stato cacciato di casa, girovaga per paesi ed epoche diverse e si arriva all’epoca contemporanea e ai suoi conflitti politici.

Ma il romanzo di Sciascia va oltre, presentandosi appunto come un apologo sull’Italia e gli intellettuali italiani dall’immediato secondo dopoguerra al ’ 77, anno in cui si concludono le vicende della narrazione. Candido Munafò, il protagonista, non a caso nasce in Sicilia nei giorni dello sbarco americano. E cresce in una realtà devastata, squallida e odiosa, quale quella dell’isola postbellica. Rassegnazione, conformismo, cinismo, consociativismo, corruzione allignano ovunque. Candido viene abbandonato in tenera età dalla madre Maria Grazia, che gli preferisce la compagnia del nuovo marito americano, Hamlet, ufficiale delle truppe alleate. Interessanti il colloquio, nel ’ 77, tra Candido e il marito della madre, in cui l’ex ufficiale americano riconosce che per ordini superiori aveva reclutato per le cariche pubbliche postfasciste personaggi quantomeno sospetti. Alla domanda di Candido – «come ha fatto lei, dopo appena qualche giorno che era arrivato nella nostra città, a scegliere i peggiori cittadini?» – l’americano risponde: «Non li ho scelti io. Quando mi hanno mandato nella vostra città, mi hanno consegnato la lista delle persone di cui dovevo fidarmi… Dovevo: era un ordine insomma».

E il protagonista del romanzo ribatte: «Comunque, l’ho sempre sospettato. Voglio dire: che lei fosse arrivato con la lista dei capi della mafia in tasca». E la puntualizzazione dell’ex ufficiale è lapidaria: «Le dirò che l’ho sospettato anch’io, che mi avessero dato una lista di mafiosi… Ma, veda, noi stavamo facendo una guerra…». Un passo del libro questo, che anticipa di quasi quarant’anni e per firma di Leonardo Sciascia, un tema che sta al cuore del film di Pif In guerra per amore che ha suscitato tante polemiche… Ma torniamo alla trama. Il padre di Candido, un classico avvocato siciliano di tutto rispetto, viene coinvolto in questioni di mafia e si suicida. Il bambino passa allora sotto la tutela del nonno materno, il generale della Guerra di Spagna Arturo Cressi che, dopo essere stato fascista e ufficiale della Milizia, si fa eleggere deputato con la Dc, «tanto è la stessa cosa».

Il piccolo Candido, allora, finisce nella mani di un prete- precettore che resterà fino alla fine il suo amico e interlocutore privilegiato, il grande alleato nel duello che insieme cercheranno di stabilire prima contro la Chiesa cattolica e il suo conservatorismo e, dopo la rottura, contro la Chiesa comunista. Candido si ritrova solo con don Antonio, un prete irregolare che non rinuncia mai a pensare con la propria testa e verrà, per questo, scomunicato e messo al bando dalla Chiesa. Il comunismo, cui Candido e il prete, approdano in cerca di un ambiente diverso, si rivela una grande illusione. Qui le pagine di Sciascia sono molto efficaci, soprattutto laddove descrive la sua critica al Pci e ai suoi metodi. Lo scrittore dipinge infatti il partito come una Chiesa all’inverso, con le sue gerarchie, le sue rigidità, i suoi moralismi, i suoi interessi da difendere, le sue omertà di fronte alla disciplina di partito e alla ragion di Stato. Tanto che Candido, considerato un provocatore e un rompiscatole, viene “processato” ed espulso.

In un’Italia diventata nel frattempo una grande Sicilia, il protagonista del romanzo non ha scampo e va a Parigi, la città – per tornare a quanto già detto – dei “nuovi filosofi”: «Era una grande città piena di miti letterari, libertari e afrodisiaci che sconfinano l’uno nell’altro e si confondono». Anche perché, «tutto il bel parlare che si fa di eurocomunismo di comunismo italiano, di emancipazione dall’Unione Sovietica, è soltanto un bel parlare…». No, meglio Parigi, la sua cultura, le tracce di Hemingway e di Fitzgerald. E qui, proprio in una sera del ’ 77, Candido ritrova il suo precettore: «Qui si sente che qualcosa sta per finire e qualcosa sta per cominciare: mi piace veder finire quel che deve finire…». E, davanti alla statua di Voltaire, in rue de Seine, Candido ammette la sua definitiva liberazione intellettuale. «Non ricominciamo coi padri», dice. E, il romanzo si conclude, con la presa d’atto della sua felicità e della sua dichiarazione di essere solo «figlio della fortuna». Il libro, in sostanza, si delinea come una tagliente satira sull’Italia tra gli anni 40 e 70, piena di compromessi, riciclati, mistificatori, arrivisti, conformisti, ipocriti, affaristi, finti rivoluzionari e asserviti alle logiche.

Che poi l’alternativa, alla situazione italiana, si mostri solo in Francia, è un passaggio che spiega, come dicevamo l’itinerario successivo di Sciascia. Dall’anno precedente, infatti, era aumentata notevolmente la frequenza dei viaggi a Parigi dello scrittore siciliano che intensificava così i suoi contatti con la cultura francese. Cultura francese – si pensi solo ad alcuni autori di riferimento come Albert Camus e Saint- Exupéry – fondamentali nel milieu culturale dei radicali e di Marco Pannella, uno dei pochissimi partiti allora presenti in Parlamento che – con il Msi, il Pli e Pdup-Dp – si schiererà nel ’ 78 contro il governo di unità nazionale e, quindi, contro il “compromesso storico”.

Non a caso, due anni dopo Sciascia accetterà di buon grado la proposta del Partito radicale di candidarsi sia al Parlamento europeo sia alla Camera. Eletto in entrambe le sedi resta a Strasburgo solo due mesi e poi opta per Montecitorio, dove rimarrà deputato fino all’ 83 occupandosi dei lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro (con una forte critica rivolta alla cosiddetta “linea della fermezza”) e sul terrorismo in Italia. Si espresse, decisamente, contro la legislazione d’emergenza che istituiva poteri speciali e inaspriva molte fattispecie di reato. In seguito a nuovi contrasti con il Pci di Berlinguer, Sciascia abbandonerà comunque l’attività politica, non rinunciando mai però all’osservazione delle vicende politico- giudiziarie dell’Italia, in particolare sul tema della mafia e sul tema del garantismo. L’ultima sua polemica che farà discutere, trent’anni fa, fu infatti scatenata da un articolo sul Corriere della Sera intitolato “I professionisti dell’antimafia” in cui Sciascia affermava che in Sicilia, per far carriera nella magistratura, nulla vale più del prender parte a processi di stampo mafioso. 

La mafia dell’antimafia, scrive il 24 marzo 2017 Giuseppe Stefano Proiti su "La Voce dell’Isola”. I protagonisti di questo sistema sono professionisti dell’odio. Implacabili giustizialisti giacobini con gli avversari, e teneri garantisti con gli amici. Chi è con loro è contro la mafia, chi non è con loro è mafioso. Questo è il cerchio magico che da dieci anni decide i componenti del governo e persino la durata di un assessore. Questa è una cricca. Che usa il potere dell’intimidazione. Per questo motivo si può parlare di mafia dell’antimafia. Ecco, uno stralcio dell’intervento in Sala d’Ercole dell’on. Nello Musumeci, alla fine del quale – lo scorso 15 marzo – ha annunciato le dimissioni dalla presidenza della Commissione antimafia e contestualmente la sua possibile candidatura alla Presidenza della Regione. Ebbene, come si potrebbero commentare queste parole? In buona sostanza così: nulla di nuovo sotto il sole! Il tema dell’antimafia usato a fini “propagandistici”, come clava contro gli avversari politici, viene ribadito dall’onorevole Musumeci, ma è un fatto conclamato da quarant’anni a questa parte. Esisteva già da quando lo ripeteva, inascoltato, nel 2010, Vittorio Sgarbi da sindaco di Salemi, denunciando quanti, tra giornalisti, investigatori e magistrati, s’inventavano la mafia anche là dove non c’era, pur di perpetuare l’ “antimafia di professione”. Per fare carriera, gestire beni, ottenere privilegi e danari pubblici. Ma andiamo più a ritroso nel tempo: lui era un meridionalista d’indiscussa fede e convinzione. Che questo spinoso e delicato tema gli stesse particolarmente a cuore è facilmente intuibile. Non solo gli articoli, i saggi, i pamphlet, ma anche i romanzi e i racconti sono sempre attraversati da interrogativi divisivi sulle gravi questioni etico-politiche riguardanti la vita del Paese: i rapporti fra Giustizia e potere, fra Stato e diritto, fra Stato e mafia, fra verità e impostura.

Leonardo Sciascia in tutta la sua vita e in ogni suo scritto divise l’establishment, divise il pubblico critico e non, al punto da aggiudicarsi l’appellativo di “scrittore politico”. Lo è stato più di qualsiasi altro letterato del suo tempo, più di Italo Calvino, più di Elio Vittorini, più dello stesso Pier Paolo Pasolini. La sua “politicità” non offusca la sua grandezza letteraria; anzi vanno di pari passo e si alimentano a vicenda. Chi, come Piero Citati, sostiene che la sminuisca, affermando addirittura che dalla sua opera si dovrebbe eliminare – allo stesso modo del “primo Calvino” – “l’ultimo Sciascia”, dovrebbe in realtà chiarire dove inizi, a suo giudizio, “l’ultimo Sciascia”. Comincia con “L’Affaire Moro” o bisogna risalire molto più indietro a “Il Contesto”, a “Todo Modo”, a “Candido”? D’altronde – come giustamente ricorda Gianfranco Spadaccia – l’autore di questi romanzi non è affatto “l’ultimo Sciascia”, perché dopo “L’Affaire Moro”, scrisse ancora saggi, racconti, romanzi che occupano una parte del secondo volume e quasi per intero il terzo volume delle “Opere complete”, edite da Bompiani e curate da Claude Ambroise. Dunque, a vederci bene, non c’è soluzione di continuità fra il primo e l’ultimo Sciascia, fra lo Sciascia di “Le parrocchie di Regalpetra”, di “Morte dell’Inquisitore”, del “Giorno della civetta”, di “A ciascuno il suo” e lo Sciascia di “Todo modo”, del “Contesto”, di “Candido”, de “L’Affaire Moro”, fra lo Sciascia di prima della rottura con il Pci e lo Sciascia di dopo la rottura con il Pci.

Insomma, c’è “del politico” in Sciascia, eccome! E questa sua dote “naturale”, anzi, gliela si dovrebbe riconoscere come qualità per eccellenza, prima delle scontate definizioni di “scrittore illuminista”, di “scrittore barocco” (con Calvino e poi con Belpoliti), di “scrittore secco” (con Bufalino e poi con Campbell). Leonardo Sciascia, nel tempo in cui la menzogna su “entrambi i fronti” era all’ordine del giorno, fu un profondo “cercatore di verità”… fino alla fine: “Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte  – scrisse poco prima di morire in “A futura memoria” – con coloro che non credevano o non volevano credere nell’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità”. E ancora, in uno dei suoi illuminanti interventi (“Corriere della Sera” – 1987), ebbe a porre sul tappeto il problema di un “eccesso di potere” da parte degli organi istituzionali cui per legge era stata demandata la lotta alla mafia (Commissioni Antimafia nazionale e regionale, pool di magistrati ecc.). Egli fece intendere che all’interno di tali Organismi potesse manifestarsi per finalità di arrivismo politico o di carriera, una qualche forma di perniciosa “tendenza al protagonismo”. Anche se, come sottolinea Gianfranco Spadaccia, non pronunciò e non scrisse mai la frase “I professionisti dell’antimafia”, coloro che lo avevano attaccato, insultato, indicato al pubblico disprezzo, furono gli stessi che, comportandosi proprio come tali, riuscirono a impedire la nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura di Giovanni Falcone a capo della Procura nazionale antimafia. Ebbe dunque a tratteggiare, uno scenario dal quale emergeva la preoccupazione per una certa “similitudine” che avrebbe potuto manifestarsi fra i sistemi e i metodi adoperati nei due campi contrapposti. L’uno, volendo sicuramente rendere più visibile l’impegno legalitario nella lotta al crimine organizzato e alle infiltrazioni malavitose nelle strutture pubbliche. L’altro, nella speranza di poter sfruttare, per fini illegali, le crepe esistenti nel sistema politico delle pubbliche amministrazioni. Oggi, a distanza di tanto tempo, non sembra necessario aggiungere alcunché al pensiero di quest’illustre uomo! Leonardo Sciascia sognava di essere ricordato come un uomo che “contraddisse e che si contraddisse”. In lui la contraddizione era “vivente”: il suo “essere siciliano” soffriva indicibilmente del gioco al massacro che perseguiva. Quando denunciava la mafia, nello stesso tempo soffriva poiché dentro di sé, come in ogni siciliano, continuavano ad essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lottando contro la mafia, egli lottava anche contro se stesso. Era come una scissione, una continua lacerazione. Allora, se si legge con attenzione, questo suo “spirito di contraddizione”, acquista ancor più valore sol che si tenga presente la sua potente ispirazione ideale, verso l’ “obiettivo puro” finale. Mi spiego: non c’è uno Sciascia intransigente contro la mafia, che diventa improvvisamente lassista o peggio, come è stato insinuato, connivente nei confronti di essa. Ne costituisce una chiara esemplificazione il suo romanzo più noto. Come ricorda in un suo libro Antonio Giangrande, basta rileggere “Il Giorno della civetta” per rendersi conto che il Capitano Bellodi, nel momento in cui ha difficoltà a inchiodare alle sue responsabilità il capomafia Arena, respinge la tentazione delle scorciatoie e condanna con decisione i metodi del Prefetto Mori, adottati durante il fascismo. Al contrario invoca e in qualche modo prefigura più efficaci metodi di indagine che potrebbero consentirgli di risalire alle disponibilità finanziarie, penetrando nelle maglie del segreto bancario, allora un tabù per il nostro sistema giuridico, e di colpire i clan mafiosi nei loro patrimoni, anticipando così molto tempo prima la strada che sarà seguita da Falcone e Borsellino e che porterà, con successo, a celebrare il maxi processo di Palermo contro la Cupola di Cosa Nostra. Muta dunque l’obiettivo polemico – alle connivenze della Dc e dello Stato si sostituisce l’attacco alle strumentalizzazioni politiche dell’antimafia – ma Sciascia continua a muoversi all’interno della medesima “vocazione ideale”. A questo punto, tutto torna nell’infinito “cerchio” del suo illuminismo: un salto così alto da farlo volare al fianco di un Voltaire, di un Diderot. “Ho sempre pensato che la qualità e grandezza di Sciascia sia proprio in questa intima e vitale contraddizione tra l’adesione alla sua terra e alla cultura della sua terra e il suo costante, eretico contrapporvisi in nome di pochi, essenziali valori: la laicità, la democrazia, la tolleranza, una profonda religiosità, la giustizia, il rispetto della dignità umana, la verità”. (Gianfranco Spadaccia).

Giacomo Matteotti e le vecchie zie di Leonardo Sciascia. Di seguito pubblichiamo l’intervento di Valter Vecellio. Ci sono degli italiani con cui l'Italia ha un debito, di cui deve essere fiera, orgogliosa. Tra questi italiani, che sono assai più di quanto si sappia e si creda, e a cui dobbiamo riconoscenza e gratitudine, c'è senz'altro Giacomo Matteotti. Il 10 giugno prossimo saranno novant'anni dalla morte, più propriamente dall'uccisione provocata da cinque membri della polizia politica fascista. Non mi pare che siano molte le occasioni, le situazioni come questa, che si sono create per ricordarlo, per onorarne la memoria e il sacrificio. Non mi sorprende, ma ugualmente ne sono rammaricato. A lungo si è dibattuto se Mussolini sia stato il mandante di quel delitto, se sia invece imputabile all'ala dura del fascismo che ha agito a insaputa del capo costretto a prenderne atto, se Matteotti doveva subire solo una "lezione", poi sfociata in tragedia; e le inconfessabili ragioni di quel delitto. C'è un'ampia storiografia in materia, con punte a volte anche decisamente fantasiose. Renzo De Felice, ritenuto il più autorevole studioso del fascismo e di Mussolini, per esempio era convinto che Mussolini non avesse dirette responsabilità in questo delitto, che non l'abbia ordinato né voluto. Ma anche Federico Chabod e Benedetto Croce, per citare altri insospettabili studiosi e autorevoli testimoni erano dello stesso parere. Ma al di là di questo - un terreno in cui non mi voglio addentrare - mi pare abbiano subito visto giusto quei socialisti vicini a Filippo Turati che il 17 giugno del 1924 sostengono che «L'autorità politica assicura solerti indagini per consegnare alla giustizia i colpevoli, ma la sua azione appare totalmente investita dal sospetto di non volere, né potere colpire le radici profonde del delitto, né svelare l'ambiente da cui i delinquenti emersero». Fa riflettere che si possano usare le stesse parole per tanti delitti e per tante stragi che hanno insanguinato il paese dagli anni Settanta agli anni Novanta...

Il sentire popolare fu ancora più esplicito; una famosa canzonetta dell'epoca diceva:

«Or, se a ascoltar mi state,

canto il delitto di quei galeotti

che con gran rabbia vollero trucidare

il deputato Giacomo Matteotti.

Erano tanti:

Viola Rossi e Dumin,

il capo della banda

Benito Mussolin. »

Il "Becco Giallo" famosa rivista umoristica di massa, un irriverente "Il Male" dell'epoca con in più l'autorevolezza di un "Canard Enchainé" pubblicò una vignetta nella quale un truce Mussolini siede sulla bara di Matteotti. Di Matteotti, Carlo Rosselli scrive che "...possiede una qualità rara tra gli italiani e rarissima tra i parlamentari, il carattere. Era tutto d'un pezzo. Alle sue idee ci credeva con ostinazione, e con ostinazione le applicava...". Uccidendo Matteotti, conclude Rosselli, Mussolini "ha indicato all'antifascismo quali debbono essere le sue preoccupazioni costanti e supreme: il carattere, l'antiretorica, l'azione". Altro che socialismo zuccheroso e buonista, da libro "Cuore" (a parte che anche questo grande libro e il suo autore Edmondo de Amicis andrebbero liberati da questa patina dolciastra con cui li si li è voluti avvolgere)! Era, è, piuttosto, un socialismo umanitario, non credo si debba aver timore di questa parola, che cercava di coniugare i valori della libertà, della giustizia, dell'uguaglianza; quel liberal socialismo che troveremo nei fratelli Rosselli, e poi in Aldo Capitini e Guido Calogero - anche questi personaggi, non per un caso dimenticati e ignoti, volutamente, "scientificamente" ignorati. Per non parlare di Ignazio Silone, che ha avuto una travagliatissima esperienza politica: fondatore del PCI, una intensa e appassionata militanza, dirigente di spicco del partito, poi la violentissima rottura con il comunismo, la denuncia di ogni totalitarismo non importa di quale colore, l'impegno a favore di un socialismo intriso di valori cristiani nel senso letterale; è Silone che conia  l’espressione "fascismo rosso”, contro le degenerazioni dello stalinismo, ponendo l’accento sulla dialettica fra l’apporto degli intellettuali nella loro area politica di appartenenza e i vertici di partito...

Questo, in sintesi, il mondo di Giacomo Matteotti. Ma anche il mondo di Piero Gobetti, di Giovanni Amendola, di Gaetano Salvemini che pure nei confronti dei socialisti non era particolarmente tenero, di Ernesto Rossi, Filippo Turati, Sandro Pertini, Fernando de Rosa, dei tanti che accorrono per combattere in Spagna i golpisti di Francisco Franco, ma devono fare i conti anche se non soprattutto con gli agenti di Stalin. George Orwell ha scritto pagine illuminanti al riguardo.

E qui si incontrano Leonardo Sciascia e il sentire popolare. Immaginiamola, Racalmuto, il paese dove Sciascia è nato ed è cresciuto, anni, diceva, che sono formativi per una persona, e la segnano per il resto della vita. Ancora oggi non è facile arrivare a Racalmuto. Certo non con il treno... anche con l'automobile è un bel viaggio. Figuriamoci negli anni '20-'30. Piccole case, viuzze, gente che si ammazzava dalla fatica per quattro soldi, qualche notabile e possidente. Niente televisione, la radio di regime, poche le automobili, molti gli analfabeti, qualche giornale, il circolo... Al di là del regime che se pur blandamente anche a Racalmuto avrà vigilato, parallelo ad altra, più spietata, efficiente e superiore vigilanza, le notizie arrivavano tardi, e male, non c'era internet, la rete, i tam tam di oggi...Nel 2002 Matteo Collura, grande amico di Sciascia e suo biografo, autore del bel "Il Maestro di Regalpetra" pubblicato da Longanesi, per lo stesso editore dava alle stampe "Alfabeto eretico": cinquantotto voci dall'opera di Sciascia, da don Abbondio a zolfo, e poi l'America, la mafia, il fascismo, Pirandello, Moro, la Sicilia, per capire Sciascia e il suo mondo... una in particolare, qui interessa, ed è la voce dei parenti. Sono appunto le zie. Scrive Collura: «Figure determinanti nella vita di Sciascia, avendone influenzato il formarsi del carattere (…) e fornendogli impagabili spunti nella sua formazione di scrittore (…) Fu una zia a rivelargli, mostrandogli un ritratto di Giacomo Matteotti, tenuto nascosto tra gli attrezzi per il cucito, che i fascisti avevano ucciso un "padre di famiglia che aveva dei bambini"». Di questa e poi mille altre morti, spesso ingiuste, scrisse Leonardo Sciascia. Storie di Sicilia e del mondo. E ieri come oggi, questo scrittore c'insegna sempre qualcosa. Zie colme di quella popolare saggezza che consente di sapere quel che conta e che vale, una saggezza che sa istintivamente dov'è il sugo del sale, non solo nel libro di Collura compaiono queste simpaticissime zie. Sciascia ne scrive in articoli, ne parla in interviste. Sono una presenza costante. "Un cugino di nostro padre" racconta lo scrittore ne "Le parrocchie di Regalpetra", "ci portò in casa il ritratto di Matteotti. Io abitavo con le zie, erano tre sorelle, due di loro non uscivano mai di casa, e spesso ricevevano visite di parenti...". Quel parente racconta come avevano ammazzato Matteotti, e dei bambini che lascia: "...mia zia cuciva alla macchina e diceva - ci penserà il Signore - e piangeva. Ogni volta che vedo da qualche parte il ritratto di Matteotti immagini e sensazioni di quel giorno mi riaffiorano... mia zia prese il ritratto, arrotolato dentro un paniere in cui teneva filo da cucire e pezzi di stoffa. In quel paniere restò per anni. Ogni volta che si apriva l'armadio, e dentro c'era il paniere, domandavo il ritratto. Mia zia, biffava le labbra con l'indice, per dirmi che bisognava non parlarne. Domandavo perché. Perché l'ha fatto ammazzare quello, mi diceva. Se alla mia domanda era presente l'altra mia zia, la più giovane, che era maestra, si arrabbiava con la sorella - devi farlo sparire quel ritratto, vedrai che qualche volta ci capiterà un guaio. Io non capivo. Capivo però chi fosse quello...".

Valgono più questi ricordi di poderosi saggi e dotte ricerche storiche, per capire che tipo di incidenza abbia avuto un personaggio come Matteotti tra quella gente comune che poco o nulla sapeva di alchimie e strategie politiche, ma molto capiva e s'intendeva di quello che Manzoni definisce "guazzabuglio del cuore umano"; e la chiave è appunto in quella istintiva commozione per un padre con bambini ucciso da "quello" e nel ritratto gelosamente conservato. Un ricordo che seguirà Sciascia, condizionandolo, tutta la vita; e che si rifletterà in tutta la sua opera.

Professionisti dell'antimafia? Vent'anni dopo, una nuova polemica su una brutta polemica scatenata da Leonardo Sciascia, scrive "Società Civile". Con la solita esclusione dei fatti. Eccoli qui. Il testo di Sciascia. L'intervento di Nando dalla Chiesa.  Chiedere scusa a Sciascia, come chiede Pierluigi Battista sul Corriere? Ma per che cosa? Innanzitutto i fatti, come sempre oscurati e dimenticati nelle polemiche giornalistiche italiane.

1. Leonardo Sciascia, scrittore siciliano che ha insegnato che cos'è la mafia a più generazioni, il 10 gennaio 1987 pubblica sul Corriere un lungo articolo titolato: "I professionisti dell'antimafia". Nella prima parte discute di un libro di Christopher Duggan sulla mafia durante il fascismo, sostenendo che l'antimafia può raggiungere «un potere incontrastato e incontrastabile» e trasformarsi in uno «strumento di potere». Nella seconda parte dà concretezza a queste astratte riflessioni, portando due esempi. Quello del sindaco di Palermo Leoluca Orlando (senza farne il nome) e (con nome e cognome) quello di Paolo Borsellino, appena diventato procuratore di Marsala «per meriti antimafia». Sciascia era stato spinto a scrivere dal magistrato candidato procuratore che, benché avesse maturato un'anzianità maggiore, era stato sconfitto da Borsellino. La competenza e la professionalità avevano finalmente battuto, forse per la prima volta, le ragioni dell'anzianità.

2. Nessuna reazione all'intervento di Sciascia. Finché il Coordinamento antimafia di Palermo (300 iscritti) emette un duro comunicato che critica Sciascia, afferma che con quell'intervento lo scrittore si è messo ai margini della società civile e lo qualifica come un «quaquaraquà». Sciascia, scrive il Coordinamento, per una «certa affinità di cultura», ha nel suo cuore non Orlando, ma un sindaco come Vito Ciancimino, «che gestiva la cosa pubblica in nome e per conto della mafia».

3. A questo punto scoppia la polemica. Violentissima nei confronti del Coordinamento. Per difendere Sciascia si muove uno schieramento compatto e bipartisan di giornalisti, intellettuali, politici, di destra e di sinistra (fino a Rossana Rossanda sul Manifesto). I toni sono da difesa della libertà d'espressione contro la dittatura della maggioranza, da battaglia contro il conformismo dell'antimafia. Ma in realtà gli intellettuali che cercano di capire le ragioni del Coordinamento si contano sulle dita di un paio di mani: Corrado Stajano, Nando dalla Chiesa, Eugenio Scalfari, Giampaolo Pansa, Stefano Rodotà, Franco Rositi. Sulla scia di Sciascia si muove anche tutta la palude siciliana e nazionale che coglie un'occasione ghiotta (e insperata) per attaccare i magistrati attivi contro Cosa nostra e i movimenti antimafia. A un congresso della Dc siciliana, accusata di connivenze con la mafia, il pubblico grida all'oratore: «Cita Sciascia, cita Sciascia!».

4. Il 2 gennaio 2006 Pierluigi Battista, a seguito di due precedenti articoli di Attilio Bolzoni su Repubblica e di Sandra Amurri sull'Unità, riprende la polemica e chiede a chi vent'anni fa criticò Sciascia di chiedere scusa allo scrittore. Interviene di rincalzo Piero Ostellino, che da direttore del Corriere vent'anni fa curò la regia giornalistica dell'intervento di Sciascia.

5. Reagisce, sull'Unità, Nando dalla Chiesa, che cerca di ristabilire i fatti: Sciascia non fece un generico intervento contro l'antimafia che può diventare strumento di potere (in astratto, può essere certamente vero); ma attaccò direttamente Paolo Borsellino, colpevole di aver fatto carriera per meriti antimafia. E per quali meriti si deve far carriera, in questo Paese? Per meriti di mafia? La reazione del Coordinamento antimafia di Palermo fu certamente eccessiva e sbagliò i toni, ma il comunicato fu scritto di getto da un ragazzo di vent'anni, indignato per il fatto che, nella Palermo dove era normale morire di mafia, l'intellettuale simbolo se la prendesse con un magistrato come Borsellino, non con chi faceva carriera per meriti di mafia o di ossequio ai poteri. Chi ricorda, oggi, il clima tremendo di quegli anni in Sicilia, gli anni dei morti ammazzati per strada, gli anni del maxiprocesso a Cosa nostra, gli anni degli attacchi ai movimenti antimafia... Il Giornale di Sicilia finì per pubblicare gli elenchi degli iscritti al Coordinamento antimafia: un'intimidazione pesante.

6. Borsellino cinque anni dopo fu ucciso da Cosa nostra. Culmine della carriera di un professionista dell'antimafia. Davvero Sciascia si riconciliò con Borsellino, prima della strage di via D'Amelio? Di certo Borsellino tornò su quell'episodio nel suo ultimo discorso pubblico prima di morire, la sera del 25 giugno 1992 alla Biblioteca comunale di Palermo. Il magistrato parlò, quella sera, con un'intensità mai vista: parlò dei tempi brevi che doveva darsi, dell'amico Giovanni Falcone appena ucciso, del «giuda» che lo aveva tradito al Csm, dell'interminabile campagna di delegittimazione dei magistrati antimafia di Palermo: «Tutto cominciò con quell'articolo sui professionisti dell'antimafia», scandì, prima di ricevere dodici, interminabili minuti d'applausi, con cui i mille presenti, in piedi e con la pelle d'oca, vollero fargli sentire da vivo quel sostegno che Falcone non aveva potuto sentire. Qualcuno dei sostenitori di Sciascia ha mai chiesto scusa a Borsellino? (Gianni Barbacetto)

I professionisti dell'antimafia di Leonardo Sciascia dal Corriere della Sera, 10 gennaio 1987. Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo che non costa nulla e che i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono «eroi della sesta»:

1) «Da questo stato d'animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l'angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero nella memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti... Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961).

2) «Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966).

Il punto focale. Esibite queste credenziali che, ripeto, non servono agli attenti e onesti lettori, e dichiarato che la penso esattamente come allora, e nei riguardi della mafia e nei riguardi dell'antimafia, voglio ora dire di un libro recentemente pubblicato da un editore di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino. Il libro s'intitola La mafia durante il fascismo, e ne è autore Christopher Duggan, giovane «ricercatore» dell'Università di Oxford e allievo dì Denis Mack Smith, che ha scritto una breve presentazione del libro soprattutto mettendone in luce la novità e utilità nel fatto che l'attenzione dell'autore è rivolta non tanto alla «mafia in sé» quanto a quel che «si pensava la mafia fosse e perché»: punto focale, ancora oggi, della questione: per chi - si capisce- sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al pittoresco di un'isola pittoresca, al colore locale, alla particolarità folcloristica. Ed è curioso che nell'attuale consapevolezza (preferibile senz'altro - anche se alluvionata di retorica - all'effettuale indifferenza di prima) confluiscano elementi di un confuso risentimento razziale nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e si ha a volte l'impressione che alla Sicilia non si voglia perdonare non solo la mafia, ma anche Verga, Pirandello e Guttuso.

Ma tornando al discorso: non mi faccio nemmeno l'illusione che quei miei due libri, cui i passi che ho voluto ricordare, siano serviti - a parte i soliti venticinque lettori di manzoniana memoria (che non era una iperbole a rovescio, dettata dal cerimoniale della modestia poiché c'è da credere che non più di venticinque buoni lettori goda, ad ogni generazione un libro) - siano serviti ai tanti, tantissimi che l'hanno letto ad apprender loro dolorosa e in qualche modo attiva coscienza del problema: credo i più li abbiano letti, per così dire, «en touriste», allora; e non so come li leggano oggi. Tant'è che allora il «lieto fine» - e se non lieto edificante - era nell'aria, per trasmissione del potere a quella cultura che, anche se marginalmente, lo condivideva: come nel film In nome della legge, in cui letizia si annunciava nel finale conciliarsi del fuorilegge alla legge.

Ed è esemplare la vicenda del dramma La mafia di Luigi Sturzo. Scritto, nel 1900, e rappresentato in un teatrino di Caltagirone, non si trovò, tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte, il quinto atto che lo, completava; e lo scrisse Diego Fabbri, volgarmente pirandelleggiando e, con edificante conclusione. Ritrovati più tardi gli abboni di Sturzo per, il quinto atto, si scopriva la ragione per cui la «pièce» era stata dal, suo autore chiamata dramma (il che avrebbe dovuto essere per Fabbri, avvertimento e non a concluderla col trionfo del bene): andava a finir, male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e, vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia allora soltanto, sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di aver avuto, chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni, implicazioni e, complicità; e di averlo sentito come problema talmente vasto, urgente e, penoso da cimentarsi a darne un «esempio» (parola cara a san Bernardino), sulla scena del suo teatrino. E come poi dal suo Partito Popolare sia, venuta fuori una Democrazia Cristiana a dir poco indifferente al, problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un'indagine e un'analisi di non poca difficoltà. E ci vorrà del tempo; almeno quanto ce n'è voluto per avere finalmente questa accurata, indagine e sensata analisi di Christopher Duggan su mafia e fascismo.

Nel primo fascismo. Idea, e il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole: in Sicilia la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l'istanza rivoluzionaria degli ex combattenti dei giovani che dal Partito Nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell'invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello Stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell'ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero, un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi «risorgimentali» - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena, dopo lì delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l'arresto di Alfredo Cucco (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese e promosse nei suoi ranghi).

Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange «rivoluzionarie» per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano - garantire al fascismo almeno l'immagine di restauratore dell'ordine - liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti.

Le guardie del feudo. E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l'efficienza e l'efficacia del patto.

Mori, dice Duggan, «era per natura autoritario e fortemente conservatore», aveva «forte fede nello Stato», «rigoroso senso del dovere». Tra il '19 e il '22 si era considerato in dovere di imporre anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma forse gli valse - quel periodo di ozio - a scrivere quei ricordi sulla sua lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo di Tra le zagare, oltre che la foschia che certamente contribuì a farlo apparire come l'uomo adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta criminalità siciliana.

Rimasto inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello Stato, che era ormai lo Stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi, l'innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c'è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell'opinione pubblica) nascondeva anche il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole.

Sicché se ne può concludere che l'antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all'ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come «mafioso». Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.

E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia Cristiana: «et pour cause», come si è tentato prima dl spiegare. Questo è un esempio ipotetico.

Ma eccone uno attuale ed effettuato. Lo si trova nel «notiziario straordinario n. 17» (10 settembre 1986) del Consiglio Superiore della Magistratura. Vi si tratta dell'assegnazione del posto di Procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e dalla motivazione con cui si fa proposta di assegnargliela salta agli occhi questo passo: "Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dott. Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il "superamento" da pane del più giovane aspirante".

Per far carriera. Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come «la diversa anzianità», che vuoi dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel «superamento», (pudicamente messo tra virgolette), che vuoi dire della bocciatura degli altri, più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la lettura della proposta, in cui spiega che il dottor Alcamo -che par di capire fosse il primo in graduatoria - è «magistrato di eccellenti doti», e lo si può senz'altro definire come «magistrato gentiluomo», anche perché con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna «a lui assolutamente non imputabile»: quella di non essere stato finora incaricato di un processo di mafia. Circostanza «che comunque non può essere trascurata», anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo «piatisse l'assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo modo di procedere tra l'altro risultato alieno dal suo carattere». E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li abbia quanto più graditi rispetto alta promozione che si aspettava.

I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?

Sciascia, perché non mi pento di Nando dalla Chiesa, dall'Unità, 4 gennaio 2007. Chiedere scusa a Sciascia per avere criticato il suo celebre articolo contro i professionisti dell'antimafia di vent'anni fa? Recitare il mea culpa come chiede Pierluigi Battista sul «Corriere» dell'altro ieri? In questi casi è sempre bene non rispondere di getto. E rimettere in fila tutti i dati di realtà conosciuti. E poi pensarci. E poi pensarci ancora. Per evitare di reiterare un gioco delle parti. L'ho fatto. E sono giunto alla conclusione che non ci sia da chiedere scusa di nulla. Non per ostinazione. Ma per un ricordo che ho ben vivo nella mente. Incancellabile. Di quelli che segnano il tuo modo di ragionare (e di far memoria) per tutta la vita. Partirò dunque da quella sera del 25 giugno del '92. Biblioteca comunale di Palermo. Dibattito organizzato dalla rivista «Micromega» sullo stato della lotta alla mafia dopo la strage di Capaci, in cui era stato ucciso Giovanni Falcone. A un certo punto arrivò Paolo Borsellino. In ritardo perché si era dimenticato dell'impegno. Accolto da un applauso lunghissimo. Prese quasi subito la parola, aspirando una sigaretta dopo l'altra. Misurando le parole, ma usandole con una forza inconsueta. Ero se­duto alla sua destra, credo che tra noi ci fossero due oratori, ce n'erano sette stipati su una predella che normalmente non avrebbe contenuto più di quattro sedie. Lo guardavo come attratto da una calamita (tutti lo guardavano così). Man mano che parlava tutti capimmo che Borsellino stava conse­gnando ai presenti un documento orale a futura memoria. Parlò del suo amico ucciso, parlò delle indagini, dei tempi veloci che egli stesso doveva darsi. Parlò del giudice che aveva tradito Falcone nel Csm, riservandogli un termine («giuda») che giunse sui presenti come una staffilata; insieme con l'immagine, nitidissima per tutti, del magistrato palermitano al qua­le si riferiva. Poi fece la ricostruzione storica della campagna volta a distruggere e delegittimare i magistrati palermitani impegnati sulla trincea della lotta alla mafia. A un certo punto fece una pausa e disse: «Tutto incominciò con quell'articolo sui professionisti dell'anti­mafia». Lo disse con un tono sprezzante e amareggiato, esisto­no le registrazioni di quella serata. Fu l'ultimo intervento pubblico di Borsellino. Il testamento morale di un giudice che, con il lucido istinto dell'animale braccato, sen­tiva che avrebbe seguito la stessa sorte dell'amico e che perciò pesò con quella gravità le sue parole. E che comunicò questo suo presa­gio anche alle mille persone pre­senti. Che infatti vollero fargli sen­tire da vivo l'applauso che Falcone non aveva potuto sentire. Dodici, interminabili minuti di applausi. In piedi, con le lacrime agli occhi e la pelle d'oca che non se ne andava. Ripartiamo da lì: «Tutto incominciò con quell'articolo sui professio­nisti dell'antimafia». Un articolo spartiacque, dunque. D'altronde chi lo aveva criticato cinque anni prima aveva ben capito quale ne sarebbe stata la forza dirompente. Aveva ben intuito l'effetto che avrebbe prodotto, nel pieno di una carneficina e nel preciso mo­mento in cui si aprivano spazi istituzionali di una nuova coscienza e responsabilità antimafiosa, quell'attacco a chi si stava impe­gnando su una frontiera rischiosa e cruciale come quella siciliana. Tanto più se l'attacco veniva da uno scrittore che con i suoi ro­manzi aveva insegnato a leggere la mafia a un paio di generazioni e che quindi si sarebbe prestato a meraviglia per essere usato contro il nascente movimento antimafia. Il che puntualmente accadde. Come già era accaduto e come ancora sarebbe accaduto in quegli anni. Nemmeno per il «Corriere», fra l'altro, quell'intervento fu un episodio. Oltre al modo in cui venivano trattati Falcone e Borsellino (per avere difeso i quali dagli articoli di via Solferino dovetti subire due processi per reati d'opinione), brillò in quei giorni un editoriale non firmato (e dunque riconducibile alla direzione di allora, quella di Piero Ostellino) nel qua­le si affermava che accanto alla mafia tradizionale si stava affer­mando «un meccanismo di clientele e parentele che... rischia di trasformarsi in una sorta di mafia, sia pure di segno contrario e in nome di nobilissimi principi». Era la teoria della nuova, più nobile ma­fia composta anche dai familiari delle vittime (le «parentele»)! Di tutto questo, nel lungo articolo di Pier Luigi Battista, non si trova traccia. E in certa misura è comprensibile. Battista non era alla bi­blioteca di Palermo quella sera e quindi tramanda la versione del Borsellino pacificamente riconciliatosi con Sciascia. Battista non ha vissuto, per fortuna sua, quegli anni nel fuoco dello scontro diret­to e quindi può condannare, impeccabilmente, il coordinamento antimafia di Palermo per avere, in un furente e improvvido comuni­cato, messo Sciascia «ai margini della società civile» e averlo definito un «quaquaraquà». Chissà che si immagina che fosse quel coordinamento antimafia. Non sa che era fatto da studenti stanchi di terrore e lapidi e complicità, da don­ne mai prima impegnate in politica, da qualche poliziotto voglioso di dare giustizia a un grappolo di colleghi assassinati. Gente sempli­ce, non intellettuali, che per rabbia, la rabbia del «tradimento», usò parole assurde. Ma che difese le ragioni dell'antimafia con gene­rosità, e Dio sa quanto fu difficile difenderle tra gli studenti dopo che l'auto della scorta di Borselli­no ne uccise due davanti al liceo Meli. Si può restituire il contesto storico di allora contrapponendo a Sciascia quel coordinamento au­dace e smandrappato? Facendo l'elenco minimo di chi dissentì dallo scrittore siciliano e indicando in Sciascia l'anticonformista che dovette pagare il prezzo della sua libertà, sostenuto solo dai radicali (e dal «Corriere», si intende)? Credo che non si possa. Credo, anzitutto, che non si possa negare al lettore l'informazione dirimente, poiché è da qui, dal racconto fede­le dei fatti, che inizia il garantismo: ossia la frase con cui lo scrit­tore chiudeva quel suo celebre articolo, e che ne rappresentava il succo (egli scrisse infatti per protestare contro la nomina di Borsellino a procuratore capo a Marsala). Concludeva sdegnato Sciascia: «I lettori comunque prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per fa­re carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso». La carriera di Borsellino, insomma. Era questo l'oggetto del fondo di Sciascia, che fra l'altro non conteneva mai l'espressione «professionisti dell'antimafia», che fu invece tutta farina del sacco del «Corriere» di allora. E nem­meno credo che si possa evitare di riandare agli schieramenti veri di allora. Coordinamento antimafia, il circolo «Società civile» di Milano e pochi intellettuali (Stajano, Rodotà, Rositi, oltre a Pansa) da un lato; tutti i partiti, tutti i sindacati, tutti i direttori di giornale (Scalfari escluso) dall'altro, avvinti in un intreccio surreale, che univa complicità aperte, omertà di partito, bisogno di una legalità «ben temperata», rispetto sacro per il maestro di pen­siero, diffidenze verso i pool di magistrati nati nei processi al terrorismo. Altro che «il vuoto» intorno a Sciascia, come afferma Battista. Pochi e con poco potere contro un intero sistema. Chi era anticonformista? No, il problema non furono gli «sciasciani di borgata» (come dice e disse Leoluca Orlando, comprensibilmente preoccupato di riconoscere la grandezza intellettuale dell'interlocutore). Il problema furono gli sciasciani di palaz­zo, e che Palazzo. A loro, a chi diede loro un aiuto insperato, è difficile oggi chiedere scusa. Sia chiaro: viene ben da pensare ogni tanto, vedendo certi esempi di retorica antimafiosa, che Sciascia avesse una qualche ragione. Ma non vi è certo bisogno delle analisi di Sciascia per provare fastidio per la retorica in generale. Il fatto è che nel caso specifico (l'unico su cui sì può misurare il senso concreto della polemica) la «retorica» era quella che aveva legittimato la «carriera» di Borsellino. Una «carriera» che non doveva costituire un precedente. E che infatti, grazie a quella polemica, non fu un precedente per Giovanni Falcone, boicottato strenuamente - con il contributo del «giuda» - nel Csm. Poi la carriera di Borsellino, la sua celebre carriera, finì. Nel modo che sappiamo. E lui appena prima di finirla disse in pubblico: «Tutto è incominciato con quell'articolo sui professionisti dell'antimafia». Non è che per caso qualcuno deve chiedere scusa a Borsellino?

I nuovi "professionisti dell'antimafia", scrive “La Voce dell’Isola” il 29 febbraio 2012. Il 10 gennaio 1987 fu pubblicato sul Corriere della Sera un lungo articolo dello scomparso Leonardo Sciascia dal titolo “I professionisti dell’antimafia”, questo articolo divenne oggetto di forte e aspra polemica. Trascorsi ormai 22 anni da quei giorni ci sembra il caso di riprendere il discorso, per una serie di analisi che partendo dal passato possano aiutarci a comprendere il presente. Sciascia contribuì non poco alla comprensione da parte del pubblico dei meccanismi mafiosi. I suoi scritti fra libri e articoli aprirono la mente di molte persone, servirono a comprendere che la mafia non era un termine astratto, ma una realtà concreta con la quale tutti in Sicilia -in qualche modo- dovevano misurarsi. Imprenditori, politici, operai, donne, capitani dei carabinieri. La mafia come fatto concreto e non come entità giornalistica. Non fu facile in quegli anni far capire ai siciliani e non, che un morto ammazzato poteva essere un anello di una catena più grande che coinvolgeva potenti e poteri. Parlando di professionisti dell’antimafia Sciascia attaccò direttamente Paolo Borsellino. Il 25 giugno del ’92, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche alla Biblioteca comunale di Palermo Paolo Borsellino parlò del giudice che aveva tradito Giovanni Falcone nel Csm, riservandogli un termine «giuda» che giunse sui presenti come una staffilata; insieme con l’immagine, nitidissima per tutti, del magistrato palermitano al quale si riferiva. Poi fece la ricostruzione storica della campagna volta a distruggere e delegittimare i magistrati palermitani impegnati sulla trincea della lotta alla mafia. A un certo punto fece una pausa e disse: «Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell’anti­mafia».  Seguì un lungo applauso, 12 minuti per Paolo Borsellino e in memoria di Giovanni Falcone. Nel gennaio ’88 Sciascia era seduto accanto nel loro primo incontro a Marsala, non disse nulla, non chiese mai scusa pubblicamente, alla fine si compresero e si strinsero la mano. Nel ’91 Borsellino lo ricordò con queste parole: “Scontro fra me e Sciascia non ve ne fu. Intanto, perché io stetti silenzioso, anzi colsi l’occasione subito dopo per indicare in Sciascia la persona che aveva estrema importanza nella mia formazione e anche nella mia sensibilità antimafia. -Continuò poi Borsellino – Ebbe la gradevolezza di darmi una interpretazione autentica del suo pensiero che mi fece subito riflettere sul fatto che quella sua uscita mirava a ben altro”. Tutta questa premessa per spiegare i fatti e ricordarne almeno le fasi salienti. Ma forse Sciascia non sbagliò il suo articolo. Probabilmente prese di mira soltanto la persona sbagliata. Sciascia, uomo di Racalmuto, uomo duro, di cultura, deciso. Sciascia uomo che aveva sempre detto la verità. Sciascia uomo che aveva sbagliato. Sciascia inconsapevole strumento di quei poteri che con la sua fidata macchina da scrivere aveva sempre attaccato e, nella Sicilia di quei tempi, oltraggiato. Sciascia ebbe però nel 1987 una geniale intuizione: si affermavano i “professionisti dell’antimafia”. Cadde però vittima della sua stessa intuizione pensando che una delle persone più esposte potesse farne parte. Ma quella di Paolo Borsellino più che una professione era una passione. Sciascia vittima di quei professionisti dell’antimafia che velatamente ispirarono il suo articolo (era stato spinto a scrivere infatti dal magistrato candidato procuratore a Marsala che, benché avesse maturato un’anzianità maggiore, era stato sconfitto da Borsellino).

Chi indicava Sciascia come figure ideologiche nel ruolo di professionisti dell’antimafia? “L’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia Cristiana”.

Sciascia intuisce quindi che delle persone, in nome dell’antimafia, ne sarebbero diventati professionisti. Non calcola però che se non proprio professionisti, già all’epoca si affermavano diversi “buoni apprendisti” pronti a cambiare il senso della verità, pronti a sfruttare il potere che già all’epoca derivava dai mass media. Intuisce quindi una grande verità, sbaglia totalmente la focale scegliendo come obiettivo proprio Paolo Borsellino. Legittima con la scrittura e la cultura la più grande campagna di delegittimazione mai iniziata da Cosa Nostra e dai poteri che da sempre, per convenienza, la sostengono. Ma la sostanza, a nostro avviso, rimane inalterata e in un mondo in cui quelle icone dell’antimafia vivono ormai soltanto nei nostri ricordi e nelle nostre vite il problema si ripresenta. Forte come non mai. Oggi viviamo un forte rinnovamento dei movimenti antimafia, la nuova creazione di icone ed esempi da portare avanti e sostenere nella lotta (forse eterna) contro la mafia e i poteri forti. Ma in questa lotta vediamo inserirsi con forza e prepotenza una nuova generazione agguerrita e più colta (pertanto più pericolosa) di “professionisti”. Persone che si fanno scudo della parola “antimafia” per interessi privati e assolutamente distanti dalla logica dell’ideale e della giustizia. Il moltiplicarsi di informazioni sui social network, sui giornali, sulle televisioni sempre più spesso è volto soltanto a confondere le carte più che a far chiarezza in questi misteri. Proviamo a leggere in mezzo a frasi e mezze frasi trovando spesso incongruenze, populismo, semplice demagogia. Puri meccanismi politici, nulla più. Personaggi vecchi e nuovi, personaggi “in cerca d’autore”. Luigi asero – (già pubblicato su “La Voce dell’Isola” il 06/09/2009)

Leggi e regole: gli insegnamenti di Leonardo Sciascia. Sciascia pose un problema essenziale: non si può derogare dal diritto; e non si può piegare una legge alla contingente convenienza. Le leggi e le regole sbagliate si cambiano; fin quando non si cambiano, si applicano. Intanto Francesco Forgione, con i “I tragediatori, la fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti” conferma quanto avesse ragione lui, scrive Valter Vecellio. Andrò, spero tra non molto, a Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia; su quella tomba bianca sulla destra quando si entra, voglio deporre un fiore; e dirgli là, quel “grazie” che ogni giorno gli dico: ogni volta che leggo e rileggo una sua pagina, non importa se Gli zii di Sicilia o La scomparsa di Majorana, Dalle parti degli infedeli o Morte dell’Inquisitore. “Grazie” per averci insegnato che si può e si deve battere la mafia detta ‘Cosa Nostra’ e le altre organizzazioni criminali organizzate puntando “…sull’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…”. “Grazie” per aver accettato il ruolo scomodo e pesante del “pesce volante”: quando “vola” in aria lo beccano gli uccelli; quando nuota sott’acqua è preda di pesci più grandi e voraci. Per aver denunciato la mafia, le mafie; e al tempo stesso la ‘mafiosità’ di certa antimafia, ed esser diventato bersaglio dei loro fulmini. So per certo che quella polemica, uscito l’articolo redazionalmente titolato “I professionisti dell’antimafia” lo ha ferito in modo particolare; quell’insulto scagliato con violenza e protervia: “quaquaraquà”; quel non voler capire che Sciascia pone un problema essenziale, che ancora oggi ci si deve porre. L’essenza di quell’articolo è che non si può derogare dal diritto; e che non si può piegare una legge, una norma a seconda della contingente convenienza: se quella legge o quella norma sono sbagliate o inefficaci, non le si può aggirare, magari pensando di usarle in altra, conveniente, occasione. Le leggi e le regole sbagliate si cambiano; fin quando non si cambiano, si applicano. Non può essere che si deroghi da quanto prevede una norma se si tratta di Paolo Borsellino, è poi bellamente la si utilizza per impedire a Giovanni Falcone di ricoprire quell’incarico, a palazzo di Giustizia di Palermo, che certamente avrebbe ricoperto in maniera eccellente. Recensendo, in quell’articolo, un bel libro dello storico inglese Christopher Duggan sulla mafia negli anni del fascismo, Sciascia ammonisce che l’antimafia, facilmente, si poteva trasformare in strumento di potere; e lo può benissimo diventare anche in un sistema democratico, “retorica aiutando, e spirito critico mancando”. Dico “grazie” a Sciascia per quell’allarme. Più che fondato, se penso che proprio in queste ore ho potuto leggere le circostanziate, precise motivazioni della sentenza di assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino, accusato in abbreviato per minaccia a corpo politico dello Stato in una delle non so ormai neppure quante tanche del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. So bene che Mannino è persona che dovrebbe prestare maggiore attenzione quando fa il testimone di nozze; so bene che lo ha fatto per quel Gerlando Caruana figlio di Leonardo, ucciso nel 1981 a Palermo, dopo la cerimonia dell’altro figlio Gaspare. So bene che si è difeso sostenendo di non sapere chi si sposava; cosicché può scegliere: o è cretino; o vuole farci passare noi, per cretini. Ma questa fattispecie di reato ancora non è contemplata nei codici, che altrimenti in pochi scamperebbero. Al di là di questa discutibile e discussa partecipazione matrimoniale, Mannino per la storia della cosiddetta “trattativa” è stato assolto il 3 novembre del 2015; e le motivazioni sono arrivate dopo undici mesi. Il Giudice per l’Udienza Preliminare Marina Petruzzella letteralmente fa a pezzi l’inchiesta condotta dall’ex pubblico ministero Antonio Ingroia, dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi, dal sostituto procuratore Francesco Del Bene, dai procuratori Nino De Matteo e Roberto Tartaglia. Con un doppio risultato, doppiamente dannoso: perché da una parte si dà corpo a una “trattativa” fantastica, fatta di “papelli” e raccontata da personaggi più che discutibili come il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino; dall’altra ci si “distrae” dalle vere complicità e commistioni, che ci sono state, e tuttora ci sono. Dando credito all’incredibile, come si è finora fatto, si rende incredibile il vero. Doppio risultato che fa comodo a molti, e certo chi l’ha nei fatti posto in essere neppure si rende conto di quello che fa e ha fatto. E’ insomma un certo modo ideologico e “militante” di amministrare la giustizia che porta inevitabilmente ai risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere. La lettura della sentenza del GUP Petruzzella va fatta in parallelo a quella di un recentissimo libro scritto dall’ex presidente della commissione parlamentare antimafia Francesco Forgione, I tragediatori, la fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti. Per capire di cosa si tratta, basti un brano della prefazione scritta da un insospettabile, l’ex magistrato Giuseppe Di Lello, a suo tempo, stretto collaboratore di Giovanni Falcone nel pool antimafia: “…Lo scopo dichiarato del libro di Forgione è analizzare i motivi profondi di una svolta rovinosa, individuando tutti i pericoli di un’antimafia opportunista e di facciata. Siamo infatti in una fase in cui tutto appare confuso e, per le tante ambiguità di molti protagonisti di vicende che interessano la lotta alla mafia, sembra difficile capire dove si situa il confine tra un’azione di contrasto seria ed efficace e comportamenti che, con il paravento dell’antimafia, sconfinano a volte nell’illiceità o quantomeno nel malcostume…”. Va giù a colpi di maglio, Forgione: “L’antimafia dei tragediatori è scoperta. E’ finita. Chi sono, da dove vengono e perché stanno crollando le icone e i ‘miti’ dell’antimafia… Imprenditori, giornalisti, magistrati, associazioni, sono travolti da inchieste giudiziarie e dalla questione morale. Hanno costruito carriere, accumulato potere, fatto affari. Nei salotti televisivi e sui giornali erano i nuovi eroi, Sempre pronti a dividere il mondo tra buoni e cattivi, puliti e collusi. Per anni sono stati intoccabili: o con loro, o con la mafia. Una trasfigurazione della realtà nella quale si perde il confine tra mafia e antimafia. E’ una storia che viene da lontano con risvolti politici e sociali…”. Ognuna delle 120 pagine del libro di Forgione è una conferma di quel monito contenuto in quell’articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Nella montagna di ritagli che ingombrano il mio tavolo di lavoro, uno del 7 aprile di quest’anno, è un editoriale in prima pagina del Corriere della Sera di Paolo Mieli. Comincia così: “Adesso dovremmo tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia…”; e via così, per tre-quattromila parole. Per questo andrò a Racalmuto, a deporre quel fiore, e dire a Leonardo: “Grazie”. Come ora, penserò: “Come ci manca il tuo saper dire, il tuo saper vedere, il tuo saper capire”. La Voce di New York, 3 novembre 2016.

Sempre attuale la “lezione” di Leonardo Sciascia. Il carabiniere Renato Candida scrisse “Questa mafia” che ispirò Leonardo Sciascia per il suo capitano Bellodi protagonista de “Il giorno della civetta”. Dopo oltre cinquant’anni questo libro verrà ripubblicato e quel testo, accompagnato a quello di Sciascia, nonostante il tempo trascorso, e le mutazioni, ci dice ancora molto, scrive Valter Vecellio. Pubblicato ormai più di cinquant’anni fa, Questa mafia, scritto da un carabiniere (l’allora capitano Renato Candida che tanto, troppo, aveva capito della “Cosa Nostra”), è un libro che attira l’attenzione di un giovane ma già vigile Leonardo Sciascia. Ne scrive una recensione con toni di entusiasmo, e ne nasce un’amicizia che dura nel tempo. Candida sarà anche il modello di carabiniere a cui Sciascia si ispira per il suo capitano Bellodi, protagonista de Il giorno della civetta. Va detto che Candida, una volta pubblicato il libro, ne riceve, dopo qualche tempo, un ringraziamento: sotto forma di trasferito, alla scuola allievi ufficiali di Torino. Promosso, e rimosso. Si può dire, con il senno di oggi, che gli sia andata perfino bene. In quegli anni così s’usava. Poi altre, più drastiche e sanguinose misure vengono prese: prima la “chiacchiera”; poi il rimprovero d’essere “chiacchierato”. Infine la mortale carica di tritolo o la raffica di kalashnikov. La Cosa Nostra certo ha enormemente mutato i suoi connotati, da quegli anni ormai lontani; è ormai altra cosa, da quello che hanno scritto Candida e Sciascia. Non solo è salita molto a Nord, la mafiosa palma; è diventata una ormai inestricabile foresta; e tanto più insinuante e pericolosa in quanto silenziosa, discreta. Non se ne parla più, non si mostra più. Segno, evidentemente, che non ha più bisogno di parlare, di mostrarsi. Con quel che ne consegue. Questa mafia, che ormai si poteva reperire con fortuna nel circuito delle librerie antiquarie, a giorni verrà meritoriamente ripubblicato; e ne avremo così, se non un documento di attualità, un documento di storia: sempre utile, perché la conoscenza di “ieri” aiuta a comprendere e spiega “l’oggi”. E’ rieditato dallo stesso editore di allora, quel Salvatore Sciascia di Caltanissetta, omonimo di Leonardo; e di quest’ultimo ha un testo introduttivo. Invitato a presentarlo a Torino, dove ancora vive e risiede una delle figlie del generale, se così posso dire, mi sono “preparato”. E’ vero: è una mafia contadina, agricola, quella che viene descritta (ben descritta; e fin troppo: per aver mostrato intelligenza e volontà di combatterla, e aver dato prova che aveva compreso cosa c’è a fianco delle cosche, a supporto e complice, Candida si trova trasferito). Quel testo, accompagnato a Il giorno della civetta, nonostante il tempo trascorso, e le mutazioni, ci può ancora dire molto. Ve la ricordate certamente la classificazione del genere umano elaborata da Mariano Arena, il mafioso protagonista del romanzo?: “Uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo, quaquaraquà…”. Quante volte l’abbiamo sentita, e ripetuta noi stessi… E chi non ricorda la scena del film di Damiano Damiani, con il bravissimo Lee J.Cobb che fronteggia Franco Nero, venuto ad arrestarlo…Nel film quel “piglianc…” diventa “ruffiani”, per non incorrere nei fulmini della censura, anche quello accade in quegli anni… Ma quella pagina, in entrambe le versioni, è un classico”. Grazie a quel libro – e a quel film – molti italiani prendono consapevolezza che esiste un qualcosa, una organizzazione criminale ramificata e antica, che si chiama mafia, e che i suoi adepti chiamano “La cosa nostra”. Sciascia si ispira, tra l’altro, a un episodio realmente accaduto, il delitto di Accursio Miraglia, un sindacalista ucciso dalla mafia nel gennaio del 1947. E un giorno converrà fare una storia dei sindacalisti morti ammazzati in Sicilia dalla mafia: tanti; e pochissimo ricordati. S’è parlato, prima, di una pagina diciamo così di “colore”; suggestiva, ma non è quella che conta. La pagina davvero importante è quella che viene prima. Bellodi sente che il mafioso – anche grazie alle protezioni politiche di cui gode a Roma – gli sta per sfuggire dalle mani. Lo capisce, e pensa a Cesare Mori, il “prefetto di ferro” che Mussolini manda in Sicilia, e che stronca il brigantaggio; quando poi Mori comincia a pestare i piedi alla mafia, che è già entrata nel regime, il prefetto viene nominato senatore; anche lui rimosso, come anni dopo Candida. I metodi di Mori sono brutali, all’insegna del “fine giustifica i mezzi”, al di là e al di sopra delle leggi, che per quanto fasciste, qualche garanzia pure la danno. Fare come Mori, pensa per un attimo Bellodi. Tentazione che scaccia subito: no, si dice, bisogna stare nella legge. Piuttosto, quello che serve è indagare sui patrimoni, mettere la Finanza, mani esperte, come hanno fatto in America con Al Capone, a frugare sulle contabilità, e non solo dei mafiosi come Mariano Arena: annusare le illecite ricchezze degli amministratori pubblici, il loro tenore di vita, quello delle loro mogli e delle loro amanti, censire le proprietà e comparare il tutto con gli stipendi ufficiali; e poi come dice Sciascia, “tirarne il giusto senso”. Quello che anni dopo fanno Beppe Montana, Ninì Cassarà, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino: che cercano di “tirare il giusto senso” appunto indagando sulle tracce lasciate dal denaro, che non puzza, ma una scia la lascia sempre, a saperla e volerla trovare. “Tirare il giusto senso”, significa anche Anagrafe Patrimoniale degli Eletti; significa che ministri, parlamentari, amministratori pubblici devono vivere come in una casa di vetro, e devono rendere conto del loro operato agli elettori, che devono essere messi nella condizione di sapere. Se quei suggerimenti fossero stati accolti, probabilmente molte cronache giudiziarie, di ieri e oggi, ce le saremmo risparmiate. L’altra pagina importante e amarissima è l’ultima. Bellodi è tornato a Parma, c’è una festa, e si racconta una storia: quella di un medico del carcere che si mette in testa di cacciare i mafiosi sani dall’infermeria e ricoverarvi i detenuti malati. Il medico una notte è vittima di un’aggressione, un pestaggio all’interno del carcere. Nessuno lo aiuta, tutti gli dicono che è meglio lasciar perdere. Il medico è un comunista, si rivolge al partito. Anche il partito gli dice di lasciar perdere. Il medico allora si rivolge al capomafia, e gli aggressori vengono puniti. Aneddoto amarissimo, e non ne sfuggirà il senso, il significato. E dire che qualcuno, anni fa, non ha avuto scrupolo e pudore di rivelare la sua integrale imbecillità sostenendo che Il giorno della civetta è un romanzo che fa l’apologia della mafia…La Voce di New York 20 ottobre 2016

"La storia della mafia" di Leonardo Sciascia, scrive Valter Vecellio il 5 marzo 2013. Un consiglio, per quello che può valere: procuratevi La storia della mafia di Leonardo Sciascia, meritoriamente pubblicata dalle edizioni Barion, “etichetta” gloriosa, specializzata nella pubblicazione di romanzi celebri a prezzi popolari, e rilevata da Mursia. Si tratta di uno smilzo volumetto di una settantina di pagine, costa 8 euro; il testo di Sciascia è accompagnato da “Io, Nanà e i don”, di Giancarlo Macaluso e impreziosito da una postfazione di Salvatore Ferita. Il piccolo saggio di Sciascia è un quasi inedito: pubblicato in origine per la rivista mondadoriana “Storia Illustrata” nell’aprile del 1972; il quotidiano francese “Libération” poi lo ripubblicò il 30 dicembre 1976. Infine, questo testo viene utilizzato come prefazione dal giornalista francese Fabrizio Calvi per la sua ormai difficile da trovare La vie quotidienne de la Mafia 1950 à nos jours, e per la traduzione italiana del libro, La vita quotidiana della mafia dal 1950 a oggi (Rizzoli).    Un testo, quello di Sciascia che, a oltre quarant’anni di distanza ancora prezioso e per quanto abusato vocabolo, “attuale”; naturalmente avendo sempre presente l’avvertenza che occorre situare ogni situazione nel suo contesto, e tener conto delle evoluzioni, che – nel caso di Cosa Nostra – sono di difficile e lenta decifrazione.

Bellissimo paese l’Italia, disse una volta Sciascia; ma con un grande difetto: smarrisce la memoria. E non solo: è un paese senza verità. L’“innocenza” l’Italia non l’ha persa, come molti hanno detto, nel 1969, con lo scoppio delle bombe alla Banca dell’Agricoltura a Milano. L’innocenza l’aveva già persa il 1 maggio del 1947 con la strage di Portella della Ginestra. E’ quel giorno che comincia la lunghissima teoria delle menzogne di Stato, i suoi segreti e misteri. E anzi, a esser puntigliosi, due anni prima, il 17 giugno del 1945, il leader dell’indipendentismo siciliano (di sinistra) Antonio Canepa viene ucciso assieme a due suoi compagni inun conflitto a fuoco con i carabinieri, alle porte di Randazzo…(e al riguardo sono di estremo interesse i due volumi di Salvo Barbagallo, Antonio Canepa, ultimo atto, e L’uccisione di Antonio Canepa. Un delitto di Stato?, Bonanno editore).

Ne I piaceri Vitaliano Brancati – autore tra i prediletti di Sciascia – nota che “se noi non ricordassimo, il mondo sarebbe sottilissimo, una lastra di spessore, sulla quale fulmineamente stampato, un perpetuo presente attirerebbe su di sé i nostri sguardi stupiti e incantat”; e poi un’osservazione quasi incidentale, ma di grande profondità: “Molte generazioni evitano di abbruttirsi solo perché uno dei loro componenti ha il dovere di ricordare”. Come nel celeberrimo romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 451 descrizione di un mondo cupo e orrido, dove gli sgherri dell’oligarchia al potere bruciano ogni libro che capita loro tra le mani; e il sapere, la speranza del sapere, il sapere della speranza, sono affidati a pochi volenterosi, che quei libri li imparano a memoria, si impongono il dovere di non smarrire la memoria.

Per tornare a Sciascia. Uno degli autori da lui più amato è stato Giuseppe Antonio Borgese, uno dei tredici che non votò fedeltà al regime fascista e venne espulso per questo dall’università; autore di quel Golia definito “uno dei migliori libri per la comprensione del fenomeno fascista, quello di Mussolini, ma non solo: quell’eterno fascismo italico che si nutre dell’intolleranza e della nozione di stato etico e, come tale, è sempre in agguato e può reincarnarsi continuamente in nuovi statolatri”. Erano gli anni Ottanta, quando Sciascia denunciava questi rischi; trent’anni dopo il rischio è divenuto certezza. E chissà se è un caso se il Golia non si stampa e non si può leggere più.

Ci stiamo avvicinando alla nostra Storia della mafia. Ruggero Guarini, quand’era ancora responsabile della terza pagina del “Messaggero” – stiamo parlando di trent’anni fa – ha scritto che Sciascia «crede di essere nipote di Voltaire, figlio di Pirandello, fratello di Borges, con una sostanza culturale di derivazione squisitamente giornalistica». Goffredo Fofi, sui “Quaderni Piacentini”, sostiene che “L’opera di Sciascia e il suo aspetto profondamente reazionario finisce per prevalere sui non pochi meriti, la sua programmatica sfiducia nel popolo sul suo ostinato amore per gli ostinati ribelli, la sua amara e inutile vecchiaia su quel che di nuovo la sua opera pure avrebbe potuto avere”. Non è da meno Grazia Cherchi, raffinata critica e consulente editoriale, in una notarella libraria apparsa su “Linus”: L’affaire Moro è “un libro inutile e nato morto, di cui ci siamo dimenticati subito, e senza sforzo”; La Sicilia come metafora è null’altro che “una stracca intervista”, mentre Nero su nero è un patchwork “di note e notarelle, commenti e commentini, motti e mottetti, lamentazioni sul nostro paese, aforismi abortiti”; né è da meno Oreste del Buono; su “Panorama” scolpisce: “E’ come se allo Sciascia che tutti conosciamo e di cui io ho per primo nostalgia, quello lucido e anticipatore degli avvenimenti di Todo modo e del Contesto, si fosse aggiunto adesso un secondo personaggio, una specie di mister Hyde, che parla, scrive, fa il moralista al posto dell’altro”. Non basta. Sempre del Buono, a cui va riconosciuto il primato, tornato ad occuparsi di Sciascia, su “Linus” lo accusa di essere un poco mafioso, e conseguentemente di lanciare “avvertimenti” (mafiosi, beninteso) verso chi dissente dal tripudio generale nei suoi confronti.

Ancora: per Giovanni Roboni Sciascia “è precipitato al livello di un terrorismo piccolo-borghese, per non dire qualunquista”; Giampaolo Pansa sostiene che “il nuovo Sciascia ci fa una gran pena… A me pare che Sciascia si è messo a combattere con Sciascia. Sciascia contro Sciascia. Impegnato a demolire articolo dopo articolo, l’immagine di se stesso”; Claudio Fava dipinge un “Leonardo Sciascia, ormai travolto dagli anni e da antichi livori…”; mentre per Nando Dalla Chiesa, che sostiene di averci pensato a lungo, e di essere giunto “…alla conclusione che… Il giorno della civetta è uno splendido libro sulla mafia, una fotografia perfetta, ma non uno strumento di lotta contro la mafia”.

Arrivano poi gli attacchi e le volgarità postume. Pino Arlacchi su “La Repubblica” sostiene che Sciascia non può essere considerato un maestro, “perché gravissimi furono i suoi silenzi, mentre altri sfidavano le cosche»; e perfino che II giorno della civetta in realtà fa l’apologia di Cosa Nostra”. Testuale: “Una storia ben narrata della sconfitta della giustizia dello Stato e dei suoi rappresentanti di fronte a un delitto di mafia”. Trascurabile il fatto che ciò che viene raccontato nel libro era quello che in quegli anni accadeva; irrilevante che sia stato grazie a Sciascia e al suo libro che se ne è avuta, finalmente percezione e conoscenza. Tutto ciò, per Arlacchi diventa una sorta di complicità. E, infatti: “Dei due maggiori personaggi del racconto, il capitano dei carabinieri e il capobastone locale, è il secondo che colpisce sovrasta”. Conclusione: “Sciascia stregato dalla mafia”. Un livello di polemica che indigna Tullio De Mauro, il fratello di Mauro De Mauro, il giornalista de “L’Ora” impegnato in inchieste di mafia, scomparso un giorno del 1970 e mai più tornato e ritrovato. Dice De Mauro: “I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposte in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti, per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in una serie di innumerevoli circostanze. Un sociologo [Arlacchi, ndr] dovrebbe valutare queste cose, come dovrebbe aver capito che Sciascia aveva intuito perfettamente la struttura internazionale della mafia e i suoi stretti rapporti con il mondo della politica”.

Non solo Arlacchi. Anni fa, interpellato dal “Corriere della Sera”, il filosofo Manlio Sgalambro se ne è uscito dicendo che “Sciascia era uno scrittore civile, un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma a rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico, la sua funzione è esaurita, Sciascia non ci serve più”. E come non ricordare Andra Camilleri, che pure di Sciascia si professava amico? Anche lui a dire che Il giorno della civetta fa l’apologia della mafia, dimostrando così che si può essere bravi romanzieri la cui parola è più veloce del pensiero…E allora, prima di finire, prendiamo il toro per le corna, vediamo che fondamento può mai avere quest’accusa.

“Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’esser considerato un esperto di mafia, o come si usa dire, un mafiologo”, scrisse Sciascia sul “Corriere della Sera” del 19 settembre 1982 (“Mafia: così è, anche se non vi pare”). “Sono semplicemente uno che è nato, vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone. Sono un esperto di mafia così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfatara; a livello delle cose vissute e in parte sofferte”.

Quell’“in parte sofferte” è indicativo. C’è il ricordo del sindaco mafioso di Racalmuto, si chiamava Baldassarre Tinebra, ucciso nel corso principale del paese, tutti sanno chi è l’assassino, nessuno parla, in galera ci finisce uno che il delitto non l’ha commesso; c’è il ricordo del nonno, capo-mastro in una zolfatara, “uomo dal polso fermo che riusciva a governare la miniera senza consentire intromissioni a sgherri e gregari delle cosche, arginando le vessazioni…”.

Non era un mafiologo, Sciascia; ma di mafia capiva, vedeva, sapeva. Al punto da darne esatta rappresentazione e definizione, quando disse con fulminante battuta e amarissima ironia che dal giorno della civetta si era arrivati al giorno dell’avvoltoio. Cos’era la mafia non solo l’aveva capito; lo aveva anche scritto, in lunghe corrispondenze, per esempio, per quel bel giornale che negli anni Sessanta era “Il Giorno” voluto e finanziato da Mattei. Articoli dove si racconta di Castelvetrano, il paese del bandito Giuliano; o di Misilmeri: e quello, davvero esemplare, del 4 aprile 1940: dove descrive la realtà di Caltanissetta e di Riesi, e si riporta il dialogo in piazza “con due avvocati e un professore”, due democristiani che facevano capo alla corrente uno di Rosario Lanza, fanfaniano; l’altro di Calogero Volpe, sostenitore in quel momento di Aldo Moro; il professore invece era, diceva, di fede socialista. Nella piazza di Riesi parlano di mafia. Alla domanda di Sciascia: cosa fa, di preciso, la mafia?, “Niente fa”, risponde il socialista; e il democristiano di Volpe sorride compiaciuto. “Si diceva”, continua il socialista, “badi bene: si diceva che la buonanima dello zio…fosse un capomafia. E che faceva? Due litigavano: lo zio…li portava al caffè, pagava sempre lui, e faceva stringere loro la mano. Opera di pace”.

L’inchiesta per “Storia illustrata” si chiude con un aneddoto estremamente significativo. Un aneddoto che riguarda il mafioso italo-americano Vito Genovese, da cui Mario Puzo trarrà ispirazione per il suo “Padrino”: “Genovese, in America ricercato per omicidio, si trovava in Sicilia nel 1943-44, sistemato come interprete presso il Governo Militare Alleato. Un poliziotto di nome Dickey, che gli dava la caccia, riesce finalmente a trovarlo. Facendosi aiutare da due soldati inglesi lo arresta; gli trova addosso lettere credenziali, firmate da ufficiali americani, che dicevano il Genovese profondamente onesto, degno di fiducia, leale e di sicuro affidamento per il servizio’. Una volta arrestato, cominciano i guai, non per il Genovese, ma per il Dickey. Né le autorità americane né quelle italiane vogliono saper nulla dell’arresto. Il povero agente si trascina distro per circa sei mesi l’arrestato, e riesce a portarlo a New York soltanto quando il teste che accusava di omicidio il Genovese è morto di veleno (come il luogotenente di Giuliano, Gaspare Pisciotta, nel carcere di Palermo), in una prigione americana. Soltanto allora, cioè quando Genovese poteva essere assolto, Dickey poté assolvere il suo compito. E ci fermiamo a questo solo episodio ‘americano’ e non come si suol dire, per carità di patria; ma perché troppi, e ugualmente esemplari, dovremmo raccontarne di casa nostra”.

Il saggio “La Storia della mafia” del 1972 fa giustizia di tante pretestuose polemiche subite e patite da Sciascia; ed è lettura che va accompagnata a un’altra lettura (o rilettura): quella dell’articolo sui “Professionisti dell’antimafia” poi compreso nel volume A futura memoria, se la memoria ha un futuro” (Bompiani). Un articolo nel quale Sciascia pone una questione di metodo e di legalità fondamentali: la questione che anche l’antimafia può essere agitata a scopo di demagogia; e di come le regole debbano essere osservate sempre; se poi queste regole non sono più adatte, efficaci, vanno cambiate, ma non le si può disattendere. Valter Vecellio

“I professionisti dell’Antimafia”. Sciascia, trent’anni dopo. Leonardo Sciascia volle ammonire che la Giustizia agisce su un terreno scivoloso e colmo di insidie: sempre le stesse, scrive Fabio Cammalleri su La Voce di New York il 12 gennaio 2017. La precarietà del “Criterio Antimafia”, in questi anni, si è confermata ineliminabile. Le parole di Leonardo Sciascia riguardavano taluni interessi. Ma quali? Paolo Borsellino disse: “L’uscita [l’articolo di Sciascia, n.d.r.] mirava ad altro. Ma fu sfruttata purtroppo all’interno di una pesante corrente corporativa della magistratura..." Trent’anni fa, nel Gennaio del 1987, Leonardo Sciascia scriveva il famoso saggio breve, che il Corriere della Sera intitolò “I Professionisti dell’Antimafia”.

Oggi siamo nel 2017. La dott.ssa Silvana Saguto (e altri suoi colleghi) e la Sezione Misure di Prevenzione Antimafia del Tribunale di Palermo; Roberto Helg, già Presidente della Camera di Commercio di Palermo all’insegna dell’Antimafia, colto a riscuotere una tangente (e condannato per corruzione anche in sede di Appello, nello scorso Settembre); Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia, eletto in nome dell’Antimafia, e sottoposto ad indagine per presunte cointeressenze mafiose; Franco La Torre, figlio di Pio, che va in rotta con “Libera”, l’Associazione “contro tutte le mafie” di Don Ciotti, ritenendo che “il nostro compito si è affievolito”, e rivolgendo, a quanti, proprio sul caso Saguto, affermavano di non aver sentito bene, un perentorio: “si sturino le orecchie”. La precarietà del “Criterio Antimafia”, in questi anni, si è confermata ineliminabile: proprio per la sua origine intrinsecamente emotiva e contingente, per non dire opportunistica. Per es: il Presidente del Senato è stato designato prima, e votato poi, in ragione di meriti antimafia: ma quei meriti, pur così solennemente convalidati, sono stati ugualmente materia di polemiche al calor bianco: venute dallo stesso “ambiente di provenienza”; ancora nel Marzo 2013, a rincalzo di vecchie e mai risolte ruggini, Giancarlo Caselli sosteneva, sull’appena eletto Presidente Grasso: “ha leso la mia immagine, chiedo tutela al CSM”; e si potrebbe continuare. Quali che saranno gli esiti delle ipotesi dubbie in corso di accertamento, quali che siano le valutazioni di urti e accuse reciproche, dove dubbi non ci sono, è comunque di imbarazzante evidenza che il quadro, così delineato, mostri quanto Sciascia fosse stato lucido: al limite della profezia razionale. In quelle densissime colonne, Sciascia commentava l’opera dello storico Christopher Duggan (allievo di Denis Mack Smith), “La mafia durante il fascismo” (Rubettino, 1986). Ricordava Cesare Mori, “Il Prefetto di ferro” che il Regime, nell’Ottobre 1925, nominò per reprimere, “audacemente, apertamente”, “tutte le maffie e contromaffie”, nelle parole di Roberto Farinacci, Segretario del PNF: anche quelle al plurale, come oggi fa il democratico mainstream.

Durante il fascismo, rilevava Sciascia, col pretesto della repressione antimafiosa, una fazione più conservatrice ridusse all’impotenza un’altra fazione, “che approssimativamente si può dire progressista, e più debole”. Entrambe fazioni fasciste, una usò l’antimafia contro l’altra: al fine ultimo di conseguire “un potere incontrastato e incontrastabile”. Sicché, concludeva Sciascia, il rischio era ed è, in ogni tempo, in ogni assetto costituzionale, che ne risulti un Apparato autoritario a sè stante, insofferente di controlli e reali responsabilità: “…retorica aiutando e spirito critico mancando”. Nel 1987, scriveva “può benissimo accadere”: ma, provenendo da Enzo Tortora era fin troppo evidente che per lui era già accaduto. Si ricorderà che in quelle righe Sciascia pose una questione di principio, avvalendosi di due esempi; uno evocandolo, ma non nominandolo, Leoluca Orlando; l’altro, invece, soffermandovisi espressamente: era la nomina di Paolo Borsellino quale Procuratore della Repubblica di Marsala. Il criterio, sin lì seguito, era stata l’anzianità di servizio. Per Borsellino fu ritenuto decisivo l’avere condotto istruttorie sulla criminalità di tipo mafioso. Nessuna questione personale. Borsellino, nel luglio 1991, a Racalmuto, in occasione, di un convegno sullo scrittore, fu lapidario: “Chiarimmo con Sciascia.” Un anno dopo, nel Gennaio 1988, il CSM, per la direzione dell’Ufficio Istruzione di Palermo, quello dello storico “pool”, preferì il dott. Antonino Meli a Giovanni Falcone, tornando al criterio dell’anzianità. La critica andava subito ad effetto: la mancanza di un criterio stabile, apriva la via all’arbitrio e, perciò, all’indebolimento istituzionale della magistratura. Ma, anzichè riconoscerlo, con maneggio retorico e improntitudine mestierante, si volle far carico di quell’indebolimento, e in non minima parte, proprio al saggio dell’anno prima. E non solo: Sciascia avrebbe offerto la copertura del suo nome ad interessi più o meno inconfessabili. In questo rovesciamento delle parti si distinsero Eugenio Scalfari, Gianpaolo Pansa e il Coordinamento Antimafia di Palermo.

Le parole di Sciascia riguardavano taluni interessi: questo è sicuro. Ma quali? Sentite Borsellino, ancora a Racalmuto: “L’uscita [l’articolo di Sciascia, n.d.r.] mirava ad altro. Ma fu sfruttata purtroppo all’interno di una pesante corrente corporativa della magistratura, che sicuramente non voleva quei giudici e quei pool”. Una pesante corrente della magistratura. Ecco il punto: dove lo scrittore e il giudice, che si volevano avversari, se non nemici, pianamente concordavano. Non per nulla, Borsellino tornò su quella mancata nomina. Lo fece il 25 Giugno del 1992, a Casa Professa, una notissima chiesa barocca di Palermo, nel Trigesimo della Strage di Capaci, riferendosi a Falcone, disse: “…non voglio dire che…cominciò a morire…nel Gennaio 1988, e che questa strage del maggio 1992 sia il naturale epilogo di questo processo di morte…”. E poi: “…la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro…”. Il Gennaio 1988 è quello della bocciatura di Falcone, ad opera del CSM. Non voglio dire: cioè, lo dico. A questa frase, “cominciò a morire. Nel Gennaio 1988…”, Borsellino pone un inciso: “…se non forse l’anno prima, in quella data che ora ora ha ricordato Luca Orlando…”. Orlando aveva richiamato l’articolo su “I Professionisti dell’Antimafia”. A questo inciso si è aggrappata ogni sorta di rimasticatura che potesse aduggiare Sciascia: in vita, e dopo. Ma era quello stesso Orlando che aveva accusato Falcone di “tenere nei cassetti” le inchieste sugli omicidi c.d. politico-mafiosi (Reina, Mattarella, La Torre, Insalaco). Da escludersi, perciò, che una “concordia antisciasciana”, includendo Borsellino, fosse sorta dopo Capaci. Quelle ultime parole di Borsellino, appena pronunciate, vollero semmai unilateralmente mitigare le improvvide asprezze di Orlando, in un momento di specialissima tensione. Invece, quanto già sostenuto a Racalmuto non era stato detto per inciso: poichè, mentre assicurava sull’intervenuto chiarimento, aveva mosso un’accusa precisa: “…una pesante corrente della magistratura…”; e quella sera, infatti, a Palermo, il cuore dell’invettiva sarebbe tornata ad essere la magistratura: “…ha più colpe di ogni altro…”, “…epilogo di questo processo di morte…”, non Leonardo Sciascia.

La voce che si impenna, lacerando un silenzio attonito; gli epiteti, “…Giuda…”, che sanguinano sofferenza; lo sguardo, che è un giuramento di verità, tutto insomma, come ciascuno di voi può constatare semplicemente riandando al filmato di quell’ultimo discorso di Borsellino, lo dimostra con purezza di intendimenti, pari solo al calore e alla grandezza dell’uomo. Nel saggio dello storico inglese, fra l’altro, si legge che quello era “…un ambiente in cui le accuse di criminalità erano un’arma politica fondamentale…” (Op. cit. pag. 11) ; “ …l’accusa di ‘mafia’ o di ‘mafioso’…veniva sfruttata per scopi politici. Tali accuse potevano distruggere non solo singoli individui, ma intere fazioni ed amministrazioni.” (ibidem, pag. 100); se una proprietà era ritenuta sospetta, con un provvedimento amministrativo era dichiarata “centro infetto” “…i criteri per dichiarare infetta una proprietà erano molto ampi…” (ibidem, pag. 155).

Leonardo Sciascia ovviamente non ne scrisse a caso. Volle ammonire che la Giustizia agisce su un terreno scivoloso e colmo di insidie: sempre le stesse. E questo gli immemori, i mestatori, di ogni ruolo, in ogni sede, allora e ora, non glielo possono perdonare.

FABIO CAMMALLERI. Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

Leonardo Sciascia, polemista "A futura memoria". Leonardo Sciascia (1921-1989) prese posizioni eretiche. Talvolta fino all’abbaglio (non solo su Borsellino, anche su Pertini). Ma con ironia, senza esibizionismi. I suoi scritti politici e civili tornano ora a dimostrarlo, scrive Simonetta Fiori il 13 marzo 2017 su “La Repubblica”. «Questo libro raccoglie quel che negli ultimi dieci anni io ho scritto su certi delitti, certa amministrazione della giustizia; e sulla mafia. Spero venga letto con serenità». Così nel novembre del 1989 Leonardo Sciascia si accomiatava dalla raccolta dei suoi scritti politici e civili A futura memoria – titolo tipicamente sciasciano, inclusa la parentesi scettica che lo completa (se la memoria ha un futuro). È il suo ultimo libro. Gliel’aveva proposto Mario Andreose, il direttore editoriale di Bompiani – una scelta degli articoli usciti prevalentemente sull’Espresso e sul Corriere della Sera – e Sciascia acconsentì, ma a condizione che fosse l’editore ad occuparsi della ricerca: a lui mancavano già le forze. E così avvenne. L’apporto dello scrittore fu minimo, ma paradossalmente ancora più che in altri lavori la sua personalità affiora da ogni rigo, da ogni ragionamento analitico, da ogni invettiva impastata di ironia. L’autore non fece a tempo a vedere il volume stampato, ma di quegli scritti conosceva bene gli argomenti condotti spericolatamente sulla linea di confine. Le critiche al prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. La campagna contro i «professionisti dell’antimafia». I protratti attacchi alla «casta intoccabile» dei magistrati, lasciati impunemente liberi nella «irresponsabilità».  E oggi la preghiera messa alla fine dell’introduzione – leggetemi con serenità – appare come una delle sue ultime provocazioni, nella consapevolezza del fuoco polemico che la silloge sprigionava. Perché la sua, in fondo, era una voce perennemente contro. Contro «l’astrale stupidità» della sinistra che aveva combattuto anche dalle file del Partito radicale. Contro «luoghi comuni» e «conformismi» da lui ricondotti al perbenismo forcaiolo della gauche intellettuale.  E forse perfino contro lo stesso Sciascia, grazie al quale moltissimi italiani avevano imparato cos’era la mafia. Quasi trent’anni dopo – in occasione della nuova edizione adelphiana per la preziosa cura di Paolo Squillacioti – l’appello alla serenità non può che essere accolto. Anche in omaggio a una formidabile tipologia che oggi appare quasi del tutto smarrita, l’intellettuale civile che non esita a mettere la faccia su fatti di cronaca e scelte della politica, sui fenomeni sociali e fondamentali questioni del diritto. Per dieci anni – dal 1979 al 1989, una decade tumultuosa nella storia italiana – Sciascia non esitò a dire la sua sulla giustizia ingiusta e sugli omicidi di mafia (Cesare Terranova, Piersanti Mattarella oltre che il generale dalla Chiesa). A differenza di Pier Paolo Pasolini che amava ricorrere alle metafore, negli interventi politici resta essenzialmente uno scrittore di cose, secco, asciutto, impregnato di letterarietà ma mai incline alla fantasia poetica dinanzi all’urgenza quotidiana. Antimonumentale per scelta, chissà come avrebbe accolto oggi gli incensamenti di chi ne vuole fare il profeta infallibile, anticipatore del degrado che tinge di mafia l’antimafia. A lui piaceva quel film di Duvivier, ambientato in una casa di riposo per attori, dove alla morte di un ospite l’amico più caro si fa prendere dall’enfasi celebrativa – «interprete inarrivabile», «straordinario protagonista...» – per fermarsi all’improvviso «no, non posso dire questo». E solo allora – annota Sciascia – «dalla verità sorge l’elogio più vero e commovente». Verità. Bussare alle porte della verità: un’immagine che si trova di frequente nei suoi scritti. Vi è sempre riuscito Sciascia? Sicuramente ci ha provato, con esiti alterni. Appena morto Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso da un kalashnikov della mafia il 3 settembre del 1982, sul Corriere della Sera lo scrittore ne lamenta leggerezza nella difesa – per non pesare sulla giovane moglie, avrebbe aggiunto – e scarsa comprensione del nuovo fenomeno mafioso. Dinnanzi alla reazione del figlio Nando – trentatré anni, spinto dallo sperdimento e dal dolore a dire anche cose molto sbagliate – Sciascia non sembra conoscere temperanza verso quel «piccolo mascalzone», «privo di intelligenza» e «carico di ambizione-abiezione»: certo ferito dalle accuse ingiuste, ma privo della pietas che si deve a un orfano a cui hanno appena ammazzato il padre. Ma l’acme polemico viene raggiunto cinque anni dopo, il 10 gennaio del 1987, con il celebre articolo sui «professionisti dell’antimafia», espressione che non compare nel testo ma è frutto dell’invenzione di un abile titolista del Corriere (successivamente fatta propria da Sciascia). Partendo da un saggio di Christopher Duggan sulla mafia in Sicilia sotto Mussolini, Sciascia rileva come all’epoca la lotta contro la criminalità fosse diventata uno «strumento di potere» nella lotta tra fazioni all’interno del fascismo. Un rischio – aggiungeva – ancora presente nel regime democratico. I sintomi di questa degenerazione? I comportamenti di due personaggi, in particolare. Un sindaco troppo impegnato in esibizioni antimafiose per potersi occupare dell’amministrazione di Palermo (non lo cita, ma è Leoluca Orlando) e un magistrato promosso procuratore della Repubblica a Marsala non per anzianità ma per meriti acquisti nella sua lotta contro la delinquenza mafiosa – con la conseguenza che dell’incarico veniva privato il legittimo candidato, il dottor Alcamo (si tratta di Paolo Borsellino, questa volta apertamente citato). Conclusione dell’articolo: «I lettori comunque prendano atto che nulla vale più in Sicilia per fare carriera nella magistratura del prendere parte a processi di stampo mafioso». Borsellino era allora uno dei componenti (insieme a Falcone) del pool antimafia creato da Antonino Caponnetto, giudice istruttore del maxiprocesso che avrebbe messo fine all’impunità di Cosa Nostra. La frase di Sciascia cadde come una grandinata sui giudici impegnati in trincea e sull’opinione pubblica che guardava con speranza al dibattimento palermitano. Con Borsellino si sarebbero poi chiariti: splendide foto scattate l’anno successivo a Marsala li ritraggono allegri e conviviali. Disse la verità allora Sciascia? Oggi si tende a celebrarne la carica premonitrice, riferendo le sue analisi a chi fa carriera grazie alla retorica e al mantra vittimario, allo spettacolo malinconico di nobili paladini dell’antimafia inquinati dalla mafia. Ma allora? Anche Borsellino dedito all’«eroismo che non costa nulla»? Anche lui «eroe della sesta giornata», come a Milano viene bollato chi si prende il merito a cose fatte? Il grande merito di Sciascia è che fino all’ultimo non spense mai sulla mafia il lume dell’opinione pubblica, denunciandone le connivenze con la politica, la capacità di infiltrazione, i silenzi omertosi della Chiesa.  E invocando costantemente l’indagine fiscale e patrimoniale come strumento risolutore del crimine. Così come non arretrò mai di un millimetro nelle sue battaglie autenticamente garantiste contro la retorica delle manette e contro la cattiva amministrazione della giustizia, di cui rinvenne un simbolo in Enzo Tortora, da lui sostenuto fin dalle prime accuse – e qui sì, voce solitaria e lungimirante nella canea scatenata contro il conduttore. All’accusa di vanità mossa una volta da Eugenio Scalfari, si ritrasse con un passo di George Bernard Shaw: «I negri prima li si costringe a fare i lustrascarpe e poi si dice che sanno fare solo i lustrascarpe. Così prima mi si attacca poi mi si fa rimprovero di essere attaccato». In realtà quella del polemista fu una vocazione più che una costrizione. E della sua biografia di eretico, pronto a immolarsi sugli altari dell’inquisizione progressista, gli piaceva farsi vanto. «Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità». Non cercò mai la popolarità a buon mercato, la simpatia esibita lo irritava. A tal punto che neppure davanti a un personaggio seduttivo come Sandro Pertini riuscì ad ammorbidire la sua scontrosità (che «può apparire perfino come arroganza, ma non è che timidezza e discrezione», corresse nell’introduzione di A futura memoria).  L’episodio del loro incontro viene rievocato nelle prime pagine e colpisce una frase messa tra parentesi, cassata nell’edizione Bompiani forse per eccesso di prudenza verso l’ex presidente ancora vivo: «Il popolarissimo Pertini; ma quanti uomini rappresentativi sono stati popolarissimi in Italia e poi sono apparsi, se non nefasti, apportatori di guai?». Una domanda che, seppur mossa da un bersaglio sbagliato, ha il sapore amaro – questa volta sì – della profezia.

I gendarmi dell’antimafia processarono Sciascia, scrive Valter Vecellio il 10 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il 10 gennaio di trent’anni fa. Il Corriere della Sera pubblica un lungo articolo di Leonardo Sciascia, redazionalmente intitolato “I professionisti dell’antimafia” (e sarà questo titolo a provocare lo scandalo e non il contenuto, che con molto anticipo, come sempre quando si tratta di Sciascia, mette in guardia da rischi e pericoli che puntualmente poi si avverano e verificano). Quell’articolo viene accolto da una quantità di polemiche animate da tanti, in cattiva, pessima fede; e da qualcuno (pochissimi, invero) in buona fede. E culmina con l’insulto, l’accusa, scagliati con cattiveria: Sciascia è diventato un “quaquaraquà”. La lascio per ultima, la domanda. Di tempo ne è trascorso, ma ho timore di riaprire una ferita che non si cicatrizza. La donna che mi siede davanti, gentile, minuta, che parla con a bassa voce e ricorda nel tratto il suo grande padre, è Annamaria Sciascia; e sono nel salotto della sua casa di Palermo. La risposta la immagino, la telecamera ronza, l’operatore attende. Ecco, lo dico: Leonardo suo padre è stato spesso al centro di tante polemiche, alcune hanno comportato la insanabile rottura con amicizie consolidate. Quel è stata la polemica che a lui, ma anche a voi della famiglia vi ha maggiormente ferito? «L’ultima: quella sui professionisti dell’antimafia», risponde Anna Maria. «Ed è una polemica che continua a tormentarci, non si è mai sopita, non finisce mai: c’è sempre qualcuno che la ritira fuori, strumentalmente; questo è il dolore e il dispiacere più grande: vedere la malafede e non poter fare nulla. Nella lettera che mio padre ci lasciò prima di morire lui ci raccomandava di non perdere tempo a difendere la sua memoria; e quindi quando vedo mio marito o i miei figli agitati per queste polemiche dico loro di tenere conto di quanto ci ha raccomandato, che è tempo perso, perché un familiare che difende è un po’ patetico. Però fa male, questa è una polemica che gli ha avvelenato sicuramente gli ultimi anni, perché lo hanno accusato in modo volgare, meschino». Non meritava (e non merita) assolutamente la caterva di insulti che Sciascia ha dovuto subire. Ricordiamola quella polemica, a costo di rinnovare pena e dolore; perché di certe cose, di certe affermazioni è doveroso serbare memoria, non dimenticare. E’ il 10 gennaio di trent’anni fa. Il Corriere della Sera pubblica un lungo articolo di Leonardo Sciascia, redazionalmente intitolato “I professionisti dell’antimafia” (e sarà questo titolo a provocare lo scandalo; non il contenuto, che con molto anticipo, come sempre quando si tratta di Sciascia, mette in guardia da rischi e pericoli che puntualmente poi si avverano e verificano). Quell’articolo viene accolto da una quantità di polemiche animate da tanti, in cattiva, pessima fede; e da qualcuno (pochissimi, invero) in buona fede. E culmina con l’insulto, l’accusa, scagliati con cattiveria: Sciascia è diventato un “quaquaraquà”. Apro una parentesi, prima di continuare il racconto di quella vicenda: si tratta di un consiglio: procuratevi “La storia della mafia” di Leonardo Sciascia, qualche anno fa meritoriamente pubblicata dalle edizioni Barion. Si tratta di uno smilzo volumetto di una settantina di pagine; il testo di Sciascia è accompagnato da “Io, Nanà e i don”, di Giancarlo Macaluso, e impreziosito da una postfazione di Salvatore Ferita. Un testo, quello di Sciascia che, a distanza di anni è ancora di utile, preziosa lettura. Perché questo «consiglio»? Perché quella «storia della mafia» dice tanto, tutto dell’impegno politico, culturale, civile, umano di Sciascia; come lo dicono i suoi articoli pubblicati su Il Giorno, L’Ora e Mondo nuovo negli anni Sessanta; e come, infine dice “Il giorno della civetta”: romanzo che parla all’Italia per la prima volta di una cosa che si chiama mafia. Sapete, sembra incredibile: Sciascia è il primo scrittore siciliano che parla di mafia. Prima di lui non lo ha fatto Luigi Pirandello, non lo ha fatto Giovanni Verga, Luigi Capuana, Tomasi di Lampedusa… nessuno. Il 10 gennaio del 1987 lo scrittore civile e anti- mafioso, buono e coraggioso scopre di essere una sorta di Gregorio Samsa, il protagonista delle kafkiane Metamorfosi, che si corica uomo, e si sveglia il mattino dopo scarafaggio. E’ “colpevole” di aver posto, quel mattino, con quell’articolo, un problema essenziale, che ancora oggi ci si deve porre (e che molto spesso la cronaca conferma di grande attualità). L’essenza di quell’articolo è che non si può derogare dal diritto; che non si può piegare una legge, una norma a seconda della contingente convenienza: se quella legge o quella norma sono sbagliate, inefficaci, non le si può aggirare, magari pensando di usarle in altra, conveniente, occasione. Le leggi e le regole sbagliate si cambiano; e fino quando non si cambiano, si applicano. Non ci può essere: fingere che la norma non ci sia quando si tratta di attribuire un (meritato) vertice di procura a Marsala, a Paolo Borsellino; è contemporaneamente farsi forte di quella norma, in altra occasione, per impedire a Giovanni Falcone di ricoprire un incarico apicale a palazzo di Giustizia di Palermo, e che certamente meritava e avrebbe ricoperto in maniera eccellente. Parte da un libro, Sciascia, dello storico inglese Christopher Duggan e che tratta della ma- fia negli anni del fascismo; parlandone Sciascia ammonisce che l’antimafia, facilmente, si può trasformare in strumento di potere; e lo può benissimo diventare anche in un sistema democratico, «retorica aiutando, e spirito critico mancando». Si fa poi il caso di un sindaco, Leoluca Orlando, leader allora di un movimento di marcata venatura giustizialista; molto attivo nell’azione agitatoria anti- mafiosa, molto meno efficace nell’azione di amministratore della città. Allora come ora, del resto. E, giusto per ricordare, l’impegno anti- mafioso, suo, di Alfredo Galasso e Carmine Mancuso è giunto al punto di denunciare Giovanni Falcone al Consiglio Superiore della Magistratura, con l’accusa di occultare la verità sui delitti politico- mafiosi nei cassetti della sua scrivania. Ma questa come si dice, è altra storia. Scritto quello che Sciascia voleva scrivere, si sono aperte le cataratte degli sdegnati indignati sdegnosi. Impossibile citarli tutti. Diamone qui qualche assaggio. Il coordinamento antimafia di Palermo definisce Sciascia un “quaquaraquà”. Giampaolo Pansa sostiene di non riconoscere più Sciascia, facendo l’operazione più disumana che si può fare nei confronti di una persona: negarla. Sciascia viene additato come una sorta di responsabile dell’isolamento di Borsellino e Falcone, quasi un responsabile degli attentati in cui vengono uccisi. Anni dopo, quando le polemiche del momento sono sopite, nella prima puntata di “Vieni con me”, Roberto Saviano sposa questa “scuola di pensiero”. Ma tantissimi altri con lui, prima e dopo. Procedo ora per ricordi. Oreste del Buono, per altro mite e gentile direttore di Linus e mille altre cose ancora. Accusa Sciascia, di essere un poco mafioso, e conseguentemente di lanciare “avvertimenti” (mafiosi, beninteso) verso chi dissente dal tripudio generale nei suoi confronti. Il già ricordato Pansa prova per «il nuovo Sciascia una gran pena. A me pare che Sciascia si è messo a combattere con Sciascia. Sciascia contro Sciascia. Impegnato a demolire articolo dopo articolo, l’immagine di se stesso». Claudio Fava dipinge un «Leonardo Sciascia, ormai travolto dagli anni e da antichi livori…»; Nando Dalla Chiesa, che sostiene di averci pensato a lungo, e di essere giunto «… alla conclusione che Il giorno della civetta è uno splendido libro sulla mafia, una fotografia perfetta, ma non uno strumento di lotta contro la mafia». Arrivano poi gli attacchi e le volgarità postume. Pino Arlacchi su La Repubblica sostiene che Sciascia non può essere considerato un maestro, «perché gravissimi furono i suoi silenzi, mentre altri sfidavano le cosche; II giorno della civetta in realtà fa l’apologia di Cosa Nostra». Testuale: «Una storia ben narrata della sconfitta della giustizia dello Stato e dei suoi rappresentanti di fronte a un delitto di mafia». Trascurabile il fatto che ciò che viene raccontato nel libro era quello che in quegli anni accadeva; irrilevante che sia stato grazie a Sciascia e al suo libro che se ne è avuta, finalmente percezione e conoscenza. Tutto ciò, per Arlacchi diventa una sorta di complicità. E, infatti: «Dei due maggiori personaggi del racconto, il capitano dei carabinieri e il capobastone locale, è il secondo che colpisce sovrasta». Conclusione: «Sciascia stregato dalla mafia». Un livello di polemica che indigna il compianto Tullio De Mauro, il cui fratello Mauro, giornalista de L’Ora impegnato in inchieste di mafia, scompare un giorno del 1970, mai più ritrovato. Dice De Mauro: «I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposte in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti, per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in una serie di innumerevoli circostanze. Un sociologo [Arlacchi, ndr] dovrebbe valutare queste cose, come dovrebbe aver capito che Sciascia aveva intuito perfettamente la struttura internazionale della mafia e i suoi stretti rapporti con il mondo della politica». Non solo Arlacchi. Interpellato dal Corriere della Sera, il filosofo Manlio Sgalambro dice che «Sciascia era uno scrittore civile, un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma a rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico, la sua funzione è esaurita, Sciascia non ci serve più». E come non ricordare Andrea Camilleri, che pure di Sciascia si professa amico? Anche lui a dire che Il giorno della civetta fa l’apologia della mafia, dimostrando così che si può essere bravi romanzieri la cui parola è più veloce del pensiero. Pochi, a fianco di Sciascia, come spesso accadeva: Marco Pannella, i radicali, Rossana Rossanda, qualche socialista come Claudio Martelli; altri ce ne saranno stati, ma non molti. Anche loro sommersi dal coro violento e protervo degli inquisitori, flebile, allora, la loro voce, a fronte degli schiamazzanti crucifige. A questo punto, prendiamo il toro cui ad un certo punto si legge: “Non può essere consentito al giudice lo stravolgimento delle regole probatorie da applicare solo ai processi di mafia; necessita sempre un serio e rigoroso controllo di tutti gli elementi del reato: le prove devono assumere carattere di certezza e gli indizi devono essere concordanti ed univoci; non c’è ingresso nel processo penale ai semplici sospetti e alle generiche opinioni. La lotta concreta al crimine potrà essere fatta solo con la seria utilizzazione degli strumenti normativi”. Parole che credo nessuna persona onesta e intelligente rifiuterebbe di sottoscrivere». Il sottolineato è mio: «Richiamo alle regole… modalità della sua nomina che mi sono apparse e mi appaiono preoccupanti». Siamo all’oggi. Ha solo qualche mese di “vecchiaia” un agile libretto scritto da Francesco Forgione, già parlamentare di Rifondazione Comunista, vice- presidente della passata commissione antimafia. Nulla so di Forgione, mi basta quello che scrive nel suo “I tragediatori, la fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti” (Rubbettino). Si può cominciare con un brano della prefazione scritta dall’ex magistrato Giuseppe Di Lello, a suo tempo, stretto collaboratore di Giovanni Falcone nel pool antimafia: «… Lo scopo dichiarato del libro di Forgione è analizzare i motivi profondi di una svolta rovinosa, individuando tutti i pericoli di un’antimafia opportunista e di facciata. Siamo infatti in una fase in cui tutto appare confuso e, per le tante ambiguità di molti protagonisti di vicende che interessano la lotta alla mafia, sembra difficile capire dove si situa il confine tra un’azione di contrasto seria ed efficace e comportamenti che, con il paravento dell’antimafia, sconfinano a volte nell’illiceità o quantomeno nel malcostume…». Ognuna delle 120 pagine del libro di Forgione è una conferma di quel monito contenuto in quell’articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Nella montagna di ritagli che ingombrano il mio tavolo di lavoro, uno del 7 aprile di quest’anno, è un editoriale di Paolo Mieli, prima pagina del Corriere della Sera. Comincia così: «Adesso dovremmo per le corna, vediamo che fondamento può mai avere quest’accusa. «Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’esser considerato un esperto di mafia, o come si usa dire, un mafiologo», scrive Sciascia sul Corriere della Sera del 19 settembre 1982 (“Mafia: così è, anche se non vi pare”). «Sono semplicemente uno che è nato, vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone. Sono un esperto di mafia così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfatara; a livello delle cose vissute e in parte sofferte». Quell’“in parte sofferte” è indicativo. C’è il ricordo del sindaco mafioso di Racalmuto, si chiamava Baldassarre Tinebra, ucciso nel corso principale del paese, tutti sanno chi è l’assassino, nessuno parla, in galera ci finisce uno che il delitto non l’ha commesso; c’è il ricordo del nonno, capo- mastro in una zolfatara, «uomo dal polso fermo che riusciva a governare la miniera senza consentire intromissioni a sgherri e gregari delle cosche, arginando le vessazioni…». Non era un mafiologo, Sciascia; ma di mafia capiva, vedeva, sapeva. Al punto da darne esatta rappresentazione e definizione, quando disse con fulminante battuta e amarissima ironia che dal giorno della civetta si era arrivati al giorno dell’avvoltoio. Il 14 gennaio 1987 Sciascia pubblica sempre sul Corriere della Sera dove replica alle accuse: «Il comunicato del cosiddetto Coordinamento antimafia è la dimostrazione esatta che sulla lotta alla mafia va fondandosi o si è addirittura fondato un potere che non consente dubbio, dissenso, critica. Proprio come se fossimo all’anno 1927. Nel mio articolo del 10 gennaio, c’era in effetti soltanto un richiamo alle regole, alle leggi dello Stato, alla Costituzione della Repubblica: e questo cosiddetto Coordinamento – frangia fanatica e stupida di quel costituendo o costituito potere – risponde con una violenza che rende più che attendibili le mie preoccupazioni, la mia denuncia. Ne sono soddisfatto: si sono consegnati all’opinione di chi sa avere un’opinione, nella loro vera immagine. Ed è chiaro che non da loro né da chi sta dietro di loro – e ne è riconoscibile (si dice per dire) lo stile – verrà una radicale lotta alla mafia. Loro sono affezionati alla “tensione”, e si preoccupano che non cada. Ma le “tensioni” sono appunto destinate a cadere: e specialmente quando obbediscono a giochi di fazione e mirano al conseguimento di un potere. In quanto al dottor Borsellino, non ho messo in discussione la sua competenza, che magari può essere oggetto di discussione per i suoi colleghi; sono le modalità della sua nomina che mi sono apparse e mi appaiono preoccupanti. Ed è proprio nella sentenza di un processo che mi pare sia stato appunto istruito dal dottor Borsellino, sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Palermo, seconda sezione, il 10 novembre dell’anno scorso, che trovo la migliore ragione, perché non ci si acquieti agli intendimenti del cosiddetto Coordinamento. Una sentenza che ha mandato assolti gli imputati e in tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia…»; e via così, per tre- quattromila parole. Viene lapidato, Sciascia, per averci messo in guardia dai disastri che proliferano, letali, «retorica aiutando, e spirito critico mancando». Trent’anni fa, ma sono bacilli di una “peste” sopita. Forse. Una melassa uniforme che incombe su tutti, e tutto avvolge. Una minaccia totalitaria, la cui cifra è costituita dall’assenza di memoria, di conoscenza, di “sapere”; una minaccia fatta di certezze, di assenza di dubbio.

La profezia avverata di Sciascia sui professionisti dell’antimafia. Quello appena concluso è stato l’anno della caduta di alcuni «miti», in particolare personaggi simbolo della lotta alla criminalità finiti sotto processo, scrive Felice Cavallaro l'8 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Adesso che dal palcoscenico di un’antimafia di facciata rotola uno stuolo di “professionisti” travestiti da politici, imprenditori, giornalisti, preti, magistrati “duri e puri”, la profezia di Leonardo Sciascia viene spesso richiamata e condivisa anche da chi contestò lo scrittore eretico di Racalmuto. A trent’anni dalla pubblicazione del famoso e discusso articolo. Tanti ne sono trascorsi dal 10 gennaio 1987, quando nelle edicole e nella vita pubblica irruppe il provocatorio titolo del Corriere della Sera sui “professionisti dell’antimafia”. Con la sua profetica lungimiranza, senza che nessuno potesse allora immaginare la deriva dei nostri giorni, in tempi recenti segnata perfino dall’assalto di famelici magistrati ed avvocati sulla gestione dei beni confiscati, Sciascia, dal suo buen retiro di Contrada Noce, dalla casa di campagna a dieci minuti dai Templi di Agrigento, provava a smascherare i rischi dell’impostura, di una antimafia da vetrina. E ne aveva titolo, lui che la mafia l’aveva fatta diventare caso nazionale negli anni Sessanta con saggi e romanzi, sbattendola in faccia ad una opinione pubblica distratta, ad una classe dirigente spesso connivente, indicando la strada da perseguire, quella dei soldi, delle banche, delle tangenti. Trent’anni dopo l’impostura è drammaticamente confermata dalla “caduta dei miti”, come la definisce l’ex presidente dell’Antimafia Francesco Forgione nel suo libro “I tragediatori”. E’ il caso di Silvana Saguto, la magistrata dei beni confiscati, del presidente della Camera di commercio Roberto Helg, beccato con una tangente da 100 mila euro accanto allo sportello antiracket intitolato a Libero Grassi. Incriminati il direttore di TeleJato Pino Maniaci per estorsione e un altro giornalista di Castelvetrano come prestanome di boss. Mentre non si placa la lite interna a Libera fra Don Ciotti e il figlio di Pio La Torre. E si è in attesa di una estenuante definizione dell’inchiesta tutta da chiarire dopo due anni sul presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante. Ma, quando ancora la trincea di Palermo era insanguinata dall’attacco dei boss e mentre qualche buon risultato già arrivava dal maxi processo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nel 1987 quel titolo scatenò una reazione scomposta. Animata anche da un gruppo di giovani (e meno giovani) costituiti in “Comitato antimafia”, decisi a rovesciare addosso allo scrittore un nomignolo coniato ne “Il giorno della civetta”. Si, lo definirono “quaquaraquà”. Prendendo spunto dalla classificazione dell’umanità richiamata nel confronto fra il padrino di quel libro, don Mariano Arena, e l’uomo dello Stato, il capitano Bellodi. Molti lo difesero, ma scattò una delegittimazione di Sciascia, criticato anche da Pino Arlacchi, Eugenio Scalfari, Nando Dalla Chiesa, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, pronti a protestare contro un articolo interpretato come un attacco a Leoluca Orlando e a Paolo Borsellino. Il riferimento all’allora sindaco di Palermo c’era davvero. Stimolo, diceva Sciascia, per evitare di ridurre l’amministrazione della cosa pubblica al solo rafforzamento dell’“immagine” personale. Una spinta a far prevalere scelte concrete sugli imbellettamenti superficiali della città. Spunto per spiegare che pesano di più i fatti e non le parole, che “vera antimafia è un acquedotto in più, anche a costo di un convegno in meno”. E, forse, Orlando ha anche apprezzato l’indicazione, con gli anni. Il secondo bersaglio non era Borsellino. Come Borsellino capì. Nel mirino c’era il massimo organo di autogoverno della magistratura, il Csm, che, avendo fissato delle regole per le carriere interne, non le applicava. Come accadde quando, per la poltrona di procuratore a Marsala, fu scelto lo stesso Borsellino al posto di un suo collega, virtualmente con più titoli, stando a quelle regole. Borsellino capì che non era un attacco a lui e lo disse a Racalmuto nel 1991 presentandosi ad un convegno nel paese di Sciascia, insieme con Falcone e con l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli: “Chiarimmo con Sciascia. L’uscita mirava ad altro. Ma fu sfruttata purtroppo all’interno di una pesante corrente corporativa della magistratura che sicuramente non voleva quei giudici e quei pool”. E, un anno dopo l’articolo, se ne ebbe conferma. Perché quella stessa elastica interpretazione fu utilizzata all’interno della magistratura per impedire a Falcone di guidare l’Ufficio Istruzione. A distanza di trent’anni, tanti pensano ancora che in quell’occasione sarebbe stato preferibile eliminare dall’articolo ogni margine di equivoco. Proprio per evitarne un uso strumentale. E Sciascia ebbe modo di parlarne con Borsellino, a Marsala, fra testimoni come Mauro Rostagno, il regista Roberto Andò, il suo amico Aldo Scimè. Si scatenò però un attacco astioso all’uomo, perdendo di mira la questione posta, e mischiando così le carte con quel nomignolo. Come ammettono oggi tanti di quei giovani coinvolti nel Comitato antimafia. Un po’ pentiti. E’ il caso di studenti come Pietro Perconti e Costantino Visconti. Il primo oggi prorettore a Messina, il secondo professore di diritto penale, un’autorità in materia antimafia con il suo maestro Giovanni Fiandaca, autore di un libro fresco di stampa, “La mafia è dappertutto. Falso!”. Una mazzata agli impostori caduti da quel palcoscenico, commenta: “L’antimafia si è fatta potere”. Ed ancora: “Lui guardava con le lenti della profezia, più avanti, noi calati nel presente fino ai capelli eravamo una sparuta minoranza. Non potevamo prevedere gli effetti connessi ad una antimafia che si faceva essa stessa potere”. Riflessioni fatte proprie da un altro leader di quel Comitato, Carmine Mancuso, poliziotto, figlio dell’agente di scorta caduto con il giudice Cesare Terranova, ex senatore: “Una lucidità profetica, quella di Sciascia”. Stessa posizione di Angela Lo Canto, la pasionaria del Comitato, poi consigliera comunale con Orlando, adesso ben lontana dal sindaco: “Sciascia vide dove nessun altro poteva vedere. In quel momento storico considerammo l’uscita infelice. Ma quel ‘quaquaraquà’ ci scappò di mano...”. Vergato da un giovane racalmutese, Franco Pitruzzella, poi arruolato nel gruppo dei collaboratori dei magistrati impegnati nel processo contro Andreotti. Forse l’unico non pentito. A differenza di altri due studenti oggi dirigenti di polizia a Palermo, Giuseppe De Blasi, allora da 110 e lode, adesso in questura, e Giovanni Pampillonia, capo della Digos. Entrambi ormai da tempo faccia a faccia con le nuove imposture che ogni volta fanno pensare alla profezia.

I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA.

Citazioni di Leonardo Sciascia, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo all’acqua di rose:

«…l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà... Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini... E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi... E ancora più in giù: i piglianculo, che vanno diventando un esercito... E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre... » (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961).

«.. Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961).

«Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole, vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966).

«I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia ?» (Leonardo Sciascia, I professionisti dell'antimafia, da Il Corriere della Sera, del 10 gennaio 1987).

“Persecuzioni che vanno evitate” scriveva Lino Iannuzzi sul “Tempo” del 23 ottobre 2008 riferendosi all’assoluzione di Calogero Mannino.

“Più che condannarlo per mafia, ne volevano fare un pentito, il primo grande pentito della politica. Se ci fossero riusciti, probabilmente la storia dei grandi processi di mafia ai politici darebbe stata diversa, i professionisti dell'antimafia non ne sarebbero usciti così clamorosamente sconfitti.”

Se tutto è mafia, niente è mafia, scrive Piero Sansonetti il 5 luglio 2017, su "Il Dubbio". L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio le leggi di emergenza applicandole persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. Le leggi d’emergenza in genere violano lo “stato di diritto” in nome dello “stato d’eccezione”. Ed è lo stato d’eccezione la fonte della loro legittimità. Quando termina lo stato di eccezione – che per definizione è temporaneo – in una società democratica, torna lo Stato di diritto e le leggi d’emergenza si estinguono. La mafia in Italia ha avuto un potere enorme, e una formidabile potenza di fuoco, dagli anni Quaranta fino alla fine del secolo. È stata sottovalutata per quasi quarant’anni. I partiti di governo la ignoravano, e anche i grandi giornali si occupavano assai raramente di denunciarla, e in molte occasioni ne negavano persino l’esistenza. Parlavano di malavita, di delitti, non riconoscevano la presenza di una organizzazione forte, articolata, profondamente collegata con tutti i settori della società e infiltrata abbondantemente in pezzi potenti dello Stato. È all’inizio degli anni Ottanta che in Italia matura una nuova coscienza che mette alle strette prima Cosa Nostra, siciliana, poi le altre organizzazioni mafiose del Sud. Ci furono due novità importanti: la prima fu un impegno maggiore e molto professionale della magistratura, che isolò le sue componenti “collaborazioniste” e mise in campo alcuni personaggi straordinari, come Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, uccisi uno ad uno nell’ordine – tra il ‘ 79 e il ‘ 92. La seconda novità fu l’emergere di una componente antimafiosa nello schieramento dei partiti di governo e in particolare nella Dc. Che spinse settori ampi dello schieramento politico, che negli anni precedenti avevano rappresentato una zona grigiastra tra Stato e mafia, a scendere in campo contro la criminalità organizzata. Questo spezzò la linearità che fino a quel momento aveva caratterizzato i rapporti tra mafia e politica. Fu proprio a quel punto che scattò l’emergenza. Perché i due contendenti alzarono il tiro. Lo Stato ottenne dei clamorosi successi, soprattutto grazie all’azione di Giovanni Falcone; la mafia, per reazione, iniziò a colpire durissimo, con una strategia di guerra, fino alla stagione delle stragi, nel 1992- 1993. Ma anche nel decennio precedente la sua capacità militare, non solo in Sicilia, era mostruosa. Negli anni Ottanta a Reggio Calabria c’erano in media 150 omicidi all’anno (oggi i delitti si contano sulle dita della mano). Per combattere la mafia, in questa situazione di emergenza, tra gli anni Ottanta e i Novanta, vengono varate varie misure eccezionali che si aggiungono a quelle che erano state predisposte per la lotta al terrorismo. Tra le altre, il famoso articolo 41 bis del regolamento penitenziario (il carcere duro), che era stato previsto come un provvedimento specialissimo che avrebbe dovuto durare pochi anni, e invece è ancora in vigore un quarto di secolo dopo. Oggi la mafia che conosciamo è molto diversa da quella degli anni Ottanta e Novanta. I suoi grandi capi, tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione, o morti, da molti anni. Il numero degli omicidi è crollato. Alcuni investigatori notano che c’è stato un cambio di strategia: la mafia non uccide più ma si infiltra nel mondo degli affari, dei traffici, della corruzione, della droga. E questo – dicono – è ancora più grave e pericoloso. Ecco: io non ci credo. Resto dell’idea che una organizzazione che ruba è meno pericolosa di una organizzazione che uccide. Il grado di pericolosità della mafia è indubbiamente diminuito in questi anni, in modo esponenziale, e questa è la ragione per la quale le leggi speciali non reggono più. Molti se ne rendono conto, anche tra i magistrati. I quali infatti chiedono che le leggi antimafia siano allargate ad altri tipi di illegalità. Per esempio alla corruzione politica, che – almeno sul piano dei mass media, e dunque della formazione dell’opinione pubblica – sta diventando la forma di criminalità più temuta e più biasimata. Questo mi preoccupa. Il fatto che, accertata la fine di un’emergenza, non si dichiari la fine dell’emergenza ma si discuta su come estendere questa emergenza ad altri settori della vita pubblica. La misura d’emergenza non è vista più come una misura dolorosa, eccezionale, ma inevitabile dato il punto di rottura al quale è arrivato un certo fenomeno (mafia, terrorismo, o altro). Ma è vista come un contenitore necessario e consolidato, voluto dall’opinione pubblica, dentro il quale, di volta in volta, si decide cosa collocare. La giustizia a due binari che evidentemente è la negazione sul piano dei principi di ogni forma possibile di giustizia – cioè quella costruita per combattere l’emergenza mafiosa, diventa il modello di un nuovo Stato di diritto (in violazione della Costituzione) dove lo Stato prevale sul diritto e lo soffoca. La specialità della legislazione antimafia si basava sul principio – scoperto e affermato proprio da quei magistrati che elencavamo all’inizio – secondo il quale la mafia non è una delle tante possibili forme di criminalità, né è un metodo, una cultura, una abitudine, ma è una organizzazione ben precisa – “denominata Cosa Nostra”, amava dire Falcone riferendosi alla mafia siciliana – con sue regole, suoi obiettivi, suoi strumenti criminali specialissimi e specifici. E va combattuta e sconfitta in quanto organizzazione criminale particolare e unica. E dunque con strumenti particolari e unici. Questa è la motivazione – discutibile finché vi pare, ma è questa – di una legislazione speciale e di una giustizia con doppio binario. L’idea che invece si possa estendere a macchia d’olio sia il reato di mafia sia la legislazione antimafia, applicandola persino a banalissimi episodi di corruzione o di truffa, cancella quell’idea, persino la offende, e trasforma un nobile ideale nello strumento per un riassetto dei poteri della magistratura. E infatti a queste nuove norme antimafia si oppongono anche pezzi molto ampi, e sani, della magistratura. Forse occorrerebbe un passo di più: avviare un moderno processo di superamento delle norme antimafia, prendendo atto del fatto che lo Stato d’eccezione è finito. E riconoscere la fine dello Stato di eccezione non significa rinunciare alla lotta alla mafia. Mentre invece procrastinare lo stato d’eccezione – si sa – è l’anticamera di tutte le azione di scassinamento della democrazia e del diritto.

Il 416 bis, quell'articolo che fa tanto discutere, scrivono il 18 settembre 2018 su "la Repubblica". Toty Condorelli e Giuseppe Nigroli - Link Campus University, relatrice professoressa Daniela Mainenti. Le parole del procuratore aggiunto Giuseppe Cascini aprono una recente problematica riguardo l’interpretazione o la giusta connotazione dell’articolo 416 bis, in luce dell’affermazione di nuove associazioni criminali in zone del territorio italiano in cui si pensava non vi fossero infiltrazioni mafiose, ma solo presenza e diffusione di delinquenza generica. Il processo definito “Mafia Capitale”, suscita l’attenzione di una diatriba giurisprudenziale e dottrinale riguardo il capo di imputazione dei soggetti coinvolti e per i quali la Procura di Roma contesta l’aggravante del metodo mafioso ai sensi dell’art. 416 bis, Codice Penale. In primo grado il Tribunale di Roma non ha accolto l’istanza della Procura (in Appello, qualche giorno fa, è avvenuto il contrario) riguardo l’attribuzione al sodalizio criminale dell’aggravante del metodo mafioso, non classificando le attività dei consociati corrispondenti alla previsione legislativa contestata (416 bis). La motivazione della sentenza dimostra quanto la previsione della fattispecie astratta del 416bis non sia più adatta a prevedere nuove tipologie di mafie diverse da quelle affermatesi negli anni addietro in Sicilia e Calabria, le quali si connotavano per la forza di intimidazione con metodo sovversivo, l’assoggettamento e l’omertà come aspetto fenomenico consequenziale all’esercizio della forza di condizionamento mafioso che si manifesta nelle vittime potenziali dell’associazione. Nella formulazione dell’accusa, la Procura di Roma, a seguito di lunghe e dettagliate indagini, ha ricostruito un apparato criminale capillare infiltrato non soltanto nel mondo imprenditoriale, ma anche nel tessuto politico e amministrativo, operante secondo un metodo mafioso nuovo e camaleontico ed in grado di compiere svariati affari grazie ad un sistema corruttivo ad ampio raggio. Il vero punto di svolta a cui giunge la magistratura inquirente è la classificazione e l’affermazione di nuove condotte mafiose non sovversive nel rapporto tra mezzi usati e fini perseguiti dai consociasti del sodalizio criminale; non si assiste, infatti, a stragi ed omicidi per l’affermazione del potere, ma si costruisce un tessuto economico- politico illecito alternativo a quello statale finalizzato ad acquisire in modo diretto ed indiretto la gestione ed il controllo delle attività. E' questo l’elemento che dimostra maggiormente l’inadeguatezza e l’arretratezza dalla fattispecie astratta del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, elaborata negli anni ‘90 per contrastare attività criminali che si manifestavano con caratteri violenti e stragisti; “La mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Con queste parole Giovanni Falcone ha dato un’importante connotazione umana ad un fenomeno criminale soggetto ad evoluzione storico-sociale. Ed è proprio a causa dello scorrere del tempo che previsioni legislative prodotte nei decenni precedenti possono non essere adeguate a disciplinare condotte mafiose “moderne” e “camaleontiche”, in grado di confondersi nel tessuto sociale ed economico dello Stato. Per far fronte a tali problematiche, la dottrina giuridica ha elaborato nuove teorie in tema di associazionismo mafioso, connotando con il termine “mafia silente” quel sodalizio che si avvale della forza d’intimidazione non attraverso metodi eclatanti, ma con condotte che derivano dal “non detto”, dall’“accennato” e dal “sussurrato”; questo concetto diventa penetrante nel processo “Mafia Capitale”, in quanto vi è una doppia interpretazione del 416 bis, letterale da parte del Tribunale, estensivo da parte della Procura. Secondo i principi del diritto penale in generale, e soprattutto secondo quello della certezza del diritto, la magistratura non può discostarsi dall’interpretazione letterale degli articoli del Codice, “ergo”, nel caso in cui non vi sia piena corrispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, non si integrano gli estremi del reato contestato dalla Procura, in quanto codicisticamente non aggiornato all’evoluzione del fenomeno mafioso. Sarebbe opportuno, quindi, un intervento legislativo mirato ad ampliare i confini del 416bis, ormai vetusto e legato a vecchie ideologie e concezioni di mafia stragista ed intimidatoria, che non trova più riscontro nella società moderna, ed a garantire soluzioni più concrete ed efficaci che possano creare consenso tra dottrina e giurisprudenza.

Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo. La mafia che c’è in noi. Quando i delinquenti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i politici dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le istituzioni ed i magistrati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando caste, lobbies e massonerie dicono: “qua è cosa nostra!”; quando gli imprenditori dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i sindacati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i professionisti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le associazioni antimafia dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i cittadini, singoli od associati, dicono: “qua è cosa nostra!”. Quando quella “cosa nostra”, spesso, è il diritto degli altri, allora quella è mafia. L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.

Se la religione è l’oppio dei popoli, il comunismo è il più grande spacciatore. Lo spaccio si svolge, sovente, presso i più poveri ed ignoranti con dazione di beni non dovuti e lavoro immeritato. Le loro non sono battaglie di civiltà, ma guerre ideologiche, demagogiche ed utopistiche. Quando il nemico non è alle porte, lo cercano nell’ambito intestino. Brandiscono l’arma della democrazia per asservire le masse e soggiogarle alle voglie di potere dei loro ipocriti leader. Lo Stato è asservito a loro e di loro sono i privilegi ed il sostentamento parassitario fiscale e contributivo. Come tutte quelle religioni con un dio cattivo, chi non è come loro è un’infedele da sgozzare. Odiano il progresso e la ricchezza degli altri. Ci vogliono tutti poveri ed al lume di candela. Non capiscono che la gente non va a votare perché questa politica ti distrugge la speranza.    

Quando il più importante sindaco di Roma, Ernesto Nathan, ai primi del ‘900 scoprì che tra le voci di spesa era stata inserita in bilancio, la TRIPPA, necessaria secondo alcuni addetti agli archivi del comune, per nutrire i gatti che dovevano provvedere a tenere lontani i topi dai documenti cartacei, prese una penna e barrò la voce di spesa, tuonando la celeberrima frase: NON C'È PIÙ TRIPPA PER GATTI, il che mise fine alla colonia felina del Comune di Roma. 

Bruno Contrada, uno scandalo della giustizia italiana. La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di condanna per sostegno esterno ad associazione mafiosa all'ex dirigente del Sisde arrestato 25 anni fa, scrive il 7 Luglio 2017 "Il Foglio". La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di condanna a Bruno Contrada per sostegno esterno ad associazione mafiosa. L'ex dirigente del Sisde era stato arrestato 25 anni fa e ha scontato 10 anni di carcere prima che nell'aprile del 2015 la Corte europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo giudicasse la sentenza illegittima in quanto Contrada era stato giudicato colpevole per concorso esterno in associazione mafiosa, accusa che, secondo la Corte "non era sufficientemente chiara e prevedibile per Contrada ai tempi in cui si sono svolti gli eventi in questione". I giudici romani hanno accolto il ricorso del legale di Contrada, Stefano Giordano, che aveva impugnato il provvedimento con cui la Corte d'appello di Palermo aveva dichiarato inammissibile il ricorso con cui si chiedeva la revoca della sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. La Cassazione ha quindi dichiarato, come si legge nel provvedimento, "ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti di Contrada dalla Corte di appello di Palermo in data 25 febbraio 2006, irrevocabile in data 10 maggio 2007". Così Giuliano Ferrara aveva riassunto la storia processuale di Contrada l'indomani della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo: "Bruno Contrada è l’italiano più simile a Joseph K., disperato eroe di Franz Kafka, quello che “doveva aver fatto qualcosa perché una mattina fu tratto in arresto”. Alla vigilia di Natale del 1992, anno delle infami stragi palermitane, fu catturato, rinchiuso come alto funzionario dei servizi di sicurezza in un carcere speciale, seppellito da accuse tragicamente false e intrinsecamente ambigue, che la giustizia alternatamente confermò, smentì e confermò in via definitiva attraverso la Cassazione. Molti anni di carcere, una vita e una salute distrutte, un senso dell’onore personale avvilito e dissolto nella fornace della gogna di stato, della calunnia e del pettegolezzo maligno, in spregio al “ragionevole dubbio” (e più che questo) generato da un’assoluzione in giudizio e da altre circostanze".

Bruno Contrada, il reato che non c'è e la legge (sui pentiti) che c'è. Luciano Violante lo fece notare 25 anni fa, dopo l'arresto del poliziotto: all'epoca gli agenti lavoravano con gli “informatori”. Ma poi non disse altro, scrive Massimo Bordin l'8 Luglio 2017 su "Il Foglio". “Bisogna leggere le motivazioni”. Lo dicono sempre dopo una sentenza non prevista e nel caso di Bruno Contrada suona meno ipocrita che in altre occasioni. È innegabile che la faccenda sia complicata e a mostrarlo basta un breve riassunto. Imputato per “concorso esterno” con la mafia, il funzionario di polizia, e poi dirigente del servizio segreto per l’interno, fu prima condannato, poi assolto in appello, poi la cassazione annullò e allora fu ricondannato in appello e la cassazione fu soddisfatta. Provate a paragonare un simile ambaradam alla formula anglosassone che governa la giustizia: “Al di là di ogni ragionevole dubbio”. Siamo largamente al di qua, ma provate a dire che i tre gradi di giudizio, pressoché automatici, vi ricordano la calcistica “lotteria dei rigori” e allora magistrati, e avvocati, vi salteranno alla gola. “È il massimo del garantismo – diranno – e ce lo invidiano tutti”. Sanno benissimo che quello che invidiano sono gli stipendi dei magistrati. Le parcelle, gli avvocati riescono a farsele pagare in qualsiasi parte del mondo. Ci voleva una corte europea per dirci che non si può essere condannati per un reato che non esisteva nel momento in cui sarebbe stato commesso? Il problema è che quel reato non esiste ancora nel codice. È solo un mix di sentenze di quella cassazione che tutti i magistrati del mondo ci invidiano. Piuttosto c’è qualcos’altro che, all’epoca dei fatti contestati a Contrada, non c’era e oggi c’è: la legge sui pentiti. All’epoca i poliziotti lavoravano con gli “informatori”. Lo fece notare Luciano Violante poche ore dopo l’arresto di Contrada, la vigilia di Natale di 25 anni fa, ma poi non disse altro.

Il reato che non c'è. La Corte di Strasburgo dice che Contrada "non doveva essere condannato" per concorso esterno in associazione mafiosa. Da anni l'Italia "processa le ombre" e fa di un simil-reato la sostanza della persecuzione ingiusta degli innocenti fino a prova contraria, scrive Giuliano Ferrara il 14 Aprile 2015 su "Il Foglio". Strasburgo dixit. Per la Corte europea dei diritti umani Bruno Contrada “non doveva essere condannato” e lo stato deve rifondergli i danni, con una grottesca provvisionale di diecimila euro. Bruno Contrada è l’italiano più simile a Joseph K., disperato eroe di Franz Kafka, quello che “doveva aver fatto qualcosa perché una mattina fu tratto in arresto”. Alla vigilia di Natale del 1992, anno delle infami stragi palermitane, fu catturato, rinchiuso come alto funzionario dei servizi di sicurezza in un carcere speciale, seppellito da accuse tragicamente false e intrinsecamente ambigue, che la giustizia alternatamente confermò, smentì e confermò in via definitiva attraverso la Cassazione. Molti anni di carcere, una vita e una salute distrutte, un senso dell’onore personale avvilito e dissolto nella fornace della gogna di stato, della calunnia e del pettegolezzo maligno, in spregio al “ragionevole dubbio” (e più che questo) generato da un’assoluzione in giudizio e da altre circostanze. La fattispecie del reato imputatogli era la famigerata ipotesi di “concorso esterno in associazione di stampo mafioso”. Non associazione mafiosa, non ce n’erano i minimi presupposti, ma “concorso esterno” (lo stesso odioso capo di reato che è costato la libertà personale a Marcello Dell’Utri, collaboratore di Silvio Berlusconi, rinchiuso da un anno nel carcere di Parma). L’avvocato Giuseppe Lipera, mentre l’ultraottantenne condannato grida con la sua voce rauca lo scandalo che lo ha distrutto, ha nel frattempo ottenuto l’avvio, che è per il prossimo mese di giugno a Caltanissetta, della revisione del processo. Vedremo, ma già la notizia della ripartenza è un botto. Intanto sta risultando chiaro, sul piano di un giudizio etico europeo che è superiore per tempra e senso argomentativo alla giurisprudenza che ha dannato il “mostro”, che negli anni in cui Contrada avrebbe compromesso collusivamente lo stato, di cui era funzionario di altissimo rango nella repressione del crimine organizzato, non esisteva alcuna chiara definizione del reato per cui Contrada è stato condannato, appunto il “concorso”. Un uomo è stato arrestato, avvilito dall’infamia, carcerato e distrutto nel suo onore per qualcosa che all’epoca dei fatti addebitatigli non era reato. E’ noto che la vecchia polizia, ai tempi in cui non tutto era definito abusivamente con la tecnica mal governata del pentitismo o delle intercettazioni a strascico, aveva i suoi confidenti, metteva con coraggio le mani in pasta per catturare e portare a esiti di giustizia i boss mafiosi, attuando una strategia fatta di razionali distinzioni e strumentali abboccamenti. E i boss braccati dai superpoliziotti come Contrada trovarono il modo, in un’epoca di barbarie giuridica, di rivalersi. Il solito Antonio Ingroia, oggi avvocato Ingroia dopo essere stato candidato Ingroia, nella sua veste di allora di pm, aveva imbastito l’accusa che trasformava la pratica di polizia in vigore per una intera epoca storica in una collusione, anzi in un “concorso” collusivo che solo una sentenza della Cassazione, due anni dopo l’arresto di Contrada (1994), definì, quasi la Cassazione avesse il potere di fare una legge, come reato associativo (da quasi tutti considerato flebile nelle premesse logiche e giurisdizionali). Quando si dice la giustizia. Da anni, in processi a politici locali, uomini di stato (Andreotti) e uomini dello stato, trattiamo “le ombre come cosa salda”. E facciamo di un simil-reato la sostanza fin troppo realista della persecuzione ingiusta degli innocenti fino a prova contraria. Gli azzeccagarbugli leggeranno con spirito variabilmente manettaro la sentenza di Strasburgo, ma la sentenza questo dice.

Metodo Clouseau, scrive l'8/07/2017 Mattia Feltri su “La Stampa”. Fermi tutti e tenetevi forte. Quella di Bruno Contrada non è la solita questione di malagiustizia, è un capolavoro allucinogeno. Seguite il labiale. Bruno Contrada, già numero due del Sisde (servizi segreti), viene arrestato il 24 dicembre del 1992 mentre affetta il cappone. È accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Condannato in primo grado, assolto in appello, assoluzione respinta in Cassazione, nuovo appello e nuova condanna (a dieci anni), che stavolta la Cassazione conferma. Fra carcere e domiciliari, Contrada sconta la pena. Nel 2015 la corte europea dei diritti dell’uomo dice che Contrada non doveva essere né condannato né processato perché, quando lo commise (se lo commise), il reato di concorso esterno non era abbastanza definito perché lui sapesse di commetterlo. Con questa sentenza, vincolante, Contrada va a chiedere la ripetizione del processo prima a Catania e poi a Palermo (non chiedete dettagli sul pellegrinaggio, è troppo), ma riceve due rifiuti. Arriva infine in Cassazione, che non concede un nuovo processo, ma si inventa una terza via. E cioè, fin qui c’erano sentenze di condanna e di assoluzione; ora c’è la sentenza che dichiara «ineseguibile e improduttiva di effetti» la sentenza precedente. Cioè, Contrada non può dirsi innocente, ma ha la fedina penale pulita. Cioè, ancora, la condanna esiste ma non va eseguita e non deve produrre effetti. Anche se è già stata eseguita e di effetti ne ha prodotti: dieci anni di detenzione. Se non siete ancora svenuti, buona giornata.

Da Andreotti a Berlusconi i 101 politici nel tritacarne per il reato che non c’è. Ecco l’elenco stilato da Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo su “Il Giornale”. Il «virus giudiziario» creato in laboratorio ne ha fatti di danni. Nell’ultimo quarto di secolo, il concorso esterno in associazione mafiosa, un reato che «non esiste» (Giuliano Pisapia, novembre 1996), è servito solo a stroncare carriere e isolare uomini politici (Emanuele Macaluso, giugno 2000). Percentualmente più nel centrodestra, ma anche a sinistra non mancano casi eclatanti. Quelli censiti sono 101, ma la lista è interminabile. Tra i big Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, Calogero Mannino, Antonio Gava (pure risarcito per ingiusta detenzione), Carmelo Conte, Nicola Cosentino, Corrado Carnevale, Bruno Contrada, Mario Mori e decine e decine di altri sono passati per le forche caudine di una legge «bastarda» da cui sembra quasi impossibile sfuggire. E dentro ci sono caduti tutti: politici, giudici, magistrati, prefetti, sbirri. Qualche esempio: oltre al Cavaliere c’è la nota vicenda del Divo Giulio a cui è andata pure peggio: a processo addirittura per associazione mafiosa, dopo l’iniziale contestazione di concorrente esterno. Com’è finita, lo sanno tutti. Un altro dc: Calogero Mannino. Sbattuto in galera e, dopo un tira e molla tra appello e Cassazione, arriva la sentenza che lo scagiona. Un verdetto che fa scuola sul tema dei rapporti tra politica e mafia. Totò Cuffaro è invece in galera per favoreggiamento aggravato, dopo una condanna a sette anni, anche se l’iniziale accusa di concorso esterno è caduta. E don Antonio Gava? Dopo 12 anni di processi, i giudici ammettono: i pentiti Alfieri e Galasso hanno detto il falso. Idem per Carmelo Conte, ex potente ministro socialista delle Aree urbane. Il suo compagno di partito, Giuseppe Demitry, ex sottosegretario negli anni Ottanta e Novanta, s’è visto annullare senza rinvio la condanna dalla Cassazione solo nel 2003. Incappati incidentalmente nel concorso esterno anche l’ex senatore Pietro Fuda e Nino Strano. La lista delle assoluzioni e dei proscioglimenti è infinita: l’ex sottosegretario Santino Pagano, l’ex leader del Garofano Giacomo Mancini, l’ex presidente della Calabria Agazio Loiero, l’ex europarlamentare Francesco Musotto, Pino Giammarinaro, David Costa, Filiberto Scalone, Gaspare Giudice, l’ex sottosegretario alla Giustizia Salvatore Frasca, Sisinio Zito, Paolo Del Mese, l’ex sindaco di Pignataro Maggiore Giorgio Magliocca, il senatore Pdl Sergio De Gregorio, gli ex deputati regionali siciliani Nino Dina, Salvatore Cintola, Nino Amendolia, l’ex vicepresidente della Sicilia Bartolo Pellegrino. Peggio è andata al defunto ex senatore Francesco Patriarca (9 anni), a Gianfranco Occhipinti (4 anni), a Franz Gorgone (7 anni, è in carcere), a Giancarlo Cito (4 anni), a Roberto Conte (4 anni) e a Vincenzo Inzerillo (5 anni e 4 mesi) e tantissimi altri consiglieri comunali, provinciali, regionali. Posti in piedi nell’affollato limbo dove si aggirano quelli ancora indagati: si va dall’ex ministro Saverio Romano all’ex sottosegretario Nicola Cosentino, al governatore della Sicilia Raffaele Lombardo (con fratello), al senatore Antonio D’Alì (caso folle, più unico che raro: dopo ben due richieste di archiviazione i pm hanno cambiato idea, chiedendo il rinvio a giudizio!), all’avvocato Nino Mormino (storico difensore di Marcello Dell’Utri, già archiviato nel 1995), all’ex assessore comunale di Palermo Mimmo Miceli (che attende un nuovo processo d’Appello). Che dire, poi, del presidente del Senato Renato Schifani indagato secondo il settimanale l’Espresso ma non per la procura di Palermo che ha smentito l’iscrizione sul registro degli indagati. E, nel mare magnum del reato che non esiste, finirono nel 1994 pure Vittorio Sgarbi e Tiziana Maiolo – all’epoca deputati – prosciolti in un’inchiesta partita dalle sballate dichiarazioni del pentito ’ndranghetista Franco Pino. A finire nel tritacarne, molto spesso, sono state anche le toghe: di Corrado Carnevale si sa di tutto e di più. Il giudice ammazza-sentenze s’è ripreso la sua personale rivincita dopo un decennio di fango. Ma chi ricorda Ciro Demma, Giuseppe Prinzivalli, Pasquale Barreca, Carlo Aiello, Mario Pappa, Giacomo Foti, Antonio Pelaggi, Giovanni Lembo? Tutta gente indagata e, in alcuni casi, finanche arrestata per concorso esterno. Pure il pm di Brescia Fabio Salamone, l’anti-Di Pietro, si ritrovò tra le mani un avviso di garanzia per lo stesso genere di accuse. E che dire degli sbirri e dei carabinieri che, dopo aver lottato contro la Piovra, come ricompensa si sono ritrovati alla sbarra? La bastonata più dura è andata a un poliziotto esemplare come Bruno Contrada in tandem con quel galantuomo di vicequestore di Ignazio D’Antone. Condannato il primo sulla base delle parole (mai, dicasi mai, riscontrate) dei pentiti, detenuto a lungo il secondo a Santa Maria Capua Vetere. Ci sono poi Mario Mori e l’ex capo del Ros Antonio Subranni. Ai tempi fu processato e assolto il tenente Carmelo Canale, collaboratore di Borsellino, cognato del maresciallo Lombardo morto suicida per le vigliacche e false insinuazioni sul suo conto mentre stava per riportare in Italia il boss Badalamenti. Le eccellenze dell’Arma dei carabinieri sotto processo come i mafiosi cui davano la caccia. E tutto per un reato autonomo, a cui non crede più nessuno (pg Francesco Iacoviello, marzo 2011). Va detto che il concorso esterno è stato contestato anche a Massimo Ciancimino, figlio di Vito, l’ex sindaco mafioso di Palermo jr. Il che è tutto dire. Il Pm “partigiano” di Palermo, Antonio Ingroia a citato Falcone e Borsellino per esternare la sua disapprovazione alla sentenza “Dell’Utri”. Vediamo come stanno veramente le cose. Il reato di cui è accusato Dell’Utri è da anni al centro delle polemiche per colpa di pentiti strumentalizzati, testimonianze dubbie, prove ambigue. In realtà, il codice penale prevede soltanto il reato di «associazione mafiosa» all’articolo 416 bis, introdotto nel 1982. Ma dalla fine degli anni Ottanta «l’associazione esterna» è una consuetudine nei processi e una specie d’intoccabile reliquia, proprio perché è considerata un’invenzione di Falcone.

Effettivamente fu lui, nel rinvio a giudizio del maxiprocesso ter del 1987, a sottolineare la necessità di una figura giuridica capace di reprimere le condotte che definiva «fiancheggiamento, collusione, contiguità». È in base a questa logica che, dall’unione tra gli articoli 416 bis e 110 del codice penale (concorso nel reato), si è affermato il «concorso esterno in associazione mafiosa». Ma nel 1992, pochi mesi prima di morire, ecco che cosa sosteneva lo stesso Falcone: «Col nuovo codice di procedura penale (introdotto alla fine del 1989), non si potrà ancora a lungo continuare a punire il vecchio delitto di associazione (mafiosa) in quanto tale, ma bisognerà orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici (cioè omicidi, riciclaggi, estorsioni). Con la nuova procedura, infatti, la prova deve essere formata nel corso del pubblico dibattimento. Il che rende estremamente difficile, in mancanza di concreti elementi di colpevolezza per i delitti specifici, la dimostrazione dell’appartenenza di un soggetto a un’organizzazione criminosa (…). C’è il rischio, con il nuovo rito, che non si riesca a provare nemmeno l’esistenza di Cosa nostra!». Ecco perché, da vivo, Falcone era osteggiato: più chiaro di così… Purtroppo, ha avuto ragione anche in una delle sue ultime frasi, amaramente profetica: «Per essere credibili, in questo Paese bisogna essere morti». Ancora meglio se falsificati.

Concorso esterno in associazione mafiosa: il reato che "non c'è". La sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo su Bruno Contrada riapre la questione sul reato formulato solo su un "combinato disposto", scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. È da 30 anni che l’Italia si divide sul «concorso esterno in associazione mafiosa», il reato che non esiste. Non esiste perché nel Codice penale ci sono soltanto l’art. 416 bis, associazione mafiosa, e l'art. 110, concorso nel reato. Abbinandoli tra loro, con quello che i tecnici del diritto chiamano «combinato disposto», alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso la giurisprudenza ha creato e via via definito la figura criminosa del concorso esterno mafioso. Ma è sempre mancato il passaggio legislativo, democratico e chiarificatore, l’unico che avrebbe potuto stabilire tassativamente che cosa s’intenda per quel reato. Che così continua a non esistere. Già nel 1987 Giovanni Falcone, alla fine del maxiprocesso ter a Cosa nostra, sottolineava la necessità di una «tipizzazione» capace di reprimere le condotte grigie che indicava come "fiancheggiamento, collusione, contiguità". I magistrati però hanno continuato a fare un uso pieno e disinvolto del reato-che-non-esiste. Spesso nei confronti di politici di primissimo piano (da Giulio Andreotti a Giacomo Mancini, da Silvio Berlusconi a Calogero Mannino, da Marcello Dell’Utri a Renato Schifani…), suscitando ogni volta il dubbio che proprio l’ambiguità della formulazione fosse funzionale a un uso di parte. Malgrado le infinite polemiche, il Parlamento non ha mai fatto nulla. È vero che nel corso degli anni alcuni deputati e senatori, di destra e di sinistra, hanno presentato specifiche proposte di legge. Ma nessuna ha mai visto nemmeno l’avvio di un iter di approvazione. La lacuna è grave e oggi è resa ancora più evidente dalla sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo, il 14 aprile, ha stabilito che l’ex superpoliziotto Bruno Contrada, condannato nel 2007 per concorso esterno, non meritasse quel trattamento in quanto all’epoca dei fatti che gli furono contestati, tra 1979 e 1988, il reato non era «sufficientemente chiaro». Secondo la Cedu lo sarebbe divenuto soltanto dopo una famosa sentenza della Cassazione, pronunciata a sezioni unite il 5 ottobre 1994 (altre due sono venute dopo, nel 2002 e nel 2005, con qualche contraddizione), che per prima ha stabilito una prima tipizzazione coerente. Questo, è evidente, apre la strada a una nuova richiesta di revisione del processo per Contrada (i suoi avvocati ne hanno già tentate tre) e invita molti altri a fare ricorso a Strasburgo: a partire da Dell’Utri, condannato a 7 anni di carcere e recluso dal giugno 2014 per reati risalenti al periodo 1974-1992. Certo, i tempi della giustizia europea sono lunghi: il ricorso di Contrada era stato presentato nel luglio 2008 e iscritto a ruolo nel 2013. Per avere giustizia gli sono serviti quasi sette anni. Intanto la politica, che dovrebbe colmare la lacuna, continua a tacere. E anche quando non tace viene zittita malamente dalla magistratura sindacalizzata, che evidentemente ha interesse a conservare le mani libere. Nel giugno 2001 Giuliano Pisapia, allora deputato di Rifondazione, aveva presentato una proposta che introduceva nel Codice un art. 378 bis, che puniva con una pena da tre a cinque anni chi "favorisce consapevolmente con la sua condotta un’associazione di tipo mafioso o ne agevola in modo occasionale l’attività". Semplice, efficace, pulita. E ovviamente azzoppata. È stata ripresentata tale e quale nella scorsa legislatura da tre deputati di Forza Italia: ancora una volta, nulla. Nel marzo 2013 ci ha riprovato Luigi Compagna, senatore di centrodestra, riducendo la previsione di pena da uno a cinque anni. Ma il presidente Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia, ha dichiarato che quella proposta era "una vergogna" e "una fuga in avanti inopportuna". È stata ritirata.

Chi danneggia e chi favorisce il “concorso esterno”. La mafia non fu all’origine di Forza Italia, Forza Italia non fu all’origine della mafia. Quanto si è fantasticato, scritto, ipotizzato sugli abbracci tentacolari tra il partito di Silvio Berlusconi e la mafia made in Sicily. La “zona grigia”, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. La mafia non fu all’origine di Forza Italia, Forza Italia non fu all’origine della mafia. Quanto si è fantasticato, scritto, ipotizzato sugli abbracci tentacolari tra il partito di Silvio Berlusconi e la mafia made in Sicily. La “zona grigia”, che certo esiste in alcune realtà del Belpaese (perché nasconderselo?), è diventata un burrone infernale e ha fagocitato i principi basilari della democrazia e del diritto. 
A Firenze durante il processo al boss Francesco Tagliavia apprendiamo che la creatura berlusconiana non ha nulla a che fare con le stragi mafiose del ’93. Le rivelazioni dei pentiti? Prive di riscontri fattuali. E’ passato il tempo degli Spatuzza, Ciancimino jr non si aggira più per i salotti televisivi, e Santoro lo rimpiange. Sia chiaro: le stragi del ’92 e del ’93 non sono state cancellate, ci sono persone che hanno pagato con la vita. Tuttavia le risposte vanno cercate altrove, non nel debutto politico del Cavaliere. In che modo la “zona grigia” si è trasformata in un burrone infernale? La degenerazione è stata graduale, la macchina del fango con la stampa tambureggiante al ritmo delle procure d’assalto ha messo a punto l’epicedio della giustizia. Nella santa crociata contro la mafia le regole sono diventate orpelli ingombranti, un intralcio sul sentiero della lotta. Le garanzie degli imputati? Alle ortiche, basta formalismi, eppure nel diritto la forma è sostanza. Nella requisitoria sul caso Dell’Utri il procuratore generale della Cassazione Francesco Iacoviello afferma: “C’è un capo di imputazione che riempie quasi una pagina […]. Lì dentro non c’è il fatto per cui l’imputato è stato condannato. Quell’imputazione è un fiore artificiale in un vaso senza acqua”. Una condanna a sette anni fondata sulle dichiarazioni dei pentiti, che, a detta dello stesso Iacoviello, i magistrati di merito hanno preso per vere senza uno straccio di prova, per un atto di fede cristiana. Quello che dicono i pentiti dunque è oro colato, e di pentitismo si nutre quel mostro giuridico che è “il concorso esterno in associazione mafiosa”, l’etichetta perfetta per incastrare qualcuno. Dell’Utri non sarà forse uno stinco di santo, ma non può essere “incastrato” per mezzo di un’ingiustizia. Se ci sono dei fatti in base ai quali è possibile imputargli condotte criminose, di quelli egli deve rispondere, non delle illazioni mosse dalla smania di “fare piazza pulita”. La giustizia non tende agguati. Il giudice indossa la toga, non la divisa. Se Falcone e Borsellino fossero ancora vivi, chissà che cosa direbbero di una tale macroscopica deriva poliziesca. Noi non pretendiamo di saperlo, Ingroia purtroppo sì. Quel che è certo è che in un Paese di civil law come il nostro il concorso esterno rimane l’unico reato di natura giurisprudenziale. E’ un reato impossibile, “cui ormai non crede più nessuno”, parola di Iacoviello. Dell’associazione mafiosa o sei parte oppure no. Se non sei parte puoi essere ritenuto responsabile di singoli fatti (favoreggiamento, riciclaggio…), non di una ragnatela di relazioni, sul piano giuridico “farsela con la mafia” non significa nulla. La verità è un’altra: il “concorso esterno” serve, serve a colmare la lacuna dei fatti, a trovare riscontro alle parole dei pentiti che spesso non trovano riscontro. Il ricorso abnorme a questo capo d’imputazione ebbe inizio subito dopo la morte dei due magistrati siciliani per iniziativa della procura di Palermo che da allora in poi si andò specializzando nella scienza dei rapporti tra mafia e politica con una serie di indagini conclusesi perlopiù con un buco nell’acqua. Il concorso esterno, cari signori, va ben oltre dell’Utri, Cosentino e Berlusconi. Il procuratore Iacoviello parla in nome del diritto bistrattato e ucciso nel Paese dei Beccaria e dei Carra. L’Europa ci ha condannato a più riprese non per il carcere duro in sé, ma per il fine che abbiamo subdolamente assegnato al regime del 41bis, l’induzione al pentitismo. Sotto tortura, capite bene, i pentimenti fioccano, i programmi di protezione si moltiplicano…e poi i processi sfumano.

Tortura è reato. Ma il 41 bis è tortura, scrive Antonietta Denicolo, Componente della Giunta dell’Unione Camere penali, su "Il Garantista". Dopo il plauso, con diversi toni espresso per salutare l’ingresso, seppur tardivo, del reato di tortura nel nostro ordinamento, la dovuta attenzione alla tutela dei diritti di ogni singolo cittadino ed il doveroso sguardo d’insieme delle disposizioni tanto codificate, quanto normative in genere, impone a noi, operatori di diritto, di interrogarci, con laica serenità, in punto alla coesistenza nel nostro sistema del neonato reato di tortura con il mantenimento e la frequente applicazione del regime custodiale disciplinato dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Regime (il 41 bis) al quale vengono indifferentemente sottoposti tanto i soggetti condannati in via definitiva, quanto chi soffre la carcerazione cautelare. L’Unione delle Camere Penali da anni è attiva nella battaglia di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’esistenza di questo particolare regime, che previsto dal legislatore come strumento assolutamente eccezionale ed applicabile solo in relazione alla necessità di contenimento delle condotte criminali più efferate, esplicate nel contesto di associazioni di stampo mafioso, di fatto si è diffuso e si diffonde in modo spesso apodittico, e per ciò particolarmente inaccettabile. Proprio il regime al quale ex 41 bis il detenuto è sottoposto per decretazione ministeriale palesa una mistificazione della volontà di arginare le condotte lesive per la collettività con una concreta e reale tortura psicologica nei confronti del ristretto, che nulla ha a che vedere con le esigenze di tutela dei cittadini rispetto al crimine organizzato. Ammesso per ipotesi che la censura della corrispondenza, la registrazione audio-video dei colloqui del ristretto con i familiari, e le forme di restrizione idonee ad arginare la possibilità di contatto tra soggetti appartenenti alla medesima organizzazione possano astrattamente apparire tutele adeguate rispetto alla potenziale pervasività delle condotte dei soggetti inseriti in consorterie di stampo mafioso, l’adduzione di limiti obiettivamente inspiegabili trasforma la cautela in una sorta di tortura. Non si comprende perché chi è sottoposto a regime di 41-bis abbia diritto di incontrare i propri familiari solo per un’ora al mese ed in giornate preordinate e rigidamente calendarizzate. Così, se per ipotesi il mercoledì 24 di un certo mese la moglie non può fare visita al marito, il diritto di visita per quel mese “salta”, né può essere recuperato nel primo mercoledì successivo disponibile, ma dovrà collocarsi nel mese successivo in un mercoledì contiguo alla data del 24, di modo che il ristretto subirà l’assenza di contatto con i familiari non più e non solo per un mese, ma addirittura per due. Si tenga ancora conto che se chi è ristretto in regime di 41 bis ha figli in età pre adolescenziale può vivere il contatto fisico con il minore solo per dieci minuti al mese e nel contesto di quel colloquio di un’ora cui sopra si accennava, colloquio che con i parenti viene appunto gestito attraverso una parete trasparente a chiusura ermetica. Anche di fronte a questa osservazione, solo apparentemente banale, ci si chiede: è la limitazione del contatto fisico con un figlio ciò che tutela la collettività, o piuttosto in questa limitazione va letta un’afflizione aggiuntiva alla pena? Ma quando ad afflizione si aggiunge afflizione, e soprattutto quando le stesse sono smaccatamente immotivate, la pena inverte il suo ruolo istituzionale in quello di tortura. Sull’argomento relativo all’afflittività sproporzionata della pena e sui danni che comporta si è recentemente diffuso anche il Pontefice. A noi tecnicamente residua dire che quella inflitta con il regime di 41 bis O.P. è tortura nel senso pieno ed etimologico del termine: è sottoposizione del soggetto ad un male psicologico e morale così intenso, e così in grado di incidere, probabilmente in modo indelebile, sulla sua personalità – circostanza questa per la quale l’Italia sul punto è stata censurata oltre che dalla datata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche dal recente report del 19 novembre 2013 relativo alla visita effettuata in Italia dal Comitato europeo per la prevenzione e la tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti – non certamente giustificato dal diritto dello Stato di decontestualizzare il soggetto dall’ambiente criminale, ma smaccatamente proiettato a sollecitare la sua collaborazione con la giustizia. E se il principio di massima, con la censura che ne consegue, appare grave ed intollerabile nei confronti di ogni detenuto, maggiori e più inquietanti perplessità desta la prassi in via di consolidamento di collocazione in regime di 41 bis dei soggetti solo indagati, e per ciò colpiti da ordini di custodia cautelare. Ci siamo chiesti quale sia il limite di liceità etica che consente di violentare il nostro sistema, il principio costituzionale di presunzione d’innocenza sino all’intervento delle sentenze definitive di condanna, piuttosto che il diritto al silenzio negli interrogatori, sino a consentirci di inserire nei corpi di detenzione del cosiddetto “carcere duro” i cautelati in attesa di giudizio. Forse l’idea è preconcetta, ma la saggezza popolare insegna che a pensare male si fa peccato ma non sempre si sbaglia: la decretazione ministeriale che in modo apodittico colloca gli indagati in regime di 41 bis O.P. è la legittimazione di una forma di tortura. Un sistema civile, se da un lato non può che tollerare il fenomeno del cosiddetto pentitismo riconnettendolo al perseguimento dei fini di giustizia, dall’altro non può abbassarsi a torturare l’indagato con vessazioni morali del tipo di quelle accennate. L’inserimento e la debordante applicazione del regime di 41 bis agli indagati nei processi che seguono le regole del cosiddetto doppio binario (ovvero di deroghe procedurali applicate solo ad una determinata tipologia di processi) trasforma in una forma di tortura la custodia cautelare, getta una luce livida e sinistra sulla deroga alle garanzie costituzionali e trasforma il processo secondo il doppio binario in una sorta di binario 21, dal quale vorremmo che nessun treno fosse mai partito nel 1943 e dal quale pretendiamo oggi che nessun convoglio più si diriga per addentrarsi in un mondo in cui la valutazione preconcetta ed acritica condizionano l’esistenza di un uomo prima dell’intervento di una sentenza che, attraverso un giusto processo, abbia conclamato o escluso la sua responsabilità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

La definizione di mafie del dr Antonio Giangrande è: «Sono sodalizi mafiosi tutte le organizzazioni formate da più di due persone specializzati nella produzione di beni e servizi illeciti e nel commercio di tali beni. Sono altresì mafiosi i gruppi di più di due persone che aspirano a governare territori e mercati e che, facendo leva sulla reputazione e sulla violenza, conservano e proteggono il loro status quo». In questo modo si combattono le mafie nere (manovalanza), le mafie bianche (colletti bianchi, lobbies e caste), le mafie neutre (massonerie e consorterie deviate).

In questo saggio LA MAFIA IN ITALIA si affronta il tema delle mafie nere. In altri libri si affrontano altri vari aspetti del fenomeno MAFIA.

MAFIOPOLI. Le anomalie della lotta contro la mafia.

LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. Le storture e gli abusi dell’Anti Mafia.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. L’elenco alfabetico di tutti i sodalizi che adottano azioni rientranti del dettato normativo del 416 bis.

CASTOPOLI. Gli abusi di Caste e Lobbies

IMPUNITOPOLI. Gli abusi degli operatori di Giustizia.

MASSONERIOPOLI. Gli abusi delle massonerie deviate.

CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. Gli abusi sui lavoratori.

USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. Gli Abusi sull’usura e sui fallimenti.

La mafia esiste. Eccome! Scrive Venerdì, 31 agosto 2018 da San Giuseppe d’Arimatea, Casa Spirlì, in Calabria, Nino Spirlì su "Il Giornale". Esiste, esiste… La mafia è nata e non è mai morta. In realtà, non è stata mai neanche ferita. Al limite, è stata disturbata, scossa; a volte, sgualcita. Shakerata, diciamo. Ma niente di più. La mafia è immortale, purtroppo. Perché ha vita in tante vite. Troppe. Palesi, prevedibili, semiimmaginabili, impensabili, impossibili ed oltre ogni codificazione lessicale e mentale.

La mafia è nell’aria e, viva, al di là dell’aria. È nella carne e nei 21 grammi dell’anima. Nei gesti. Nel sudore freddo del sicario e nel silenzio paziente del boss. Nei paroloni reboanti dei comizi. Nella volgare arroganza condominiale. Nelle aquile di marmo fisse sui pilastri dei cancelli e negli aerei privati che scorrazzano strafottenti nei cieli di tutti. Nei contratti paraculi delle mezzecalzette e nelle bave dei leccaculo. La mafia è nei vescovi che coprono i porci in tonaca e nei maestri asserviti che promuovono i somari. Nel pane messo da parte per chi non viene mai a ritirarlo. Nei negri a 20 euro. Nei macchinoni dei familiari a carico. Nel parrucchiere tutti i giorni. Nei vecchi che setacciano, morti di fame, i bidoni del mercato.

La mafia è nelle stragi e nelle carte. Nei documenti spariti e nelle piste abbandonate. Nelle mignotte di Stato e nelle liste per le urne. La mafia è nel pesce marcio cotto comunque. Nei panini di muffa grattugiati e venduti nelle cotolette precotte. La mafia è nel posto riservato. Nell’acqua privatizzata. Nell’antimafia da bigliettino da visita. Nell’ombra di una sovvenzione immeritata. Nel tu paramichevole ad un lei istituzionale.

La mafia è nel cemento impoverito dei ponti e dei palazzi. Nei rifiuti tossici seminati come grano. Nei banchetti cafoni. Negli ospedali assassini. Nei medici ignoranti. Negli anziani abbandonati. Nei disabili picchiati. Nelle adozioni pagate. Nei monumenti funebri spocchiosi.

La mafia è nelle sconfitte dei buoni. Nei ghigni dei cretini. Nelle vittorie dei malfattori. Nei treni pisciati dai violenti.

La mafia è in una donna ammazzata. In un figlio abbandonato. In un animale seviziato.

La mafia è lo scoppio di una bomba al destinatario. La mafia è lo scoppio di una bomba al mittente.

La mafia è la menzogna, il raggiro, la truffa.

È tante cose, la mafia. Tante altre cose…

Esiste, sì, esiste, la mafia. Dai poli all’equatore. Parla le lingue. O tace. La capisci lo stesso. La senti quando c’è. E quando sembra che non ci sia. Ne avverti il fetore. Che, spesso, sa di colonia.

Perché la mafia si pettina, si lava, si lucida e si agghinda. Si imbelletta e tenta la copertura. Tenta.

La mafia sono LORO e siamo anche noi che non riempiamo le piazze. Non diciamo NO. Non urliamo Basta!

La mafia è una matita copiativa che si vende per un favore da niente. O una speranza.

La mafia è la nostra mano nel segreto di quella cabina poco segreta.

Esiste. La mafia esiste. Vero?

Mafia, un brand di successo, scrive il 4 agosto 2017 Attilio Bolzoni su "La Repubblica". E' la parola italiana più conosciuta al mondo. Più di pizza, più di spaghetti. La troviamo in tutti i dizionari e in tutte le enciclopedie di ogni Paese, dal Magreb all'Australia, dall'America Latina al Giappone. Ha la sua etimologia probabilmente nell'espressione araba "maha fat”, che pressappoco vuol dire protezione o immunità. Quando un italiano - e soprattutto un siciliano - va all'estero, la battuta è sempre una, immancabile: «Italia? Mafia. Italiano? Mafioso». E poi giù una risata. Come se l'argomento fosse divertente. La parola mafia non ha sempre avuto lo stesso significato. Un secolo fa rappresentava una cosa, un'altra negli Anni Cinquanta e Sessanta, un'altra ancora dopo le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ogni epoca ha avuto la sua mafia. Ufficialmente esiste dal 25 aprile del 1865 - quando il termine "Maffia", scritto con due effe, apparve per la prima volta in un rapporto ufficiale inviato dal prefetto Filippo Antonio Gualterio al ministro dell'Interno del tempo - ma ha avuto la sua incubazione almeno un secolo prima. Nel Regno delle Due Sicilie c'erano sette e unioni e "fratellanze" con a capo un possidente, un notabile e spesso anche un arciprete. Fenomeno tipico della Sicilia e delle regioni meridionali - in Campania è camorra e in Calabria 'ndrangheta - secondo i funzionari governativi di quegli anni «era incarnata nei costumi ed ereditata col sangue». Per letterati e studiosi delle tradizioni popolari come Giuseppe Pitrè «il mafioso non è un ladro, non è un assassino ma un uomo coraggioso...e la mafia è la coscienza del proprio essere, l'esagerato concetto della propria forza individuale». Dal 9 settembre del 1982 essere mafioso in Italia è reato. Dal 30 gennaio del 1992 - sentenza della Corte di Cassazione sul maxi processo a Cosa Nostra - la mafia è considerata un'associazione criminale e segreta. Ma nonostante ciò la parola mafia è diventata un "marchio" di qualità, un brand di successo. Nel febbraio del 2014 sono andato in Spagna per realizzare un reportage su una catena di 34 ristoranti che si chiamano "La Mafia se sienta a la mesa", la mafia si siede a tavola.  Ai loro clienti offrono una carta fedeltà e una "zona infantil" riservata ai bambini con speciali menu. Per fortuna la presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi ha portato avanti una battaglia attraverso il ministero degli Esteri e, dopo un paio d'anni, l'Ufficio Marchi e Disegni dell'Unione Europea ha censurato i proprietari della catena di ristoranti spagnoli accogliendo un ricorso dell'Italia «per l'invalidità del marchio». In Austria hanno pubblicizzato un "panino Falcone", nome del giudice grande nemico dei boss ma che «purtroppo sarà grigliato come un salsicciotto». In Sicilia si vendono da sempre gadget inneggianti ai mafiosi, pupi con la lupara, tazze con il profilo del Padrino-Marlon Brando, magliette e adesivi che fanno il verso a Cosa Nostra. In Germania ha grande mercato da qualche anno la musica della mafia, spacciata anche da alcuni miei colleghi tedeschi come «autentica cultura calabrese». Ho ascoltato una canzone "dedicata" all'uccisione del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. Comincia così: «Hanno ammazzato il generale/non ha avuto neanche il tempo di pregare...». Oscenità smerciate come tradizione popolare.

Sei parente di un mafioso? Sei un mafioso pure tu... Così chiudono le aziende, scrive il 27 ottobre 2016 “Il Dubbio”. L'intervento di Carlo Giovanardi, componente della Commissione Giustizia del Senato. Il codice antimafia stabilisce che tentativi di infiltrazione mafiosa, che danno luogo all'adozione dell'informazione antimafia interdittiva, possono essere concretamente desunti da:

a) Provvedimenti giudiziari che dispongono misure cautelari, rinvii a giudizio, condanne, ecc.;

b) Proposta o provvedimento di applicazione delle misure di prevenzione ai sensi della legge 575 del 1967;

c) Degli accertamenti disposti dal Prefetto.

Con alcune piccole recenti modifiche che cambiano soltanto marginalmente la normativa. Il punto c) come si vede dà ampi poteri discrezionali ai prefetti che in tutti i provvedimenti assunti sul territorio nazionale motivano sempre l'interdittiva con queste premesse: «Atteso che, come più volte riportato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, il concetto di "tentativo di infiltrazione mafiosa", in quanto di matrice sociologica e non giuridica, si presenta estremamente sfumato e differenziato rispetto all'accertamento operato dal giudice penale, "signore del fatto" e che la norma non richiede che ci si trovi al cospetto di una impresa "criminale", né si richiede la prova dell'intervenuta "occupazione" mafiosa, né si presuppone l'accertamento di responsabilità penali in capo ai titolari dell'impresa sospettata, essendo sufficiente che dalle informazioni acquisite tramite gli organi di polizia si desuma un quadro indiziario che, complessivamente inteso, ma comunque plausibile, sia sintomatico del pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. Considerato che, per costante giurisprudenza, la cautela antimafia non mira all'accertamento di responsabilità, ma si colloca come la forma di massima anticipazione dell'azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia di sicurezza, rispetto a cui assumono rilievo, per legge, fatti e vicende anche solo sintomatici e indiziari, al di là dell'individuazione di responsabilità penali (T. A. R. Campania, Napoli, I, 12 giugno 2002 nr. 3403; Consiglio di Stato, VI, 11 settembre 2001, nr. 4724), e che, di conseguenza, le informative in materia di lotta antimafia possono essere fondate su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario, poiché mirano alla prevenzione di infiltrazioni mafiose e criminali nel tessuto economico-imprenditoriale, anche a prescindere dal concreto accertamento in sede penale di reati». Vediamo ora di capire come la preoccupazione del legislatore di difendere le aziende dalle infiltrazioni mafiose sia stata completamente stravolta dalle interpretazioni giurisprudenziali e dalla prassi delle prefetture, andando ben al di là del rispetto formale e sostanziale dei principi costituzionali e anche del buon senso, con un meccanismo infernale che massacra le aziende, le fa fallire e distrugge migliaia di posti di lavoro. Bisogna tener conto infatti che all'impresa colpita da interdittiva antimafia vengono immediatamente risolti i contratti in essere, bloccati i pagamenti, impedito di acquisire nuovi lavori, ecc. a tempo indeterminato, fino a che cioè, non venga meno un plausibile, sintomatico pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. E da cosa si può dedurre questo pericolo che le forze di polizia comunicano al Prefetto? Incredibilmente anche da semplici rapporti di amicizia o di parentela o di affinità con i titolari o i dipendenti della impresa ma anche con persone che con le imprese non c'entrano assolutamente nulla. Due recenti casi modenesi spiegano la follia di questa procedure. Un'impresa locale con titolare originario di Napoli, felicemente sposato con una palermitana conosciuta mentre era militare in Sicilia nell'ambito dell'operazione Vespri Siciliani, dalla quale ha avuto tre figli, assunse a suo tempo, con l'autorizzazione del giudice tutelare e l'approvazione dei servizi sociali, cognato e suocero usciti dal carcere a Palermo dopo aver scontato una condanna per attività mafiosa. Sulla base di questa circostanza all'impresa è stata negata l'iscrizione alla white list ed è scattata l'interdittiva antimafia. L'imprenditore ha immediatamente licenziato cognato e suocero ma per la Prefettura questo non era sufficiente e l'ha invitato a rivolgersi al Tar dell'Emilia-Romagna che a sorpresa ha confermato l'interdittiva con la stupefacente motivazione che malgrado il licenziamento permaneva il rapporto di parentela (semmai affinità, sic. ndr). Soltanto recentemente, dopo questa surreale decisione, il Consiglio di Stato ha finalmente riconosciuto le buone ragioni dell'imprenditore escludendo che il semplice rapporto di affinità possa essere sufficiente per mantenere una interdittiva. Nel frattempo sempre a Modena un altro imprenditore di origine campana si è visto applicare l'interdittiva, in base a precedenti penali del fratello, con il quale non ha rapporti di nessun tipo da tantissimi anni, con inevitabile fallimento e rovina per moglie e figli, decisione confermata dal Tar dell'Emilia-Romagna perché "non si esclude", pur non essendoci attualità di una situazione di pericolo, che il passato oscuro del fratello, comparso in una lista di componenti di un clan di casalesi, arrestati per ordine della Procura, possa nascondere futuri tentativi di infiltrazione. Bisogna aggiungere, per chiarezza espositiva, che diversamente dai procedimenti penali dove c'è possibilità di difesa e contraddittorio, l'imprenditore a cui viene rifiutata l'iscrizione alla white list non viene ascoltato dalla Prefettura e neppure può prendere visione egli atti che lo riguardano, che sono secretati. Di fronte a questa situazione, essendo in discussione in commissione Giustizia del Senato la riforma del Codice Antimafia, sono stati sentiti in audizione il prefetto Bruno Frattasi, attuale comandante dei Vigili del Fuoco, per anni responsabile dell'Ufficio legislativo del Ministero degli Interni, i Prefetti di Milano, Palermo, Napoli, Reggio Calabria, Modena, ecc., illustri avvocati, docenti di diritto amministrativo e rappresentanti delle associazioni imprenditoriali. Ad eccezione dei Prefetti sul territorio, che hanno sostenuto di vivere nel migliore dei mondi possibile e non si sono accorti di nessuna criticità, da Frattasi, i professori, gli avvocati e le associazioni degli imprenditori sono state sottolineate le incongruenze e i limiti di questo sistema ed indicate soluzioni come l'obbligo di sentire l'imprenditore, fare verificare i provvedimenti interdittivi da un giudice terzo, accompagnare l'azienda colpita da interdittiva a superare lo stato di pericolo prima che possa giungere il fallimento. Con una consapevolezza che è emersa chiaramente: la criminalità organizzata non viene minimamente scalfita da questi provvedimenti che viceversa per la loro assoluta arbitrarietà e disprezzo per l'economia reale non possono che creare disaffezione e rancore verso le istituzioni. 

Se non sai che il parente del tuo amico è mafioso sei mafioso anche tu…, scrive Tiziana Maiolo il 21 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il politico patrocinò la festa paesana dello stacco organizzata da un parente di un presunto ndranghetista. Colpevole di “inconsapevolezza”, l’assessore va rimosso. Ci mancava solo Rosy Bindi nel caravanserraglio di quanti hanno preso di mira il Comune milanese di Corsico e il famoso (mancato) “Festival dello stocco di Mammola”, per saldare vecchi e nuovi conti politici. La Commissione bicamerale Antimafia è arrivata a Milano giovedì con un programma ambizioso: audizioni dei massimi vertici della magistratura (il procuratore generale Alfonso, il procuratore capo Greco e la responsabile della Dda Boccassini) e discussione sulla presenza di spezzoni di ‘ ndrangheta al nord, e in particolare nelle inchieste su Expo e il riciclaggio. Ma tutto è rimasto sbiadito in un cono d’ombra illuminato prepotentemente dal caso del merluzzo, il famoso stocco di Mammola, che viene festeggiato ogni anno da 38 anni in Calabria con il patrocinio dell’ambasciata di Norvegia, ma che non si può evidentemente esportare nel milanese. La Presidente Rosy Bindi è stata perentoria: l’assessore alle politiche giovanili Maurizio Mannino, che nell’ottobre dell’anno scorso aveva dato il patrocinio alla Festa dello stocco a Corsico senza rendersi conto del fatto che il promotore dell’evento era il genero di una persona indagata per appartenenza alla ‘ ndrangheta, deve essere subito rimosso. Altrimenti verrebbero avviate, per iniziativa di una serie di zelanti parlamentari del Pd, le procedure per arrivare al commissariamento del Comune di Corsico. Certo, dice la stessa Presidente dell’Antimafia, il sindaco era inconsapevole, ma “l’inconsapevolezza per essere innocente deve essere dimostrata”. Inversione dell’onere della prova, al di là e al di fuori da qualunque iniziativa giudiziaria, dunque. Il concetto è questo, in definitiva: se anche tu non sai con chi hai a che fare (cioè uno colpevole di essere parente di un altro), sei a tua volta colpevole a prescindere. E la cosa grave è che su questa vicenda di Corsico si soni mossi parlamentari del Pd (la famosa nuova generazione dei “garantisti”) come Claudio Fava e Franco Mirabelli e persino il mediatico promotore di libri nonché procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Tutti compatti contro il sindaco Filippo Errante, colpevole di “tradimento”, perché da ex sindacalista e assessore di una giunta di sinistra, ha osato non solo allearsi con il centrodestra, ma addirittura portarlo alla vittoria dopo sessanta anni di governo ininterrotto di sinistra. Un capovolgimento politico che brucia ancora, dopo oltre un anno. Il che è comprensibile, soprattutto per la candidata sconfitta, l’ex sindaco Maria Ferrucci. La quale un risultato a casa l’ha portato, quello di riuscire a fare annullare la festa dello stocco e di conseguenza di indebolire la figura del neo- sindaco. Il quale sarà costretto oggi anche a rinunciare a un suo assessore di punta. Indebolendosi sempre più. Ma c’è da domandarsi se sia di grande soddisfazione politica per l’ex sindaco e per il suo partito essere costretti a denunciare per simpatia con le mafie una persona come il sindaco Errante che un tempo militava nelle loro fila. E cercare di sconfiggere per via burocratica e tramite i prefetti e le commissioni antimafia (neanche per via giudiziaria, non essendoci inchiesta alcuna all’orizzonte) chi ha vinto le elezioni. Democraticamente e non con un colpo di stato.

«Tuo cugino forse è mafioso dunque tu sei impresentabile». I ragionamenti di Claudio Fava e la caccia alle streghe, scrive Davide Varì il 2 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Da quando la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi ha annunciato che no, stavolta la black list degli impresentabili siciliani non arriverà in tempo per le elezioni del 5 novembre, sull’isola si è ufficialmente aperta la stagione della caccia alla parentela mafiosa. L’obiettivo è quello di delegittimare e screditare il più possibile gli avversari accusandoli di aver imbarcato nelle proprie liste boss, vice- boss, semplici affiliati o, quando proprio non si trova niente di meglio, amici e parenti di mafiosi. E tra i cacciatori di taglie più attivi c’è Claudio Fava, candidato governatore della sinistra. L’ultima rivelazione del vicepresidente dell’Antimafia, che evidentemente ha spulciato come un segugio i casellari giudiziari di mezza Sicilia, riguarda la lista del candidato grillino Giancarlo Cancelleri. Tra le fila di quest’ultimo si sarebbe infatti insinuato il cugino di un boss: «Nella lista di Palermo dei 5stelle è candidato Giacomo Li Destri, cugino di primo grado dell’omonimo Giacomo Li Destri, sotto processo per associazione a delinquere di stampo mafioso e ritenuto referente di Cosa Nostra a Caltavuturo», ha infatti denunciato Fava che poi ha sentenziato: «Si tratta di una candidatura inopportuna politicamente e moralmente». Che poi il Li Destri sia ancora sotto processo e dunque sia un boss soltanto presunto, è questione di lana caprina che a Fava interessa assai poco. Come del resto non gli interessa che il candidato non è il Li Destri” presunto boss, ma il Li Destri” cugino. Del resto la trovata del cosiddetto reato di parentela mafiosa non è certo cosa recente. Da Napoli in giù, non c’è elezione in cui l’albero genealogico dei candidati non venga sezionato, tanto da diventare parte integrante del curriculum dell’aspirante onorevole. E non importa che la Cassazione e i Tar di mezza Italia abbiano negato qualsiasi consequezialità nel rapporto di parentela tra un candidato e il parente mafioso o presunto tale, la battaglia sul reato di parentela prosegue senza sconti. Insomma, gran parte della campagna elettorale siciliana non si gioca sull’economia di una delle regioni più povere d’Europa, né sui cavalcavia che crollano come castelli di sabbia o sulle ferrovie anteguerra. Nulla di tutto questo: il cuore dello scontro si ha sui cosiddetti impresentabili. Tanto che per attaccare il candidato del centrodestra Nello Musumeci, il dem Fabrizio Micari ha addirittura scomodato Goethe: «Musumeci si è venduto l’anima al diavolo come il dottor Faust. Si è accollato gli impresentabili pur di provare a farcela. Ha persino detto di aver saputo degli impresentabili dai giornali… sì, evidentemente dalle pagine di cronaca nera». Ma l’ultima parola, almeno fino a oggi, se l’è presa Totò Cuffaro il quale è l’unico che parla di politica: «Meno male che mi hanno interdetto il diritto di voto, vedere il Leghista Salvini che spadroneggia in Sicilia mi fa ribollire il sangue».

Come definire (giuridicamente) tutte le mafie? Scrive il 10 settembre 2018 su "La Repubblica" Lorenzo Picarella - Università di Pisa, Dipartimento Scienze Politiche, direttore del Master professore Alberto Vannucci.  (Con integrazione dell’autore dr Antonio Giangrande).

La criminalità organizzata è un fenomeno che riguarda tutte le aree geografiche del mondo, diventando un attore globale assieme agli Stati, le imprese, le istituzioni internazionali. Le conseguenze della sua presenza su uno o più territori possono comportare gravi problemi non solo di ordine pubblico, ma anche di tipo economico. A tal fine, sia a livello internazionale che di UE, si è cercato di elaborare definizioni giuridiche di criminalità organizzata nella Convenzione ONU di Palermo del 2000 e nella Decisione quadro 2008/841/GAI. Queste nozioni, tuttavia, risultano troppo vaghe e generiche. Esse, infatti, individuano la condotta illecita nella partecipazione ad un'organizzazione, i cui requisiti sono formulati in negativo (si dice ciò che organizzazione non è), composta da più di due persone e finalizzata alla commissione di reati che prevedono pene non inferiori a quattro anni (selezione quantitativa dei reati-scopo).  Inoltre, si incentiva a introdurre, cumulativamente o alternativamente, negli ordinamenti degli Stati membri la fattispecie di conspiracy, tipica dei paesi di common law, che presenta una ancora maggiore genericità. Si tratta, infatti, di un illecito penale consistente in un mero accordo tra almeno due persone per commettere un reato. All'interno di nozioni così ampie, dunque, possono rientrare i più vari fenomeni di delinquenza associata, andando incontro a un rischio di over criminalisation. Siamo in presenza di definizioni che non definiscono. Come superare l'impasse? La questione si presenta complessa. Si devono tener conto e contemperare sia le esperienze e tradizioni giuridiche dei vari ordinamenti che gli studi delle scienze sociali indispensabili ai fini definitori. In sociologia ci si scontra col problema dell'assenza di una nozione largamente condivisa. Tuttavia, a fini normativi, non è necessario trovare la definizione che all'unanimità meglio rappresenti il fenomeno, ma serve sceglierne una capace di inquadrarlo adeguatamente e che sia agevole da tradurre in fattispecie penale. Una classificazione dei gruppi criminali operata, di recente, da Varese e Campana, criminologi italiani che insegnano in Inghilterra, sembra andare in questa direzione. Le organizzazioni criminali vengono suddivise in base al tipo di attività che compiono: sodalizi specializzati nella produzione di beni (e servizi, n.d.a.) illeciti, nel commercio di tali beni e le mafie, gruppi che aspirano a governare territori e mercati. Rimarrebbero escluse le attività cosiddette predatorie (furti, frodi…) che, però, potrebbero formare una quarta categoria. Il minimo comune denominatore di questi gruppi è la presenza di una struttura organizzativa, senza specificare se gerarchica o a rete, idonea al perseguimento delle finalità associative. Introdurre questa classificazione nel contesto giuridico e istituzionale ha una serie di vantaggi e implicazioni potenzialmente fondamentali. Innanzitutto, il concetto di mafia da loro utilizzato riprende la teoria di Gambetta della mafia come industria della protezione che ha avuto applicazioni in vari Paesi del mondo, anche in quelli a non tradizionale presenza mafiosa come l'Inghilterra. Si utilizzerebbe, dunque, una definizione che già in passato è stata capace di individuare gruppi mafiosi, simili a quelli italiani, in altri territori. Uno strumento utile, dunque, per vincere la ritrosia di molti paesi a riconoscere il fenomeno e per dissipare la confusione che si crea attorno alla parola “mafia”. La divisione dei gruppi criminali secondo le attività svolte, poi, si dimostrerebbe utile per due ordini di ragioni. In primo luogo, perché la varietà delle strutture organizzative e la difficoltà nel descriverle, sotto il profilo normativo, rende necessario tenere questo elemento generico. Inoltre, il trend degli ultimi anni mostra una tendenza verso una maggiore flessibilità e fluidità di tali strutture. È, quindi, sul piano delle finalità che va effettuata la differenziazione e, di conseguenza, la qualificazione dei vari tipi di criminalità organizzata. In secondo luogo, perché suggerisce una selezione qualitativa dei reati-scopo, cioè in base al tipo di reato e non all'entità della pena, che è una modalità di incriminazione piuttosto comune tra i paesi UE e utilizzata nel RICO americano, la normativa più evoluta di contrasto al crimine organizzato tra gli ordinamenti di common law, di cui potrebbe diventare il modello di riferimento. Diverso è il discorso per i gruppi mafiosi per i quali è più congeniale basarsi sul metodo che sui reati-scopo. La categoria di mafia come fornitrice di protezione, che fa leva sulla reputazione e sulla violenza, sembra avvicinarsi al metodo mafioso del 416-bis italiano nel quale si fa riferimento alla forza di intimidazione del vincolo associativo. Apportando qualche modifica per andare incontro alle sensibilità giuridiche di altri ordinamenti, tale fattispecie, dunque, potrebbe costituire un esempio da imitare. L'utilizzo di tale classificazione non solo raggiungerebbe l'obiettivo di meglio definire normativamente la criminalità organizzata, ma, cosa ancora più importante, contribuirebbe a uniformare e chiarire l'interpretazione del fenomeno nei contesti istituzionali. Diventerebbe più semplice riconoscere la presenza del crimine organizzato sul proprio territorio, consapevolezza che storicamente spinge i paesi a contrastarlo con maggiore efficacia, e la cooperazione ne trarrebbe beneficio così come la conoscenza del fenomeno e il dibattito pubblico.

LA MAFIA CONVIENE. MA NON ESISTE.

La mafia, conviene, ma non esiste. O almeno come oggi ce la propinano.

Cosa è la legalità?

La legalità è ogni comportamento difforme da quanto previsto e punito dalla legge. Si parla di comportamento e non di atteggiamento. Con il primo si ha un’azione o omissione, con il secondo vi è neutralità senza effetti. Per quanto riguarda la legge c’è da dire che un popolo di “coglioni” sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie.

Cosa significa comportamento mafioso?

Prendiamo per esempio il nostro modo di chiamare i prepotenti violenti che vogliono affermare la loro volontà: diciamo “so’ camburristi”, ossia: sono camorristi. Quindi mafia significa prepotenza.

Contro il “Subisci e Taci”. Il dettato normativo. L. 13 settembre 1982 n. 646 (Rognoni-Latorre) L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.

Mafia: Nascita ed evoluzione.

Il fenomeno delle organizzazioni criminali in tutta Italia prendevano il nome di Brigantaggio. La struttura era orizzontale con nuclei locali autonomi ed indipendenti.

In tutto il Sud Italia con l’unificazione e l’occupazione Sabauda, se prima il brigantaggio ha favorito l’ascesa di Garibaldi, successivamente è diventato un piccolo esercito partigiano di liberazione di piccola durata 1860-1869. La struttura orizzontale è rimasta, ma si formò una sorta di coordinamento. Se da una parte vi fu la soppressione del brigantaggio politico meridionale, dall’altra parte in Sicilia si sviluppò il fenomeno di Cosa Nostra e del separatismo.

Mafiosi erano i potentati locali, sia essi amministratori periferici dello Stato, sia i latifondisti o potentati economici. Il loro braccio armato erano i componenti delle famiglie locali più pericolose e numerose. La mafia ha agevolativo di eventi storici: lo sbarco dei mille di Garibaldi, che ha permesso l’invasione dell’Italia meridionale da parte dei settentrionali; lo sbarco degli Alleati che ha agevolato la cacciata dei tedeschi.

La strage della portella della Ginestra a Palermo si deve ricondurre ad un tentativo di ristabilire l’ordine che veniva turbato da manifestazioni sindacali. Il fenomeno mafioso nel centro-nord Italia non era sviluppato, perché il Potere era molto più vicino alle periferie ed il controllo era più stringente.

Quel potere si sosteneva con le estorsioni, le mazzette, giochi d’azzardo e prostituzione, l’abigeato ed il furto di frutti o di bestiame. L’affare della droga verrà successivamente.

Il sistema mafioso aveva una struttura orizzontale, sia in Sicilia, sia in Calabria, sia in Campania e nel resto del Sud Italia. La Stidda e Cosa Nostra, la ‘Ndrangheta, La Sacra Corona Unita, i Basilischi, la Camorra, la Società foggiana.

Cosa Nostra, in Sicilia, rispetto alla Stidda, era il braccio armato dei potentati locali: al servizio della politica e dell’economia. Il Clan dei Corleonesi era una fazione all’interno di Cosa Nostra formatasi negli anni settanta, così chiamata perché i suoi leader più importanti provenivano dalla famiglia di Corleone: Luciano Liggio, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella. Cosa Nostra aveva struttura piramidale.

La Camorra, in Campania, da sodalizi criminali locali strutturati in linea orizzontale, agevolati dalla scarsità di risorse rispetto alla demografia del territorio, ha avuto un incremento con l’avvento di Raffaele Cutolo (Nuova Camorra Organizzata) con l’influenza e la supervisione di Cosa Nostra e ‘Ndrangheta. Con il culto della personalità degli esponenti delle fazioni in lotta la Camorra prende una struttura verticistica.

La Camorra influenzerà la Società Foggiana a struttura orizzontale.

La mafia pugliese e la mafia  lucana, invece, sono creature delle famiglie calabresi.

Il sistema statale di contrasto.

Se dal Regno Sabaudo fino al Fascismo la magistratura era sotto l’egita governativa, con l’avvento della Repubblica i Magistrati sono sotto effetto politico.

La lotta al brigantaggio era più che altro una lotta politica contro gli oppositori della monarchia Sabauda ed impegnava tutte le risorse governative. In tal senso la criminalità comune e disorganizzata ne veniva avvantaggiata. Da sempre c’è stato il problema della sicurezza. Già oggi noi riscontriamo il problema della sicurezza. In caso di reati diffusi e ritenuti a torto bagatellari (furti, aggressioni, minacce, ingiurie, ecc.). Figuriamoci nei tempi andati, dove la struttura amministrativa aveva maglie molto più larghe e meno capillari, specialmente nei territori più remoti e lontani dal Centro del Potere. Se oggi abbiamo pochi agenti delle forze di polizia, figuriamoci allora. In questi territori lontani dal controllo burocratico il potere del Governo era affievolito perché non poteva contare su risorse adeguate di mezzi e persone. Ciò arrecava anarchia e corruzione, dove il prepotente, spesso al soldo dei ricchi, la faceva da padrone. In queste terre lontane si commettevano abusi e violenze di ogni specie, specie nei campi, lontani da occhi indiscreti. La mancanza di prove o la complicità delle istituzioni locali produceva impunità. L’impunità creava omertà.

Nella stessa America, nel Far West, per esempio si assoldavano pistoleri, spesso loro stessi criminali,  per incutere rispetto al ruolo, al fine di affermare l’Ordine e la Sicurezza.

In Italia le terre più remote erano la Sicilia e la Calabria. In questi territori il rispetto, la sicurezza e l’ordine era delegata dai rappresentanti dello Stato o dai latifondisti a gruppi di cittadini, che oggi potremmo chiamare “vigilanza o ronda privata”. A questi, spesso galeotti o criminali, veniva riconosciuta una sorta di impunità dei loro crimini, nel nome dell’interesse comune.

Gli affari della Mafia.

L’attività criminale del Brigantaggio era fondata da rapine, estorsioni, furti. giochi d’azzardo e prostituzione, l’abigeato ed il furto di frutti o di bestiame.

La loro struttura solidale portava intimidazione e quindi soggezione ed omertà.

Poi è arrivata il traffico di droga ed armi, lo smaltimento di rifiuti illeciti e la tratta degli esseri umani. E cosa più importante sono arrivati gli appalti pubblici: la mafia-appalti.

L’Evoluzione della Mafia. Da coppola e lupara a penna e calcolatrice.

Nel 1950 Il Governo De Gasperi istituì La Cassa per il Mezzogiorno, ossia un fondo per finanziare lo sviluppo del meridione. Con questo strumento finanziario si ebbe la scissione tra mente e braccio armato della gestione criminale della cosa pubblica. E di conseguenza si ebbe una dicotomia del sistema mafioso tra armato e colletti bianchi. In Sicilia la struttura capillare territoriale rimase con il nome “Stidda”. Al contempo nella zona di Palermo, partendo da Corleone, si impose una struttura piramidale chiamata “Cosa Nostra” che si espanse in Italia e nel mondo. Avere a che fare con un singolo capo dei capi, era più comodo che interloquire con centinaia di capetti. Ora la gestione del potere non era più improntata sulla gestione del territorio e la commissione di reati comuni, ma sui flussi finanziari del denaro che servivano per lo sviluppo del Sud Italia. La gestione illecita di quei flussi, inoltre non era prevista e punita come illegale da nessuna norma. Quella mafia era perseguita con l’art.416 c.p.

La mafia appalti aveva appetiti enormi ed aveva tante bocche: La politica, la Massoneria deviata, le caste e le lobby. Queste componenti avena la mafia come braccio armato.

L’evoluzione dell’attacco al sistema.

Con l’avvento degli anni 80 si ebbe il salto di qualità. La torta di Mafia Appalti non era più distribuita in modo equitativo. Cominciarono a cadere le vittime eccellenti, ossia gli uomini dello Stato con alte cariche.

Lo Stato rispose con la Legge antimafia Rognoni-La Torre. Negli anni 90 si ebbe il periodo stragista.

Il Periodo Stragista e la morte di Falcone e Borsellino.

Fino a che non si è toccato il potere politico istituzionale e fino a Mani Pulite, cioè fino al tentativo di coinvolgere il PCI nelle malefatte politiche di Tangentopoli, il fenomeno mafioso rimaneva sottaciuto.

L’originale famiglia numerosa, pericolosa e prepotente territoriale, è sostituita da una famiglia più allargata: quella dei partiti che si finanziano con i fondi illeciti perché destinate per altre finalità. Questo per perpetuare il potere e le poltrone.

La gestione dell’ingente flusso di risorse finanziarie statali destinate al Sud era in mano alla politica (meno il MSI): Da Roma di decideva a chi destinare i fondi. La politica locale amministrava quei fondi. Tutti erano coinvolti.

Probabilmente il Pci, nella suddivisione della torta, era meno favorito della DC, al governo da sempre, a Roma come in Sicilia, per questo Berlinguer nel 1981 parlo di Questione morale.

Giovanni Falcone con il nuovo 416 bis c.p. istruì il Maxi Processo. Ma di questo enorme flusso di denaro se ne era accorto, come si era accorto, anche, che la faccia della mafia era cambiata. Il potere dalla Coppola e la Lupara di gente ignorante, era passato in mano ai colletti bianchi. I colletti bianchi rappresentavano i poteri dello Stato: la politica che gestiva il denaro; l’economia che riciclava quel denaro; la magistratura che insabbiava le notizie di reato. Per questo Falcone diceva che per sconfiggere la mafia bisognava seguire i soldi: quelli della Cassa del Mezzogiorno, in seguito quelli dei fondi europei. E per questo nacque la collaborazione con Antonio Di Pietro a Milano. Ma Falcone diceva anche un’altra cosa che ai magistrati dava molto fastidio perché lesiva delle loro prerogative: creare un’entità nazionale che potesse far applicare la legge in quei porti delle nebbie che erano i palazzi di giustizia.

Quell’essere diverso è costata cara a Giovanni Falcone. Su quei soldi non si doveva indagare. Il fatto che Falcone potesse avere un più alto grado di Responsabilità e Potere nei palazzi romani era osteggiato da tutti, specialmente dalla sinistra e da quei magistrati di riferimento. Falcone, che con quel ruolo al Ministero della Giustizia, aveva fatto nascere la Procura Nazionale Antimafia, era da calunniare e denigrare. Lo stesso Leoluca Orlando, “eterno” sindaco di Palermo ed esponente di quella sinistra della Dc, poi tramutata in La Rete, è stato il più acerrimo nemico di Giovanni Falcone con i suoi molteplici esposti penali contro il magistrato. L’inchiesta “Mafia appalti”, assolutamente non si doveva fare. O lo si fermava con le calunnie. O lo si fermava in alto modo.

Il Penta Partito acquisiva ed impiegava i fondi illeciti Italia su Italia. Il Pci li acquisiva e li inviava a Mosca. Qui le somme di denaro si convertivano in Rubli, ed in questa forma rientravano come finanziamenti leciti dall’Urss che li riciclava e li lavava. Finanziamenti ignorati dal Pool di Milano

Agli inizi del 1992 inizia Mani Pulite. Al Penta Partito ci pensa il Pool di Mani Pulite di Milano, che sui rubli del PCI rimane inattivo, ma che, sicuramente, Falcone non avrebbe avuto remore ad andare avanti, o chi per lui, anche attraverso gli incarichi ministeriali. Ma non doveva.

Infatti il 23 maggio 1992 con la sua morte la pista dei rubli di Mosca si ferma definitivamente.

Con la morte di Falcone e di Paolo Borsellino, che sicuro ne avrebbe proseguito le orme, il Pci è uscito indenne dal ciclone di Mani Pulite, dove addirittura la Lega ha pagato lo scotto.

E l’immagine del Pci è rimasta illibata a scanso di tutte le inchieste. Quelle inchieste in cui gli investigatori hanno trovato candidatura nei partiti da loro inquisiti, o comunque alleati: Di Pietro, Emiliano, Maritati. 

Gli affari dell’antimafia.

Con la Morte di Falcone e Borsellino gli affari della mafia sono diventati affari dell’antimafia.

L’apparato statale in mano alla sinistra: Le istituzioni, i media, la cultura, l’associazionismo e il sindacalismo hanno impiegato tutto il loro impegno nella propaganda, sfruttando al meglio la possibilità di finanziarsi economicamente con il business dell’antimafia.

Oggi con le leggi del Cazzo si attua quell’espropriazione proletaria che ha sempre ispirato il Pci (tu sei ricco perché sei mafioso ed hai rubato), ma il meridione paga un danno enorme, perché in nome della lotta alla mafia si lede la libera concorrenza. Perché il meridionale è mafioso a prescindere, ovunque esso sia.

Nel nome della lotta antimafia l’azienda meridionale non può lavorare perché se si ha sentore di mafiosità scatta l’interdittiva antimafia. Anche sol perché si ha un parente lontano ritenuto mafioso o un dipendente vicino o con parenti vicini ad esponenti mafiosi.

Nel nome dell’antimafia si sequestrano i beni di imprenditori ritenuti mafiosi da indagini aperte per delazione di pentiti fasulli. Imprenditori che alla fine risultano innocenti. Ciò nonostante quei beni vengono confiscati.

Nel nome dell’antimafia gli appalti tolti alle aziende meridionali (cessate o interdette) vanno a finire per lo più assegnati alle Cooperative Rosse, ed in minima parte ad altre aziende settentrionali.

Oggi con le leggi del Cazzo la sinistra ha pensato bene di finanziare la sua attività politica e di propaganda anche con attività extraeconomiche. Lo stesso Sciascia nel 1987 puntava il dito sui professionisti dell’antimafia.

Oggi ci ritroviamo Libera ad essere il collettore monopolista di tutte le associazioni antimafia prefettizie che costringono i loro assistiti alla denuncia, per non essere cancellati, da cui scaturisce il business delle costituzioni di parti civili e dei beni sequestrati e confiscati.

Oggi ci ritroviamo Libera ad avere il monopolio della gestione dei beni sequestrati e confiscati ai cosiddetti mafiosi o presunti tali. Gestione oltretutto sostenuta con progetti e fondi finanziati dallo Stato.

Oggi ci ritroviamo apparati giudiziari ed associativi che

Perché si è Sciasciani.

Prima degli anni ‘80 a dare carattere di mafiosità al sistema criminal-burocratico vi era solo un grande conoscitore della questione: il comunista Leonardo Sciascia. Sciascia con il suo “Il Giorno della Civetta” suddivideva la realtà contemporanea in “uomini (pochi) mezzi.

Tutte le mafie. Oggi l’originale famiglia numerosa, pericolosa e prepotente territoriale, con la coppola e la lupara, è sostituita da una famiglia più allargata e dalla faccia pulita:

Quella dei partiti che continuano a finanziarsi non più con fondi illeciti, ma con fondazioni.

Quella delle caste e delle lobby, composte da ordini, collegi, e gruppi economici, che per pressione elettorale  inducono a legiferare per i loro tornaconti

Quella delle Massonerie deviate, i cui componenti, portatori di interessi lobbistici e di gruppi economici finanziari, influenzano le scelte politiche nazionali e locali.

Queste entità spostano l’attenzione, attraverso i media a loro asserviti su falsi problemi.

Il Caporalato. Parlano di caporalato, tacendo sullo sfruttamento addirittura del magistrati onorari, ricercatori universitari, praticanti e portaborse parlamentari.

L’Usura ed i fallimenti truccati. Parlano di Usura, tacendo su quella bancaria e quella di Stato e sui fallimenti truccati e sulle aste truccate.

gestiscono in modo approssimativo ed amicale i beni sequestrati e confiscati ai cosiddetti mafiosi.

Le mafie in Italia. In questo stato di cose oggi ci troviamo ad avere oltre le nostre mafie bianche e nere, anche le mafie di importazione: nigeriana, cinese, albanese, rumena, russa, ecc.

Oggi intanto gli arroganti saccenti col ditino alzato continuano a menarla con “avversario politico  = ignorante-mafioso

Brigantaggio. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il brigantaggio fu una forma di banditismo caratterizzata da azioni violente a scopo di rapina ed estorsione, mentre in altre circostanze esso assunse risvolti insurrezionalisti a sfondo politico e sociale. Sebbene il fenomeno abbia origini remote e riguardi periodi storici e territori diversi, nella storiografia italiana questo termine si riferisce generalmente alle bande armate presenti nel Mezzogiorno tra la fine del XVIII secolo e il primo decennio successivo alla proclamazione del regno d'Italia nel 1861. L'attività brigantesca assunse connotati politici e anche religiosi all'inizio del XIX secolo, con le sollevazioni sanfediste antifrancesi. Fu duramente repressa all'epoca del Regno di Napoli e durante l'occupazione napoleonica, borbonica e risorgimentale, quando, dopo essersi ulteriormente evoluta, si oppose alle truppe del neonato Stato italiano. In questa fase storica, sia all'interno che al di fuori di queste bande e mossi anche da motivazioni di natura sociale e politica, agivano gruppi di braccianti ed ex militari borbonici.

Etimologia e definizioni. Il termine brigante descrive generalmente una persona la cui attività è al di fuori della legge. Spesso sono definiti briganti, in senso dispregiativo, combattenti e rivoltosi in particolari situazioni sociali e politiche. L'origine della parola non è ancora chiara e diverse sono le ipotesi sulla sua etimologia.

Origini e cause. Il brigantaggio sin dalla sua genesi aveva - e ha tuttora - come causa di fondo la miseria. Oltre a vera forma di banditismo (soprattutto nel Medioevo), il fenomeno ha spesso assunto connotati di vera e propria rivolta popolare. In età moderna, furono coinvolti vari strati sociali, con connessioni e complicità tra signori e banditi, investendo indifferentemente zone urbane e rurali. Il brigantaggio iniziò così a presentare una forza tale da vincere quella dello stesso Stato, incapace ancora di mediare tra i diversi ceti. Francesco Saverio Sipari, che fu tra i primi a considerare anche l'origine sociale del fenomeno, nel 1863 scrisse: «il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata» e, anticipando anche analoghe osservazioni di Giustino Fortunato, riteneva che il brigantaggio potesse esaurirsi con la "rottura" dell'isolamento delle regioni meridionali, che era dato dall'assenza di una rete infrastrutturale adeguata, di strade e di ferrovie, e con l'affrancamento dai canoni del Tavoliere. Francesco Saverio Nitti considerava il brigantaggio (in particolare nel Meridione) un fenomeno complesso, che poteva assumere i connotati di banditismo comune, di reazione alla fame e alle ingiustizie o di rivolta di natura politica (es. alla piemontesizzazione). Egli riteneva che il brigante, in gran parte dei casi, si rivelava un paladino del popolo e simbolo di rivoluzione proletaria: «Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. Ciò spiega quello che ad altri e a me e accaduto tante volte di constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell'unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell'abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori.» (Francesco Saverio Nitti)

Giustino Fortunato lo considerò «un movimento spontaneo, storicamente rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico, perché sostanzialmente di indole primitiva e selvaggia, frutto del secolare abbrutimento di miseria e di ignoranza delle nostre plebi rurali». Accanto alla miseria, alcuni identificano il brigantaggio come un fenomeno di resistenza, soprattutto in epoca risorgimentale. Il deputato liberale Giuseppe Ferrari disse: «I reazionari delle Due Sicilie si battono sotto un vessillo nazionale, voi potete chiamarli briganti, ma i padri e gli Avoli di questi hanno per ben due volte ristabiliti i Borboni sul trono di Napoli». Tuttavia il fenomeno era ben presente anche in altri stati preunitari all'alba dell'unità d'Italia, tra cui lo Stato Pontificio in cui ancor oggi si ricorda la figura de "il Passatore", il Lombardo-Veneto con Carcini, il Regno di Sardegna con Giuseppe Mayno e Giovanni Tolu.

Storia del Brigantaggio in Italia.

Impero Romano. Si inizia a parlare di brigantaggio già nell'antica Roma, quando a Taranto intorno al 185 a.C. avvenne un'insurrezione sociale composta perlopiù da pastori, che arrivarono a formare vere e proprie bande. Per risolvere la questione, il pretore Lucio Postumio Tempsano attuò una dura repressione in cui furono condannati circa 7.000 rivoltosi, alcuni dei quali furono giustiziati mentre altri riuscirono ad evadere. Anche Lucio Cornelio Silla prese provvedimenti contro i briganti (a quel tempo chiamati sicari o latrones) con la promulgazione della Lex Cornelia de sicariis nell'81 a.C., che prevedeva pene capitali come la crocifissione e l'esposizione alle belve (ad bestias) Giulio Cesare affidò nel 45 a.C. al pretore Gaio Calvisio Sabino il compito di combattere con decisione il brigantaggio che si manifestava durante la sua governanza. Strabone ricorda la figura di Seleuro, chiamato figlio dell'Etna, che per molto tempo razziò le città dell'area etnea prima di essere catturato e ucciso nei giochi gladiatori nel 35 a.C.. Nel 26 a.C., Ottaviano Augusto combatté le rivolte brigantesche in Spagna dove agiva Corocotta, un legittimista della Cantabria, mentre Tiberio trasferì 4.000 ebrei in Sardegna per opporre i ribelli, nel timore che le loro bande si trasformassero in insorgenze, istigate da rivali politici. Settimio Severo dovette inviare un distaccamento di cavalleria impegnato in Britannia in una guerra di frontiera per catturare dopo due anni (207 d.C.) il brigante Bulla Felix una sorta di Robin Hood dell'epoca.

Medioevo. In età medievale il brigantaggio si sviluppò in particolar modo nell'Italia centro settentrionale. Si formarono bande composte non solo da comuni banditi ma anche da avversari politici o persone agiate che venivano cacciati dalla loro residenza in seguito alla confisca dei loro patrimoni. Per sopravvivere queste persone furono costrette a darsi alla macchia, aggredendo mercanti e viaggiatori. Nella seconda metà del XIV secolo, si registrarono numerose attività di banditismo nel Cassinate, ad opera di briganti come Jacopo Papone da Pignataro e Simeone da San Germano, i quali, con azioni vessatorie e spoliazioni, perseguitarono le popolazioni locali. In Toscana operò il senese Ghino di Tacco, rampollo della nobile famiglia Cacciaconti Monacheschi Pecorai che non esitava anche a depredare uomini clericali come l'abate di Cluny, sebbene personalità come Giovanni Boccaccio non lo considerarono crudele con le sue vittime, tanto da essere definito, da una parte della storiografia, un "brigante gentiluomo", Dante lo cita nel sesto canto del Purgatorio della sua Divina Commedia. Queste due citazioni letterarie faranno sì che Ghino di Tacco sia il brigante medioevale italiano la cui fama sia ben sopravvissuta al suo tempo.

Secoli XVI e XVII. In età moderna proliferarono gruppi di fuorilegge costituiti particolarmente da soldati mercenari sbandati; contadini ridotti alla fame e pastori che si dettero alla macchia, rubando capi di bestiame ai latifondisti. Alle attività di brigantaggio parteciparono anche preti di campagna - simbolo di malcontento e malessere molto diffusi nel clero rurale - che andarono ad ingrossare le file dei banditi. Secondo L. Colombo «Nella seconda metà del XVI secolo il brigantaggio in tutta l'area mediterranea diventa una vera e propria marea sociale. Ondate di briganti si abbattono sulle campagne italiane arrivando a stringere in una morsa persino Roma».

Ducato di Milano. Nel secolo XVI bosco della Merlata che si estendeva a nord della città di Milano, dal borgo di Villapizzone a includere la Certosa di Garegnano era infestato da una banda di briganti che trovavano rifugio presso l'osteria Melgasciada,]capitanati dai briganti Giacomo Legorino e Battista Scorlino che finirono catturati nel maggio 1566, quindi processati con 80 complici e condannati a morte crudele e esemplare: legati alla coda di un cavallo e trascinati da questo al galoppo. Tuttavia, nonostante le ferite e probabili ossa rotte dopo due ore di supplizio il Legorino era ancora vivo, per cui fu sottoposto al supplizio della ruota a cui resistette, la conclusione venne quando per la salvezza dell'anima, il cappellano chiese al boia di sgozzarlo. Il ricordo di questi due briganti rimase nei secoli nel milanese, da Giovanni Rajberti sappiamo che le loro gesta erano ricordate e rappresentate al vecchio teatro della Stadera, in corso Venezia, ancora nel 1841]. Nel secolo XVII la situazione dell'ordine pubblico peggioro' per l'indisciplina della soldatesca al soldo degli spagnoli, che secondo Cesare Cantù: «Dopo la pace convertivansi in masnadieri; e la brughiera di Gallarate n'era sì piena, che il governo offrì 100 mila scudi di taglia a chi li distruggesse. Date a noi quella mancia, dissero essi, e vennero a incorporarsi ne' reggimenti! I banditi scorrazzavano la campagna, principalmente presso ai confini, terribili ai tranquilli ed all'autorità. Bisognava tener sentinelle sui campanili... Capi non ne erano soltanto malfattori vulgari, come i famosi Battista Scorlino e Giacomo Legorino, ma personaggi di nome, i Martinengo di Brescia; il conte Borella di Vimercato, un Barbiano da Belgiojoso, un Visconti di Brignano, i cavalieri Cotica e Lampugnano, e il marchese Annibale Porrone, "uom temerariamente contumace (dice una grida) che ha mostrato non esser altro il suo istituto che di rendersi famoso nelle più precipitose et inumane risolutioni, con sì poco timore della divina e sprezzo dell'humana giustitia".» Malfattori contro i quali le autorità non riuscivano a imporre un freno e di cui in altri casi approfittavano, come quando incaricarono il marchese Porrone di scortare con cento suoi bravi fino ai confini col granducato di Toscana un certo Rucellaj che era stato minacciato di morte in Milano.

Romagna. Alla fine del Cinquecento nei territori al confine fra la Romagna toscana e quella pontificia agiva Alfonso Piccolomini, di nobile famiglia duca di Montemarciano la cui banda armata era composto da malfattori toscani, romagnoli e marchigiani. Inizialmente amico del granduca di Toscana che lo salvò dalla cattura facendolo rifugiare in Francia ritornò in Italia, probabilmente al soldo dei nemici dei Medici e favorito dall'appoggio degli spagnoli attestati nei Presidii, minacciò dalle montagne di Pistoia la Maremma e approfittò della fame causata dalla carestia del 1590 per «sollevare i popoli», e fare «delle scorrerie». Sia il Granducato di Toscano che lo Stato Pontificio gli diedero lungamente la caccia impiegando ingenti risorse di uomini e mezzi fino a riuscire ad giustiziarlo il 16 marzo del 1591.

Stato della Chiesa e Italia Centrale. Nella seconda metà del Cinquecento, operò nell'Italia centrale e meridionale il brigante abruzzese Marco Sciarra che, raccolti attorno a sé circa un migliaio di uomini, compì scorrerie e assalti; inimicandosi sia gli spagnoli che lo stato della Chiesa. Nello stesso periodo agiva Alfonso Piccolomini, un nobile appartenente a illustre famiglia senese, che scelse la strada del brigantaggio per combattere lo stato Pontificio, messosi a capo di persone misere egli commetteva atti fuorilegge tra Umbria, Marche e Lazio. Alla fine del Cinquecento, altre bande operarono nell'Italia Centrale, capeggiate da Battistello da Fermo, Francesco Marocco, Giulio Pezzola e Bartolomeo Vallante; mentre nello stesso periodo agiva in Calabria Marco Berardi noto col nomignolo di Re Marcone. Le cronache di questo periodo riportano pure le gesta di un certo capitano Antino Tocco, nativo di San Donato Val di Comino, il quale da guardiano di pecore con l'armi in mano divenne capitano del Regno di Napoli combattendo i briganti nelle aree di confine fra il Frosinate, l'Abruzzo e il Regno di Napoli, di costui le cronache ricordano che: «fu gran Persecutore di gente scelerata, Banditi e ladri di strada de quali ne fece gran strage, dissolvendoli a fatto». Nel 1557 con una notificazione del commissario di papa Paolo IV si ordina la distruzione del paese di Montefortino vicino a Roma; i suoi abitanti sono dichiarati fuorilegge come "briganti", e i resti dell'abitato distrutto sono cosparsi di sale. Decenni dopo emerse sulla scena del brigantaggio Cesare Riccardi (noto come "Abate Cesare"), costretto alla vita clandestina per aver ucciso un nobile nel 1669 e che, nonostante la sua efferatezza, era ricordato da alcuni come un eroe dei più poveri. Nella lotta contro il brigantaggio s'impegnò con energia papa Sisto V: migliaia di briganti furono trascinati davanti alla giustizia e molti di loro vennero condannati a morte. Il papa inoltre promulgò il divieto di portare indosso armi di media e grossa taglia. Nel giro di un breve periodo il pontefice poteva affermare che il paese fosse in perfecta securitas. La repressione del brigantaggio avvenne con tre metodi: -A) piccoli reparti armati che combattevano i briganti nascosti nei boschi; -B) pagamento di taglie a delatori, disposti a svelare i covi dove si celavano i capibanda; e -C) ai briganti che si erano macchiati di delitti minori era offerta, come alternativa alla pena, la possibilità di arruolarsi nelle truppe pontificie. Alla fine del secolo XVI la campagna romana, particolarmente nelle province di Frosinone e Anagni fu soggetta a frequenti incursioni di bande di briganti, contro le quali nel 1595 papa Clemente VIII inviò alcune compagnie di cavalleria; analoga azione repressiva venne ordinata dal viceré di Napoli - conte Olivarez - contro briganti che infestavano il regno omonimo. Costoro agivano principalmente aggredendo i viandanti e corrieri nei boschi o nei tratti montuosi delle strade, derubandoli e spesso uccidendoli; in altri casi catturando persone facoltose per estorcerne riscatto. In questo periodo, tra i sequestrati le cronache riportano due nobili ecclesiastici romani: Giambattista Conti vescovo di Castellaneta e Alessandro Mantica arcivescovo di Taranto, che furono liberati dopo il pagamento d'un riscatto ingente. La persistenza del brigantaggio, che rimaneva sempre vigoroso nonostante la repressione a cui era sottoposto, era in gran parte dovuta all'appoggio che esso trovava, ora in questo ora in quello, fra i governi del granduca di Firenze, di Roma e di Napoli. Tale da rappresentare arma nascosta dei diversi governi, poiché come conseguenza dei frequenti dissidi fra il Papa e il Granduca, o il Papa e il Viceré; alle ostilità diplomatiche si accompagnavano silenziosamente attività brigantesche, favorite a turno dall'uno ai danni dell'altro: da Napoli o Firenze ai danni di Roma e viceversa. Nel 1594 papa Clemente VIII si lamentava col Nunzio di Napoli sul comportamento del Viceré dello stesso regno, dicendo che «mostrandosi favorire i banditi di questo Stato [n.d.r. ossia quello papalino] mette S. B. nella necessità di continuare nelle gravi spese che si son fatte fin adesso nella persecuzione loro».

Vicereame spagnolo di Napoli. In Aspromonte e nella Sila nel cinquecento, agiva il brigante Nino Martino, il cui ricordo, nella tradizione orale calabrese, ha portato a confonderlo con san Martino il santo dell'abbondanza. Secondo Rovani, durante i due secoli di dominazione spagnola nel napoletano, i banditi dominavano la campagna ed i nobili, se non volevano subirne vessazioni si vedevano obbligati a proteggerli, utilizzandoli come scherani quando possibile, attirandoli a Napoli in momenti politicamente torbidi, come i sussulti filofrancesi del 1647 e 1672. Nel marzo 1645 a Napoli venne promulgato un indulto generale verso tutti i briganti su cui pendesse la condanna di morte; a condizione che si arruolassero nella milizia. Un contemporaneo stimò che ad arruolarsi fossero circa 6000, su di una popolazione di 2 milioni. Nella seconda metà del secolo XVI, in Calabria nel Crotonese divenne famoso Re Marcone, soprannome di un brigante che radunò una banda armata in lotta contro il viceré spagnolo ed il potere ecclesiastico; autoproclamatosi re su una vasta area della Sila pose una taglia di duemila scudi sopra il Marchese spagnolo che lo combatteva, e dieci per ogni testa di spagnolo ucciso.

Secolo XVIII e periodo preunitario.

Regno di Sicilia. Nel Regno di Sicilia, i primi briganti apparvero, negli anni venti del '700, in particolare nell'agrigentino. Secondo Giuseppe Pitrè il fenomeno assunse rilevanza regionale nel 1766, dopo la grave siccità che colpì la Sicilia nel 1763, che portò la carestia. Il famigerato brigante Antonino Di Blasi di Pietraperzia, detto Testalonga, guidava tre bande sparse per tutta la Sicilia meridionale, insieme a Antonino Romano di Barrafranca e Giuseppe Guarnaccia di Regalbuto. Il viceré Giovanni Fogliani Sforza d'Aragona mise su ciascuno una taglia di 100 onze e inviò tre compagnie di soldati e una di dragoni e entro il marzo 1767 furono tutti catturati e giustiziati. Il brigante Pasquale Bruno visse alla fine del '700 operando nel messinese, e fu giustiziato nel 1803. Alexandre Dumas si ispirò alla sua storia per il romanzo "Pascal Bruno, il brigante siciliano". Dal 1817 il regno di Sicilia, fu unito con quello di Napoli, nel Regno delle Due Sicilie.

Regno di Napoli. Nei territori del regno borbonico gli episodi di brigantaggio furono manifesti ben prima dell'invasione francese del Regno di Napoli. Nel 1760 squadre di banditi arrivarono al punto di ordinare che le tasse fossero pagate a loro anziché al fisco, nella seconda metà del secolo XVII, mentre si recava a Roma per il conclave il cardinale Innico Caracciolo  fu catturato e liberato solo dopo il pagamento di 180 Doppie come riscatto. Un famoso brigante fu Angelo Duca (noto come Angiolillo) che si distinse tra Campania, Puglia e soprattutto in Basilicata. Catturato nel 1784 fu impiccato a Salerno e quindi, smembratone il cadavere, la testa venne esposta a Calitri. Le sue gesta furono ricordate positivamente da Pasquale Fortunato (avo del meridionalista Giustino), che compose un poema su di lui, e da Benedetto Croce che lo definì «di buona pasta, coraggioso, ingegnoso e di una certa elevatezza d'animo». Secondo lo storico inglese Hobsbawm, Angiolillo rappresenta «l'esempio forse più puro di banditismo sociale». La complicità fra nobili locali e banditi rendeva difficile combatterne le attività, per cui spesso la lotta contro i loro protettori veniva trascurata. Il processo ai banditi spesso si svolgeva ad modum belli, ovvero in forma sommaria e veloce: al reo veniva sollecitata la confessione dei crimini di cui era accusato ( di solito si trattava di appartenenza a banda armata in campagna, omicidi, ricatti...), qui si ricorreva alla tortura (sospensione e tratti di fune) per verificare quando confessato dall'imputato; dopodiché all'avvocato difensore era permessa un'ora per organizzare la difesa; a questa seguiva il pronunciamento della sentenza, che veniva eseguita immediatamente. Le teste mozzate dei condannati, erano portate in mostra per le vie di Napoli come ammonimento e conferma dell'avvenuta giustizia. Questa esibizione del cadavere avveniva un po' dappertutto in Italia fino al XIX secolo: per esempio, il cadavere di Stefano Pelloni, detto il Passatore, ucciso in Romagna nel 1851, fu posto su un carretto e portato di paese in paese a dimostrazione del cessato pericolo.

Età napoleonica. Il brigantaggio venne fortemente combattuto nel periodo napoleonico. Nel 1799 numerosi banditi dell'epoca si aggregarono ai combattenti antigiacobini noti come sanfedisti, capeggiati dal cardinale Fabrizio Ruffo per la riconquista del Regno di Napoli, divenuto Repubblica Napoletana, da parte della corona borbonica. Tra i capi briganti si ricordano : Pronio, Sciarpa e (Fra Diavolo), il più' famoso fra questi, un pluriomicida che accettò di arruolarsi nell'esercito napoletano, in cambio della remissione della pena e Gaetano Mammone, descritto da fonti dell'epoca come una persona estremamente crudele e il suo luogotenente Valentino Alonzi, zio di Chiavone che sarà uno dei maggiori briganti postunitari; gran parte di costoro furono promossi al grado di colonnello dell'armata regia e insigniti di onorificenze. Tra le azioni di queste bande vi fu la sanguinosa reazione alla Rivoluzione di Altamura contro la popolazione favorevole ai repubblicani. Decaduta la repubblica, durante il periodo della prima restaurazione borbonica molti di questi briganti proseguirono nelle loro attività violente e di rapina, scontrandosi contro le truppe borboniche, Mammone venne catturato e mori' in carcere nel 1802. Lo stesso Fra Diavolo venne temporaneamente imprigionato nell'ottobre 1800, dopo che la sua banda aveva saccheggiato alcuni paesi per approvvigionarsi, venendo quindi liberato da re Ferdinando IV e poté tornare al suo paese come Comandante Generale del dipartimento di Itri. Durante il decennio francese, vennero attuate dure repressioni contro i briganti, soprattutto in Basilicata e Calabria, regioni in cui si concentrò maggiormente la reazione legittimista alla presenza francese. Nel 1806, i generali francesi Andrea Massena e Jean Maximilien Lamarque, durante la repressione delle rivolte saccheggiarono le città lucane di Lagonegro, Viggiano, Maratea e Lauria, dove numerosi rivoltosi vennero impaccati e fucilati sommariamente. Lo stesso anno fra Diavolo venne catturato dai francesi ed impiccato a Napoli. Durante il regno di Gioacchino Murat, nel secondo periodo napoleonico, il brigantaggio antifrancese rimase sempre attivo e tra le bande più temute del periodo vi era quella di Domenico Rizzo noto come "Taccone" che arrivo' a proclamarsi "Re di Calabria e Basilicata". È nota l'opera repressiva contro il brigantaggio calabro-lucano da parte del colonnello francese Charles Antoine Manhès, ricordato da Pietro Colletta per i suoi metodi violenti e crudeli e che per la sua determinazione nel reprimere il fenomeno fu confermato nel suo incarico anche dopo il ritorno al potere borbonico.

Seconda restaurazione borbonica. In seguito alla seconda restaurazione borbonica, il re Ferdinando I attuò una campagna repressiva nei confronti delle bande di briganti. Il sovrano borbonico, in particolare nell'aprile 1816, aveva infatti emanato un decreto per lo sterminio dei briganti che infestavano Calabria, Molise, Basilicata e Capitanata, conferendo speciali poteri ai vertici dell'esercito. Il 4 luglio 1816 fu stipulato tra il governo papale e quello borbonico, un accordo di collaborazione sullo sconfinamento reciproco delle truppe, tra i territori pontifici e quello del regno borbonico, durante le azioni di repressione del brigantaggio. Questo accordo, poi rinnovato e ampliato il 19 luglio 1818, aveva lo scopo di evitare che lo stato confinante divenisse rifugio per briganti in fuga. Nella Puglia settentrionale, in Capitanata, il brigantaggio era particolarmente attivo (soprattutto nel distretto di Bovino) «...fino ad assumere connotati di massa. Ad esso si dedicavano alacremente migliaia di individui, padri e figli, che nell'assalto ai viaggiatori, alle diligenze e al procaccio trovavano la fonte primaria del proprio sostentamento». Nell'ottobre 1817 l generale inglese Richard Church ebbe il comando della sesta divisione militare, comprendente le province di Bari e di Lecce, per combattere il brigantaggio ] fiorente nelle Puglie spesso associato a società segrete antiborboniche come nel caso di Papa Ciro, sacerdote e brigante delle Murge. Gli furono dati ampi poteri, sulla falsariga di quanto era stato fatto nel periodo napoleonico nei confronti di Manhès. La sua azione di Church fu dura ed efficace. Commenta Pietro Colletta: «De' quali disordini più abbondava la provincia di Lecce, così che vi andò commissario del re coi poteri dell'alter ego il generale Church, nato inglese, passato agli stipendi napoletani per opere non lodevoli, quindi obliate per miglior fama. Il rigore di lui fu grande e giusto: centosessantatré di varie sette morirono per pena; e quindi spavento a' settari, ardimento agli onesti, animo nei magistrati, resero a quella provincia la quiete pubblica. Ma senza pro per il regno perciocché i germi di libertà rigogliavano, animati dalla Carboneria.»

Nel Regno delle Due Sicilie. Nel 1818, trasferito Church in Sicilia, fu inviato in Puglia il generale Guglielmo Pepe per organizzare le milizie provinciali da impiegare contro i briganti di Rocco Chirichigno. Nella sua cronaca di viaggio da Napoli a Lecce, pubblicata nel 1821, Giuseppe Ceva Grimaldi (marchese di Pietracatella) scrisse a proposito di questa lotta contro il brigantaggio: «Il ponte di Bovino è la nostra Selva-nera, per lungo tempo è stato luogo diletto agli scherani masnadieri, ed occupa nei canti de'nostri Bardi del Molo lo stesso posto luminoso che le balze ed i boschi della Scozia nelle croniche dell'Arcivescovo Turpino e nei canti dell'Ariosto. Oggi però questi luoghi sono perfettamente tranquilli: sedici teste di banditi chiuse in gabbie di ferro coronano da una parte e dall'altra le sponde del ponte, e questa muta ma eloquente guardia parla potentemente all'immaginazione degli scellerati.» Nel 1817 nel Cilento la banda dei Fratelli Capozzoli iniziò le sue scorribande, che proseguirono fino al 1828, quando costoro si unirono ai Filadelfi durante i Moti del Cilento, la dura repressione ad opera di Del Carrettostroncò la rivolta, i Capozzoli furono catturati l'anno seguente, giustiziati a Salerno e loro teste mozzate portate in mostra nei paesi circostanti.

Leggi speciali per la repressione del brigantaggio. Nel 1821 re Ferdinando I emise un decreto reale contenente norme severissime per la repressione del brigantaggio nei territori continentali del Regno di Napoli. Nei territori del Sud continentale venivano istituite quattro corti marziali, la Campania al maresciallo Salluzzi; l'Abruzzo, Molise, Terra di Lavoro al maresciallo Mari; Basilicata e Puglia meridionale al maresciallo Roth; la Calabria al maresciallo Pastore. In tutti i comuni borbonici venivano pubblicate delle liste di banditi, dette “Liste di fuor bando”, contenenti i nomi dei ricercati per brigantaggio, che potevano essere uccisi da chiunque, ricevendo anche un premio in denaro, rispettivamente di 200 ducati per il capobanda e di 100 per il semplice componente la banda. Le norme del Decreto reale borbonico 110/1821 prevedevano la pena di morte per chiunque facesse parte di una banda armata (era sufficiente essere membri di un gruppo anche di soli tre uomini, di cui anche uno solo armato) che commettesse crimini di qualsiasi natura. Era prevista la pena di morte anche per tutti i “manutengoli”, ovvero per quelli che, in qualunque modo, aiutassero, favorissero o si rendessero complici dei briganti: informatori, ricettatori, etc. Veniva concessa l'amnistia, ma solo per i briganti che eliminavano altri briganti. Ad esempio, un bandito otteneva l'impunità per i propri reati uccidendo un altro bandito della stessa banda, mentre un capobrigante era amnistiato soltanto se uccideva tre banditi. Se invece un bandito uccideva un capobanda, otteneva la grazia ed era anche premiato. Si cercava in questo modo d'istigare i briganti ad eliminarsi a vicenda. Il brigantaggio interessò in genere, tutta la permanenza della dinastia borbonica sul trono napoletano: «... La crisi economica del 1825-1826 prostrò il mondo delle campagne diede via alla ripresa della guerriglia rurale e a clamorosi episodi di brigantaggio» Spagnoletti segnala, in età borbonica, un «...ribellismo endemico, spesso sfociato nel brigantaggio di estese zone delle Calabrie e del Principato Citra...». Per l'abilità dimostrata durante il periodo murattiano, Ferdinando I confermò nel suo incarico il generale Charles Antoine Manhès, promosso nel 1827 a inspecteur général de gendarmerie. Ancora nell'ottobre 1859, pochi mesi prima della fine del Regno delle Due Sicilie, il re Francesco II con il Decreto n. 424 del 24 ottobre 1859 conferì a Emanuele Caracciolo, comandante in seconda della gendarmeria, destinato nelle tre Calabrie, il potere di arrestare e far processare dagli ordinari consigli di guerra delle guarnigioni di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria coloro che si macchiavano dei seguenti reati:

Comitiva armata;

Resistenza alla forza pubblica;

brigantaggio;

favoreggiamento al brigantaggio.

Il procedimento giudiziario avrebbe dovuto svolgersi secondo l'articolo 339 e seguenti dello Statuto Penale Militare e le condanne eseguire secondo l'articolo 347 del medesimo statuto, entrambi facenti parte del capitolo IX "Della processura subitanea". L'articolo 339 affermava la necessità di un "pronto esempio" per quei reati che possono «interessare la militar disciplina e la sicurezza delle truppe», e per «impedire le funeste conseguenze di simili reati» si adopererà «un più spedito giudizio che si chiamerà subitaneo». L'articolo 347 recita: "Le decisioni de' Consigli di guerra radunati con modo subitaneo non ammettono richiamo all'alta Corte militare e vengono eseguite nello stesso termine che il rispettivo Consiglio stabilirà", ossia le condanne sono inappellabili. Nel 1844 il brigante calabrese Giuseppe Melluso, rifugiato a Corfù in quanto ricercato per omicidio, partecipo' come guida allo sbarco a Cosenza della spedizione antiborbonica dei fratelli Bandiera. Il brigantaggio calabrese di questo periodo ispirò nel 1850 a Vincenzo Padula il dramma Antonello capobrigante calabrese.

Stato pontificio. Costumi dei briganti della campagna romana all'inizio del secolo XIX. Tavola da: Maria Calcott , Maria Graham, Three months passed in the mountains east of Rome, 1820. In testa un alto cappello conico adorno con bande alterne rosse bianche; il corpo ricoperto da un ampio mantello; una giacchetta di velluto blu, gilet ornata con bottoni di filigrana d'argento; camicia di lino; brache aderenti, allacciate sotto il ginocchio; ai piedi le caratteristiche cioce. L'abbigliamento è completato da una cartucciera in cuoio, attorno alla vita (detta "padroncina"); un'altra cintura di cuoio scende dalla spalla a mo' di bandoliera e porta un fodero per coltello, forchetta e cucchiaio; un grosso coltello da caccia posto di traverso sul davanti; un cuore d'argento, contenente una immagine della Madonna e Bambin Gesù, appuntato all'altezza del cuore (un altro simile spesso era appeso al collo). Grossi orecchini d'oro e ed altri oggetti (come anelli, catene, orologi) sempre d'oro arricchivano il costume. Il continuo imperversare dei briganti negli stati pontifici obbligò il cardinale Fabrizio Spada, segretario di stato di Innocenzo XIIIad emanare il 18 luglio 1696 un apposito editto contro "Grassatori, banditi, facinorosi e malviventi", per obbligare la popolazione alla delazione dei tali, minacciando galera o pena della vita per chi avesse taciuto; promettendo un premio di 100 scudi d'oro per chi avesse causato la cattura di un criminale ricercato. Nonostante questo editto, la situazione non sembrò cambiare e, agli inizi del secolo XIX, l'area inclusa fra l'Aquila, Terracina, i fiumi Tevere e Garigliano era ancora sempre, soggetta alla frequente attività di briganti. Nei dintorni di Terracina imperversava per circa 40 anni il brigante Giuseppe Mastrilli, quando questi venne catturato, la sua testa fu esposta a Terracina, rinchiusa in una gabbietta di ferro, a Porta Albina che quindi venne popolarmente chiamata "Porta Mastrilli", la testa rimase esposta fino al 19 ottobre 1822, quando fu rimossa in conseguenza a petizione popolare. Lo storico Antonio Coppi, così descrive al situazione nello stato pontificio, al tempo della Restaurazione: «Le provincie prossime a Roma furono per molti anni tormentate dagli assassini (detti volgarmente briganti), male comune colle vicine [aree] napoletane degli Abruzzi, della Terra di Lavoro e della Puglia. Nelle sollevazioni di molte popolazioni contro i Francesi, allorquando essi occupavano queste regioni, non pochi erano corsi alle armi, più per amore della rapina che della patria. Alcuni si assuefecero in tal guisa al ladroneccio e vi persistettero anche dopo terminati i popolari tumulti. Formati così diversi nocchj di ladri, che scorrevano armati per le campagne, recavansi ad unirvisi molti di coloro che avevano la stessa perversa inclinazione, o che per commessi delitti divenivano fuggiaschi... Uniti in bande costringevano i contadini ed i pastori a somministrar loro il vitto. Violavano le femmine che potevano raggiungere. Assaltavano i doviziosi, e non contenti di rapir loro quanto portavano, li conducevano sulle montagne e gli imponevano enormi taglie pel riscatto. Se non ricevevano il chiesto denaro li trucidavano fra' più orribili tormenti». Fra questi il brigante più famoso fu Antonio Gasbarrone detto Gasparrone il cui aiutante Tommaso Transerici fu l'artefice del tentato sequestro di Luciano Bonaparte dalla sua villa tuscolana in Frascati nel 1817. Sei banditi penetrarono in tale villa e, non trovandolo rapirono il suo segretario, per il quale chiesero il pagamento di un riscatto entro 24 ore, pena l'uccisione dell'ostaggio; al rapito spiegarono che, sia pur con rincrescimento sarebbe stato ucciso in caso di non pagamento, in quanto i briganti dovevano salvaguardare la loro fama di uomini d'onore nel mantenere la parola data; i banditi nei loro rapimenti non distinguevano fra uomini e donne, tant'è vero che nello stesso periodo una giovane donna, rapita tra Velletri e Terracina, fu uccisa non essendo stato pagato il suo riscatto. A seguito di queste azioni delittuose il cardinale Ercole Consalvi emise un proclama invitando i banditi ad arrendersi, promettendo loro una debole pena di sei mesi di prigionia a Castel Sant'Angelo, il pagamento loro di una somma di denaro per i giorni di imprigionamento e quindi il loro rilascio. Un certo numero di costoro si consegnarono, furono imprigionati nel castello, dove furono posti in mostra al popolo come animali selvaggi in gabbia ma, promesse nonostante, non furono liberati al termine del periodo stipulato. Tali misure, tuttavia, non servirono a ridurre il brigantaggio, particolarmente attivo nella provincia di Campagna e Marittima al confine col Regno di Napoli, e il 18 luglio 1819 il cardinale Consalvi emise un duro editto, con il quale decretava la distruzione del paese di Sonnino, nel basso Lazio, giudicato principale luogo di rifugio dei briganti locali e attirante anche malfattori del vicino regno borbonico, e punto di riferimento per bande di fuorilegge di Fondi e di Lenola. Simultaneamente tale editto imponeva lo sfratto forzato degli abitanti. Il comune sarebbe stato suddiviso fra quelli circostanti non coinvolti nel brigantaggio. La distruzione del comune venne sospesa dopo l'abbattimento di venti case; l'ordine di distruzione totale del paese definitivamente annullato l'anno seguente. Con lo stesso editto il Consalvi, tentando di coinvolgere i comuni nella lotta contro il brigantaggio, li obbligò a difendere il loro territorio dalle incursioni dei briganti e a rimborsare i derubati del denaro pagato a seguito di estorsioni. Contemporaneamente decretò riduzioni temporanee di due anni delle imposte sul sale e sul macinato, per quei paesi che avessero collaborato nella cattura o uccisione dei briganti; incremento delle taglie poste sulla testa dei ricercati e pena di morte per chi li aiutasse. Le guardie armate antibrigantaggio, già istituite nel 4 maggio 1818, vennero rafforzate e fu concesso il porto d'armi gratuito a tutti i loro appartenenti. Ad ogni comune venne richiesto di munirsi d'una torre campanaria per segnalare incursioni banditesche e chiamare a raccolta per la difesa. Chiunque non rispondesse all'appello della campana, era da considerarsi complice dei malviventi e soggetto a pene pecuniarie e corporali. La resistenza alla forza armata e l'aiuto ai briganti erano punibili fino alla pena di morte, ogni azioni militare completata con successo contro i briganti comportava un automatico avanzamento di grado dell'ufficiale al comando, mentre viceversa, degradazione o espulsione erano previste nei casi di codardia e/o disonore nel corso del servizio. L'editto annunciava che nessun ulteriore amnistia sarebbe stata concessa, ma lasciava un mese di tempo per arrendersi ed appellarsi alla clemenza del Pontefice. Nel 1821 vennero assaliti il monastero dei frati camaldolesi dell'Eremo di Tuscolo e un collegio per fanciulli alle porte di Terracina. Perdurando il brigantaggio nella provincia di Campagna e Marittima, nel 1824 vi fu appositamente inviato il cardinale Antonio Pallotta con pieni poteri, con la nomina a "legato a latere" per combatterlo. Il cardinale si insediò a Ferentino e il 25 maggio emise un editto al fine di estirpare il brigantaggio e rendere sicure le vie di comunicazione, lungo le quali avvenivano numerose aggressioni contro i viaggiatori. Alcune aggressioni furono perpetrate contro viandanti stranieri, provocando così azioni di protesta da parte dei rappresentanti del corpo diplomatico accreditato a Roma. Nell'editto il cardinale condannava a morte chiunque fosse indicato come brigante, senza alcun processo e chiunque poteva giustiziarlo e consegnato il cadavere alle autorità ricevere un premio di mille scudi:

«I. I malviventi, e i rei di qualunque delitto compreso sotto il titolo del così detto Brigantaggio mai avranno amnistia, minorazione, o commutazione di pena.

II. Quelli, che la nostra Legazione avrà pubblicato come tali, s'intenderanno con questo solo atto condannati a Morte; tutti i loro Beni confiscati, e chiunque potrà ucciderli impunemente. Fin d'ora intanto per la sua speciale notorietà si pubblica il Capo Banda Gasbarrone.

III. I Contumaci così dichiarati, cadendo in potere della Giustizia identificata la persona, nel perentorio termine di 24 ore, senza altro Processo, formalità, e Giudizio saranno esecutati colla Forca.

IV. Un solo mezzo avrà ognuno de' tali Delinquenti per esimersi dalla pena , quello cioè di darne un altro in mani alla Forza pubblica, vivo o morto in ogni modo. Sarà egli allora assoluto per Grazia, e solamente gli verrà assegnata una Città, Terra, o luogo dello Stato fuori della Legazione, da estendersi ancora ad un intera Delegazione o Provincia, se il malvivente consegnato sia un capo di conventicola, detto Capo Banda....

IX. Qualunque Individuo non Possidente darà vivo, o morto un Malvivente dichiarato , conseguirà il premio di Scudi Mille , che gli verrà immediatamente pagato da Noi sulla semplice verificazione del Fatto.»

(A. Card. Pallotta Legato., Editto del cardinale Pallotta contro i Malviventi di Marittima e Campagna)

L'operato di Pallotta si rivelò inefficace e dopo due mesi dall'incarico Leone XII, vista anche la necessità di provvedere alla sicurezza nelle strade per i pellegrini che sarebbero giunti a Roma per la celebrazione dell'anno santo 1825; lo sostituì con monsignor Giovanni Antonio Benvenuti affiancato da Ruvinetti, colonnello dei carabinieri papalini. Venne imposto il coprifuoco ai parenti dei briganti e a tutti i sospetti; questi ultimi inoltre, per poter uscire dal loro comune, dovevano essere muniti di apposito permesso. Furono controllati anche i movimenti dei cacciatori e pastori; imposto l'obbligo di denuncia della presenza di briganti e tutti i delitti attribuibili al brigantaggio vennero sottoposti al giudizio sommario d'un tribunale, presieduto dallo stesso Benvenuti. Nel 1825 viene infine posto termine alle attività di Gasbarone, che a seguito di una trattativa col vicario generale di Sezze, don Pietro Pellegrini, viene convinto a consegnarsi con la promessa del perdono pontificio, viceversa una volta catturato sarà imprigionato, senza esser mai processato, ma spostato di tempo in tempo nelle diverse prigioni dello stato pontificio e, causa la sua fama che travalicava le Alpi, oggetto di visite curiose ad parte degli stranieri in transito a Roma; Gasbarone sarà infine graziato dalla stato italiano nel 1870, quando a seguito della breccia di Porta Pia i detenuti comuni nelle carceri passeranno sotto la custodia italiana. È in questo periodo (inizi del secolo XIX) che maggiormente si diffuse in Europa la fama del brigantaggio nelle regioni italiane, Stendhal, nel suo breve scritto I briganti in Italia, pubblicato nel 1833 nel "Journal d' un voyage en Italie et en Suisse pendant l'année 1828 da Romain Colomb", dopo una rapido excursus storico che inizia citando i bravi che agivano nella Lombardia spagnola, Alfonso Piccolomini e Marco Sciarra, scrisse riferendosi al suo tempo: Tutta l’Italia è stata, contemporaneamente o di volta in volta, infestata dai briganti: ma è soprattutto negli Stati del papa e nel regno di Napoli che essi hanno regnato più a lungo e hanno proceduto in maniera più metodica e costante insieme. Là essi hanno un’organizzazione, dei privilegi e la certezza dell’impunità e, se arrivano ad essere abbastanza forti da intimorire il governo, la loro fortuna è fatta. È dunque a questo fine che tendono costantemente per tutto il tempo in cui esercitano il loro infame mestiere. Molti furono anche i pittori e gli incisori che illustrarono - soprattutto con tavole litografiche spesso acquarellate a mano - la vita e le gesta dei briganti di quel periodo, attivi nel Lazio e nelle regioni circostanti. Fra tali artisti, i più famosi furono Bartolomeo Pinelli - il maggiore - F. Cerrone, Muller, Horace Vernet, Léon Cogniet, Louis Léopold Robert, Audot, e successivamente da Anton Romako, le opere di costoro sono spesso erroneamente utilizzate per illustrare testi che sono limitati al brigantaggio post-unitario, cioè posteriore alle vicende raffigurate.

Legazione delle Romagne. L'area romagnola a metà del secolo XIX risultava afflitta da bande di briganti che secondo il Giornale di Roma "invadevano le case, rapinavano i viandanti e grassavano ognora diligenze e corrieri, estorcendo migliaia e migliaia di scudi", in risposta a queste azioni le autorità reagirono con una colonna mobile di gendarmeria effettuando arresti e processi con giudizio statario; in due soli processi svoltisi a Faenza e Imola furono condannate e fucilate 82 persone, 10 ebbero la pena capitale commutata a carcere e altri 13 pene detentive fino al carcere a vita e, nel marzo 1851 un centinaio di persone erano arrestate in attesa di simili processi a Bologna. Il più noto fra i briganti romagnoli fu Stefano Pelloni, detto il Passatore, soprattutto attivo in Romagna nella prima metà del secolo XIX, in particolare nei tre anni successivi ai moti rivoluzionari del 1848. Delle sue gesta, quelle più famose furono le occupazioni a banda armata di interi paesi Bagnara di Romagna (16 febbraio 1849), Cotignola (17 gennaio 1850), Castel Guelfo (27 gennaio 1850), Brisighella (7 febbraio 1850), Longiano (28 maggio 1850), Consandolo (9 gennaio 1851) e Forlimpopoli (sabato, 25 gennaio 1851), durante le quali metteva a sacco le abitazioni dei più ricchi, che venivano torturati e seviziati per farsi rivelare i nascondigli degli scudi e delle gioie, mentre le donne venivano stuprate. Finì ucciso in uno scontro con le truppe papaline a Russi nel 1851. Nonostante la sua ferocia, seppe dare di sé un'immagine di combattente contro i soprusi dei ricchi e potenti; tale immagine fu poi divulgata da una certa cultura popolare romagnola, che esagerò nel descrivere Pelloni come un giustiziere difensore di oppressi e miserabili; arrivando a definirlo "Passator cortese" e utilizzandone persino il ritratto come marchio di vini autoctoni.

Il Lombardo-Veneto. Nelle Prealpi lombarde a fine Settecento ed inizio Ottocento si svilupparono forme di brigantaggio in parte legate a condizioni di indigenza e in parte legate a forme di lotta contro la presenza francese. Tra i principali briganti i più rappresentativi e ricordati sono Giacomo Carciocchi attivo nella zona di Plesio, che comandava una banda di rivoltosi che si era nominata Armata cattolica e chiamata dai tribunali Briganti del Lario o Briganti della montagna di Rezzonico e Vincenzo Pacchiana, attivo nella Val Brembana, ricordato come una sorta di Robin Hood locale. Pacchiana morì il 6 agosto 1806 ucciso da Carciocchi, presso cui si era rifugiato, la sua testa tagliata venne consegnata alle autorità francesi dal suo uccisore, per ottenere la taglia di 60 zecchini, e fu esposta a monito sotto la ghigliottina alla Fara (località nei pressi di porta sant'Agostino) a Bergamo. Il ricordo di questi capi briganti e dei loro compari è rimasto nell'immaginario popolare divenendo maschere del teatro delle marionette. Conclusosi il periodo napoleonico, e ripristinata l'autorità austriaca, allargata al Veneto, quest'ultimo e l'area della Bassa Mantovana, in particolare le province di Padova, Venezia, Rovigo e Mantova si trovarono anch'esse sottoposte a scorrerie di briganti, riunitisi in piccole bande composte da disertori dell'esercito austriaco, del precedente esercito del Regno italico e persone in condizioni di indigenza. A seguito dell'accentuarsi di attività criminali nei pressi di Este le autorità austriache istituirono due sezioni venete e lombarde del tribunale statario e la Commissione inquirente militare in Este che dal giugno 1850 al giugno 1853 svolsero 1400 processi, emettendo «1.144 sentenze di morte di cui 409 eseguite».

Piemonte. Nel corso del periodo napoleonico, nella zone compresa fra l'alessandrino e la Liguria, fu attivo Giuseppe Mayno, che si faceva chiamare Re di Marengo e Imperatore delle Alpi, la sua banda arrivò nel novembre 1804 ad assalire la comitiva che accompagnava la carrozza di papa Pio VII in viaggio verso a Parigi per l'incoronazione di Napoleone. Venne ucciso il 12 aprile 1806 in un agguato mentre si recava a visitare la moglie, il suo corpo venne esposto a monito in Piazza d'Armi ad Alessandria, secondo Lombroso «Mayno della Spinetta era fedele e appassionato marito; e in causa della moglie fu preso». Un altro brigante, attivo in quel periodo nel Cuneese fu Giovanni Scarsello , capo della banda dei "fratelli di Narzole", che finirà ghigliottinato, mentre nel vercellese furono attivi i fratelli Canattone, che derubavano i viandanti che traghettavano per attraversare il fiume Elvo nella zona di Formigliana.

Periodo postunitario.

Regno d'Italia. Con la nascita del Regno d'Italia nel 1861, ma anche prima con l'arrivo di Garibaldi a Napoli, sorsero di nuovo insurrezioni popolari, questa volta contro il nuovo governo, che interessarono le ex province del Regno delle Due Sicilie. Tra le cause principali del brigantaggio post-unitario si possono elencare: il serio peggioramento delle condizioni economiche; l'incomprensione e indifferenza della nuova classe dirigente, per la popolazione da loro amministrata; l'aumento delle tasse e dei prezzi di beni di prima necessità; l'aggravarsi della questione demaniale, dovuta all'opportunismo dei ricchi proprietari terrieri. Il brigantaggio, secondo alcuni, fu la prima guerra civile dell'Italia contemporanea e fu soffocato con metodi brutali, tanto da scatenare polemiche persino da parte di esponenti liberali e politici di alcuni stati europei. Tra i politici europei che espressero critiche nei confronti dei provvedimenti contro il brigantaggio vi furono lo scozzese McGuire, il francese Gemeau e lo spagnolo Nocedal. Alcune correnti di pensiero considerano il brigantaggio postunitario come una sorta di guerra di resistenza, benché tale ipotesi sia molto controversa. I briganti del periodo erano principalmente persone di umile estrazione sociale, ex soldati dell'esercito delle Due Sicilie ed ex appartenenti all'esercito meridionale, e vi erano anche banditi comuni, oltre che briganti già attivi come tali sotto il precedente governo borbonico. La loro rivolta fu incoraggiata e sostenuta dal governo borbonico in esilio, dal clero e da movimenti esteri come i carlisti spagnoli. Numerosi furono i briganti del periodo che passarono alla storia. Carmine "Donatello" Crocco, originario di Rionero in Vulture (Basilicata), fu uno dei più famosi briganti di quel periodo. Egli riuscì a radunare sotto il suo comando circa duemila uomini, compiendo scorribande tra Basilicata, Campania, Molise e Puglia, affiancato da luogotenenti come Ninco Nanco e Giuseppe Caruso. Occorre anche sottolineare che il brigantaggio in Lucania era manovrato soprattutto da ex murattiani indipendentisti, affiancati dal francese Langlois, che agevolavano il tentativo francese di rendere il Sud ingovernabile e, tramite una conferenza internazionale, toglierlo ai Savoia per assegnarlo alla casata filo-francese dei Murat. Da menzionare è anche il campano Cosimo Giordano, brigante di Cerreto Sannita, che divenne noto per aver preso parte all'attacco (e al successivo massacro) ai danni di alcuni soldati del regio esercito, accadimento che ebbe come conseguenza una violenta rappresaglia sulle popolazioni civili di Pontelandolfo e Casalduni, ordinata dal generale Enrico Cialdini. Altri noti furono Luigi "Chiavone" Alonzi, che agì tra l'ex Regno borbonico e lo Stato Pontificio, Michele "Colonnello" Caruso, uno dei più temibili briganti che operarono in Capitanata, e l'abruzzese Giuseppe Luce della Banda di Cartore che, insieme ad altri complici, il 18 maggio 1863, rapì e uccise, bruciandolo vivo, il ricco possidente terriero e capitano della Guardia nazionale italiana Alessandro Panei di Santa Anatolia (Borgorose). Anche le donne parteciparono attivamente alle rivolte postunitarie, come le brigantesse Filomena Pennacchio, Michelina Di Cesare, Maria Maddalena De Lellis e Maria Oliverio. Per acquietare la ribellione meridionale, furono necessari massicci rinforzi militari e promulgazioni di norme speciali temporanee (come la legge Pica in vigore dall'agosto 1863 al dicembre 1865 su gran parte dei territori continentali del precedente regno delle Due Sicilie), dando origine uno scontro che porterà migliaia di morti. La repressione del brigantaggio postunitario fu molto cruenta e fu condotta col pugno di ferro da militari come Enrico Cialdini, Alfonso La Marmora, Pietro Fumel, Raffaele Cadorna e Ferdinando Pinelli, che destarono polemiche per i metodi impiegati. Alla sconfitta di questo brigantaggio contribuì anche il cambiamento di atteggiamento dello stato Pontificio, che dal 1864 non fornì più appoggio ai briganti, arrestando lo stesso Crocco, che cercava rifugio nel suo territorio; non più terra franca per i briganti, il Papato iniziò a sua volta a combatterli, istituendo un apposito reparto di "squadriglieri" e stipulando nel 1867 un accordo di collaborazione reciproca con le autorità italiane sullo sconfinamento delle truppe all'inseguimento di briganti in fuga; lo stesso anno fu emanato un editto firmato dal Delegato apostolico Luigi Pericoli, per le province di Frosinone e Chieti, che ricalcava le tematiche della legge Pica. Va evidenziato che questo aspetto di brigantaggio, inteso come rivolta antisabauda, interessò quasi esclusivamente i territori meridionali continentali ex borbonici, mentre in pratica non si verificò nei territori di tutti gli altri stati preunitari annessi dal Regno di Sardegna per formare l'Italia unita durante il Risorgimento. Tale diversità di avvenimenti e comportamenti indica la profonda differenza, già esistente nel 1861, tra il Nord-Centro ed il Sud della penisola, divario che sarà meglio noto con il nome di Questione meridionale, fonte di infiniti dibattiti e tesi. La questione non è ancora conclusa né definita unanimemente nelle sue cause da storici e studiosi.

Stato pontificio. A metà degli anni '60 del secolo XIX il brigantaggio crebbe notevolmente fino al 1867 e a partire da circa il 1865 si assistette ad un deciso cambio di politica nella lotta al brigantaggio da parte delle autorità vaticane, e con un articolo del 25 maggio 1867 Civiltà Cattolica arrivò ad accusare l'incremento del brigantaggio nelle province papaline alla fomentazione da parte del partito garibaldino allo scopo di indebolirne lo stato, aumentare il malcontento della popolazione e facilitare l'invasione dello stato e la conseguente presa di Roma. Nell'artico si legge: «Infatti noi abbiamo a suo tempo, coi documenti ufficiali e con le stesse parole dei Ministri e Deputati del Governo rivoluzionario che ora risiede in Firenze a Firenze, posto in chiaro che, tra i mezzi morali, sulla cui efficacia per abbattere il Governo pontificio faceasi grande assegnamento, primeggiava il brigantaggio; dal quale quegli onesti politici si ripromettevano queste conseguenze: 1" malcontento eccessivo delle popolazioni; 2" disorganamento delle truppe pontifìcie; 3" motivo in apparenza ragionevole alle truppe rivoluzionarie, per invadere le province meridionali della Chiesa, sotto colore di difendere le proprie frontiere, di accorrere per dovere di umanità a tutela dei popoli taglieggiati dai briganti, e di supplire alla impotenza del Governo pontificio. Di qui si spiegano gli incrementi del brigantaggio fino al Dicembre 1866 nelle province meridionali pontificie; essendo per altra parte notorio che a tal uopo il brigantaggio fu fomentato dal partito garibaldino, che intanto mirava a sommuovere eziandio Roma, dove anche presentemente fa, come vedremo a suo luogo, in questo stesso quaderno, supremi sforzi per recarvi la rivoluzione». Negli ultimi anni di vita dello Stato pontificio, le province Campagna e Marittima del Lazio meridionale continuarono ad essere infestata da bande di briganti, tra queste si distinse la banda capitanata dal brigante Cesare Panici, ricordata in particolare per il rapimento del bambino di undici anni Ignazio Tommasi avvenuto il 14 settembre 1867 sulla strada per Cori e il tentato sequestro, di Luigi Ricci, vescovo di Segni, fallito dopo un assalto alla sua diligenza.

Fine ottocento e inizio novecento. Fenomeni di brigantaggio, seppur di diversa natura da quelli che coinvolsero l'Italia meridionale a seguito dell'annessione al regno sabaudo, si svilupparono o continuarono ad essere presenti in diverse regioni d'Italia tra la seconda metà dell'Ottocento e i primi anni del Novecento. In Maremma, area a cavallo tra la Toscana e il Lazio, le cause sono attribuibili ad un forte malcontento che si era diffuso nella popolazione, nei primi anni dopo l'Unità d'Italia, quando furono interrotti grandi lavori di bonifica idraulica e la riforma fondiaria. Tra i protagonisti di questo brigantaggio è ricordato Domenico Tiburzi, considerato un protettore dei deboli contro le ingiustizie e le disuguaglianze sociali; altri fuorilegge furono Ranucci, Menichetti e Albertini. Tuttavia, sia in Provincia di Grosseto che in quella di Viterbo, questo fenomeno - a differenza del brigantaggio meridionale - non divenne mai organizzato, in quanto ogni brigante era solitario, pur avendo i propri seguaci tra i quali cercava di diffondere il suo stile, non aspirava mai al controllo di un piccolo esercito. Le scorrerie e gli atti criminali erano prevalentemente rivolti ai simboli rappresentanti i grandi proprietari latifondisti e il nuovo Stato italiano; il bersaglio delle loro azioni, apparentemente non intese per la popolazione, erano i simboli dell'autorità pubblica: guardiani; guardacaccia e i carabinieri oltreché alle grandi tenute stesse. Tra i briganti della Tuscia viterbese, è famoso Luigi Rufoloni detto "Rufolone", originario di Sant'Angelo, piccolo borgo tra Roccalvecce e Graffignano, che s'era trasferito nella vicina Grotte Santo Stefano insediandosi nella macchia di Piantorena, proprietà della famiglia Doria Pamphili, dove era facile incontrare viandanti più o meno facoltosi, che si spostavano sulle poche strade che collegavano i paesi limitrofi.

Nell'Italia settentrionale Francesco Demichelis, detto il Biondin fu attivo con la sua banda soprattutto nella zona delle risaie del Novarese. Sul finire dell'Ottocento il brigantaggio era ancora vivo nella Basilicata (sebbene esso si fosse molto ridotto rispetto al decennio napoleonico e agli albori dell'Unità), con Michele di Gè - la cui autobiografia fu una delle fonti usate da Gaetano Salvemini per intervenire sulla questione meridionale - ed Eustachio Chita - generalmente considerato l'ultimo brigante lucano (i cui resti sono tuttora conservati nel Museo nazionale d'arte medievale e moderna della Basilicata nel comune di Matera città da cui proveniva il brigante ). In Calabria vi era Giuseppe Musolino, che acquistò notorietà anche sulla stampa straniera e divenne protagonista di canzoni popolari calabresi. Musolino si diede al brigantaggio dopo essere stato condannato per omicidio, malgrado le sue proteste d'innocenza, vendicandosi di coloro che lo avevano compromesso e tradito. Costui godeva dell'aiuto della popolazione locale, la quale vedeva in lui - com'era il solito - un simbolo di reazione contro le ingiustizie e i soprusi di quel tempo. In Sicilia alcuni briganti riscuotevano una grande ammirazione tra il popolo e le loro storie si diffondevano di bocca in bocca, spesso accrescendo ed esagerando le imprese e le lotte. Lo Stato Italiano iniziò una lotta serrata, per arginare e debellare questo fenomeno, che si ridusse con l'inizio del Novecento.

Cosa nostra. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Cosa nostra» (nel linguaggio comune genericamente detta mafia siciliana o semplicemente mafia) è una espressione utilizzata per indicare un'organizzazione criminale di tipo mafioso-terroristico presente in Sicilia, Italia e in più parti del mondo. Questo termine viene oggi utilizzato per riferirsi esclusivamente alla mafia di origine siciliana (anche per indicare le sue ramificazioni internazionali, specie negli Stati Uniti d'America, dove viene identificata come Cosa nostra statunitense, sebbene oggi entrambe abbiano diffusione a carattere internazionale), per distinguerla dalle altre associazioni ed organizzazioni mafiose. Gli interventi di contrasto da parte dello Stato italiano si sono fatti più decisi a partire dagli anni ottanta del XX secolo, attraverso le indagini del cosiddetto "pool antimafia", creato dal giudice Rocco Chinnici, in seguito diretto da Antonino Caponnetto. Facevano parte del pool anche i magistrati Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Storia.

Le origini. Nel significato criminale conosciuto oggi «Cosa nostra» nacque probabilmente nei primi anni del XIX secolo dal ceto sociale dei massari, dei 'fattori' e dei gabellotti, che gestivano i terreni della nobiltà siciliana, avvalendosi dei braccianti che vi lavoravano, anche se in verità potrebbe essere molto più antica, dato che il feudo con tutto ciò che ne consegue, esiste in Sicilia fin dall'epoca normanna. Cosa nostra, nacque perché fu da sempre sistema di potere e integrato con il potere politico-economico ufficiale vigente, iniziando così ad assumerne per suo conto le funzioni e le veci. «Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di fare esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, orfatto moltiplicare il numero dei reati. [...] Così come accadono i furti escono i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito» (Rapporto giudiziario del procuratore generale Pietro Calà Ulloa.

L'unità d'Italia. Nel 1863 Giuseppe Rizzotto scrive, con la collaborazione del maestro elementare Gaspare Mosca, I mafiusi de la Vicaria, un'opera teatrale in siciliano ambientata nelle Grandi Prigioni di Palermo che aveva come protagonisti un gruppo di detenuti che godevano «di uno speciale rispetto da parte dei compagni di prigione perché mafiosi, membri come tali di un'associazione a delinquere, con gerarchie e con specifiche usanze, tra le quali veri e propri riti di iniziazione». È a partire da questo dramma, che ebbe grande successo e venne tradotto in italiano, napoletano e meneghino, che il termine mafia si diffonde su tutto il territorio nazionale. Lo sviluppo della criminalità organizzata in Sicilia è sostanzialmente attribuibile agli eventi contemporanei e successivi all'Unità d'Italia, in particolare a quella che fu l'acuta crisi economica da questa indotta in Sicilia e nel Meridione d'Italia. Infatti lo Stato italiano, non riuscendo a garantire un controllo diretto e stabile del governo dell'isola (la cui organizzazione sociale era molto diversa da quella settentrionale), cominciò a fare affidamento sulle cosche mafiose che, ben conoscendo i meccanismi locali, facilmente presero le veci del governo centrale. Tuttavia, con il pretesto di proteggere gli agricoltori e contadini dal malgoverno feudale e dalla nobiltà, i mafiosi costrinsero gli agricoltori a pagare gli interessi per il contratto di locazione e a mantenere l'omertà. La prima analisi esaustiva in cui venne espressamente usato il termine mafia fu compiuta nel 1876 da Leopoldo Franchetti, dopo la celebre inchiesta compiuta insieme a Sidney Sonnino, che venne pubblicata con il titolo Condizioni politiche e amministrative della Sicilia. Uno dei più clamorosi processi di quegli anni fu quello tenutosi nel 1885 contro gli affiliati alla "Fratellanza di Favara", una cosca mafiosa operante nella provincia di Agrigento che aveva un rituale di iniziazione, il quale avveniva pungendo l'indice dei nuovi membri per poi tingere con il sangue un'immagine sacra, che veniva bruciata mentre l'iniziato recitava una formula di giuramento: tale cerimonia di affiliazione era tipica delle cosche mafiose di Palermo, a cui numerosi membri della "Fratellanza" erano stati affiliati nel 1879, durante la prigionia con mafiosi palermitani nel carcere di Ustica. Nel 1893, in seguito al delitto Notarbartolo, l'esistenza di Cosa nostra (e dei suoi rapporti con la politica) divenne nota in tutta Italia.

Le rivendicazioni agricole. Anche se non più con un regime feudale, nelle campagne siciliane gli agricoltori erano ancora sfruttati. I grandi proprietari terrieri risiedevano a Palermo o in altre grandi città e affittavano i loro terreni a gabellotti con contratti a breve termine, che, per essere redditizi, costringevano il gabellotto a sfruttare i contadini. Per evitare rivolte e lavorare meglio, al gabellotto conveniva allearsi con i mafiosi, che da un lato offrivano il loro potere coercitivo contro i contadini, dall'altro le loro conoscenze a Palermo, dove si siglavano la maggioranza dei contratti agricoli. A partire dal 1891 in tutta la Sicilia gli agricoltori si unirono in fasci, sorta di sindacati agricoli guidati dai socialisti locali, chiedendo contratti più equi e una distribuzione più adeguata della ricchezza. Non si trattava di movimenti rivoluzionari in senso stretto ma essi furono comunque condannati dal governo di Roma che, nella persona di Crispi, nel 1893 inviò l'esercito per scioglierli con l'uso della forza. Giuseppe de Felice Giuffrida, considerato il fondatore dei fasci siciliani, venne processato e imprigionato. Poco prima che fossero sciolti, la mafia aveva cercato di infilare alcuni suoi uomini in queste organizzazioni in modo che, se mai avessero avuto successo, essa non avrebbe perso i suoi privilegi; continuò però anche ad aiutare i gabellotti cosicché, chiunque fosse uscito vincitore, essa ci avrebbe guadagnato fungendo da mediatrice tra le parti. Quando fu chiaro che lo Stato sarebbe intervenuto con la legge marziale, la "Fratellanza", detta anche "Onorata Società" (due dei termini usati all'epoca per identificare Cosa nostra), si distaccò dai fasci (che avevano tentato in tutti i modi di evitare la penetrazione di mafiosi nelle loro file, spesso riuscendoci) e anzi aiutò il governo nella sua repressione. Come "vendetta" per l'azione dei Fasci, che voleva mettere in discussione il potere dei latifondisti, nel 1915 a Corleone i mafiosi uccisero Bernardino Verro, che era stato tra i più accesi animatori del movimento dei Fasci siciliani negli anni novanta del XIX secolo. Durante la presidenza di Giovanni Giolitti si permise alle cooperative di chiedere prestiti alle banche e di intraprendere da sole, senza gabellotti, contratti diretti coi proprietari terrieri. Questo, insieme alla nuova legge elettorale del suffragio universale maschile, portò non solo alla vittoria di diversi sindaci socialisti in varie città siciliane, ma anche all'eliminazione del ruolo mafioso nella mediazione per i contratti. Tuttavia "con Giolitti la mafia, assieme ai poteri forti (massoneria deviata, vecchia aristocrazia, borghesia eroica), monopolizzò tutta la vita economica e politica dell'isola, infatti gli appalti ed i finanziamenti alle imprese industriali e agrarie erano pilotati, così come le elezioni politiche ed amministrative". Per stroncare il pericolo "rosso", la mafia dovette allearsi con la Chiesa cattolica siciliana, anch'essa preoccupata per gli sviluppi dell'ideologia marxista materialista nelle campagne. Le cooperative cattoliche quindi non si chiusero ad infiltrazioni mafiose, a patto che questi ultimi scoraggiassero in tutti i modi i socialisti. Nel primo quindicennio del Novecento si iniziarono a contare le prime vittime socialiste ad opera della mafia, che assassinava sindaci, sindacalisti, preti, attivisti e agricoltori indisturbatamente. Il tema delle terre negate ai contadini resterà uno dei principali motivi di scontro sociale in Sicilia fino al secondo dopoguerra.

Il rapporto Sangiorgi. Al fine di contrastare il fenomeno, venne inviato in Sicilia Ermanno Sangiorgi, in veste di questore a Palermo nel 1898 mentre era in corso una guerra di mafia, iniziata due anni prima, nel 1896. Indagando sui delitti commessi dalle cosche della Conca d'Oro, Sangiorgi capì che gli omicidi non erano il prodotto di iniziative individuali, ma implicavano leggi, decisioni collegiali, e un sistema di controllo territoriale. Sangiorgi scoprì inoltre che le due famiglie più ricche di Palermo, i Florio e i Whitaker, vivevano fianco a fianco con i mafiosi della Conca d'Oro, che venivano assunti come guardiani e fattori nelle loro tenute e pagati per ricevere "protezione". Nell'ottobre 1899 Francesco Siino, capo della cosca di Malaspina sfuggito miracolosamente ad una sparatoria tesagli dagli uomini di Antonino Giammona, capo della cosca dell'Uditore, nel contesto dalla guerra di mafia, venne messo alle strette da Sangiorgi e confessò che il suo avversario Giammona gli contendeva i racket del commercio di limoni, delle rapine, delle estorsioni e della falsificazione delle banconote. Inoltre dichiarò che la Conca d'Oro era divisa in otto cosche mafiose: Piana dei Colli, Acquasanta, Falde, Malaspina, Uditore, Passo di Rigano, Perpignano, Olivuzza.

Sangiorgi, in base a queste dichiarazioni, firmò molti mandati di cattura. La notte tra il 27 e il 28 aprile 1900 la Questura fece arrestare diversi mafiosi, tra cui Antonino Giammona. Alla procura di Palermo, Sangiorgi inviò un rapporto di 485 pagine che conteneva una mappa dell'organizzazione della mafia palermitana con un totale di 280 "uomini d'onore". Il processo cominciò nel maggio 1901 ma Siino ritrattò completamente le sue dichiarazioni. Dopo solo un mese, giunsero le condanne di primo grado: soltanto 32 imputati furono giudicati colpevoli di aver dato vita a un'associazione criminale e, tenuto conto del tempo già trascorso in carcere, molti furono rilasciati il giorno dopo.

La prima guerra mondiale e le sue conseguenze. Nel 1915 l'Italia entrò nella prima guerra mondiale; vennero chiamati alle armi centinaia di migliaia di giovani da tutto il paese. In Sicilia i disertori furono numerosi: essi abbandonarono le città e si dettero alla macchia all'interno dell'isola, vivendo per lo più di rapine. A causa della mancanza di braccia per l'agricoltura e della sempre maggiore richiesta di soldati dal fronte, moltissimi terreni vennero adibiti al pascolo. Queste due condizioni fecero aumentare enormemente l'influenza di Cosa nostra in tutta l'isola. Aumentati i furti di bestiame, i proprietari terrieri si rivolsero sempre più spesso ai mafiosi, piuttosto che alle impotenti autorità statali, per farsi restituire almeno in parte le mandrie. I boss, nei loro abituali panni, si prestavano a mediare tra i banditi e le vittime, prendendo una percentuale per il loro lavoro. Alla fine della prima guerra mondiale, l'Italia dovette affrontare un momento di crisi, che rischiò di sfociare in una vera e propria rivolta popolare, ad imitazione della recente rivoluzione russa. Al nord gli operai scioperarono chiedendo migliori condizioni di lavoro, al sud sono i giovani appena tornati a casa a lamentarsi per le promesse non mantenute dal governo (in particolar modo quelle relative alla terra). Moltissimi quindi andarono ad ingrossare le file dei banditi, altri entrarono direttamente nella mafia e altri ancora cercarono di riformare i fasci o comunque parteciparono ai consigli socialisti siciliani. Fu in questo clima di tensione che il fascismo fece la sua comparsa.

Il ventennio fascista. Il fascismo iniziò una campagna contro i mafiosi siciliani, subito dopo la prima visita di Mussolini in Sicilia nel maggio del 1924. Il 2 giugno dello stesso anno venne inviato in Sicilia Cesare Mori, prima come prefetto di Trapani, poi a Palermo dal 22 ottobre 1925, soprannominato il Prefetto di ferro, con l'incarico di sradicare la mafia con qualsiasi mezzo. L'azione del Mori fu dura. Centinaia e centinaia furono gli uomini arrestati e finalmente condannati. Celebre è l'assedio di Gangi in cui Mori assediò per quattro mesi il centro cittadino, in quanto esso era considerato una delle roccaforti mafiose. In questo periodo venne arrestato il boss Vito Cascio Ferro. Dopo alcuni arresti eclatanti di capimafia, anche i vertici di Cosa nostra non si sentivano più al sicuro e scelsero due vie per salvarsi: una parte emigrò negli USA, andando ad ingrossare le file di Cosa nostra statunitense, mentre un'altra restò in disparte. Il "prefetto di ferro" scoprì anche collegamenti con personalità di spicco del fascismo come Alfredo Cucco, che fu espulso dal PNF. Nel 1929 Mori fu nominato senatore e collocato a riposo. I limiti della sua azione fu lui stesso a riconoscerli in tempi successivi: l'accusa di mafia veniva spesso avanzata per compiere vendette o colpire individui che nulla c'entravano con la mafia stessa, come fu con Cucco e con il generale Antonino Di Giorgio. Il carabiniere Francesco Cardenti così riferisce: "Il barone Li Destri al tempo della maffia era appoggiato forte ai briganti che adesso si trovano carcerati a Portolongone (Elba) se qualcuno passava dalla sua proprietà che è gelosissimo diceva: Non passare più dal mio terreno altrimenti ti faccio levare dalla circolazione, adesso che i tempi sono cambiati e che è amico della autorità [...] Non passare più dal mio terreno altrimenti ti mando al confino." I mezzi usati dalla Polizia nelle numerose azioni condotte per sgominare il fenomeno mafioso portarono ad un aumento della sfiducia della popolazione nei confronti dello Stato. Mori fu comunque il primo investigatore italiano a dimostrare che la mafia può essere sconfitta con una lotta senza quartiere, come sosterrà successivamente anche Giovanni Falcone. La mafia non appare tuttavia sconfitta dall’azione di Mori. Nel 1932, nel centro di Canicattì, vengono consumati tre omicidi (le cui modalità di esecuzione ed il mistero profondo in cui rimangono tuttora avvolti rimandano a delitti tipici di organizzazioni mafiose); intorno a Partinico, alla metà degli anni trenta, si verificarono incendi, danneggiamenti, omicidi [...] a sfondo eminentemente associativo; ma si potrebbero citare molti altri episodi dei quali la stampa non parla, cui il regime risponde con qualche condanna alla fucilazione e con una nuova ondata di invii al confino. Alcuni mafiosi erano membri del PNF, a conoscenza e con il favore di Benito Mussolini. Il principe Lanza di Scalea fu uno dei candidati nelle liste del PNF per le amministrative di Palermo mentre a Gangi il barone Antonio Li Destri, pure candidato del PNF, era protettore di banditi e delinquenti. Mori non ha sconfitto la mafia. Altri mafiosi iscritti al PNF erano Sgadari e Mocciano. Nel 1937 Genovese venne accusato di aver ordinato l'omicidio del gangster Ferdinando "Fred" Boccia, che era stato assassinato perché aveva preteso per sé una grossa somma che lui e Genovese, barando al gioco, avevano sottratto ad un commerciante; per evitare il processo, Genovese fuggì in Italia, dove si stabilì a Nola. Tramite le sue frequentazioni, conobbe alcuni gerarchi fascisti, finanziando anche la costruzione di una "Casa del Fascio" a Nola, inoltre si presume che Genovese fosse il rifornitore di cocaina di Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini.

La seconda guerra mondiale, il separatismo e i moti contadini. Esistono teorie che affermano che il mafioso statunitense Lucky Luciano venne arruolato per facilitare lo sbarco alleato in Sicilia (luglio 1943) e su questo indagò pure la Commissione d'inchiesta statunitense sul crimine organizzato presieduta dal senatore Estes Kefauver (1951), la quale giunse a queste conclusioni: «Durante la seconda guerra mondiale si fece molto rumore intorno a certi preziosi servigi che Luciano, a quel tempo in carcere, avrebbe reso alle autorità militari in relazione a piani per l'invasione della sua nativa Sicilia. Secondo Moses Polakoff, avvocato difensore di Meyer Lansky, la Naval Intelligence aveva richiesto l'aiuto di Luciano, chiedendo a Polakoff di fare da intermediario. Polakoff, il quale aveva difeso Luciano quando questi venne condannato, disse di essersi allora rivolto a Meyer Lansky, antico compagno di Luciano; vennero combinati quindici o venti incontri, durante i quali Luciano fornì certe informazioni». Infatti la Commissione Kefauver accertò che nel 1942 Luciano (all'epoca detenuto) offrì il suo aiuto al Naval Intelligence per indagare sul sabotaggio di diverse navi nel porto di Manhattan, di cui furono sospettate alcune spie naziste infiltrate tra i portuali; in cambio della sua collaborazione, Luciano venne trasferito in un altro carcere, dove venne interrogato dagli agenti del Naval Intelligence e si offrì anche di recarsi in Sicilia per prendere contatti in vista dello sbarco, progetto comunque non andato in porto. È quasi certo che la collaborazione di Luciano con il governo statunitense sia finita qui, anche se lo storico Michele Pantaleone sostenne di oscuri accordi con il boss mafioso Calogero Vizzini per il tramite di Luciano al fine di facilitare l'avanzata americana, smentito però da altre testimonianze: infatti numerosi storici liquidano l'aiuto della mafia allo sbarco alleato come un mito perché avvenne in zone dove la presenza mafiosa era tradizionalmente assente ed inoltre gli angloamericani avevano mezzi militari superiori agli italo-tedeschi da non aver bisogno dell'aiuto della mafia per sconfiggerli. In un rapporto del 29 ottobre 1943, firmato dal capitano americano W.E. Scotten, si legge che in quel periodo l'organizzazione mafiosa «è più orizzontale [...] che verticale [...] in una certa misura disaggregata e ridotta a una dimensione locale» in seguito alla repressione del periodo fascista. Tuttavia, dopo la liberazione della Sicilia, l'AMGOT, il governo militare alleato dei territori occupati, era alla ricerca di antifascisti da sostituire alle autorità locali fasciste e decise di privilegiare i grandi proprietari terrieri e i loro gabellotti mafiosi, che si presentavano come vittime della repressione fascista: ad esempio il barone Lucio Tasca Bordonaro venne nominato sindaco di Palermo, il mafioso Calogero Vizzini sindaco di Villalba, Giuseppe Genco Russo sovrintendente all'assistenza pubblica di Mussomeli e Vincenzo Di Carlo (capo della cosca di Raffadali) responsabile dell'ufficio locale per la requisizione dei cereali. Nello stesso periodo emergeva il Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, la prima organizzazione politica a mobilitarsi attivamente durante l'AMGOT, i cui leader furono soprattutto i grandi proprietari terrieri, tra cui spiccò il barone Lucio Tasca Bordonaro (in seguito indicato come un capomafia in un rapporto dei Carabinieri). Infatti numerosi boss mafiosi, fra cui Calogero Vizzini, Giuseppe Genco Russo, Michele Navarra e Francesco Paolo Bontate, confluirono nel MIS come esponenti agrari e da questa posizione ottennero numerosi incarichi pubblici e vantaggi, da cui poterono esercitare con facilità le attività illecite del furto di bestiame, delle rapine e del contrabbando di generi alimentari.

Salvatore Giuliano. Nell'autunno 1944 il decreto del ministro dell'agricoltura Fausto Gullo (che faceva parte del provvisorio governo italiano subentrato all'AMGOT) stabiliva che i contadini avrebbero ottenuto una quota più grande dei prodotti della terra che coltivavano come affittuari e venivano autorizzati a costituire cooperative e a rilevare la terra lasciata improduttiva. L'applicazione di tale normativa produsse uno scontro sociale tra i proprietari terrieri conservatori (spalleggiati dai loro gabellotti mafiosi) e i movimenti contadini guidati dai leader sindacali, tra i quali spiccarono Accursio Miraglia, Placido Rizzotto e Calogero Cangelosi, che vennero barbaramente assassinati dai mafiosi insieme a molti altri capi del movimento contadino che in quegli anni lottarono per la terra negata. Intanto nella primavera 1945 l'EVIS, il progettato braccio armato del MIS, assoldò il bandito Salvatore Giuliano (capo di una banda di banditi associata al boss mafioso Ignazio Miceli, capomafia di Monreale), che compì imboscate e assalti alle caserme dei carabinieri di Bellolampo, Pioppo, Montelepre e Borgetto per dare inizio all'insurrezione separatista; anche il boss Calogero Vizzini (che all'epoca era il rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta) assoldò la banda dei "Niscemesi", guidata dal bandito Rosario Avila, che iniziò azioni di guerriglia compiendo imboscate contro le locali pattuglie dei Carabinieri. Nel 1946 il MIS decise di entrare nella legalità ma ciò non fermò il bandito Giuliano e la sua banda, che continuarono gli attacchi contro le caserme dei Carabinieri e le leghe dei movimenti contadini, che culminarono nella strage di Portella della Ginestra (1º maggio 1947), contro i manifestanti socialisti e comunisti a Piana degli Albanesi (provincia di Palermo), in cui moriranno 11 persone e altre 27 rimarranno ferite. Infine la banda Giuliano sarà smantellata dagli arresti operati dal Comando forze repressione banditismo, guidato dal colonnello Ugo Luca, che si servì delle soffiate di elementi mafiosi per catturare i banditi: lo stesso Giuliano verrà ucciso nel 1950 dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, il quale era segretamente diventato anch'egli un informatore del colonnello Luca. In seguito Pisciotta venne arrestato ed accusò apertamente i deputati Bernardo Mattarella, Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Mario Scelba di essere i mandanti della strage di Portella della Ginestra ma morì avvelenato nel carcere dell'Ucciardone nel 1954.

Il dopoguerra e la speculazione edilizia. Nel 1950 venne varata la legge per la riforma agraria, che limitava il diritto alla proprietà terriera a soli 200 ettari ed obbligava i proprietari terrieri ad effettuare opere di bonifica e trasformazione: vennero istituiti l'ERAS (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia) e numerosi consorzi di bonifica, la cui direzione venne affidata a noti mafiosi come Calogero Vizzini, Giuseppe Genco Russo e Vanni Sacco, i quali realizzarono enormi profitti incassando gli indennizzi degli appezzamenti ceduti all'ERAS e poi rivenduti ai singoli contadini. La riforma agraria comportò lo smembramento della grande proprietà terriera (importante per gli interessi dei mafiosi, che dopo la riforma riuscirono a rivendere i feudi a prezzo maggiorato all'ERAS) e la riduzione del peso economico dell'agricoltura a favore di altri settori come il commercio o il terziario del settore pubblico. In questo periodo l'amministrazione pubblica in Sicilia divenne l'ente più importante in fatto di economia: dal 1950 al 1953 i dipendenti regionali passarono da circa 800 ad oltre 1350 a Palermo (sede del nuovo governo regionale), la quale era devastata dai bombardamenti del 1943 e 40.000 suoi abitanti, che avevano avuto la casa distrutta, richiedevano nuove abitazioni. Il nuovo piano di ricostruzione edilizia però si rivelò un fallimento e sfociò in quello che venne chiamato «sacco di Palermo»: infatti quegli anni vedevano l'ascesa dei cosiddetti “Giovani Turchi” democristiani Giovanni Gioia, Salvo Lima e Vito Ciancimino, i quali erano strettamente legati ad esponenti mafiosi ed andarono ad occupare le principali cariche dell'amministrazione locale; durante il periodo in cui prima Lima e poi Ciancimino furono assessori ai lavori pubblici di Palermo, il nuovo piano regolatore cittadino sembrò andare in porto nel 1956 e nel 1959 ma furono apportati centinaia di emendamenti, in accoglimento di istanze di privati cittadini (molti dei quali in realtà erano uomini politici e mafiosi, a cui si aggiungevano parenti e associati), che permisero l'abbattimento di numerose residenze private in stile Libertycostruite alla fine dell'Ottocento nel centro di Palermo. In particolare, nel periodo in cui Ciancimino fu assessore (1959-64), delle 4.000 licenze edilizie rilasciate, 1600 figurarono intestate a tre prestanome, che non avevano nulla a che fare con l'edilizia, e furono anche favoriti noti costruttori mafiosi (Francesco Vassallo e i fratelli Girolamo e Salvatore Moncada), che riuscirono a costruire edifici che violavano le clausole dei progetti e delle licenze edilizie. Inoltre nell'immediato dopoguerra numerosi mafiosi americani (Lucky Luciano, Joe Adonis, Frank Coppola, Nick Gentile, Frank Garofalo) si trasferirono in Italia e divennero attivi soprattutto nel traffico di stupefacenti verso il Nordamerica, stabilendo collegamenti con i gruppi mafiosi palermitani (Angelo La Barbera, Salvatore Greco, Antonino Sorci, Tommaso Buscetta, Pietro Davì, Rosario Mancino e Gaetano Badalamenti) e trapanesi (Salvatore Zizzo, Giuseppe Palmeri, Vincenzo Di Trapani e Serafino Mancuso), i quali incettavano sigarette estere ed eroina presso i contrabbandieri corsi e tangerini. Nell'ottobre 1957 si tennero una serie di incontri presso il Grand Hotel et des Palmes di Palermo tra mafiosi americani e siciliani (Gaspare Magaddino, Cesare Manzella, Giuseppe Genco Russo ed altri): gli inquirenti dell'epoca sospettarono che si incontrarono per concordare l'organizzazione del traffico degli stupefacenti, dopo che la rivoluzione castrista a Cuba (1956-57) aveva privato i mafiosi siciliani ed americani di quell'importante base di smistamento per l'eroina. Secondo il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, nel 1957 il mafioso siculo-americano Joseph Bonanno (che si trovava in visita a Palermo) prospettò l'idea di creare una «Commissione» sul modello di quella dei mafiosi americani, di cui dovevano fare parte tutti i capi dei "mandamenti" della provincia di Palermo e doveva avere il compito di dirimere le dispute tra le singole Famiglie della provincia.

La "prima guerra di mafia" e la Commissione parlamentare antimafia. Le tensioni latenti riguardo agli affari illeciti e al territorio sfociarono nell'uccisione del boss Calcedonio Di Pisa (26 dicembre 1962), che ruppe una fragile tregua raggiunta tra i principali mafiosi palermitani del tempo; l'omicidio venne compiuto da Michele Cavataio (capo della Famiglia dell'Acquasanta), che voleva fare ricadere la responsabilità sui fratelli Angelo e Salvatore La Barbera (temibili mafiosi di Palermo Centro): infatti, dopo l'assassinio di Di Pisa, Salvatore La Barberarimase vittima della «lupara bianca» su ordine della "Commissione" e ciò scatenò una serie di omicidi, sparatorie ed autobombe; Cavataio approfittò della situazione di conflitto per sbarazzarsi dei suoi avversari e per queste ragioni si associò ai boss Pietro Torretta ed Antonino Matranga (rispettivamente capi delle Famiglie dell'Uditoree di Resuttana): gli omicidi compiuti da Cavataio e dai suoi associati culminarono nella strage di Ciaculli (30 giugno 1963), in cui morirono sette uomini delle forze dell'ordine dilaniati dall'esplosione di un'autobomba che stavano disinnescando e che era destinata al mafioso rivale Salvatore "Cicchiteddu" Greco (capo del "mandamento" di Brancaccio-Ciaculli. La strage di Ciaculli provocò molto scalpore nell'opinione pubblica italiana e nei mesi successivi vi furono circa duemila arresti di sospetti mafiosi nella provincia di Palermo: per queste ragioni, secondo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Antonino Calderone, la "Commissione" di Cosa nostra venne sciolta e molte cosche mafiose decisero di sospendere le proprie attività illecite. Nello stesso periodo la Commissione Parlamentare Antimafia iniziava i suoi lavori, raccogliendo notizie e dati necessari alla valutazione del fenomeno mafioso, proponendo misure di prevenzione e svolgendo indagini su casi particolari, e concluderà queste indagini soltanto nel 1976, dopo numerosi dibattiti e polemiche. Intanto si svolsero alcuni processi contro i protagonisti dei conflitti mafiosi di quegli anni arrestati in seguito alla strage di Ciaculli: numerosi mafiosi vennero giudicati in un processo svoltosi a Catanzaro per legittima suspicione nel 1968 (il famoso "processo dei 117"); in dicembre venne pronunciata la sentenza ma solo alcuni ebbero condanne pesanti e il resto degli imputati furono assolti per insufficienza di prove o condannati a pene brevi per il reato di associazione a delinquere e, siccome avevano aspettato il processo in stato di detenzione, furono rilasciati immediatamente; un altro processo si svolse a Bari nel 1969 contro i protagonisti di una faida mafiosa avvenuta a Corleone alla fine degli anni cinquanta: gli imputati vennero tutti assolti per insufficienza di prove e un rapporto della Commissione Parlamentare Antimafia criticò aspramente il verdetto. Nel marzo 1973 Leonardo Vitale, membro della cosca di Altarello di Baida, si presentò spontaneamente alla questura di Palermo e dichiarò agli inquirenti che stava attraversando una crisi religiosa e intendeva cominciare una nuova vita; infatti si autoaccusò di numerosi reati, rivelando per primo l'esistenza di una "Commissione" e descrivendo anche il rito di iniziazione di Cosa nostra e l'organizzazione di una cosca mafiosa: si trattava del primo mafioso del dopoguerra che decideva di collaborare apertamente con le autorità e il caso venne citato nella relazione di minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia (redatta nel 1976). Tuttavia Vitale non venne ritenuto credibile e la sua pena commutata in detenzione in un manicomio criminale perché dichiarato "seminfermo di mente"; scontata la pena e dimesso, Vitale verrà ucciso nel 1984.

La stagione dei grandi traffici. Dopo la fine dei grandi processi, venne decisa l'eliminazione di Michele Cavataio poiché era il principale responsabile di molti delitti della "prima guerra di mafia", compresa la strage di Ciaculli, che avevano provocato la dura repressione delle autorità contro i mafiosi: per queste ragioni, il 10 dicembre 1969 un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Santa Maria di Gesù, Corleone e Riesi (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella, Emanuele D'Agostino, Gaetano Grado, Damiano Caruso) trucidò Cavataio nella cosiddetta «strage di viale Lazio». Dopo l'uccisione di Cavataio, nel 1970 si tennero una serie di incontri a Zurigo, Milano e Catania, a cui parteciparono mafiosi della provincia di Palermo (Salvatore Greco, Gaetano Badalamenti, Stefano Bontate, Tommaso Buscetta, Luciano Liggio) e di altre province (Giuseppe Calderone, capo della Famiglia di Catania, e Giuseppe Di Cristina, rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta subentrato al boss Giuseppe Genco Russo), i quali discussero sulla ricostruzione della "Commissione" e sull'implicazione dei mafiosi siciliani nel Golpe Borghese in cambio della revisione dei processi a loro carico; Calderone e Di Cristina stessi andarono a Roma per incontrare il principe Junio Valerio Borghese per ascoltare le sue proposte ma in seguito il progetto fallì. Durante gli incontri, venne costituito una specie di "triumvirato" provvisorio per dirimere le dispute tra le varie cosche della provincia di Palermo, che era composto da Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Luciano Leggio (capo della cosca di Corleone), benché si facesse spesso rappresentare dal suo vice Salvatore Riina. Infatti nello stesso periodo il "triumvirato" provvisorio ordinò la sparizione del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre 1970), che rimase vittima della «lupara bianca» forse per aver scoperto un coinvolgimento dei mafiosi nell'uccisione di Enrico Mattei o nel Golpe Borghese. Le indagini per la scomparsa del giornalista furono coordinate dal procuratore Pietro Scaglione, che il 5 maggio 1971 rimase vittima di un agguato a Palermo insieme al suo autista Antonino Lo Russo: si trattava del primo "omicidio eccellente" commesso dall'organizzazione mafiosa nel dopoguerra.

Gaetano Badalamenti. Nel 1974 una nuova "Commissione" divenne operativa e il boss Gaetano Badalamenti venne incaricato di dirigerla; l'anno successivo il boss Giuseppe Calderone propose la creazione di una "Commissione regionale", che venne chiamata la «Regione», un comitato composto dai rappresentanti mafiosi delle province di Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanissetta, Enna e Catania(escluse quelle di Messina, Siracusa e Ragusa dove la presenza di Famiglie era tradizionalmente assente o non avevano un'importante influenza), che doveva decidere su questioni e affari illeciti riguardanti gli interessi mafiosi di più province; Calderone venne anche incaricato di dirigere la «Regione» e fece approvare dagli altri rappresentanti il divieto assoluto di compiere sequestri di persona in Sicilia per porre fine ai rapimenti a scopo di estorsione compiuti dal boss Luciano Leggio e dal suo vice Salvatore Riina: infatti Leggio e Riina compivano sequestri contro imprenditori e costruttori vicini ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti per danneggiarne il prestigio, e si erano avvicinati numerosi mafiosi della provincia di Palermo(tra cui Michele Greco, Bernardo Brusca, Antonino Geraci, Raffaele Ganci) e di altre province (Mariano Agate e Francesco Messina Denaro nella provincia di Trapani, Carmelo Colletti e Antonio Ferro nella provincia di Agrigento, Francesco Madonia nella provincia di Caltanissetta, Benedetto Santapaola a Catania), costituendo la cosiddetta fazione dei "Corleonesi" avversa al gruppo Bontate-Badalamenti. Inoltre gli anni 1973-74 videro un boom del contrabbando di sigarette estere, che aveva il suo centro di smistamento a Napoli: infatti i mafiosi palermitani e catanesi acquistavano carichi di sigarette attraverso Michele Zaza ed altri camorristi napoletani; addirittura nel 1974 si provvide ad affiliare nell'organizzazione mafiosa Zaza, i fratelli Nuvoletta e Antonio Bardellino, al fine di tenerli sotto controllo e di lusingarne le vanità, autorizzandoli anche a formare una propria Famiglia a Napoli. Tuttavia nella seconda metà degli anni settanta numerose cosche divennero attive soprattutto nel traffico di stupefacenti: infatti facevano acquistare morfina base dai trafficanti turchi e thailandesi attraverso contrabbandieri già attivi nel traffico di sigarette e la facevano raffinare in eroina in laboratori clandestini comuni a tutte le Famiglie, che erano attivi a Palermo e nelle vicinanze; l'esportazione dell'eroina in Nordamerica faceva capo ai mafiosi palermitani Gaetano Badalamenti, Salvatore Inzerillo, Stefano Bontate, Giuseppe Bono ma anche ai Cuntrera-Caruana della Famiglia di Siculiana, in provincia di Agrigento: secondo dati ufficiali, in quel periodo i mafiosi siciliani avevano il controllo della raffinazione, spedizione e distribuzione di circa il 30% dell'eroina consumata negli Stati Uniti. Nel 1977 Riina e il suo sodale Bernardo Provenzano (che avevano preso il posto di Leggio, arrestato nel 1974) ordinarono l'uccisione del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, senza però il consenso della "Commissione regionale": infatti Giuseppe Di Cristina si era opposto all'omicidio perché avverso alla fazione corleonese e quindi legato a Bontate e Badalamenti. Nel 1978 Francesco Madonia (capo del "mandamento" di Vallelunga Pratameno, in provincia di Caltanissetta) venne assassinato nei pressi di Butera, su mandato di Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone poiché era legato a Riina e Provenzano, i quali, in risposta all'omicidio Madonia, assassinarono Di Cristina a Palermo mentre qualche tempo dopo anche Giuseppe Calderone finì ucciso dal suo sodale Benedetto Santapaola, che era passato alla fazione corleonese. Nello stesso periodo Riina fece espellere dalla "Commissione" anche Badalamenti (che fuggì in Brasile per timore di essere eliminato) e venne incaricato di sostituirlo Michele Greco (capo del "mandamento" di Brancaccio-Ciaculli, che era strettamente legato alla fazione corleonese). Nel 1979, la "Commissione", ormai composta in maggioranza dai Corleonesi, scatenò una serie di "omicidi eccellenti": in quei mesi vennero trucidati il giornalista Mario Francese (26 gennaio), il segretario democristiano Michele Reina (9 marzo), il commissario Boris Giuliano (21 luglio) e il giudice Cesare Terranova (25 settembre); nell'anno successivo vi furono altri tre "cadaveri eccellenti": il presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio), il capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio) e il procuratore Gaetano Costa (6 agosto), che venne fatto assassinare dal boss Salvatore Inzerillo per mandare un segnale ai Corleonesi, dimostrando che anche lui era capace di ordinare un omicidio "eccellente".

La "seconda guerra di mafia". Nel marzo 1981 Giuseppe Panno, capo della cosca di Casteldaccia e strettamente legato a Bontate, rimase vittima della «lupara bianca» per ordine dei Corleonesi; Bontate organizzò allora l'uccisione di Riina, il quale reagì facendo assassinare prima Bontate (23 aprile) e poi anche il suo associato Salvatore Inzerillo (11 maggio). Nel periodo successivo a questi omicidi, numerosi mafiosi appartenenti alle cosche di Bontate e Inzerillo vennero attirati in imboscate dai loro stessi associati e fatti sparire; il gruppo di fuoco corleonese eliminò anche numerosi rivali nella zona tra Bagheria, Casteldaccia ed Altavilla Milicia, che venne soprannominata «triangolo della morte» dalla stampa dell'epoca: in quell'anno (1981) si contarono circa 200 omicidi a Palermo e nella provincia, a cui si aggiunsero numerose «lupare bianche»; nel novembre 1982 furono ammazzati una dozzina di mafiosi di Partanna-Mondello, della Noce e dell'Acquasanta nel corso di una grigliata all'aperto nella tenuta di Michele Greco e i loro corpi spogliati e buttati in bidoni pieni di acido: nella stessa giornata, in ore e luoghi diversi di Palermo, furono anche uccisi numerosi loro associati per evitarne la reazione. Il massacro si estese perfino negli Stati Uniti: Paul Castellano, capo della Famiglia Gambino di New York, inviò i mafiosi Rosario Naimo e John Gambino (imparentato con gli Inzerillo) a Palermo per accordarsi con la "Commissione", la quale stabilì che i parenti superstiti di Inzerillo fuggiti negli Stati Uniti avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più in Sicilia ma, in cambio della loro fuga, Naimo e Gambino dovevano trovare ed uccidere Antonino e Pietro Inzerillo, rispettivamente zio e fratello del defunto Salvatore, fuggiti anch'essi negli Stati Uniti: Antonino Inzerillo rimase vittima della «lupara bianca» a Brooklyn mentre il cadavere di Pietro venne ritrovato nel bagagliaio di un'auto a Mount Laurel, nel New Jersey, con una mazzetta di dollari in bocca e tra i genitali (14 gennaio 1982). Tra il 1981 e il 1983 vennero commessi efferati omicidi contro 35 tra parenti e amici di Salvatore Contorno, un ex uomo di Bontate che era sfuggito ad agguato per le strade di Brancaccio (15 giugno 1981); si attuarono vendette trasversali pure contro i familiari di Gaetano Badalamenti e del suo associato Tommaso Buscetta, i quali risiedevano in Brasile ed erano sospettati di fornire aiuto al mafioso Giovannello Greco, che apparteneva alla fazione corleonese ma era considerato un "traditore" perché era stato amico di Salvatore Inzerillo ed aveva tentato di uccidere Michele Greco: il padre, lo zio, il suocero e il cognato di Giovannello Greco furono assassinati ma anche i due figli di Buscetta rimasero vittime della «lupara bianca» e gli vennero uccisi un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti. Nello stesso periodo, nelle altre province Riina e Provenzano imposero i propri uomini di fiducia, che eliminarono i mafiosi locali che erano stati legati al gruppo Bontate-Badalamenti: infatti Francesco Messina Denaro (capo del "mandamento" di Castelvetrano) divenne il rappresentante mafioso della provincia di Trapani, Carmelo Colletti della provincia di Agrigento, Giuseppe "Piddu" Madonia (figlio di Francesco e capo del "mandamento" di Vallelunga Pratameno) di quella di Caltanissetta mentre Benedetto Santapaola divenne capo della Famiglia di Catania dopo l'omicidio del suo rivale Alfio Ferlito (ex vice di Giuseppe Calderone), trucidato insieme a tre carabinieri che lo stavano scortando in un altro carcere nella cosiddetta «strage della circonvallazione» (16 giugno 1982).

L'omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro (3 settembre 1982). In queste circostanze, la "Commissione" (ormai composta soltanto da capimandamento fedeli a Riina e Provenzano) ordinò l'omicidio dell'onorevole Pio La Torre, che era giunto da pochi mesi in Sicilia per prendere la direzione regionale del PCI ed aveva proposto un disegno di legge che prevedeva per la prima volta il reato di "associazione mafiosa" e la confisca dei patrimoni mafiosi di provenienza illecita: il 30 aprile 1982 La Torre venne trucidato insieme al suo autista Rosario Di Salvo in una strada di Palermo. In seguito al delitto La Torre, il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e il ministro dell'Interno Virginio Rognoni chiesero al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa di insediarsi come prefetto di Palermo con sei giorni di anticipo: infatti il ministro Rognoni aveva promesso a Dalla Chiesa poteri di coordinamento fuori dall'ordinario per contrastare l'emergenza mafiosa ma tali poteri non gli furono mai concessi. Per queste ragioni Dalla Chiesa denunciò il suo stato di isolamento con una famosa intervista al giornalista Giorgio Bocca, in cui parlò anche dei legami tra le cosche ed alcune famose imprese catanesi; infine il 3 settembre 1982, dopo circa cento giorni dal suo insediamento a Palermo, Dalla Chiesa venne brutalmente assassinato da un gruppo di fuoco mafioso insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro e all'agente di scorta Domenico Russo.

Gli anni ottanta, i primi pentiti e i processi. Atti del Maxiprocesso. L'omicidio del generale Dalla Chiesa provocò molto scalpore nell'opinione pubblica italiana e nei giorni successivi il governo Spadolini II varò la legge 13 settembre 1982 n. 646 (detta "Rognoni-La Torre" dal nome dei promotori del disegno di legge) che introdusse nel codice penale italiano l'art. 416-bis, il quale prevedeva per la prima volta nell'ordinamento italiano il reato di "associazione di tipo mafioso" e la confisca dei patrimoni di provenienza illecita. Tutto ciò indusse i mafiosi a scatenare ritorsioni contro i magistrati che applicavano questa nuova norma: il 26 gennaio 1983venne ucciso il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, il quale era impegnato in importanti inchieste sui mafiosi della provincia di Trapani e preparava il suo trasferimento alla Procura di Firenze, da dove avrebbe potuto disturbare gli interessi mafiosi in Toscana; il 29 luglio un'autobomba parcheggiata sotto casa uccise Rocco Chinnici, capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, insieme a due agenti di scorta e al portiere del condominio. Dopo l'assassinio di Chinnici, il giudice Antonino Caponnetto, che lo sostituì a capo dell'Ufficio Istruzione, decise di istituire un "pool antimafia", ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso, di cui chiamò a far parte i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta; essi, basandosi soprattutto su indagini bancarie e patrimoniali, vecchi rapporti di polizia e procedimenti odierni, raccolsero un abbondante materiale probatorio che andò a confermare le dichiarazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, che avevano deciso di collaborare con la giustizia poiché erano stati vittime di vendette trasversali contro i loro parenti e amici durante la «seconda guerra di mafia»: il 29 settembre 1984 le dichiarazioni di Buscetta produssero 366 ordini di cattura mentre quelle di Contorno altri 127 mandati di cattura, nonché arresti eseguiti tra Palermo, Roma, Bari e Bologna. Per queste ragioni, la "Commissione" incaricò il bossPippo Calò di organizzare insieme ad alcuni terroristi neri e camorristi la strage del Rapido 904 (23 dicembre 1984), che provocò 17 morti e 267 feriti, al fine di distogliere l'attenzione delle autorità dalle indagini del pool antimafia e dalle dichiarazioni di Buscetta e Contorno. L'8 novembre 1985 il giudice Falcone depositò l'ordinanza-sentenza di 8000 pagine che rinviava a giudizio 476 indagati in base alle indagini del pool antimafia supportate dalle dichiarazioni di Buscetta, Contorno e altri ventitré collaboratori giustizia: il cosiddetto "maxiprocesso" che ne scaturì iniziò in primo grado il 10 febbraio 1986, presso un'aula bunker appositamente costruita all'interno del carcere dell'Ucciardone a Palermo per accogliere i numerosi imputati e avvocati, concludendosi il 16 dicembre 1987 con 342 condanne, tra cui 19 ergastoli che vennero commutati tra gli altri a Nitto Santapaola, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina, giudicati in contumacia. In seguito alla sentenza di primo grado, il 25 settembre 1988 il giudice Antonino Saetta venne ucciso insieme al figlio Stefano lungo la strada statale Caltanissetta-Agrigento da alcuni mafiosi di Palma di Montechiaro per fare un favore a Riina e ai suoi associati palermitani: infatti Saetta avrebbe dovuto presiedere il grado di Appello del Maxiprocesso ed aveva già condannato all'ergastolo i responsabili dell'omicidio del capitano Emanuele Basile. Infatti il 10 dicembre 1990 la Corte d'assise d'appello ridusse drasticamente le condanne di primo grado del Maxiprocesso, accettando soltanto parte delle dichiarazioni di Buscetta e Contorno.

Gli anni novanta: le stragi e la trattativa con lo Stato italiano.

La strage di Capaci (23 maggio 1992). L'avvio della stagione degli attentati venne deciso nel corso di alcune riunioni ristrette della "Commissione interprovinciale" del settembre-ottobre 1991 e subito dopo in una riunione della "Commissione provinciale" presieduta da Salvatore Riina, svoltasi nel dicembre 1991: specialmente durante questo incontro, venne deciso ed elaborato un piano stragista "ristretto", che prevedeva l'assassinio di nemici storici di Cosa nostra (i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e di personaggi rivelatisi inaffidabili, primo fra tutti l'onorevole Salvo Lima.

La strage di Via D'Amelio (19 luglio 1992). Il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò tutte le condanne del Maxiprocesso, compresi i numerosi ergastoli a Riina e agli altri boss, avallando le dichiarazioni di Buscetta e Contorno. In seguito alla sentenza della Cassazione, nel febbraio-marzo 1992 si tennero riunioni ristrette della "Commissione", sempre presiedute da Riina, che decisero di dare inizio agli attentati e stabilirono nuovi obiettivi da colpire: il 12 marzo Salvo Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche; il 23 maggio avvenne la strage di Capaci, in cui persero la vita Falcone, la moglie ed alcuni agenti di scorta; il 19 luglio avvenne la strage di via d'Amelio, in cui rimasero uccisi il giudice Borsellino e gli agenti di scorta: in seguito a questa ennesima strage, il governo reagì dando il via all'"Operazione Vespri siciliani", con cui vennero inviati 7000 uomini dell'esercito in Sicilia per presidiare gli obiettivi sensibili e oltre cento detenuti mafiosi particolarmente pericolosi vennero trasferiti in blocco nelle carceri dell'Asinara e di Pianosa per isolarli dal mondo esterno; il 19 settembre venne ucciso Ignazio Salvo (imprenditore e mafioso di Salemi), anche lui rivelatosi inaffidabile perché era stato legato a Salvo Lima.

Il 15 gennaio 1993 Riina venne arrestato dagli uomini del ROS dell'Arma dei Carabinieri. In seguito all'arresto di Riina, si creò un gruppo mafioso favorevole alla continuazione degli attentati contro lo Stato (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano) ed un altro contrario (Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi) mentre il boss Bernardo Provenzano era il paciere tra le due fazioni e riuscì a porre la condizione che gli attentati avvenissero fuori dalla Sicilia, in "continente": il 14 maggio avvenne un attentato dinamitardo in via Ruggiero Fauro a Roma ai danni del giornalista Maurizio Costanzo, il quale però ne uscì illeso; il 27 maggio un altro attentato dinamitardo in via dei Georgofili a Firenze devastò la Galleria degli Uffizi e distrusse la Torre dei Pulci (cinque morti e una quarantina di feriti).

La strage di via Palestro (27 luglio 1993). La notte del 27 luglio esplosero quasi contemporaneamente tre autobombe a Roma e Milano, devastando le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro nonché il Padiglione d'Arte Contemporanea di Milano (cinque morti e una trentina di feriti in tutto); (27 luglio 1993) il 23 gennaio 1994 era programmato un altro attentato dinamitardo contro il presidio dell'Arma dei Carabinieri in servizio allo Stadio Olimpico di Roma durante le partite di calcio ma un malfunzionamento del telecomando che doveva provocare l'esplosione fece fallire il piano omicida (episodio ricordato come il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma). Inoltre nel novembre 1993 i boss Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Giovanni Brusca e Matteo Messina Denaro avevano organizzato il sequestro di Giuseppe Di Matteo per costringere il padre Santino (che stava collaborando con la giustizia) a ritrattare le sue dichiarazioni, nel quadro di una strategia di ritorsioni verso i collaboratori di giustizia; infine, dopo 779 giorni di prigionia, Di Matteo venne brutalmente strangolato e il cadavere buttato in un bidone pieno di acido nitrico. A partire dal 1993 si svolse un importante processo per mafia, intentato dalla Procura di Palermo nei confronti dell'ex Presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti. Alla fine di un lungo iter giudiziario la Corte di Appello di Palermo nel 2003 accerterà una «...autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980», sentenza confermata nel 2004 dalla Cassazione. Il 27 gennaio 1994 vennero arrestati i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, che si erano occupati dell'organizzazione degli attentati e per questo la strategia delle bombe si fermò. In quel periodo numerosi mafiosi iniziarono a collaborare con la giustizia per via delle dure condizioni d'isolamento in carcere previste dalla nuova norma del 41-bis e dalle nuove leggi in materia di collaborazione: nel 1996 il numero dei collaboratori di giustizia raggiunse il livello record di 424 unità; contemporaneamente le indagini della neonata Direzione Investigativa Antimafia portarono all'arresto di numerosi latitanti (Leoluca Bagarella, Pietro Aglieri, Giovanni Brusca ed altre decine di mafiosi).

Gli anni duemila e l'arresto di Provenzano.

Bernardo Provenzano. A partire dagli anni novanta, Bernardo Provenzano, con l'arresto di Totò Riina e Leoluca Bagarella, diviene il capo di Cosa nostra (era l'alter-ego di Riina fin dagli anni cinquanta), circondandosi solo di uomini di fiducia, come Benedetto Spera, cambia radicalmente la politica e il modus operandi negli affari della mafia siciliana; i mandamenti (divisioni mafiose delle zone di influenza in Sicilia) più ricchi cedono i loro guadagni a quelli meno redditizi in modo da accontentare tutti (una sorta di stato sociale), evitando ulteriori conflitti. Benché Bernardo Provenzano si trovi ad essere l'ultimo dei vecchi boss, Cosa nostra non gode più di massiccio consenso, come sino a prima degli anni novanta. Nel 2002 viene arrestato il boss Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano che diviene collaboratore di giustizia. L'11 aprile del 2006, dopo 43 anni di latitanza (dal 1963), Provenzano viene catturato in un casolare a Montagna dei Cavalli, frazione a 2 km da Corleone. Il 5 novembre del 2007, dopo 25 anni di latitanza, viene arrestato, in una villetta di Giardinello, anche il presunto successore di Provenzano, il boss Salvatore Lo Piccolo assieme al figlio Sandro. In seguito all'arresto dei Lo Piccolo si riteneva che al vertice dell'organizzazione criminale vi fosse Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano (Trapani), latitante dal 1993.

Gli anni duemiladieci e l'arresto di Settimo Mineo. Nonostante la ricerca dei superlatitanti Matteo Messina Denaro e Giovanni Motisi da parte delle forze dell'ordine prosegue, il 4 dicembre 2018 il comando dei Carabinieri del capoluogo siciliano effettuano una importante operazione chiamata "Cupola 2.0" che ha portato all'arresto di 46 persone per associazione mafiosa. Tra loro il gioielliere ottantenne Settimo Mineo, ritenuto il nuovo capo dei capi di Cosa Nostra tramite elezione unanime in un summit organizzato da tutti i capi regionali il 29 maggio. Secondo gli inquirenti tale incontro ha posto le basi per la costituzione di una nuova commissione provinciale dopo 25 anni dall'ultima formazione da parte dei corleonesi ponendo Mineo come l'erede assoluto di Salvatore Riina. L'arresto di quest'ultimo come dichiarato dal Procuratore aggiunto Salvatore De Luca e dal pm Antonio Ingroia mette in dubbio per la prima volta la posizione di potere di Matteo Messina Denaro nell'organizzazione visto che anche per tradizione il capo assoluto di Cosa Nostra non è mai stato un membro situato al di fuori della provincia di Palermo. Il 22 gennaio 2019 grazie alle rivelazioni dei due nuovi collaboratori Filippo Colletti. boss di Villabate e Filippo Bisconti, capomandamento di Belmonte Mezzagno, arrestati nell'ultima operazione, vengono catturate 7 persone tra cui Leandro Greco, nipote di Michele Greco detto "il Papa" e Calogero Lo Piccolo, figlio di Salvatore, con l'accusa di riformare ed organizzare una nuova commissione provinciale dopo l'arresto di Settimo Mineo.

Organizzazione e struttura. Secondo le dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia, l'aggregato principale di Cosa Nostra è la Famiglia (detta anche cosca), composta da elementi criminali che hanno tra loro vincoli o rapporti di affinità i quali si aggregano per controllare tutti gli affari leciti e illeciti della zona dove operano; i componenti di una Famiglia collaborano con uno o più aspiranti mafiosi non ancora affiliati solitamente chiamati "avvicinati", i quali sono possibili candidati all'affiliazione e quindi vengono messi alla prova per saggiare la loro affidabilità, facendogli compiere numerose "commissioni", come il contrabbando, la riscossione del denaro delle estorsioni, il trasporto di armi da un covo all'altro, l'esecuzione di omicidi e il furto di automobili e moto per compiere atti delittuosi. Per essere affiliati nella Famiglia, esiste un rituale particolare (la cosiddetta "punciuta") che consiste nella presentazione dell'avvicinato ai componenti della Famiglia locale in riunione e, alla presenza di tutti, pronuncia un giuramento di fedeltà. I membri di una Famiglia eleggono per alzata di mano un proprio capo, che è solo un rappresentante, il quale nomina un sottocapo, un consigliere e uno o più capidecina, i quali hanno l'incarico di avvisare tutti gli affiliati della Famiglia quando si svolgono le riunioni. I rappresentanti di tre o quattro Famiglie contigue eleggono un capomandamento; tutti i mandamenti di una provincia eleggono il rappresentante provinciale, che poi nomina un sottocapo provinciale e un consigliere. Il collaboratore di giustizia Antonino Calderone dichiarò che «[...] originariamente a Palermo, come in tutte le altre province siciliane, vi erano le cariche di "rappresentante provinciale", "vice-rappresentante" e "consigliere provinciale". Le cose mutarono con Greco Salvatore "Cicchiteddu" [nel 1957] poiché venne creato un organismo collegiale, denominato "Commissione", e composto dai capi-mandamento»; anche il collaboratore Francesco Marino Mannoia dichiarò che «[...] soltanto a Palermo l'organismo di vertice di Cosa nostra è la "Commissione"; nelle altre province, vi è un organismo singolo costituito dal rappresentante provinciale». I rappresentanti della provincia sono, a loro volta, componenti della cosiddetta "Commissione interprovinciale", soprannominata anche la "Regione", che nomina un rappresentante regionale e si riuniva solitamente per deliberare su importanti decisioni riguardanti gli interessi mafiosi di più province che esulavano dall'ambito provinciale e che interessano i territori di altre Famiglie.

I rapporti con lo Stato italiano. «Cosa nostra è da un lato contro lo Stato e dall'altro è dentro e con lo Stato, attraverso i rapporti esterni con suoi rappresentanti nella società e nelle istituzioni.» (Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia). Come si rivela dalle numerose presenze nel Parlamento e nel governo di elementi non estranei a frequentazioni mafiose, si fa strada negli anni novanta la tesi secondo cui lo Stato italiano nei suoi componenti politici abbia un certo rapporto di "convivenza" con questo fenomeno mai definitivamente soppresso. Lo stesso comportamento del CSM durante il lavoro di Giovanni Falcone che inizialmente non ricandidò il giudice come presidente della commissione antimafia da lui creata fa intendere una certa tendenza a voler ostacolare un lavoro diventato troppo scomodo per certi poteri deviati all'interno dello Stato. Uno dei momenti più critici è stata la trattativa stato - mafia: fu contattato Vito Ciancimino, per mezzo di rappresentanti del Ministro dell'Interno Nicola Mancino fra cui il capitano del ROS Giuseppe De Donno, per far smettere la stagione delle stragi del 1992, 1993, in cambio dell'annullamento del decreto legge 41 bis e altri benefici per i detenuti mafiosi. A proposito dei rapporti tra mafia e stato, si parlerebbe di rito peloritano per riferirsi ad una situazione di particolare contiguità (per non dire addirittura coincidenza) tra uomini di mafia e presunti esponenti delle istituzioni italiane. Esiste inoltre una Commissione regionale che decide l'andamento delle cose anche dal punto di vista politico, ovvero decide per chi, le persone di una famiglia e i loro affiliati dovessero votare. Per esempio Salvo Lima e Vito Ciancimino furono eletti da voti mafiosi di cittadini legati alla mafia della città di Palermo, Salvo Lima non mantenne le sue promesse elettorali e fu ucciso, invece Vito Ciancimino fu condannato per essere stato un mafioso conclamato.

Rapporti con le altre organizzazioni criminali. Cosa nostra, per via del suo carisma criminale e della sua potenza delinquenziale, ha intrattenuto, e intrattiene tuttora, rapporti con le più importanti organizzazioni criminali sia italiane sia estere. Il processo di globalizzazione interessa anche il fenomeno criminale mafioso, la mafia di tutti i paesi del mondo si unisce e collabora, portando avanti le sue attività criminali caratteristiche, come il narcotraffico, l'esportazione illegale di armi, la prostituzione, l'estorsione e il gioco d'azzardo, rappresentando un problema per l'umanità, per l'ordine civile della società e il quieto vivere.

Cosa nostra statunitense. La prima collaborazione tra le due organizzazioni viene formalmente identificata nel mese di ottobre del 1957 quando i capi siciliani ed americani si incontrarono all'Hotel delle Palme di Palermo per ricucire i rapporti dopo l'interruzione a causa dell'usura e del divorzio, due pratiche inammissibili per un vero uomo d'onore siciliano, e creare un anello di congiunzione per il traffico di droga su entrambi i fronti. In questo frangente sono proprio gli americani a suggerire ai siciliani l'istituzione di una struttura di vertice chiamata Commissione. Questa attività era gestita secondo quanto riferisce Rudolph Giuliani da Tommaso Buscetta e Gaetano Badalamenti dove la mafia siciliana fungeva da contatto in Asia, Europa occidentale e chi portava la merce attraverso la frontiera degli Stati Uniti per la durata di quindici anni. Nel 2003, Bernardo Provenzano inviò dei suoi emissari, Nicola Mandalà di Villabate ed il giovane Gianni Nicchi per tentare di riattivare i rapporti di collaborazione con le famiglie di New York ma vennero riconosciuti e fotografati dagli agenti di polizia insieme al boss Frank Calì della famiglia Gambino.

Organizacija. Nel 1994 viene segnalata la presenza della mafia russa sul territorio degli Stati Uniti, ad Atlanta, e sulla loro collaborazione con Cosa nostra. Verso il 1998, la Solntsevskaya bratva di Mosca, può contare su un proprio capo a Roma che coordina gli investimenti della mafia russa in Italia. Dall'indagine risulta che rispettabili banchieri occidentali danno al boss russo consigli molto utili su come riciclare il denaro sporco dalla Russia in Europa, in maniera legale. Nel 2008 viene formalizzata la collaborazione fra mafia russa e Cosa nostra, 'ndrangheta e camorra. Sotto la supervisione della mafia russa le aziende agricole italiane, i trasporti delle merci: sia a livello internazionale, sia all'interno del paese. La mafia russa nel mondo conta circa 300.000 persone ed è la terza organizzazione criminale per la sua influenza, dopo l'originale italiana e le reti criminali cinesi. Il 2 ottobre 2012 nel Report Caponnetto si leggono le infiltrazioni della mafia russa nella Repubblica di San Marino e in Emilia-Romagna a carattere predatorio come le estorsioni.

Mafia nigeriana. Il 19 ottobre 2015 per la prima volta in Sicilia presunti membri di un'organizzazione criminale straniera vengono accusati del reato di associazione mafiosa, in particolare viene scoperta la confraternita nigeriana dei Black Axe che gestisce lo spaccio e la prostituzione nel quartiere Ballarò di Palermo sotto l'egida di Giuseppe Di Giacomo, boss del clan di Porta Nuova, ucciso poi il 12 marzo 2014. Si scopre quindi un'alleanza tra il clan palermitano e l'organizzazione nigeriana. L'Aisi, inoltre, dal 2012 controlla il presunto capo della confraternita Eyie, Grabriel Ugiagbe, gestendo i suoi affari criminali da Catania, spostandosi poi in Nord Italia, Austria e Spagna. Le famiglie catanesi ancora non sono né in contrasto né in sodalizio con essi.

Operazioni di polizia. Old Bridge. Dopo l'arresto dei Corleonesi e di Salvatore Lo Piccolo, si ipotizzò un ritorno della famiglia Inzerillo dagli USA, i cosiddetti scappati dalla seconda guerra di mafiascatenata da Totò Riina. Si voleva infatti ristrutturare l'organizzazione e ritornare al passato e rientrare nel traffico di droga, attualmente in mano alla 'Ndrangheta. Il 7 febbraio 2008 però vengono arrestate 90 persone tra New York e la Sicilia, presunti appartenenti alle famiglie Inzerillo e il suo boss Giovanni Inzerillo, Mannino, Di Maggio e Gambino, tra cui anche il boss Jackie D'Amico: fu la più grande retata dopo "Pizza connection".

Clan dei Corleonesi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il clan dei Corleonesi era una fazione all'interno di Cosa Nostra formatasi negli anni settanta, così chiamata perché i suoi leader più importanti provenivano dalla famiglia di Corleone: Luciano Liggio, Salvatore Riina, Bernardo Provenzanoe Leoluca Bagarella. I corleonesi non vanno tuttavia identificati solamente come gli appartenenti alla Famiglia di Corleone ma sono una fazione di cosche mafiose che hanno appoggiato prima Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Storia. Nel 1971 Luciano Liggio organizzò il sequestro a scopo di estorsione di Antonino Caruso, figlio dell'industriale Giacomo, ed anche quello del figlio del costruttore Francesco Vassallo mentre nel 1972 Salvatore Riina si rese responsabile del sequestro del costruttore Luciano Cassina, figlio del conte Arturo, nel quale vennero implicati uomini della cosca di Giuseppe Calò: Liggio e Riina provvidero a distribuire i riscatti dei sequestri tra le varie cosche della provincia di Palermoper ingraziarsele e queste si schierarono dalla loro parte, costituendo il primo nucleo della fazione corleonese, che era avversa ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti. Secondo il collaboratore di giustizia Antonino Calderone, in quel periodo Riina lamentava che Badalamenti aveva organizzato da solo un traffico di stupefacenti «all'insaputa degli altri capimafia che versavano in gravi difficoltà economiche».

Secondo il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, i Corleonesi «non hanno ucciso la gente (i Cinardo di Mazzarino, Bontate, Inzerillo), li hanno fatti uccidere mettendoli in una trappola. [...] Hanno creato le condizioni per far uccidere le persone dai loro uomini [...] hanno creato le tragedie in tutte le Famiglie. Le Famiglie non erano più d'accordo [...] così hanno fatto a Palma di Montechiaro, a Riesi, a San Cataldo, a Enna, a Catania». Per queste ragioni, all'interno delle provincie si vennero a creare i seguenti schieramenti: Bontate-Badalamenti, Corleonesi, Palermo e provincia.

Stefano Bontate e Mimmo Teresi (Santa Maria di Gesù), Gaetano Badalamenti (Cinisi), Salvatore Inzerillo (Passo di Rigano), Rosario Riccobono (Partanna-Mondello), Salvatore Scaglione(Noce), Antonino Salamone (San Giuseppe Jato), Giuseppe di Maggio (Brancaccio), Giovanni Di Peri (Villabate), Francesco Di Noto (Corso dei Mille), Giuseppe Panno (Casteldaccia), Calogero Pizzuto (Castronovo di Sicilia)

Luciano Liggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano (Corleone), Michele Greco (Ciaculli), Bernardo Brusca (San Giuseppe Jato), Giuseppe Calò (Porta Nuova), Francesco Madonia (Resuttana), Antonino Geraci (Partinico), Raffaele Ganci (Noce), Pietro Aglieri (Santa Maria di Gesù), Filippo Marchese (Corso dei Mille), Giuseppe Giacomo Gambino (San Lorenzo), Francesco Di Carlo(Altofonte), Antonino Rotolo (Pagliarelli), Leonardo Greco (Bagheria), Giuseppe Farinella (San Mauro Castelverde)

provincia di Trapani

Salvatore Minore (Trapani), Natale e Leonardo Rimi (Alcamo), Ignazio e Nino Salvo (Salemi), Antonino Buccellato (Castellammare del Golfo)

Mariano Agate (Mazara del Vallo), Francesco Messina Denaro (Castelvetrano), Vincenzo Virga (Trapani)

provincia di Agrigento

Giuseppe Settecasi (Alessandria della Rocca), Leonardo Caruana(Siculiana), Carmelo Salemi (Agrigento)

Carmelo Colletti (Ribera), Antonio Ferro e Giuseppe De Caro (Canicattì)

provincia di Caltanissetta

Giuseppe Di Cristina (Riesi), Francesco Cinardo (Mazzarino), Luigi Calì (San Cataldo)

Giuseppe Madonia (Vallelunga Pratameno), Salvatore Mazzarese (Villalba)

provincia di Catania

Giuseppe Calderone e Alfio Ferlito (Catania)

Nitto Santapaola (Catania), Calogero Conti (Ramacca)

Nel 1978 Riina mise Badalamenti in minoranza nella "Commissione" con una scusa e lo fece espellere, facendo passare l'incarico di dirigere la "Commissione" a Michele Greco, con cui era strettamente legato; fu in questo periodo che la fazione corleonese prese la maggioranza nella "Commissione" perché Riina fece nominare nuovi capimandamento tra i suoi associati attraverso Michele Greco: dopo aver preso il sopravvento, i Corleonesi procedettero all'eliminazione dei propri avversari, che sfociò nella cosiddetta «seconda guerra di mafia» nella provincia di Palermo, ed insediarono una nuova "Commissione" provinciale e regionale, composte soltanto da esponenti della fazione corleonese fedeli a Riina e Provenzano. Nel 1993, dopo l'arresto di Riina, si creò una divisione all'interno dello schieramento corleonese: infatti vi era una fazione contraria alla continuazione della cosiddetta "strategia stragista", guidata da Provenzano e composta dai boss Nino Giuffrè, Pietro Aglieri, Benedetto Spera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Michelangelo La Barbera, Matteo Motisi, Giuseppe Madonia e Nitto Santapaola, mentre l'altra fazione era guidata da Leoluca Bagarella e comprendeva l'ala militare dell'organizzazione, composta da Giovanni Brusca, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, i quali erano favorevoli alla continuazione degli attentati dinamitardi e riuscirono a mettere in minoranza la fazione di Provenzano, il quale confermò il suo appoggio alle stragi ma riuscì a porre la condizione che avvenissero in continente, cioè fuori dalla Sicilia, come già deciso prima dell'arresto di Riina.

Legami con la politica e la finanza. Vito Ciancimino. Il principale referente politico dei Corleonesi inizialmente fu Vito Ciancimino, il quale nel 1976 instaurò un rapporto di collaborazione con la corrente dell'onorevole Giulio Andreotti, in particolare con Salvo Lima, che sfociò poi in un formale inserimento in tale gruppo politico e nell'appoggio dato dai delegati vicini a Ciancimino alla corrente andreottiana in occasione dei congressi nazionali della Democrazia Cristiana svoltisi nel 1980 e nel 1983. Per proteggere gli interessi di Ciancimino, Riina propose alla "Commissione" gli omicidi dei suoi avversari politici, che vennero approvati dal resto della fazione corleonese, che ormai era la componente maggioritaria della "Commissione": il 9 marzo 1979 fu ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana che era entrato in contrasto con costruttori legati a Ciancimino; il 6 gennaio 1980 venne eliminato Piersanti Mattarella, presidente della Regione che contrastava Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi; il 30 aprile 1982 venne trucidato Pio La Torre, segretario regionale del PCI che aveva più volte indicato pubblicamente Ciancimino come personaggio legato a Cosa Nostra. Negli anni settanta i Corleonesi, attraverso Giuseppe Calò, si avvalevano di Roberto Calvi e Licio Gelli per il riciclaggio di denaro sporco, che veniva investito nello IOR e nel Banco Ambrosiano, la banca di Calvi. Nel 1981, a seguito del fallimento definitivo del Banco Ambrosiano, Calvi cercherà di tornare alla guida della banca per salvare il denaro investito dai Corleonesi andato perduto nella bancarotta, però i suoi tentativi falliranno e nel 1982Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano subentrato a Calvi, sopravvisse ad un agguato compiuto da esponenti della banda della Magliana legati a Giuseppe Calò; Calvi partì per Londra, forse per tentare un'azione di ricatto dall'estero verso i suoi precedenti alleati politici, tra cui l'onorevole Giulio Andreotti, ma il 18 giugno 1982 venne ritrovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge. Dopo l'inizio della «seconda guerra di mafia», i cugini Ignazio e Nino Salvo, ricchi e famosi esattori affiliati alla cosca di Salemi, furono risparmiati dai Corleonesi per “i possibili collegamenti con Lima ed Andreotti”, venendo incaricati di curare le relazioni con l'onorevole Salvo Lima, che divenne il loro nuovo referente politico, soprattutto per cercare di ottenere una favorevole soluzione di vicende processuali, dopo essere stato legato a Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti sempre attraverso i cugini Salvo; infatti, secondo i collaboratori di giustizia, l'onorevole Lima si sarebbe attivato per modificare in Cassazione la sentenza del Maxiprocesso di Palermo che condannava Riina e molti altri boss all'ergastolo. Tuttavia però il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò gli ergastoli del Maxiprocesso e sancì la validità delle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta. Sempre secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, Riina decise allora di lanciare un avvertimento all'allora presidente del consiglio Andreotti, che si era disinteressato alla sentenza ed anzi aveva firmato un decreto-legge che aveva fatto tornare in carcere gli imputati del Maxiprocesso scarcerati per decorrenza dei termini e quelli agli arresti domiciliari: per queste ragioni il 12 marzo 1992 Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche ed, alcuni mesi dopo, la stessa sorte toccò ad Ignazio Salvo.

Interesse per l'industria televisiva. I Corleonesi avevano in progetto l'acquisto di una rete televisiva Fininvest nei primi anni '90. Per ottenere la richiesta venne minacciato di morte con una lettera scritta a mano da Riina l'allora imprenditore Silvio Berlusconi, alla missiva si ricollegano quindi precedenti intercettazioni telefoniche in cui l'uomo parlava di violente pretese di estorsioni, e l'allontanamento dei familiari all'estero per un po' di tempo voluto dallo stesso.

«Vi spiego cos’è davvero Cosa Nostra». Riflessioni di Giovanni Falcone pubblicate il 7 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Il pericolo – diceva Giovanni Falcone in una lezione tenuta nel 1989 – è quello di una saldatura tra criminalità tradizionale e criminalità degli affari: un pericolo che minaccia la stessa sopravvivenza delle istituzioni democratiche come ci insegnano le esperienze di alcuni paesi del terzo mondo». «Altro punto fermo da tenere ben presente è che, al di sopra dei vertici organizzativi, non esistono “terzi livelli” di alcun genere». Oggi e domani, in due puntate, pubblichiamo il testo integrale di quella lezione tenuta da Falcone tre anni prima di essere ucciso. Il racconto della sottovalutazione, durata decenni, da parte dello Stato e in particolare della magistratura. Pubblichiamo la prima parte (la seconda parte la pubblicheremo domani) della lezione di Giovanni Falcone sulla mafia, che fu tenuta nel 1989 ma rimase inedita fino a qualche giorno dopo la sua morte (nel maggio del 92). Poi la pubblicò l’Unità con la premessa che riportiamo qui di seguito. Giovanni Falcone lesse questo testo nell’estate dell’89 a Palermo. Il manoscritto, spesso citato e mai pubblicato integralmente, reca tracce evidenti del tormento dell’autore che esponeva per la prima volta in pubblico le idee che avrebbero segnato il suo distacco dal fronte più tradizionale dell’antimafia. Dicendo chiaro che “il terzo livello non esiste” Falcone propone in effetti l’idea per cui la mafia è solo e soltanto un’organizzazione criminale. Con fondamenti corposi nella storia e nella cultura della sua Sicilia ma con una autonomia forte di scelte e di orientamenti. Capace di usare diversi tipi di alleanze o di complicità a livello politico ed amministrativo e mai subordinata, però, alle indicazioni che da lì dovessero venirne. Non è difficile capire, sulla base di questa analisi, il perché delle scelte successive di Falcone. Se è vero infatti che i mandanti delle imprese mafiose non vanno cercati a livello di un mitico Palazzo, la lotta contro la mafia deve essere sviluppata soprattutto a livello dello Stato e dei suoi apparati repressivi: mettendoli in grado di esercitare un’azione di contrasto efficace attraverso la predisposizione di strumenti all’altezza del compito loro assegnato. Occuparsi del loro funzionamento, per Falcone, non è uno dei problemi, è il problema: proponendosi un programma di attività all’interno del quale bisogna attaccare, con la stessa durezza, la debolezza del rappresentante politico e il corporativismo del magistrato, la complicità dell’amministratore e la genericità delle accuse che hanno come destinatario principale le prime pagine dei giornali. Individuando a livello dell’intreccio tra criminalità organizzata e sistema bancario, tra professionisti del crimine e della finanza più che nel contatto tra mafiosi e politici, il problema fondamentale di chi è chiamato a lottare, oggi, per la difesa della legalità e della democrazia, Falcone assume insomma una posizione assolutamente originale. Alla base della solitudine in cui ha lavorato in questi ultimi anni. L’analisi qui riportata è opinabile e sicuramente parziale. Ha il merito raro, tuttavia, di fondarsi sui fatti e ha trovato conferme importanti nel lavoro di un giudice che è riuscito a sconfiggere, in alcune fasi, Cosa Nostra, e nella decisione con cui quest’ultima oggi lo ha voluto morto. (dall’Unità del 31 maggio 1992). Nella relazione finale della Commissione d’inchiesta Franchetti- Sonnino del lontano 1875/ 76 si legge che «la mafia non è un’associazione che abbia forme stabili e organismi speciali… Non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti, se non i più forti ed i più abili; ma è piuttosto lo sviluppo ed il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male». Si legge ancora: «Questa forma criminosa, non… specialissima della Sicilia», esercita «sopra tutte queste varietà di reati» … «una grande influenza» imprimendo «a tutti quel carattere speciale che distingue dalle altre la criminalità siciliana e senza la quale molti reati o non si commetterebbero o lascerebbero scoprirne gli autori» ; si rileva, inoltre, che «i mali sono antichi, ma ebbero ed hanno periodi di mitigazione e di esacerbazione» e che, già sotto il governo di re Ferdinando, la mafia si era infiltrata anche nelle altre classi, cosa che da alcune testimonianze è ritenuta vera anche oggidì». Già nel secolo scorso, quindi, il problema mafia si manifestava in tutta la gravità; infatti si legge nella richiamata relazione: «Le forze militari concentrate per questo servizio in Sicilia risultavano 22 battaglioni e mezzo fra fanteria e bersaglieri, due squadroni di cavalleria e quattro plotoni di bersaglieri montani, oltre i Carabinieri in numero di 3120». Da allora, bisogna attendere i tempi del prefetto Mori per registrare un tentativo di seria repressione del fenomeno mafioso, ma i limiti di quel tentativo sono ben noti a tutti. Nell’immediato dopoguerra e fino ai tragici fatti di sangue della prima guerra di mafia degli anni 1962/ 1963 gli organismi responsabili ed i mezzi di informazione sembrano fare a gara per minimizzare il fenomeno. Al riguardo, appaiono significativi i discorsi di inaugurazione dell’anno giudiziario pronunciati dai Procuratori Generali di Palermo. Nel discorso inaugurale del 1954, il primo del dopoguerra, si insisteva nel concetto che la mafia «più che una associazione tenebrosa costituisce un diffuso potere occulto», ma non si manca di fare un accenno alla gravissima vicenda del banditismo ed ai comportamenti non ortodossi di “qualcuno che avrebbe dovuto e potuto stroncare l’attività criminosa”; il riferimento è chiaro, riguarda il Procuratore Generale di Palermo, dottor Pili, espressamente menzionato nella sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Viterbo il 3/ 5/ 1952: «Giuliano ebbe rapporti, oltre che con funzionari di Pubblica Sicurezza, anche con un magistrato, precisamente con chi era a capo della Procura Generale presso la Corte d’appello di Palermo: Emanuele Pili». Nelle relazioni inaugurali degli anni successivi gli accenni alla mafia, in piena armonia con un clima generale di minimizzazione del problema, sono fugaci e del tutto rassicuranti. Così, nella relazione del 1956 si legge che il fenomeno della delinquenza associata è scomparso e, in quella del 1957, si accenna appena a delitti di sangue da scrivere, si dice ad «opposti gruppi di delinquenti». Nella relazione del 1967, si asserisce che il fenomeno della criminalità mafiosa era entrato in una fase di «lenta ma costante sua eliminazione» e, in quella del 1968, si raccomanda l’adozione della misura di prevenzione del soggiorno obbligato, dato che «il mafioso fuori del proprio ambiente diventa pressoché innocuo». Questi brevissimi richiami storici danno la misura di come il problema mafia sia stato sistematicamente valutato da parte degli organismi responsabili benché il fenomeno, nel tempo, lungi dall’esaurirsi, abbia accresciuto la sua pericolosità. E non mi sembra azzardato affermare che una delle cause dall’attuale virulenza della mafia risieda, proprio, nella scarsa attenzione complessiva dello Stato nei confronti di questa secolare realtà. Debbo registrare con soddisfazione, dunque, il discorso pronunciato dal Capo della Polizia, Vincenzo Parisi, alla Scuola di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza. In tale intervento, particolarmente significativo per l’autorevolezza della fonte, il Capo della Polizia, in sostanza, individua nella criminalità organizzata e in quella economica i proventi della maggior parte delle attività illecite del nostro paese tra le quali spiccano soprattutto il traffico di stupefacenti e il commercio clandestino di armi. Sottolineando che la criminalità organizzata – e quella mafiosa in particolare – è, come si sostiene in quell’intervento, «la più significativa sintesi delinquenziale fra elementi atavici… e acquisizioni culturali moderne ed interagisce sempre più frequentemente con la criminalità economica, allo scopo di individuare nuove soluzioni per la ripulitura ed il reimpiego del denaro sporco». L’argomentazione del prefetto Parisi, ovviamente fondata su dati concreti, ha riacceso l’attenzione sulla specifica realtà delle organizzazioni criminali e denuncia, con toni giustamente allarmanti, il pericolo di una saldatura tra criminalità tradizionale e criminalità degli affari: un pericolo che minaccia la stessa sopravvivenza delle istituzioni democratiche come ci insegnano le esperienze di alcuni paesi del Terzo mondo, in cui i trafficanti di droga hanno acquisito una potenza economica tale che si sono perfino offerti – ovviamente, non senza contropartite – di ripianare il deficit del bilancio statale. Ci si domanda allora, come sia potuto accadere che una organizzazione criminale come la mafia anziché avviarsi al tramonto, in correlazione col miglioramento delle condizioni di vita e del funzionamento complessivo delle istituzioni, abbia, invece, vieppiù accresciuto la sua virulenza e la sua pericolosità. Un convincimento diffuso è quello – che ha trovato ingresso perfino in alcune sentenze della Suprema Corte – secondo cui oggi saremmo in presenza di una nuova mafia, con le connotazioni proprie di un’associazione criminosa, diversa dalla vecchia mafia, che non sarebbe stata altro che l’espressione, sia pure distorta ed esasperata, di un “comune sentire” di larghe fasce delle popolazioni meridionali. In altri termini, la mafia tradizionale non esisterebbe più e dalle sue ceneri sarebbe sorta una nuova mafia, quella mafia imprenditrice per intenderci, così bene analizzata dal prof. Arlacchi. Tale opinione è antistorica e fuorviante. Anzitutto, occorre sottolineare con vigore che Cosa Nostra (perché questo è il vero nome della mafia) non è e non si è mai identificata con quel potere occulto e diffuso di cui si è favoleggiato fino a tempi recenti, ma è una organizzazione criminosa – unica ed unitaria – ben individuata ormai nelle sue complesse articolazioni, che ha sempre mantenuto le sue finalità delittuose. Con ciò, evidentemente, non si intende negare che negli anni Cosa Nostra abbia subito mutazioni a livello strutturale e operativo e che altre ne subirà, ma si vuole sottolineare che tutto è avvenuto nell’avvio di una continuità storica e nel rispetto delle regole tradizionali. E proprio la particolare capacità della mafia di modellare con prontezza ed elasticità i valori arcaici alle mutevoli esigenze dei tempi costituisce una della ragioni più profonde della forza di tale consorteria, che la rende tanto diversa. Se, oltre a ciò, si considerano la sua capacità di mimetizzazione nella società, la tremenda forza di intimidazione derivante dalla inesorabile ferocia delle “punizioni” inflitte ai trasgressori o a chi si oppone ai suoi disegni criminosi, l’elevato numero e la statura criminale dei suoi adepti, ci si può rendere però conto dello straordinario spessore di questa organizzazione sempre nuova e sempre uguale a sé stessa. Altro punto fermo da tenere ben presente è che, al di sopra dei vertici organizzativi, non esistono “terzi livelli” di alcun genere, che influenzino e determinino gli indirizzi di Cosa Nostra. Ovviamente, può accadere ed è accaduto, che, in determinati casi e a determinate condizioni, l’organizzazione mafiosa abbia stretto alleanze con organizzazioni similari ed abbia prestato ausilio ad altri per fini svariati e di certo non disinteressatamente; gli omicidi commessi in Sicilia, specie negli ultimi anni, sono la dimostrazione più evidente di specifiche convergenze di interessi fra la mafia ed altri centri di potere. Cosa Nostra” però, nelle alleanze, non accetta posizioni di subalternità; pertanto, è da escludere in radice che altri, chiunque esso sia, possa condizionarne o dirigerne dall’esterno le attività. E, in verità, in tanti anni di indagini specifiche sulle vicende di mafia, non è emerso nessun elemento che autorizzi nemmeno il sospetto dell’esistenza di una “direzione strategica” occulta di Cosa Nostra. Gli uomini d’onore che hanno collaborato con la giustizia, alcuni dei quali figure di primo piano dell’organizzazione, ne sconoscono l’esistenza. Lo stesso dimostrato coinvolgimento di personaggi di spicco di Cosa Nostra in vicende torbide ed inquietanti come il golpe Borghese ed il falso sequestro di Michele Sindona non costituiscono un argomento “a contrario” perché hanno una propria specificità tutte ed una peculiare giustificazione in armonia con le finalità dell’organizzazione mafiosa. E se è vero che non pochi uomini politici siciliani sono stati, a tutti gli effetti, adepti di “Cosa Nostra”, è pur vero che in seno all’organizzazione mafiosa non hanno goduto di particolare prestigio in dipendenza della loro estrazione politica. Insomma Cosa Nostra ha tale forza, compattezza ed autonomia che può dialogare e stringere accordi con chicchessia mai però in posizioni di subalternità. Queste peculiarità strutturali hanno consentito alla mafia di conquistare un ruolo egemonico nel traffico, anche internazionale, dell’eroina.

Lezione sulla mafia tenuta da un profeta di sventure...Riflessioni di Giovanni Falcone pubblicate l'8 Marzo 2019 su Il Dubbio. Così si autodefinì il magistrato che aveva capito Cosa Nostra e la stava combattendo, ma era rimasto isolato. Dai suoi colleghi e dalla politica. Pubblichiamo la seconda parte della lezione sulla mafia tenuta da Giovanni Falcone, a Palermo, nell’estate del 1989, tre anni prima di essere ucciso. Per comprendere meglio le cause dell’insediamento della mafia nel lucroso giro della droga, occorre prendere le mappe del contrabbando di tabacchi, una delle più tradizionali attività illecite della mafia. Il contrabbando è stato a lungo ritenuto una violazione di lieve entità perfino negli ambienti investigativi e giudiziari ed il contrabbandiere è stato addirittura tratteggiato dalla letteratura e dalla filmografia come un romantico avventuriero. La realtà era però ben diversa, essendo il contrabbandiere un personaggio al soldo di Cosa Nostra, se non addirittura un mafioso egli stesso ed il contrabbando si è rivelato un’attività ben più pericolosa di quella legata ad una violazione di un interesse finanziario dello Stato, in quanto ha fruttato ingenti guadagni che hanno consentito l’ingresso nel mercato degli stupefacenti della mafia ed ha aperto e collaudato quei canali internazionali – sia per il trasporto della merce sia per il riciclaggio del danaro – poi utilizzati per il traffico di stupefacenti. Occorre precisare, a questo proposito, che già nel contrabbando di tabacchi, si realizzano importanti novità della struttura mafiosa. È ormai di comune conoscenza che Cosa Nostra è organizzata come una struttura piramidale basata sulla “famiglia” e ogni “uomo d’onore” voleva intrattenere rapporti di affari prevalentemente con gli altri membri della stessa “famiglia” e solo sporadicamente con altre famiglie, essendo riservato ai vertici delle varie “famiglie” il coordinamento in seno agli organismi direttivi provinciali e regionale. Assunta la gestione del contrabbando di tabacchi – che comporta l’impiego di consistenti risorse umane in operazioni complesse che non possono essere svolte da una sola famiglia – sorge la necessità di associarsi con membri di altre famiglie e, perfino, con personaggi estranei a Cosa Nostra. Per effetto dell’allargamento dei rapporti di affari con altri soggetti spesso non mafiosi sorge la necessità di creare strutture nuove di coordinamento che, pur controllate da Cosa Nostra, con la stessa non si identificassero. Si formano, così, associazioni di contrabbandieri, dirette e coordinate da “uomini d’onore”, che non si identificavano, però, con Cosa Nostra, associazioni aperte alla partecipazione saltuaria di altri “uomini d’onore” non coinvolti operativamente nel contrabbando, previo assenso e nella misura stabilita dal proprio capo famiglia. In pratica, dunque, l’antica, rigida compartimentazione degli “uomini d’onore” in “famiglie” ha cominciato a cedere il posto a strutture più allargate e ad una diversa articolazione delle alleanze in seno all’organizzazione. Cosa Nostra però non si limita ad esercitare il controllo indiretto su altre organizzazioni criminali similari, specialmente nel Napoletano, per assicurare un efficace funzionamento delle attività criminose. Il fatto che esiste anche a Napoli una “famiglia” mafiosa dipendente direttamente dalla “provincia” di Palermo, non deve stupire perché la presenza di “famiglie” mafiose o di sezioni delle stesse (le cosiddette “decine”), fuori della Sicilia, ed anche all’estero, è un fenomeno risalente negli anni. La stessa Cosa Nostra statunitense, in origine, non era altro che un insieme di “famiglie” costituenti diretta filiazione di Cosa Nostra siciliana. Quando Cosa Nostra interviene sul contrabbando presso la malavita napoletana, dunque, lo fa allo scopo dichiarato di sanare i contrasti interni ma più verosimilmente con l’intenzione di fomentare la discordia per assumere la direzione dell’attività. Ecco perché, nel corso degli anni, sono stati individuati collegamenti importanti tra esponenti di spicco della mafia isolana e noti camorristi campani, difficilmente spiegabili già allora con semplici contatti fra organizzazioni criminali diverse. Ed ecco, dunque, perché il contrabbando di tabacchi costituì una spinta decisiva al coordinamento fra organizzazioni criminose, tradizionalmente operanti in territori distinti; coordinamento la cui pericolosità è intuitiva. Nella seconda metà degli anni ’ 70, pertanto, Cosa Nostra con le sue strutture organizzative, coi canali operativi e di riciclaggio già attivati per il contrabbando e con le sue larghe disponibilità finanziarie, aveva tutte le carte in regola per entrare, non più in modo episodico come nel passato, nel grande traffico degli stupefacenti. In più, la presenza negli Usa di un folto gruppo di siciliani collegati con Cosa Nostra garantiva la distribuzione della droga in quel paese. Non c’è da meravigliarsi, allora, se la mafia siciliana abbia potuto impadronirsi in breve tempo del traffico dell’eroina verso gli Stati Uniti d’America. Anche nella gestione di questo lucroso affare l’organizzazione ha mostrato la sua capacità di adattamento avendo creato, in base all’esperienza del contrabbando, strutture agili e snelle che, per lungo tempo, hanno reso pressoché impossibili le indagini. Alcuni gruppi curavano l’approvvigionamento della morfina- base dal Medio e dall’Estremo Oriente; altri erano addetti esclusivamente ai laboratori per la trasformazione della morfina- base in eroina; altri, infine, si occupavano dell’esportazione dell’eroina verso gli Usa. Tutte queste strutture erano controllate e dirette da “uomini d’onore”. In particolare, il funzionamento dei laboratori clandestini, almeno agli inizi, era attivato da esperti chimici francesi, reclutati grazie a collegamenti esistenti con il “milieu” marsigliese fin dai tempi della cosiddetta “French connection. L’esportazione della droga, come è stato dimostrato da indagini anche recenti, veniva curata spesso da organizzazioni parallele, addette al reclutamento dei corrieri e collegate a livello di vertice con “uomini d’onore” preposti a tale settore del traffico. Si tratta dunque di strutture molto articolate e solo apparentemente complesse che, per lunghi anni, hanno funzionato egregiamente, consentendo alla mafia ingentissimi guadagni. Un discorso a sé merita il capitolo del riciclaggio del danaro. Cosa Nostra ha utilizzato organizzazioni internazionali, operanti in Italia, di cui si serviva già fin dai tempi del contrabbando di tabacchi, ma è ovvio che i rapporti sono divenuti assai più stretti e frequenti per effetto degli enormi introiti, derivanti dal traffico di stupefacenti. Ed è chiaro, altresì, che nel tempo i sistemi di riciclaggio si sono sempre più affinati in dipendenza sia delle maggiori quantità di danaro disponibili, sia soprattutto dalla necessità di eludere investigazioni sempre più incisive. Per un certo periodo il sistema bancario ha costituito il canale privilegiato per il riciclaggio del danaro. Di recente, è stato addirittura accertato il coinvolgimento di interi paesi nelle operazioni bancarie di cambio di valuta estera. Senza dire che non poche attività illecite della mafia, costituenti per sé autonoma fonte di ricchezza (come, ad esempio, le cosiddette truffe comunitarie), hanno costituito il mezzo per consentire l’afflusso in Sicilia di ingenti quantitativi di danaro, già ripulito all’estero, quasi per intero proveniente dal traffico degli stupefacenti. Quali effetti ha prodotto in seno all’organizzazione di Cosa Nostra la gestione del traffico di stupefacenti? Contrariamente a quanto ritenevano alcuni mafiosi più tradizionalisti, la mafia non si è rapidamente dissolta ma ha accentuato le sue caratteristiche criminali. Le alleanze orizzontali fra uomini d’onore di diverse “famiglie” e di diverse “province” hanno favorito il processo, già in atto da tempo, di gerarchizzazione di Cosa Nostra ed al contempo, indebolendo la rigida struttura di base, hanno alimentato mire egemoniche. Infatti, nei primi anni ’ 70 per assicurare un migliore controllo dell’organizzazione, veniva costituito un nuovo organismo verticale, la “commissione” regionale, composta dai capi delle province mafiose siciliane col compito di stabilire regole di condotta e di applicare sanzioni negli affari concernenti Cosa Nostra nel suo complesso. Ma le fughe in avanti di taluni non erano state inizialmente controllate. Esplode così nel 1978 una violenta contesa culminata negli anni 1981- 1982. Due opposte fazioni si affrontano in uno scontro di una ferocia senza precedenti che investiva tutte le strutture di Cosa Nostra, causando centinaia di morti. I gruppi avversari aggregavano uomini d’onore delle più varie famiglie spinti dall’interesse personale – a differenza di quanto accadeva nella prima guerra di mafia caratterizzata dallo scontro tra le famiglie – e ciò a dimostrazione del superamento della compartimentazione in famiglie. La sanguinaria contesa non ha determinato – come ingenuamente si prevedeva – un indebolimento complessivo di Cosa Nostra ma, al contrario, un rafforzamento ed un rinsaldamento delle strutture mafiose, che, depurate degli elementi più deboli (eliminati nel conflitto), si ricompattavano sotto il dominio di un gruppo egemone accentuando al massimo la segretezza ed il verticismo. Il nuovo gruppo dirigente a dimostrazione della sua potenza, a cominciare dall’aprile 1982, ha iniziato ad eliminare chiunque potesse costituire un ostacolo. Gli omicidi di Pio La Torre, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Rocco Chinnici, di Giangiacomo Ciaccio Montalto, di Beppe Montana, di Ninni Cassarà, al di là delle specifiche ragioni della eliminazione di ciascuno di essi, testimoniano una drammatica realtà. E tutto ciò mentre il traffico di stupefacenti e le altre attività illecite andavano a gonfie vele nonostante l’impegno delle forze dell’ordine. La collaborazione di alcuni elementi di spicco di Cosa Nostra e la conclusione di inchieste giudiziarie approfondite e ponderose hanno inferto indubbiamente un duro colpo alla mafia. Ma se la celebrazione tra difficoltà di ogni genere di questi processi ha indotto Cosa Nostra ad un ripensamento di strategie, non ha determinato l’inizio della fine del fenomeno mafioso. Il declino della mafia più volte annunciato non si è verificato, e non è, purtroppo, prevedibile nemmeno. È vero che non pochi “uomini d’onore”, diversi dei quali di importanza primaria, sono in atto detenuti; tuttavia i vertici di Cosa Nostra sono latitanti e non sono sicuramente costretti all’angolo. Le indagini di polizia giudiziaria, ormai da qualche anno, hanno perso di intensità e di incisività a fronte di una organizzazione mafiosa sempre più impenetrabile e compatta talché le notizie in nostro possesso sulla attuale consistenza dei quadri mafiosi e sui nuovi adepti sono veramente scarse. Né è possibile trarre buoni auspici dalla drastica riduzione dei fatti di sangue peraltro circoscritta al Palermitano e solo in minima parte ascrivibile all’azione repressiva. La tregua iniziata è purtroppo frequentemente interrotta da assassinii di mafiosi di rango, segno che la resa dei conti non è finita e soprattutto da omicidi dimostrativi che hanno creato notevole allarme sociale; si pensi agli omicidi dell’ex sindaco di Palermo, Giuseppe Insalaco e dell’agente della PS Natale Mondo, consumati appena qualche mese addietro. Si ha l’eloquente conferma che gli antichi, ibridi connubi tra criminalità mafiosa e occulti centri di potere costituiscono tuttora nodi irrisolti con la conseguenza che, fino a quando non sarà fatta luce su moventi e su mandanti dei nuovi come dei vecchi “omicidi eccellenti”, non si potranno fare molti passi avanti. Malgrado i processi e le condanne, risulta da inchieste giudiziarie ancora in corso che la mafia non ha abbandonato il traffico di eroina e che comincia ad interessarsi sempre più alla cocaina; e si hanno già notizie precise di scambi tra eroina e cocaina già in America, col pericolo incombente di contatti e collegamenti – la cui pericolosità è intuitiva – tra mafia siciliana ed altre organizzazioni criminali italiane e sudamericane. Le indagini per la individuazione dei canali di riciclaggio del denaro proveniente dal traffico di stupefacenti sono rese molto difficili, sia a causa di una cooperazione internazionale ancora insoddisfacente, sia per il ricorso, da parte dei trafficanti, a sistemi di riciclaggio sempre più sofisticati. Per quanto riguarda poi le attività illecite, va registrato che accanto ai crimini tradizionali come ad esempio le estorsioni sistematizzate, e le intermediazioni parassitarie, nuove e più insidiose attività cominciano ad acquisire rilevanza. Mi riferisco ai casi sempre più frequenti di imprenditori non mafiosi, che subiscono da parte dei mafiosi richieste perentorie di compartecipazione all’impresa e ciò anche allo scopo di eludere le investigazioni patrimoniali rese obbligatorie dalla normativa antimafia. Questa, in brevissima sintesi, è la situazione attuale che, a mio avviso, non legittima alcun trionfalismo. Mi rendo conto che la fisiologica stanchezza seguente ad una fase di tensione morale eccezionale e protratta nel tempo ha determinato un generale clima, se non di smobilitazione, certamente di disimpegno e, per quanto mi riguarda, non ritengo di aver alcun titolo di legittimazione per censurare chicchessia e per suggerire rimedi. Ma ritengo mio preciso dovere morale sottolineare, anche a costo di passare per profeta di sventure, che continuando a percorrere questa strada, nel futuro prossimo, saremo costretti a confrontarci con una realtà sempre più difficile.

Suddivisione amministrativa del Regno delle Due Sicilie. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La suddivisione amministrativa del Regno delle Due Sicilie dal 1817 era basata su una struttura a 4 livelli. Le divisioni di primo livello, dette provincie, erano 22. Le 22 province erano suddivise in 76 distretti. I distretti erano suddivisi in circondari (presenti in numero complessivo di 684). I circondari erano suddivisi in comuni (un totale di 2189 nell'anno 1840).

Circondari. I circondari del Regno delle Due Sicilie costituivano il terzo livello amministrativo dello stato, collocandosi in posizione intermedia tra il distretto e il comune. La circoscrizione, infatti, delimitava un ambito territoriale che abbracciava, generalmente, uno o più comuni, tra i quali veniva individuato un capoluogo. Facevano eccezione, però, le grandi città: queste, vista la vastità del territorio, erano frazionate in due o più circondari, che includevano uno o più quartieri. Le funzioni del circondario riguardavano esclusivamente l'amministrazione della giustizia: tali funzioni giudiziarie erano affidate al Giudice di Circondario. Questo magistrato, che risiedeva nel comune capoluogo di circondario, era eletto dal sovrano e aveva competenza in materia civile e penale. Inoltre, dove erano assenti i commissariati di polizia, al Giudice di Circondario era affidata anche la polizia ordinaria e giudiziaria.

Comuni e centri abitati. I centri abitati, in base ai dati del Dizionario Statistico del regno, nel 1840 erano 3.333.

Di questi paesi erano riconosciuti come comuni soltanto 2.189 mentre la restante parte erano identificati come villaggi, borghi, subborghi, casali (Provincia di Napoli, Principato Citeriore), rioni (Calabria Citeriore) o ville (Abruzzo) appartenenti a comuni limitrofi.

Organi amministrativi. Il Regio decreto n. 932 dell'11 ottobre 1817 di Ferdinando I re delle Due Sicilie – con decorrenza dal 1º gennaio 1818 – dispose che le tre valli di Sicilia (Vallo di Mazara, Val di Noto, Val Demone) venissero divise in sette valli minori ed amministrate da sette Intendenze: Palermo, Messina, Catania, Girgenti, Siracusa, Trapani e Caltanissetta. A capo di ogni valle (provincia) vi era un Intendente, coadiuvato dalla Segreteria d'Intendenza e dal Consiglio d'intendenza; il Consiglio provinciale, composto da 15 membri annuali proposti dai Comuni della provincia e nominati dal sovrano, era un organo deliberativo ed aveva un proprio bilancio. A capo di ogni Capoluogo di Distretto che non era sede di Intendenza, invece, vi era un Sottintendente, cioè la prima autorità del Distretto, mentre altri organi amministrativi erano la Segreteria di sottintendenza ed il Consiglio Distrettuale, composto da 11 consiglieri.

Storia.

Reali Dominii al di qua del Faro. Giuseppe Bonaparte, con la legge n. 132 dell'8 agosto 1806 sulla divisione ed amministrazione delle provincie del Regno, riformò la ripartizione territoriale dello Stato sulla base del modello francese. Negli anni successivi (tra il 1806 e il 1811), una serie di decreti, tra i quali il n. 922 del 4 maggio 1811, per la nuova circoscrizione delle quattordici provincie del Regno di Napoli.

Reali Dominii al di là del Faro. In Sicilia, sin dalla prima stesura della Costituzione del 1812, erano in vigore i distretti che consistevano nelle circoscrizioni territoriali di 21 città demaniali cui vennero aggiunti i territori di Bivona e di Caltanissetta, entrambe fino ad allora feudali. Fino al 1817, non ci furono grosse modifiche e l'unificazione dei due regni previde, anche per la Sicilia, l'istituzione delle province (il numero delle province "isolane" fu fissato in sette), riportando i distretti al di sotto di esse. Nel 1819, i distretti vennero, quindi, suddivisi in entità minori, i circondari. Il Regio Decreto del 30 maggio 1819, infatti, previde la suddivisione dei distretti in diversi "circondari", che presero nome dai rispettivi capoluoghi. Negli anni venti dell'Ottocento, in seguito ad una grave crisi finanziaria che colpì la società isolana, il governo fu indotto a modificare l'assetto amministrativo dell'isola: inizialmente fu prevista la riduzione delle province da 7 a 4 e l'abolizione di alcune sottintendenze. Il Regio Decreto dell'8 marzo 1825, tuttavia, mantenne la suddivisione della Sicilia in 7 province, ma abolì tutte le sottintendenze. Ciononostante, il ridimensionamento dell'apparato amministrativo e rappresentativo del distretto fu uno dei motivi che causarono numerose rivolte in tutta l'isola, in particolar modo nel 1837. In seguito a questi episodi, il governo provvide a modificare nuovamente gli apparati amministrativi distrettuali: vennero reintrodotte le sottintendenze, i Consigli Distrettuali e gli Ispettorati distrettuali di polizia; furono abolite, però, le Compagnie d'Armi, sostituite da distaccamenti distrettuali della Regia Cavalleria.

Giustiziere (funzionario). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Storia.

Regno d'Inghilterra. Nel Regno d'Inghilterra, le riforme introdotte da Guglielmo il Conquistatore per l'amministrazione della giustizia prevedevano che essa dipendesse direttamente dal sovrano attraverso il sistema delle curie. In particolare, egli istituì la figura del giustiziere, ovvero un giudice itinerante, detto, appunto, Justitiarius itinerantis o Justitiarius errans, che aveva il compito di amministrare, spostandosi lungo il suo territorio, una determinata provincia o curia, che di volta in volta, a seconda delle esigenze della corona, gli veniva affidata. I giustizieri erranti dipendevano da una curia suprema di nomina regia, che aveva sede direttamente a corte, e che era composta dai giustizieri del Banco e dal giustiziero capitale. Quest'ultimo era il primo magistrato dello stato e, similmente ad un viceré, svolgeva funzioni suppletive: "in assenza del principe, presedeva alla real corte". Il giustiziere capitale aveva il compito di destinare, di volta in volta, i giudici itineranti nelle varie province e, inoltre, aveva competenza, di concerto con i giustizieri del Banco, per le cause che non potevano essere definite dai giustizieri "ordinari".

Regno di Sicilia. Nel Regno di Sicilia, in epoca normanna, sveva ed angioina, il giustiziere era il funzionario di nomina regia, che rappresentava l'autorità del sovrano a livello provinciale. In particolare, nello stato siciliano, si distingueva il Gran Giustiziere dal Giustiziere, quest'ultimo con mansioni nei distretti amministrativi, detti, a seconda della suddivisione amministrativa vigente, Valli o Giustizierati. Ruggero II di Sicilia, sostiene Rosario Gregorio, "compose in miglior forma questo sistema"; ovvero, prendendo come base il modello di Guglielmo I d'Inghilterra, riorganizzò l'amministrazione della giustizia nel proprio reame. Divenuto conte di Sicilia, il normanno, attraverso la produzione di un apparato normativo che fosse in grado di regolamentare l'amministrazione dell'isola, diede forma al sistema del diritto pubblico Siciliano. Il complesso delle leggi emanate da Ruggero, afferma Rosario Gregorio, non può considerarsi come riformatore di un sistema precedente: fu, invece, volto a creare ex novo la struttura normativa dello stato, andando a dare forma giuridica agli istituti e alle usanze già in essere ma non formalizzati in alcun corpo normativo. Ad esempio Ruggero, sulla figura del magistrato, che era già presente in diverse città e villaggi della Sicilia e la cui attività era pubblicamene autorizzata e riconosciuta, il sovrano legiferò come se egli l'avesse per la prima volta istituita. Tra le varie disposizioni in materia di magistrati, Ruggero stabilì che era reato metter in dubbio l'autorità del magistrato, la quale era sacra ed inviolabile, ma al tempo stesso, al fine di assicurare la libertà civile dei sudditi, dispose che sarebbe stato soggetto a pena di morte o di infamia il giudice che male amministrava giustizia. Prima delle riforme di Ruggero II, il magistrato aveva competenza sui giudizi di secondo grado (mentre il primo grado era deputato ai magistrati locali), ma, non essendo tale figura presente in tutte le località dell'isola, il secondo grado di giustizia passava spesso sotto la diretta competenza del sovrano, che attraverso messi o delegati riusciva ad adempiere a tale ufficio. Per sopperire a tali limiti, Ruggero II, attuò, quindi, una serie di riforme sulla base di quelle attuate da Guglielmo in Inghilterra. Il primo Re di Sicilia, in particolare, introdusse due figure specifiche in sostituzione della vecchia figura di magistrato. Esse erano rappresentate dai giustizieri, come nel caso inglese, e dai camerari. Entrambe le tipologie di magistrato furono inquadrate come funzionari di livello superiore ed avevano giurisdizione su una determinata circoscrizione territoriale: «Esercitavano i giustizieri provinciali tanta giurisdizione per tutta la provincia loro assegnata, che giravano di continuo e visitavano.» Nello specifico, Rosario Gregorio riporta che il primo a ricoprire la funzione di "giustiziere di Palermo" fu lo stesso Re Ruggero. Nell'amministrazione della giustizia, ai giustizieri competeva il secondo grado di giudizio sia in ambito penale, sia in ambito civile, e, per le aree ove erano assenti i magistrati locali deputati alle cause penali, anche il primo grado in ambito penale. Il primo grado della giustizia penale era, comunque, affidato ai giustizieri anche per la più alta giurisdizione criminale, ovvero tutti i reati più gravi, nella cerchia dei quali il sovrano normanno aveva incluso la violenza contro le donne. Anche per il primo grado della giustizia civile erano previste delle eccezioni che affidavano la competenza di tali cause ai giustizieri, rappresentate delle controversie riguardanti i feudi non quaternati. Per i feudi descritti nei "quaderni fiscali" e per i contadi delle baronie, invece, la competenza era ascrivibile direttamente alla Magna Curia. Il giustiziere, inoltre, aveva facoltà di porre fine alle cause di primo grado che si protraevano per oltre due mesi, a meno che non avesse ritenuto opportuno per esse un tempo maggiore. Nei casi di interruzione, però, era possibile per l'attore della controversia ricorrere al secondo grado per mancata giustizia. Il giustiziere aveva un proprio seguito che si componeva di un notaro degli atti e di alcuni giudici a lui subordinati che fungevano da semplici assessori: il complesso di questi burocrati era definito corte del giustizierato. Giustizieri e camerari, inquadrati come magistrati ordinari, furono, dunque, integrati nel sistema amministrativo concepito da Ruggero II. Questi funzionari duravano in carica per un tempo determinato e, al termine del loro mandato, avevano l'obbligo di trattenersi presso i loro successori per un periodo di cinquanta giorni. Questo, non solo per adempiere agli obblighi del passaggio di consegne, ragguagliando il nuovo giustiziere, ma anche per sottoporsi ad eventuali istanze e reclami esposti contro costoro il magistrato uscente degli abitanti della circoscrizione in cui quest'ultimo aveva operato.

Benedetto Croce e la giustizia borbonica, una lettera poco conosciuta. Gigi Di Fiore su Il mattino Lunedì 19 Dicembre 2016. E' noto che Benedetto Croce aveva le sue idee sul regno delle Due Sicilie e sulla dinastia Borbone. Ma è nota anche la sua onestà intellettuale da teorico e assertore dello storicismo filosofico, così come la sua assoluta fede politica liberale. Una fede che lo rese assai critico sulla violenta repressione adottata dallo Stato liberale nel 1898 contro i moti popolari di piazza. Così, fu severo e disapprovò con chiarezza i cannoni e i morti civili in piazza Duomo a Milano, come l'azione sanguinaria della truppa al comando del generale Fiorenzo Bava Beccaris, poi promosso e premiato dal re Umberto I. In quell'anno, tre mesi dopo gli incidenti, il filosofo scrisse una lettera a Vilfredo Pareto criticando la stretta repressiva e facendo paragoni con la giustizia e la repressione borbonica, che ne uscì più blanda nel confronto con il tanto decantato Stato liberale italiano. La lettera è del 2 agosto 1898, spedita da Resina, e venne poi riprodotta nel primo volume delle "Pagine sparse" rieditate nel 1941. Scrisse Croce: "Non so se nelle carceri e nei reclusori i condannati politici della nuova Italia stiano meglio o peggio dei nostri condannati politici dei Borboni, i quali (almeno gli ergastolani di Santo Stefano, come il Settembrini e lo Spaventa) ricevevano ogni sorta di libri (e lo Spaventa quelli, pericolosi e rivoluzionari allora, di filosofia tedesca), e studiavano e scrivevano: laddove ai nuovi condannati anche questo conforto è tolto". Questa la prima parte, che decisamente segna un giudizio positivo sui detenuti politici nel periodo borbonico rispetto a quelli in carcere nell'Italia 37 anni dopo l'unità. Ma Benedetto Croce andò ancora oltre e questa lettera, poco nota a molti, getta un'altra luce sulle sue idee, confermando la libertà di pensiero del filosofo abruzzese. Aggiunse Croce, analizzando il sistema processuale nelle due epoche: "Il punto sul quale il confronto s'impone irresistibile è sull'indole e sul modo con cui sono stati condotti i processi politici. Perché si sono spese tante parole e tanti colori rettorici per gridare iniquo il processo, per esempio, fatto dopo il 1848 a Silvio Spaventa? Cito questo che ho avuto modo di studiare da vicino". Era il famoso processo alla "Setta dell'unità italiana", quello che spinse lord Gladstone a definire le Due Sicilie regno "negazione di Dio". Scrisse ancora Croce nella sua lettera a Pareto: "E' vero che i Borboni provvidero a fornire prove di reato, stipendiando falsi testimoni. Ma ciò prova che il senso giuridico non era del tutto smarrito! Si riconosceva almeno la necessità delle prove di fatto per i reati di azione. Ma i giudici di Milano non hanno sentito questo bisogno...Altresì bisognerebbe ricordare che i tribunali borbonici militari furono singolarmente miti, dando lezioni di generosità e lealtà ai magistrati togati [...] Qui a Napoli si sono avuti oggi casi stranissimi. A un disgraziato scrittorello borbonico, che dichiarava la sua fede tenace, è stato risposto: Questa è la vostra colpa! Ed è stato condannato". Che dire, queste parole dovrebbe leggerle chi continua a considerare la storia bianco e nero, chi non contestualizza gli eventi e non li mette in relazione con quelli anteriori e successivi per trarne valutazioni. Nessuna beatificazione dei Borbone (oltretutto a pochi giorni dall'anniversario della morte di Francesco II, ultimo re delle Due Sicilie), solo un altro tassello di verità e un documento poco conosciuto, come regalo per le feste natalizie ai tanti cultori della storia del Sud, che vogliono liberarsi da pregiudizi e paraocchi.

Funzioni e compiti della magistratura. Il passaggio dallo Stato liberale al regime fascista non era stato per l’apparato giudiziario particolarmente traumatico. Il nuovo regime aveva infatti ereditato una magistratura disciplinata gerarchicamente e controllata saldamente dalle autorità di governo: il pubblico ministero era «il rappresentante» dell’esecutivo presso l’autorità giudiziaria, tutti i magistrati erano sottoposti «all'alta sorveglianza» del Ministro di grazia e giustizia e il potere politico nominava i capi di Corte e delle Procure generali, cooptandone alcuni per incarichi di governo e altri premiandoli col laticlavio. Questo reticolo istituzionale organizzava così una categoria di circa 3500 funzionari, per lo più provenienti dalle province meridionali, di estrazione medio borghese, educati alla cultura retorico-umanistica delle università del tempo e rispettosi dell’ordine e dell'autorità. L'ideologia dominante li indicava come custodi della legge, sacerdoti del diritto, componenti di un’élite prestigiosa, ma, nella realtà, i giovani magistrati dovevano fare i conti con sedi disagiate e retribuzioni modeste, condizioni migliorabili solo con avanzamenti in carriera; e proprio su questo facevano leva le gerarchie giudiziarie e politiche per edificare la piramide giudiziaria, per selezionare cioè da questa ampia base l’“alta magistratura”, esaltando in tal modo devozioni e conformismo, cooptando i più meritevoli attraverso i concorsi, ma attribuendo al vertice incarichi e posti direttivi con assoluta discrezionalità. I magistrati, il fascismo, la guerra. Giancarlo Scarpari su Questione Giustizia. Rivista trimestrale Fascicolo 2/2008.

Con la Repubblica il ruolo del Pubblico Ministero non è più governativo, ma di fatto diventa politico. Pubblichiamo un estratto dal libro “Io non posso tacere. Un magistrato contro la gogna giudiziaria. Confessioni di un giudice di sinistra” (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) scritto dall’ex procuratore capo di Prato, Piero Tony, insieme con il direttore del Foglio Claudio Cerasa. "Mi iscrissi a Magistratura democratica in un pomeriggio dei primi anni Ottanta, quando le correnti parevano serie aggregazioni culturali e non erano ancora diventate, come adesso, il simbolo di ciò che non è più serio nella magistratura. Un tempo, bisogna dirlo, le correnti erano necessarie. Tutti sanno cos’era la magistratura in Italia prima di quel caldissimo luglio del 1964 quando Magistratura Democratica venne costituita. Tutti sanno – credo – che quella dell’apoliticità della magistratura è una pretesa e basta, incompatibile con l’alta politicità di qualsiasi decisione giudiziaria. Tutti continuano a sorridere, dopo quasi un secolo, per ciò che nel lontano 1925 proclamò in Parlamento il guardasigilli Rocco, quello del codice: “La magistratura non deve fare politica […]. Non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa e antifascista”. Sì, un tempo le correnti erano necessarie. Poi, però, sono degenerate. Da luoghi di elaborazione culturale sono divenute ottusi centri di potere e ora fanno più danno della grandine. Non mi piace generalizzare perché, come sempre, c’è magistrato e magistrato, e ci sono modi diversi di far parte di una corrente e di sentirsi parte di un progetto. Ma è sicuro che un tempo le correnti rappresentavano soprattutto le differenti vene culturali della magistratura in relazione a quelli che allora, nello specifico, erano gli interrogativi di fondo. Giudice notaio o giudice garante? Interpretazione costituzionale o precostituzionale della norma? Attenzione ai fenomeni politici o terzietà olimpica? E così via. Oggi le correnti della magistratura hanno assunto un ruolo diverso e non si può proprio dire che siano lontane dalla compromissione politica. Mi iscrissi a Magistratura Democratica dopo titubanze e tentennamenti durati quasi quindici anni. Avevo poco più di quarant’anni ed ero sicuro, come molti altri, che mi sarebbe stato possibile – e così fu – essere un magistrato di Magistratura Democratica senza essere o apparire meno imparziale. Convinto, come molti altri, che per una persona di sinistra tale iscrizione non potesse avere che un motivo, almeno in via principale: garantismo e uguaglianza nei processi e impegno teso a rendere meno inermi i più svantaggiati. Perché proprio in quegli anni Magistratura Democratica l’aveva finalmente finita con la fissazione della lotta di classe – o almeno aveva avuto qualche piccolo ripensamento alla luce di quanto era successo e stava succedendo – e aveva virato verso quel garantismo di cui mi ero sempre sentito portatore. Farne parte per me significava questo, mettere le mie forze, le nostre forze, al servizio di un progetto più grande. Al centro della nostra funzione doveva esserci l’attenzione alla persona, l’attenzione anche verso chi non era potente, l’attenzione verso tutti quei disagiati che, troppo spesso, restano di fatto indifesi nel circuito giudiziario. E in questa ottica di giustizia ci si proponeva, altresì e di conseguenza, di affinare sempre più gli strumenti investigativi al fine di colpire il “potere invisibile”, i grandi furbi, quelli dei piani superiori abituati a farla franca. Magistratura Democratica voleva essere questo: la richiesta di una giustizia costituzionalmente orientata che assicurasse ai deboli lo stesso rispetto, le stesse attenzioni e le stesse garanzie di solito riservati ai forti. Avendo un po’ in mente le parole di Anatole France: “La legge è uguale per tutti, vieta sia ai ricchi che ai poveri di dormire sotto i ponti”. Ecco, le intenzioni erano davvero buone. Oserei dire… pie. Perché erano i tempi, sottolineo ancora, in cui le correnti venivano intese esclusivamente come luogo di aggregazione tra persone che la pensavano in modo omogeneo e si mettevano insieme per reagire alle forze considerate ingiuste e si confrontavano per far dialogare, far circolare alcune idee, alcuni progetti, alcune visioni del mondo. Ed erano i tempi, per capirci, in cui i ragazzi di sinistra, o almeno molti di loro, sentivano l’urgente bisogno di cambiare la cultura di una magistratura che pareva essere ancora, come durante il fascismo, solo uno strumento di conservazione al servizio dei dominanti, al servizio dell’establishment. Se avevo titubato per quasi quindici anni prima di aderire a Magistratura Democratica una ragione c’era, però. Perché, lo ripeto, dalla sua costituzione e per molto tempo l’ossessione della corrente era stata qualcosa che a me non interessava più di tanto: la lotta di classe di tradizione marxista e basta; magistratura come contropotere e scarsa attenzione alle persone. Qualche accenno su cosa avevamo appena vissuto? Già nel lontano 1969 era avvenuto un passaggio chiave per il mondo di Magistratura Democratica. Una fase di assestamento che coincise con l’arrivo degli anni di piombo, quando l’organizzazione affrontò una scissione interna guidata dal magistrato Adolfo Beria di Argentine. Di Argentine sosteneva che Magistratura Democratica si era legata troppo alla sinistra più estrema e che questa sua nuova natura metteva gli associati in una posizione di non terzietà. L’occasione della rottura arrivò con un piccolo episodio. Il 30 ottobre 1969 Francesco Tolin scrisse sul settimanale “Potere Operaio”, di cui era direttore, un articolo che fece scalpore: un inno alla violenza operaia. Per quel pezzo venne condannato a diciassette mesi di carcere. E il mondo di Magistratura Democratica si divise: la parte moderata difese la sentenza, quella meno moderata riteneva invece inaccettabile punire il direttore di un giornale per un reato di opinione. Alla fine i primi decisero di uscire dall’associazione accusando i colleghi di essere “schiavi dell’ideologia sessantottina “; provarono a dar vita a una vera e propria scissione, ma non ci riuscirono. Due anni dopo, la linea della via politica venne esplicitata in un documento presentato da tre colleghi, Luigi Ferrajoli, Salvatore Senese e Vincenzo Accattatis. Un testo storico, intitolato Per una strategia politica di Magistratura Democratica, in cui si chiedeva esplicitamente di organizzarsi come “componente del movimento di classe”, di dare vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i principî eversivi dell’apparato normativo borghese” e di lavorare tutti insieme per avviare una pratica capace di sintetizzare la voglia dei magistrati di fiancheggiare la battaglia politica con gli strumenti della giustizia: “l’interpretazione evolutiva del diritto”. (…) Nei primi anni Ottanta le cose, come ho detto, erano cambiate parecchio. Gli anni di piombo, il periodo durante il quale si passò rapidamente dall’estremismo della dialettica politica e parapolitica al terrorismo, all’eversione, allo stragismo, alla strategia della tensione (ricordo ancora l’impressione procuratami nel 1981 dal film di Margarethe von Trotta che da quella stagione prende il titolo), stavano finendo. Comprensibilmente, nel frattempo, c’era stato l’ampliamento dei poteri delle forze dell’ordine con le leggi Reale del 1975 e Cossiga del 1980, ampliamento suffragato dal trionfante esito del referendum popolare del 1981. Del resto nel 1969 avevamo vissuto la strage di piazza Fontana, nel 1978 l’assassinio di Aldo Moro, nel 1979 quello di Guido Rossa e del mio compagno di lavoro Emilio Alessandrini, tra l’80 e l’81 la strage della stazione centrale di Bologna, l’assassinio di Vittorio Bachelet e dell’altro mio collega Guido Galli e, nel Veneto, l’uccisione del commissario Albanese e del direttore del Petrolchimico di Marghera Sergio Gori e il sequestro del generale americano Dozier, tanto per citare alcuni dei casi più celebri. Inoltre, verosimilmente, Magistratura Democratica si era accorta che l’acceso, spesso inconsulto, qualche volta criminale attivismo sociopolitico di quelle confuse aree di estrema sinistra cui molti facevano riferimento poteva, nel guazzabuglio venutosi a creare, essere pericolosamente oggetto di sospetti, di investigazione e di denunce penali. Ricordo, ad esempio, che nel gennaio 1980 era stata formulata un’interpellanza urgente di Claudio Vitalone (più una ventina di senatori democristiani) al ministro di Grazia e Giustizia per sapere se rispondesse al vero la voce che durante una perquisizione disposta dalla procura di Roma nell’ambito di indagini relative alla morte a Segrate dell’editore Giangiacomo Feltrinelli fosse stato rinvenuto un atto da cui emergevano precisi collegamenti tra organizzazioni eversive e membri di Magistratura Democratica al fine di concertare l’approccio giusto per alcuni processi. Il fascicolo fu archiviato nel 1982, ma solo dopo grande clamore mediatico e pesanti vicissitudini processuali per i magistrati di Magistratura Democratica coinvolti. Altro esempio quello del “processo 7 aprile”. Lo ricordate? È il processo del cosiddetto “teorema Calogero”, per cui, nell’aprile del 1979, finirono in carcere Toni Negri, Emilio Vesce, Oreste Scalzone e altri. Le assoluzioni furono molte. Nel 1982, in “Critica del diritto” numero 23, Luigi Ferrajoli commentò: “Questo processo è un prodotto perverso di tempi perversi. […] E resterà come un sintomo grave e allarmante di arretratezza medievale della cultura giuridica della sinistra che a esso ha dato mano e sostegno”. Sono convinto, come altri, che proprio il “processo 7 aprile” fu l’ultima goccia che fece traboccare un calice di paura e, di conseguenza, fu la causa della svolta di Magistratura Democratica. Resipiscenza? Mah! Di certo era cambiato qualcosa che aveva determinato un mutamento di rotta: non più solo lotta di classe, ma anche, e soprattutto, lotta per le garanzie. Sì, proprio garantismo. Ma il garantismo, ahimè, durò poco. E oggi non faccio fatica a dire che, purtroppo, credo sia estraneo al Dna di Magistratura Democratica. Perché il garantismo attiene alla persona e Magistratura Democratica s’interessa, invece, ai fenomeni, ai determinismi sociologici, alle classi, alle masse. Perché garantismo e sospetti sono tra loro incompatibili e Magistratura Democratica non sa rinunciare ai sospetti, lo si evince dalla storia giudiziaria dei suoi membri. Magistratura Democratica dimentica che non a caso il codice (articolo 116 disp. att. c.p.p.) usa le parole “sospetto di reato”… solo per le autopsie. Ho letto da qualche parte che il povero procuratore della Repubblica di Roma Michele Coiro – uomo probo e mite morto d’infarto nel 1997, e nell’ultimo periodo della sua vita schiacciato dai sospetti che un’inchiesta milanese palesava nei suoi confronti solo sulla base, pare, di una domanda al massimo inopportuna da lui formulata a un collega – usasse dire, pur appartenendo a Magistratura Democratica come i magistrati che lo inquisivano, che “il moralismo di sinistra era venato di sospetti […] la peggiore categoria mentale figlia di Magistratura Democratica”. (…) La situazione di oggi è questa, una magistratura corporativa e politicizzata, vistosamente legata ai centri di potere, che non urla per protestare contro un sistema che l’ha resa inutile, ma anzi continua a opporsi in modo sistematico a qualsiasi progetto di riforma dell’esistente. È probabilmente l’effetto del piccolo cabotaggio delle varie campagne elettorali, attente più agli indubbi privilegi di categoria, compresi quelli economici, che ai modi per sanare un sistema spesso inefficiente. Piccolo cabotaggio che però non impedisce – soprattutto per quell’assenza di complessi sottesa a una politicizzazione così anomala – di agire e pontificare non solo in casa propria, ma in relazione a buona parte dei grandi temi politici nazionali e internazionali senza tema di essere apostrofati con un “taci, cosa c’entri tu?”. È questo che ha portato la giustizia, e non solo Magistratura Democratica, a ritenere di avere una singolare missione socioequitativa realizzabile non con la difesa dei più deboli, ma con l’attacco ai più forti. È come se a un tratto, in mancanza di alternative di governo, una parte della magistratura avesse scelto di perseguire attraverso la via giudiziaria l’applicazione del socialismo reale. Ma così salta tutto. Saltano i confini tra la politica e la magistratura. Salta la distinzione dei ruoli. Oggi è solo tautologia dire che la magistratura è partitizzata, non si tratta di un’opinione, è un dato di fatto. Esistono le correnti. Esistono i magistrati che professano in tutti i modi il loro credo politico. Esistono grandi istituzioni, come il Csm, dove si fa carriera soprattutto per meriti politici. E francamente non riesco a criticare fino in fondo chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. È un dramma, negarlo sarebbe follia. (…) Vogliamo ricordare i tempi di Tangentopoli? Qui c’è un prima e c’è un dopo. Il prima è la fase della contemporaneità, quando noi di Magistratura Democratica abbiamo pensato che finalmente ce l’avevamo fatta, che finalmente la giustizia non era più soltanto uno strumento nelle mani dei potenti e a difesa dei potenti, ma era uno strumento con cui costringere anche i potenti al rispetto della legge. Poi, anni dopo, è divenuto chiaro ciò che realmente era successo: Tangentopoli non è stata soltanto una grande azione di pulizia etica, diciamo così, ma l’occasione in cui, in nome della battaglia contro i potenti, sono emersi i nuovi potenti, i nuovi giacobini, quelli che per la loro un po’ eccessiva e un po’ disinvolta veemenza investigativa costrinsero il legislatore a modificare l’articolo 274 del codice di procedura penale aggiungendo in precisazione una cosa ovvia che dovrebbe marcare il Dna di ogni magistrato imparziale (e informato sul diritto al silenzio notoriamente assicurato all’interrogato dall’articolo 64 del codice di procedura penale): “Le situazioni di concreto e attuale pericolo [di inquinamento probatorio, per capirci] non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti”. Era già accaduto con l’articolo 291 del codice, dove era stato necessario aggiungere che, nella richiesta al gip di misura cautelare, il pm deve presentare “gli elementi su cui la richiesta si fonda nonché tutti gli elementi a favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate” (precisazione resa necessaria dall’accertata prassi dei pm, davvero costituzionalmente disorientata, di far conoscere al gip solo gli atti a favore dell’accusa, e che già nel 1999 aveva costretto il legislatore a riformulare addirittura l’articolo 111 della Costituzione in quanto, con sentenza 361/1998, la Corte Costituzionale aveva ritenuto utilizzabili contro l’imputato dichiarazioni da lui rese nel suo procedimento o in procedimenti contro altri – articolo 210 c.p. – al di fuori di ogni qualsiasi contraddittorio). È sempre per le stesse ragioni che alcuni membri del pool di Mani Pulite hanno incrociato la strada della politica. Penso a un magistrato che, dopo quell’esperienza, divenne ministro dei governi Prodi nel 1996 e nel 2006, e alleato del centrosinistra in tutte le elezioni politiche fino al 2008. Penso a un magistrato che nel 2006 fu eletto senatore nella lista dell’Ulivo. E penso a un altro magistrato, quello del “resistere, resistere, resistere”, che scese in campo, diciamo così, per sostenere la candidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito democratico. Eccoli i risultati di una politicizzazione spinta: inchieste condotte a furor di popolo in quanto sostenute, a prescindere, dai media e dall’opinione pubblica; magistrati sempre indaffarati, con il cellulare all’orecchio e lo sguardo di chi farà giustizia… e magari nelle frettolose retate viene calpestata ingiustamente qualche vita; trionfo del Cencelli negli organigrammi delle procure; correnti ormai votate più a ottenere riconoscimenti che a dibattere sulle necessità giudiziarie per far crescere una sana cultura di giurisdizione; ascesa di alcuni magistrati – sparuta minoranza, per fortuna – ormai geneticamente modificati dalla convinzione che, spesso, per raggiungere un determinato ruolo conta più chi ti propone di ciò che tu stesso hai fatto per guadagnartelo; magistrati che passano mesi in campagna elettorale, mesi a promettere cose che poi dovranno mantenere quando raggiungeranno un obiettivo. Allora è ovvio che qualcuno pensi, mettendo insieme i pezzi, che talvolta l’azione della magistratura possa nascondere un fine legato non solo al rispetto della legge, ma anche a un’idea della politica. Attenzione, non mi riferisco a complotti o ad altre ingenuità del genere. Qui si tratta proprio di un problema di metodo, individuale. Non esistono complotti, esistono atteggiamenti, che a volte possono essere più o meno diffusi, e questi atteggiamenti spesso presentano lo stesso problema: la legge non è uguale per tutti, ma è più severa con chi non la pensa come te. Si tratta di accanirsi su una persona, o di utilizzare con questa metodi che non useresti con altri, solo perché ciò ti fa sperare in un ritorno d’immagine. (…) A questo punto mi si chiederà inevitabilmente: il ragionamento vale anche per Berlusconi? Non entro nel merito dei processi, che non conosco, non ho titolo per farlo, ma mi sento di affermare senza paura di essere smentito che se Berlusconi non fosse entrato in politica non avrebbe ricevuto tutte le attenzioni giudiziarie che ha ricevuto. Anche nel caso Ruby, che in linea teorica avrebbe dovuto essere un ordinario processo di concussione e prostituzione minorile, è evidente che l’ex presidente del Consiglio ha avuto un trattamento speciale (…). Mi rammarico poi di non capire fino in fondo con quale faccia e credibilità, in tutti questi anni, amici e colleghi abbiano non di rado usato la magistratura come un trampolino da cui lanciarsi per entrare in politica o ottenere incarichi utili e di prestigio. Ne ho visti e ne vedo anche oggi: candidati presidenti di regione, presidenti del Senato, ex candidati alla presidenza del Consiglio, candidati sindaci, assessori, ministri. Ma come si fa? Non si capisce che utilizzare la propria dote giudiziaria per fini politici rappresenta un danno di immagine per tutta la magistratura? Non si capisce che, una volta che si diventa di parte, viene considerato, o rischia di essere considerato, di parte tutto quello che si è fatto fino a un attimo prima con la toga sulle spalle? Non si capisce che far diventare di parte anche un solo processo significa dare l’impressione che tutta la magistratura sia di parte? Che mettere la legalità a servizio di una parte politica equivale a dire che chi sta dall’altra non rappresenta la legalità? E non si capisce, infine, una cosa banale, e mi verrebbe da dire drammatica, una questione che, se vogliamo, c’entra, ancora una volta, con la parola legalità. Sia chiaro, non voglio pensare che sussista il delitto di abuso d’ufficio (articolo 323 c.p.) solo perché la Costituzione impone al magistrato indipendenza, imparzialità e soprattutto terzietà (articoli 25, 101, 102, 104, 107, 108, 111), ma per lo spirito – solo lo spirito – di codeste norme non si potrebbe pensare che un magistrato che usa la propria carriera per mettersi in politica, o anche solo per fare politica, sia un magistrato che abusa del proprio ruolo e se ne infischia della parola terzietà? Non puoi essere terzo oggi e schierarti per una parte domani. Non devi farlo e non dovrebbe esserti consentito. Se lo fai, commetti un errore. Hai abusato della visibilità del tuo ufficio, vivaddio, e in questo modo insinuerai nella testa dei cittadini l’idea che il magistrato terzo sia l’eccezione, non la regola. Sì, è davvero un dramma. (…)  Così non va e non è possibile che non si cambi. Lo dico forte della certezza che si tratta di poche mele marce. Forte del fatto che, come me, la stragrande maggioranza dei colleghi ha sempre evitato non solo l’utilizzo della visibilità istituzionale a fini politici, ma qualsiasi rapporto potesse far sospettare la possibilità di un trattamento vantaggioso perché legato alla funzione. Io, per capirci, come quella stragrande maggioranza, l’automobile l’ho sempre comprata da chi non mi conosceva. Ecco. Basterebbe far perdere alle correnti ogni valenza diversa da quella culturale. Basterebbe adottare nuovi criteri per la selezione del personale. Basterebbe premiare i bravi, non i raccomandati. Basterebbe far entrare un po’ di merito nel nostro mondo. Basterebbe far sì che l’appartenenza alle correnti cessasse di essere conveniente, per dirne una, sorteggiando i consiglieri del Csm e non più eleggendoli seguendo la logica del Cencelli dopo più o meno abili campagne elettorali. Basterebbe così poco, ma nessuno lo fa. E di fronte a questa situazione c’è solo da dire: scusate davvero, ma io non ci sto". Piero Tony

Compagno magistrato. Da Mani pulite alla lunga guerra contro il Cav. Cinquantadue anni di militanza a fianco della sinistra. Grande inchiesta sul marxismo giudiziario di Magistratura Democratica. Annalisa Chirico 17 Aprile 2016 su Il Foglio.

Magistratura Democratica nasce il 4 luglio 1964 a Bologna, nell’Aula magna del collegio universitario Irnerio dove si tiene la sua prima assemblea pubblica.

Magistratura Democratica. Magistratura di sinistra. Toghe rosse. Contropotere. Lotta di classe. Marxismo giudiziario. Autonomia e indipendenza. Resistenza costituzionale. Costituzione Costituzione Costituzione. Corre l’anno 2016, e per difendere la Costituzione Md combatte al fianco dell’Arcinemico, il Caimano from Brianza, l’attentato alla Costituzione in carne e ossa, che se solo potesse la cambierebbe tutta in un istante. Ma ora lui non può, e l’idea si fa scintilla nella mente del Royal baby, Matteo Renzi, quello che “preferisco i magistrati che parlano con indagini e sentenze a quelli che parlano con i comunicati stampa”. Apriti cielo. Il premier vuole superare il bicameralismo paritario, due Camere uguali uguali che si rimpallano ogni testo in un ping pong snervante e interminabile. Addio spola, addio navette. Ma Berlusconi, che ieri era d’accordo, oggi scandisce il “no, giammai”, noi siamo opposizione. Rodotà e Zagrebelsky fissano pensosi l’orizzonte, e quasi trasecolano quando si accorgono che lui, il Caimano from Brianza, con incedere baldanzoso cammina dritto verso di loro. Che cosa vorrà mai? Il nemico è comune, il fronte pure. Tocca farsene una ragione. Sul sito web di Md campeggia il comunicato ufficiale di adesione al comitato per il NO (in stampatello) guidato dalla triade Zagrebelsky-Pace-Rodotà. “Lei è giovane come il direttore del Foglio con il quale sono già entrato in polemica – spiega con modi garbati l’attuale presidente di Md Carlo De Chiara – Dovete rendervi conto che la legge di riforma Renzi-Boschi, in sinergia con quella elettorale nota come Italicum, non ammoderna la macchina dello stato. A nostro avviso ne determina una pericolosa involuzione”. Ma, dottor De Chiara, lei non ravvisa neppure un filo di inopportunità nel fatto che una corrente giudiziaria ingaggi una battaglia politica contro il governo? “Md non è né si sente coinvolta in una lotta contro l’esecutivo. La materia costituzionale però travalica la politica contingente. La Costituzione è destinata a durare ben oltre la vita di un singolo governo”. 

“Io mi sento partigiano. Partigiano non solo perché sono socio onorario dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia ma soprattutto perché sono un partigiano della Costituzione. E tra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgerla, so da che parte stare”. 30 ottobre 2011, il sostituto procuratore di Palermo Antonio Ingroia, iscritto Md, partecipa al sesto congresso dei Comunisti italiani. Il magistrato, “partigiano della Costituzione”, si sente investito di una missione all’apparenza neutra, in realtà profondamente politica e potenzialmente totalizzante. La “resistenza costituzionale” è l’alibi perfetto per condurre ogni sorta di battaglia extragiudiziaria. Se la Costituzione chiama, il “magistrato democratico” risponde. “Nel 2006 mi schierai contro il tentativo di revisione costituzionale voluto dal governo Berlusconi; partecipai a ben cinquantadue iniziative, le ho contate. Io non mi sono mai tirato indietro, non lo farò neppure questa volta”, Franco Ippolito, iscritto alla corrente della sinistra giudiziaria dal 1972, ha sfiorato l’elezione a primo presidente della Corte di Cassazione lo scorso dicembre. Ippolito era il candidato di bandiera di Md ma alla fine i Verdi – che con Md sono confluiti in Area – hanno optato per Giovanni Canzio, forte dell’appoggio del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Ippolito, preso atto dei rapporti di forza, il giorno prima dell’elezione ha spedito una lettera a Palazzo dei Marescialli per ritirare ufficialmente la propria candidatura. “Non vorrei parlare della vicenda, anzi non vorrei parlare affatto perché sono della vecchia scuola, non mi intrattengo con i giornalisti. Da gennaio sono presidente della sesta sezione penale, e il lavoro non mi manca”, cordialità. Si mostra più affabile Piergiorgio Morosini, classe 1964, iscritto Md dal 1997, membro togato del Csm dal 2014, si è astenuto sul nome di Canzio (“nel suo caso la proroga di un anno per il pensionamento non riflette lo spirito della norma”). Nell’estate 2012, da gup di Palermo, Morosini è investito dall’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia. All’epoca è pure segretario nazionale di Md, carica dalla quale decide di dimettersi. “Dovevo studiare oltre duecento faldoni e maneggiare una materia delicata sia per la natura eterogenea delle fonti di prova che per la complessità dei capi di imputazione. Non avevo il tempo per continuare a occuparmi della vita della corrente”. I beninformati invece sostengono che lei si sarebbe autosospeso per via delle voci interne critiche sul contenuto e sulla solidità dell’inchiesta palermitana, nonché sull’esposizione mediatica di alcuni rappresentanti della pubblica accusa, Ingroia e Nino Di Matteo (presidente della sezione palermitana dell’Anm). “Mi sono autosospeso e-sclu-si-va-men-te per portare a compimento il mio lavoro”. Nel marzo 2013 Morosini rinvia a giudizio dieci imputati per “violenza o minaccia aggravata a un corpo politico dello stato”, e il rito siculo, tra uomini di stato tacciati di mafiosità e uomini di mafia eretti a icone legalitarie, ha inizio. Due anni dopo, da componente togato del Csm Morosini si batte, senza successo, per la nomina dello stesso Di Matteo alla procura nazionale antimafia (“ho sostenuto che avesse meriti e titoli per quel ruolo. Non ho cambiato idea”). Morosini ha conosciuto i “convegni ideologici” soltanto per tradizione orale, negli anni di piombo era un adolescente, eppure di quella stagione non rinnega nulla: “Md ha svolto un ruolo cruciale per aumentare il tasso di civiltà del paese”. Md era una corrente esplicitamente politicizzata, caldeggiava la lotta di classe per via giudiziaria e il superamento della “giustizia borghese”. “Intendiamoci anzitutto sui termini: io parlerei di gruppi associati, non di correnti”. Pruderie linguistica. “Lei deve calarsi nell’atmosfera di quegli anni. L’obiettivo di Md era la costituzionalizzazione del diritto e la riforma profonda delle istituzioni retaggio dell’epoca fascista. Md voleva contaminare la società, per questo organizzava i cineforum dove la gente, terminata la visione del film, si intratteneva con i magistrati per discutere di politica e attualità. Mi risulta che lei si sia occupata estensivamente di abuso della custodia cautelare in carcere”. Confermo. “Sarà lieta di sapere che ho partecipato a decine di convegni a Sasso Marconi dove i magistrati seniores ci insegnavano che la carcerazione preventiva è una extrema ratio. Il mio patrimonio garantista mi deriva dall’appartenenza a Md”. Proviamo a riannodare il nastro. Md è la corrente del “disgelo” della Costituzione. La sua missione originaria consiste nella codificazione dei principi costituzionali nell’ordinamento. Md si caratterizza come avanguardia garantista, tutto vero. Non potrà negare però, consigliere Morosini, che Md è e rimane un “gruppo associato”, come dice lei, a elevato tasso di politicizzazione. Le “toghe rosse” sono tali per esplicita rivendicazione. In nome di una missione superiore – far vivere la Costituzione nella società – si sentono legittimate a intervenire su ogni questione: dalla Guerra del Golfo all’articolo 18, dalla scala mobile a Guantanamo, dai Pacs alla stepchild adoption. Quelli di Md non-si-tirano-mai-indietro. Md è vocata alla discesa in campo. “E che cosa ci sarebbe di disdicevole? Pensi al referendum sulla riforma del Senato”. Penso esattamente a quello. “La posizione di Md non va strumentalizzata. Il superamento del bicameralismo paritario riguarda la nostra ingegneria costituzionale. Chi cerca di farlo apparire come un plebiscito sul governo persegue obiettivi diversi. Più voci si confrontano meglio è per tutti. E’ un fatto salutare per la democrazia”. Se la magistratura si occupa di legiferare, mandiamo i parlamentari ad amministrare la giustizia? “La separazione dei poteri non è intaccata. La riforma in oggetto riduce le prerogative del Parlamento e dilata quelle del governo. Questo ci va bene?”. Io sogno Charles de Gaulle, si figuri. “Lei non mi dà alcuna soddisfazione, sottovaluta il rischio di una democrazia autoritaria. Quando sento bollare come stupido conservatore chi osa avanzare critiche, mi domando quale sia la vera posta in gioco. Intendo dire: perché si dovrebbe impedire a libere coscienze, peraltro dotate di competenze tecniche, di offrire un contributo pubblico? Ci si scandalizza se un magistrato si schiera su un tema rilevante come la riforma costituzionale e poi si tace se un altro fuori ruolo, con funzioni apicali in autorità di nomina governativa, assume ogni giorni posizioni politicistiche”. Si riferisce per caso a Raffaele Cantone? “Non mi costringa a far nomi”. Le “libere coscienze” togate dunque sarebbero meglio equipaggiate di noi comuni mortali per destreggiarsi tra tecnicalità costituzionali. E’ dello stesso parere Gennaro Marasca, Md dal 1970, scuola giuridica partenopea, in pensione per superato limite d’età. E’ membro del Csm negli anni di Tangentopoli e dello scontro frontale tra l’allora capo dello stato Francesco Cossiga e l’Associazione nazionale magistrati. A marzo dello scorso anno presiede la quinta sezione della Cassazione che assolve in via definitiva Raffaele Sollecito e Amanda Knox. “Il cittadino magistrato, di norma, ne capisce più degli altri. Non mi scandalizza che Md esprima la propria posizione, tanto più su un tema di rilevanza istituzionale. Ciò non toglie che io voterò a favore della riforma perché ritengo un fatto positivo imboccare la direzione del monocameralismo”. Il cittadino può affidarsi al giudice “terzo e imparziale” se costui scende in campo contro il governo? “La politicizzazione e l’imparzialità sono concetti distinti. L’imparzialità in sede di giudizio è un dato tecnico. La neutralità non è richiesta ed è anche pericolosa. Ogni scelta è politica”. Il magistrato, oltre che esserlo, dovrebbe apparire imparziale. “I magistrati sono, in primo luogo, cittadini. Rispetto alle grandi conquiste di civiltà e democrazia, non ci siamo mai tirati indietro. Leggiamo i giornali, viviamo di passioni, coltiviamo sensibilità politiche e culturali. La neutralità è una chimera”. Nel ’94 lei entra a far parte della giunta bassoliniana in qualità di assessore alla Trasparenza del comune di Napoli. Tre anni dopo, torna a esercitare la funzione giurisdizionale. Se domani lei vestisse i panni dell’imputato dinanzi a un giudice che è stato, a sua volta, assessore missino, non temerebbe un pregiudizio ostile nei suoi confronti? “Assolutamente no. La politicizzazione e l’imparzialità viaggiano su binari separati. La mia professione è stata sempre improntata al rigoroso rispetto della legge. Non avrei mai danneggiato un cittadino d’idee politiche opposte alle mie. Da assessore ho prestato un servizio civico in una città che ancora oggi versa in condizioni difficili. E il rischio è che De Magistris vinca per la seconda volta, anche per responsabilità di Bassolino che non ha saputo allevare una nuova classe dirigente. Le confesso, Renzi un po’ di ragione ce l’ha quando parla di rottamazione. Io ho 71 anni e mi sono fatto da parte. Le persone dovrebbero capire quando la loro stagione è conclusa”.

A metà degli anni Sessanta una nuova generazione di giuristi progressisti mette in discussione il paradigma giuridico dominante. L’obiettivo è il disgelo della Costituzione.

La stagione, le stagioni. Md ne ha vissute più d’una. Cinquantadue anni in trincea contro il potere costituito, dentro e fuori le aule di giustizia, nelle fabbriche e nelle piazze, a colpi di comunicati stampa e mozioni approvate per alzata di mano. E poi le email, quante email, frenetiche email, in una corrispondenza per ticchettio talvolta violata. Come nel dicembre 2009 quando un tale Tartaglia ferisce al volto il Cavaliere con una statuetta del Duomo meneghino, e una toga rossa erutta in una mailing list privata: “Ma siamo proprio sicuri che quanto accaduto sia un gesto più violento dei respingimenti dei clandestini in mare, del pestaggio nelle carceri di alcuni detenuti o delle terribili parole di chi definisce eversivi i magistrati?”.

La stagione, le stagioni di Md. All’origine è marxismo giudiziario allo stato puro. Lotta di classe e giustizia proletaria. L’ordinamento risale al regime fascista, la Costituzione repubblicana è perlopiù inattuata. I “magistrati democratici” sono investiti di una missione: conferire linfa vitale alla Carta fondamentale. L’interpretazione evolutiva è preordinata a tale scopo. Segue poi la stagione del sangue, terrorismo fa rima con brigatismo, i magistrati cadono come eroi civili sotto il fuoco dell’ideologia armata. La corrente è spaccata tra movimentisti e gradualisti: i primi, vicini alla sinistra extraparlamentare, vedono nel Pci l’alibi di un sistema impermeabile al cambiamento, il terrorismo sarebbe una macchinazione dello stato borghese. I secondi perseguono un piano di riforma graduale del sistema capitalistico, il Pci è un alleato. Dopo qualche tentennamento e ambiguità di troppo, prevale la linea dell’intransigenza, esattamente come in via delle Botteghe Oscure. La terza stagione è a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. A Ginevra Reagan e Gorbaciov s’incontrano, i berlinesi orientali scavalcano frenetici il Muro, le due Germanie si apprestano alla riunificazione. La cortina di ferro si sgretola nel cuore dell’Europa, e gli effetti si propagano fino in Italia.

Il Pci teorizza la svolta post ideologica. Md deve cambiare per non morire. La missione originaria è esaurita: il disgelo della Costituzione è ormai compiuto. In questo frangente Md cambia pelle: da corrente giudiziaria fiancheggiatrice della politica si trasforma in soggetto politico tout court. Tangentopoli segna la crisi della Repubblica dei partiti. Md cavalca l’inchiesta Mani pulite, i suoi esponenti assurgono a paladini della legalità. Nei confronti degli inquisiti per corruzione e tangenti lo zelo garantista, che negli anni Settanta ha suscitato frizioni interne sull’atteggiamento da riservare ai presunti terroristi, scompare: forma e sostanza dell’inchiesta milanese non sono minimamente messe in discussione, nessuna denuncia di “eccessi inquisitori”, di abusi manettari, nulla. Il 1994 è l’anno dell’“imprevisto” che di nome fa Silvio Berlusconi, capo di un partito e leader dell’antipartitismo. Il 21 novembre dello stesso anno, come preannunciato dal Corriere della Sera, il premier, nel bel mezzo di una conferenza internazionale contro la criminalità a Napoli, riceve dalla procura di Milano un invito a comparire per corruzione. Il Cav. è nemico delle toghe. Le toghe sono nemiche del Cav. Nel corso del cosiddetto Ventennio lo scontro si svolge in un crescendo rossiniano: Md è il “plotone d’esecuzione che vuole realizzare la via giudiziaria al socialismo contro il capitalismo borghese”, l’“associazione a delinquere delle toghe rosse”, il “cancro della democrazia italiana”. Il copyright è di Berlusconi. La stagione dei giorni nostri, la stagione che viviamo, porta con sé tre paroline: crisi di identità. Md è disorientata. Non è più quella che è stata e non sa quel che sarà. Lotta di classe e Costituzione sono le parole d’ordine di un’epoca definitivamente archiviata. Md non è più fucina di elaborazione culturale e politica, non è più avanguardia modernizzatrice. Md sopravvive come corrente tra le correnti, anestetizzata dalle logiche corporative e spartitorie tipiche della magistratura associata. Nelle fabbriche e nelle piazze non ci sta più, resiste invece nei luoghi del potere, nel parlamentino delle toghe, l’Anm, e nel supremo organo di autogoverno, il Csm. Per mantenere influenza e peso elettorale è confluita in Area insieme ai Verdi del Movimento per la giustizia. Una scelta sofferta e contestata al suo interno. Alle ultime elezioni del Csm Area ha eletto sette membri, soltanto due di Md. “Venuta meno la strategia politica, non è rimasta che quella dei posti”, chiosa implacabile Luciano Violante che dei tempi d’oro fu autorevole esponente. Alcuni dei padri fondatori confidano di non riconoscersi nella versione attuale. E’ come se Md, con lo sguardo rivolto a un glorioso passato, non sia in grado di sintonizzarsi con la contemporaneità. Arrancando così nell’impietosa routine di una corrente tra le correnti.

C’era una prima volta Magistratura Democratica, anno di nascita 1964, governo Moro di centrosinistra. Md è uno “strano animale”, nelle parole di Pietro Ingrao, “un soggetto politico-culturale: una organizzazione quindi impegnata in una battaglia di trasformazione politica e sociale, e contemporaneamente nella costruzione di una specifica cultura giuridica. Organizzazione a forte politicità generale”. L’Anm, sciolta d’imperio dal regime fascista nel 1925, risorge a Roma nel ’44, e negli anni Cinquanta vede germinare al suo interno le prime “correnti” (la più antica si chiama Terzo potere). Nel ’61 una pattuglia di strenui difensori dello status quo abbandona l’Anm: sono perlopiù magistrati di Cassazione che danno vita all’Unione magistrati italiani. Tra i fondatori di Md si annoverano gli scontenti dei risultati alle elezioni del Csm nel ’63. Con il sistema maggioritario uninominale senza liste ufficiali, né Dino Greco né Adolfo Beria d’Argentine, entrambi del cosiddetto “gruppo milanese”, risultano eletti. Giovanni Palombarini è la memoria vivente di Md alla quale aderisce sin dagli albori. Ricopre gli incarichi di segretario nazionale e presidente del gruppo associato, negli anni di piombo è giudice istruttore a Padova dove segue le inchieste di eversione politica, incluso il famigerato “processo 7 aprile”. Agli inizi degli anni Novanta è eletto al Csm. Autore di poderosi volumi sulla parabola storica della corrente, per uno di essi sceglie un titolo che è un attestato di sincerità, “Giudici a sinistra”. Nel 2013, ormai in pensione, si candida alla Camera come capolista nella circoscrizione padovana per Rivoluzione civile fondata dall’ex collega Antonio Ingroia. Secondo Palombarini, la nascita di Md “non è stata il frutto del confluire più o meno spontaneo di soggetti omogenei quanto a cultura istituzionale e sentimenti politici, ma dell’aggregazione di magistrati certamente democratici, capaci di cogliere come sotto il dogma dell’apoliticità dei giudici si nascondesse una storica omogeneità con il ceto politico di governo”.

Anche dopo la proclamazione della Repubblica, la Corte di cassazione, al vertice della piramide giudiziaria, si consolida come il moloch della conservazione. La giurisprudenza della Suprema corte mira infatti alla sterilizzazione della Carta costituzionale. Nel libro “La toga rossa”, scritto a quattro mani con il giornalista Carlo Bonini, il compianto Francesco Misiani, tra i fondatori di Md, spiega così l’impulso originario: “La divisione tra noi e quelli che chiamavamo gli ermellini, vale a dire i magistrati di Cassazione, nonché le stesse correnti di destra dell’Anm (Magistratura indipendente e Terzo potere, nda), era profonda. E non solo per un problema di carriere ma anche di interpretazione della legge. Noi sostenevamo che nello scrivere le nostre sentenze si dovesse ritenere prevalente la Costituzione fino al punto di disapplicare le leggi ordinarie che fossero ritenute in contrasto. Al contrario, la Cassazione si poneva quale ostacolo di qualunque giurisprudenza di tipo evolutivo”. Nel febbraio ’48 le sezioni unite si schierano contro l’attuazione della legge fondamentale con una sentenza che introduce la distinzione tra norme programmatiche e precettive, statuendo che soltanto le seconde avrebbero immediata efficacia nell’ordinamento. Le norme costituzionali sul diritto allo sciopero, sulla libertà di associazione e di pensiero non rientrerebbero tra queste. A metà degli anni Sessanta una nuova generazione di giuristi progressisti, tra i quali Stefano Rodotà, Pietro Barcellona e Sabino Cassese, mette in discussione il paradigma giuridico dominante. L’obiettivo è la costituzionalizzazione del diritto, vale a dire il disgelo della Costituzione, l’affermazione cioè del suo primato e del suo carattere immediatamente normativo. Si fa largo inoltre una nuova concezione del ruolo interpretativo del giudice che non può ridursi a mero esercizio burocratico secondo il mito della neutralità della legge. Negli stessi anni il giurista Giuseppe Maranini pubblica gli atti di un convegno intitolato, provocatoriamente, “Magistrati o funzionari?”. A suo giudizio, è dovere del giudice valutare la norma alla luce del dettato costituzionale esprimendo così un preciso indirizzo di politica costituzionale. Nel ’92 Giuseppe Borré, già componente del Csm e fondatore della rivista Md Questione giustizia, afferma: “La magistratura è politica nel senso che è indipendente, non falsamente neutrale – alla vecchia maniera – ma indipendente nel senso voluto dalla Costituzione, e qui parlerei di politicità-indipendenza, politicità in quanto indipendenza. La magistratura è politica proprio perché è indipendente dagli altri poteri dello stato. Il suo essere indipendente non la colloca in un altro universo (pretesamente apolitico), ma la fa essere un autonomo e rilevante momento del sistema politico”.

A partire dai primi mesi del ’64 i “magistrati democratici”, delusi dall’ordine esistente e smaniosi di una “rinascita costituzionale”, cominciano a incontrarsi in conciliaboli informali presso le abitazioni degli stessi animatori progressisti fin quando Federico Governatori, pretore del lavoro, meglio noto come il “giudice degli operai”, chiede al rettore dell’Università di Bologna un locale che possa ospitare la prima assemblea pubblica. Il 4 luglio 1964, nell’Aula magna del collegio Irnerio in via Zamboni, si compie l’atto di nascita di Magistratura Democratica. Il nome lo propone un giudice di Varese, Vincenzo Rovello. In calce alla mozione costitutiva di Md si leggono le firme di ventisette magistrati. Governatori è il primo segretario nazionale. “Di padroni a cui dobbiamo ubbidienza ce n’è uno solo, la Costituzione”, esordisce così sul primo numero della rivista Qualegiustizia di cui sarà direttore. Nella mozione conclusiva Md si caratterizza come movimento di rottura “contro il gran vuoto ideologico” della magistratura italiana. E’ compito del magistrato farsi promotore del cambiamento, non semplice burocrate addetto all’applicazione asettica delle norme. Il magistrato non è funzionario, non è “bocca della legge”. Si fa strada l’idea di una “giurisprudenza alternativa”, incentrata sul ruolo interpretativo del giudice e formalizzata nel ’71 in un libretto giallo, dal colore della copertina, intitolato “Per una strategia politica di Magistratura Democratica”. Gli autori sono tre nomi di peso: Luigi Ferrajoli, Vincenzo Accattatis e Salvatore Senese. Nel documento si sostiene che è compito del magistrato formulare una “interpretazione evolutiva del diritto”: i magistrati democratici devono organizzarsi come “componente del movimento di classe” e dar vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i princìpi eversivi dell’apparato normativo borghese”. La formula apparentemente innocua – interpretazione evolutiva del diritto – servirà a giustificare la funzione di “supplenza” del magistrato che in assenza di una legge è in grado di inventarla ex novo, in presenza di essa può interpretarla in modo innovativo, alla luce dei costumi e dei mutamenti sociali in atto, fino a stravolgerne il significato letterale. E’ il caso del giudice che interpreta la legge non già per applicarla ma per cambiarla. “Era una tesi certamente forte e pericolosa – commenta Violante con gli occhi di oggi – Non rispecchiava la mia posizione, e lo stesso Ferrajoli nel tempo ha preso le distanze. Numerosi iscritti alla corrente erano attratti dall’idea che l’attività giurisdizionale servisse non già a consolidare ma a trasformare. Ricordo che Barcellona organizzò un convegno a Catania sul cosiddetto uso alternativo del diritto. Io mi rifiutai di prendervi parte”.

La mole di documenti, notiziari e riviste testimonia l’effervescenza culturale di Md. La Costituzione è onnipresente, è il Santo Graal, l’articolo 3 è il dogma infallibile e non negoziabile. “Si trattava di far vivere la Costituzione nell’ordinamento”, replica Violante, iscritto Md dal 1967 fino all’uscita, nove anni dopo, in polemica per una “insopportabile ambiguità sul terrorismo”. Violante diventa l’anello di congiunzione tra la politica (di sinistra) e la magistratura (di sinistra). “Ero giudice istruttore a Torino quando m’iscrissi a Md. Il punto focale era la contestazione della neutralità del diritto e la necessità di porre al centro il sindacato costituzionale delle norme. C’era da smantellare un codice d’impianto autoritario, e noi di Md ci muovevamo nell’ottica dell’articolo 3, per la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla realizzazione dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzioni di razza, sesso, età, ceto sociale”. Una formula che comportava una scelta di vita e di campo. “La tensione tra conservazione e modernità era presente nella società civile e si rifletteva in ogni ambito. In quegli anni nascono organizzazioni ispirate ad analoghe istanze di cambiamento, come Medicina Democratica, animata da Giulio Alfredo Maccacaro, e Psichiatria Democratica, fondata da Franco Basaglia”. Nel dicembre ’71 a Roma Md approva la seguente mozione: “Il nostro comune assunto teorico è che l’attuale giustizia è una giustizia di classe”, tale da “imporre un processo di riappropriazione popolare”. Anticapitalisti alla riscossa. “Certi toni erano un po’ sopra le righe, d”accordo. Però mi permetta di farle notare che chi era sul fronte conservatore e sosteneva la neutralità del diritto, era considerato al di sopra delle parti. Noi che stavamo dalla parte dei più deboli, dei soggetti sottoprotetti, eravamo tacciati di faziosità. La verità è che abbiamo modernizzato il paese. I primi passi per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e contro la discriminazione di genere provengono dall’attività giudiziaria dei magistrati democratici. A Torino entravamo nelle fabbriche della Fiat, ascoltavamo i lavoratori per conoscere l’organizzazione del lavoro e per sanzionare certe prassi che, al fine di velocizzare la catena di montaggio, mettevano talvolta a repentaglio l’incolumità degli operai’.

Ecco, le fabbriche e le piazze. Md esce dalle aule giudiziarie per sintonizzarsi con la società, per contaminare il tessuto sociale, per conquistare le casematte di gramsciana memoria. Nelle fabbriche e nelle piazze si salda l’alleanza tra magistrati di sinistra, sindacati e Pci. Il sistema giudiziario non è più visto come apparato fascista, arma delle classi dominanti e sovrastruttura borghese da abbattere. Il magistrato diventa gradualmente alleato. In seno a Md si consuma una spaccatura profonda tra i movimentisti, che guardano alla sinistra extraparlamentare e considerano il partito di Botteghe Oscure come l’alibi perfetto di un sistema che non ha alcuna intenzione di riformarsi; e i gradualisti che vedono nel Pci il riferimento naturale per un percorso che approdi progressivamente alla riforma del sistema capitalistico. Tra questi si annoverano Edmondo Bruti Liberati, Vittorio Borraccetti, Elena Paciotti, Nuccio Veneziano. Misiani, movimentista del “gruppo romano” (il più esagitato), ricorda così il viaggio in Cina nell’estate del ’76 insieme al collega togato Franco Marrone: ‘Accompagnammo una delegazione dell’allora Partito comunista d’Italia invitata dal Partito comunista cinese. Eravamo subito dopo la Rivoluzione culturale e riuscimmo persino a esaltare il processo popolare in Cina, di cui avevamo avuto un saggio all’interno di uno stadio dove vennero condannati per acclamazione quattro disgraziati. Avemmo la sfacciataggine di esaltare quel tipo di processo sostenendo che lì si realizzava la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia. Al contrario di quanto avveniva nelle nostre aule di giustizia dove i giudici borghesi condannavano i nemici di classe”. A proposito dell’allucinazione ideologica di quegli anni Misiani ammette: “Non posso negare che nelle mie decisioni di allora, e parlo delle mie decisioni da giudice, non abbia influito, e molto, la mia ideologia. Se proprio dovevamo condannare, condannavamo al minimo e poi mettevamo fuori. Ma avevamo di fronte un esercito di miserabili che ritenevamo ingiusto condannare in nome di una giustizia di classe cui erano regolarmente estranei i soggetti forti. Sulle ragioni giuridiche facevano agio quelle di carattere sociale”.

Come nasce l’impunità dei magistrati. Nello strano paese bifronte del “nessuno mi può giudicare”, ma in cui i giudici hanno in mano il destino di tutti, c’è un magistrato che sulla refrattarietà dei suoi colleghi a farsi giudicare ha qualcosa da dire. Parla Nordio, procuratore aggiunto a Venezia. C’entra anche la possibilità di influenzare la politica. Maurizio Crippa il 20 Maggio 2015 su Il Foglio.  Nello strano paese bifronte del “nessuno mi può giudicare”, ma in cui i giudici hanno in mano il destino di tutti, dalle pensioni ai ricorsi sugli Autovelox, il paese di decenni consumati nella guerra senza vincitori tra magistratura e politica, c’è un magistrato che sulla refrattarietà dei suoi colleghi a farsi giudicare ha qualcosa da dire. Carlo Nordio, procuratore aggiunto a Venezia, sul petto le medaglie di inchieste importanti condotte rifuggendo i clamori mediatici, ha preso spunto sul Messaggero di lunedì dal ricorso alla Corte costituzionale da parte di un giudice civile di Verona contro la legge sulla responsabilità civile per dire cose importanti: non solo sulla magistratura, ma sui guasti illiberali che da tempo minano la convivenza civile. Argomenta, Nordio, che al primo ricorso altri seguiranno, e verosimilmente saranno accolti perché non esiste una “manifesta infondatezza” tecnica. Anche il principio del “chi sbaglia paga” sventolato spesso dalla politica, è mal posto: “In tutto il mondo ci sono due o tre gradi di giudizio, proprio per il principio di poter rimediare a errori; ma non esistono sale operatorie di primo, secondo, o terzo grado. La giustizia prevede di poter sbagliare. Per questo la legge parla di errore in quanto ‘travisamento del fatto’, non di errori di merito o di interpretazione”. Ma tutto questo non fa dire a Nordio, come magari a qualche suo collega, che debba esistere una sostanziale impunità. E non toglie che ci siano “errori non scusabili. Primo: il magistrato che non conosce la legge. Secondo: il magistrato che non legge le carte. Ma io dico che porre un risarcimento pecuniario in questi casi non serve, tanto siamo già tutti assicurati. No, ci vuole una sanzione sulla carriera, a seconda della gravità. Se un magistrato non sa fare il suo dovere, deve essere giudicato e sanzionato”. Questo sul merito di una legge che è stata vissuta da una parte della magistratura come un assalto. Ma la cosa più interessante, per Nordio, è spiegare perché le cose vadano così. Perché non solo sia difficile risarcire gli errori giudiziari e sanzionare i colpevoli, ma anche valutare le carriere. In una visione liberale e di sostanza come la sua, il guasto sta nel manico. Andiamo per ordine. “Siamo l’unico paese al mondo con un processo accusatorio e con azione penale obbligatoria. Per cui abbiamo creato l’informazione di garanzia da inviare quando si apre un fascicolo, ‘obbligatoriamente’. Ma siccome siamo un paese, diciamo così, imperfetto, l’informazione di garanzia è diventata una condanna preventiva in base alla quale un politico può essere costretto a dimettersi. Fate due più due: obbligatorietà dell’azione penale più obbligatorietà dell’informazione di garanzia uguale estromissione dalla politica. Ovvero, i pm condizionano la politica. Qui nasce lo strapotere. Oltre al fatto che è lo stesso pm che comanda la polizia giudiziaria e sostiene l’accusa. E al fatto che detiene il potere di estrapolare dall’indagine un’ipotesi di reato anche diversa, e di estendere le indagini ad altri reati e altre persone”. Così parte un altro avviso di garanzia, e si ricomincia: la possibilità di influenzare la politica è davvero enorme. “Ma è colpa di un sistema che lo permette, questo strapotere. Da qui nasce la commistione perversa tra giustizia e politica”. Da un lato la magistratura condiziona la politica, dall’altro c’è la sua non giudicabilità. Nordio preferisce muoversi nei territori di una visione liberale e non delle polemiche. “Nel 1989 abbiamo adottato il nuovo Codice di procedura penale, ma abbiamo lasciato le basi del sistema come erano prima. Prendiamo gli Stati Uniti: lì l’Attorney ha molto potere e c’è la discrezionalità dell’azione penale. Però le carriere sono separate e inoltre il giudice – la sua controparte – non decide del fatto, di quello decide la giuria. Ha presente i telefilm? ‘Obiezione accolta… la giuria non ne tenga conto’. Per questo alla fine l’Attorney è giudicato secondo i suoi risultati. E allo stesso tempo nessuno ha il problema di fare causa al giudice, dovrebbe al massimo farla ai giurati. Ma questo nel nostro ordinamento non c’è, noi abbiamo inserito la riforma su un impianto costituzionale basato sul codice Rocco. Senza separazione delle carriere, senza meccanismo di valutazione esterna dei magistrati. E’ come prendere una Ferrari e metterci il motore della 500”. Di Nordio è nota la posizione sulle intercettazioni. “Sono un male necessario, come le confidenze alla polizia. Detto questo, la soluzione c’è senza imbavagliare la stampa. Il problema che da elemento di ricerca di una prova (e che quindi dovrebbero rimanere fuori dai fascicoli processuali) sono diventati elemento di prova e come tali vengono trascritte. E una volta che i fascicoli sono depositati è difficile dire a un giornalista di non pubblicarle. Ma c’è di più: poiché diventano prove, allora è giusto siano inserite tutte, anche quelle irrilevanti. Basterebbe non abusarne, ma ne abusiamo”. Così la libertà di stampa ridotta a circo mediatico-giudiziario: “La cosa grave è che alla fine della catena spesso al giornalista non arriva il nome che gli interessa, ma quello che i pm hanno messo nel fascicolo”. Bisogna portare Nordio un po’ fuori dal suo terreno d’elezione per sentirgli esprimere giudizi ponderati sul paese del “nessuno mi può giudicare”. Individua il retaggio profondo, atavico, “nel paese di cultura cattolica, dove alla fine tutto è perdonato”. Con buona pace di Bergoglio, è “la riserva mentale di un gesuitismo profondo. A differenza di paesi protestanti che hanno introiettato la responsabilità personale. E’ l’angoscia dei giansenisti, dei calvinisti, per il rimorso. In Italia continuiamo a parlare di etica della responsabilità, ma è sempre la responsabilità degli altri”. A questo si somma un’altra pecca, la vocazione a supplire con le leggi alla mancanza di regole condivise, per cui “abbiamo dieci volte le leggi della Gran Bretagna e continuiamo a metterne, o ad alzare i massimali di pena, senza che ciò abbia conseguenze pratiche, anzi”. E’ un po’ il caso delle nuove leggi sull’anticorruzione? “E’ un buon esempio. Invece servono poche leggi, chiare, rispettate”. E’ anche per questo che assistiamo al debordare del potere giudiziario, quello che gli anglosassoni chiamano “giuridicizzazione”, in cui ogni decisione diventa questione di magistrati, non di scelta politica? “E’ un altro problema culturale. Ma tanto più è debole la politica, tanto più lo spazio viene occupato dalla magistratura. E a molti livelli sul diritto per come è scritto prevale quello che viene chiamato con uno slogan ‘il diritto vivente’. Ad esempio è quello che ha fatto la Consulta sulle pensioni ritenendo, credo, di dover dire qualcosa sui livelli di salvaguardia dei redditi, cosa che dovrebbe decidere invece il Parlamento”. Hanno notato in molti: la Consulta forza la mano alla politica. “Un aspetto mi inquieta. La sua sentenza aggrava i conti pubblici, impone al governo di operare senza la necessaria copertura, cosa che invece la Costituzione prevede. Siamo a un caso in cui la Corte costituzionale, per assurdo, forza l’esecutivo ad agire al di fuori della Costituzione”.

La questione morale di Enrico Berlinguer. Intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari, «La Repubblica», 28 luglio 1981. «I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».

La passione è finita?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.

Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?

Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.

Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.

È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio......

nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?

Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...

Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industrializzati - di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.

GIUDICI & SINISTRI. QUANTI SOSPETTI SUL LÍDER MASSIMO MA LUI ARCHIVIÒ. E DIVENNE SINDACO PD...Da Il Giornale, venerdì 19 giugno 2009. Il papà era un calciatore professionista che a fine carriera diventò un piccolo imprenditore. Michele Emiliano, invece, preferì il basket e ancora oggi gioca nel Cus Bari over 40. Una passione che non gli ha impedito di laurearsi in giurisprudenza a Bari nel 1983, far la pratica in uno studio di avvocato e vincere il concorso per entrare in magistratura ad appena 26 anni. Ma il suo futuro era nella politica. Che gli finì sul tavolo nel suo ufficio a palazzo di giustizia sottoforma di fascicolo sugli sperperi della missione Arcobaleno. Quella messa in piedi per aiutare i profughi kossovari. E la politica, si dirà, cosa c'entra? C'entra perché il procedimento sfiorò massimo D'Alema e pezzi del suo governo, come il sottosegretario Barberi (rinviato a giudizio) e il sottosegretario diessino Giovanni Lolli per il quale l'anno scorso il gip, su sollecitazione del pm Di Napoli, ha dichiarato il non luogo a procedere insieme a Quarto Trabacchi, altro Ds. L'inchiesta finì in nulla, nonostante le contestazioni del procuratore Di Bitonto. Ma alla fine Emiliano si ritrovò candidato, con la benedizione del ras di Puglia Massimo D'Alema, a sindaco di Bari. A capo, nemmeno a dirlo, di una coalizione di centrosinistra. Ma di D'Alema Emiliano diventa il vero luogotenente quando a ottobre 2007 batte il senatore Antonio Galione ed è eletto segretario regionale del Pd. Nel ballottaggio punta di nuovo al municipio di Bari. Ma in tribunale continua ad avere tanti amici.

INQUISÌ IL PREMIER DEL MONTENEGRO ORA SPIA I PARTY A PALAZZO GRAZIOLI...Da Il Giornale, venerdì 19 giugno 2009. Il tam tam sui blog è già partito. «Pino Scelsi sarà il nuovo De Magistris?», si chiedono gli internauti alcuni con speranza, altri intravedendo una iattura. Cinquantacinque anni, una fama da gran lavoratore, sostituto procuratore distrettuale antimafia, Scelsi a Bari è magistrato piuttosto noto. Soprattutto da quando ha messo sotto inchiesta Milo Djukanovic, cinque volte premier del Montenegro, accusato di associazione mafiosa finalizzata al traffico di sigarette di contrabbando dal Montenegro all'Europa e verso la Svizzera. Inchiesta archiviata per l'immunità diplomatica riservata ai capi di Stato, di governo e ai ministri degli Esteri. Decisamente più tosti i processi ai più spietati clan baresi, i Capriati e gli Japigia. Criminalità organizzata e politici collusi, killer e colletti bianchi. Ma anche lui incontra Massimo D'Alema nell'indagine sul re delle cliniche private Francesco Cavallari e i presunti finanziamenti al Partito comunista per la campagna elettorale del 1985. Un'inchiesta per la quale il pm Alberto Maritati chiese l'archiviazione e nella quale Scelsi fece gli accertamenti su Cavallari. Finanziamenti rossi, dunque, sui quali indagò proprio Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari. Maritati, come Emiliano, si buttò in politica. Scelsi, invece, si tiene stretta la sua toga da magistrato e oggi indaga sulle presunte feste a Palazzo Grazioli.

CHIUSE GLI OCCHI SUI SOLDI AL PCI SI RISVEGLIÒ DA SOTTOSEGRETARIO DS...Da Il Giornale, venerdì 19 giugno 2009. Per chi volesse conoscere vita e miracoli di Alberto Maritati, su internet c'è il suo ricchissimo sito con biografia, articoli, interviste e fotografie a fianco dei potenti. Ovviamente di sinistra, visto che su tutto domina un vistosissimo simbolo del Pd. Ma anche per lui la carriera politica comincia nelle aule di un tribunale. Prima, fin dal 1969, pretore a Otranto dove stila (si legge testualmente), «una sentenza importante a favore delle raccoglitrici di olive». Dal 1979 è giudice istruttore a Bari. E qui, anche per lui, l'incontro con Baffino D'Alema finito impigliato nell'inchiesta Operazione speranza, quella a carico di Francesco Cavallari, il magnate delle cliniche private. Nel fascicolo anche quel contributo di 20 milioni di lire che lo stesso D'Alema sostanzialmente confermò di aver ricevuto come finanziamento elettorale al Pci per la campagna elettorale del 1985. Il gip Concetta Russi nel giugno del '95 archiviò su richiesta del pm. Proprio quel Maritati che nel frattempo era diventato vice procuratore alla Procura nazionale antimafia e poi candidato dal centrosinistra a Lecce. Eletto senatore e immediatamente nominato sottosegretario all'Interno durante il primo governo D'Alema, diventa il numero due del ministro Rosa Russo Jervolino e poi nuovamente sottosegretario nel D'Alema II. Nel 2006 è rieletto senatore e nominato sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi. E la toga da magistrato resta in naftalina.

La battaglia al Csm per Palermo. Sintesi di Samuela De Gaetani tratta da una riflessione di Gian Carlo Caselli. La Repubblica il 28 maggio 2019. Si dice che la storia di ogni eroe sia la storia di un uomo solo. Solo nelle stesse battaglie che di eroe gli hanno procurato la fama. La vita di Falcone non sfugge certo a tale paradigmatica condanna: ed è quanto Gian Carlo Caselli, il magistrato che dopo la morte di Falcone e Borsellino  chiese di andare a Palermo per dirigere quella Procura, ci racconta con la voce ancora rotta di chi, quel velo di solitudine, ha cercato ardentemente di squarciare. È tra il 1986 e il 1992 che si dispiega il Maxiprocesso a Cosa Nostra: Falcone, Borsellino e l’intero pool antimafia conseguono la prima e la più grande di tutte le vittorie della giustizia contro l’associazione mafiosa, sferrando un colpo al cuore di tutto ciò che la mafia è stata fino a quel momento. Ed è nello stesso 1986 che ha inizio il quadriennio di  Caselli al CSM , un quadriennio caratterizzato da un continuo susseguirsi di  “casi Palermo” che investirono Borsellino, Falcone e lo stesso pool. Il primo “caso” riguarda la candidatura di Borsellino a capo della Procura della Repubblica di Marsala. Suo concorrente: un magistrato digiuno di mafia molto più anziano di lui. Il criterio della professionalità antimafia vince sul vecchio tabù della gerontocrazia. Borsellino ottiene l’incarico, ma non esce illeso da quello scontro di criteri che avevano guidato le votazioni: Leonardo Sciascia-fuorviato dalle proprie fonti, come egli stesso riconoscerà più tardi-  in un articolo del “Corriere della Sera” intitolato “ I professionisti dell’antimafia”, riserva le ultime righe a un’invettiva contro il magistrato palermitano, accusato di essere un carrierista. L’accusa rivolta a Borsellino diventa linfa della grande polemica contro i magistrati che combattono Cosa Nostra, e concorre a determinare l’esito del secondo “caso Palermo” ribaltando la maggioranza che si era formata su Marsala. Nel 1988, infatti, con 14 voti a favore, 10 contrari e 5 astenuti viene nominato a capo dell’ufficio istruzione di Palermo Antonino Meli, un magistrato del tutto inesperto di mafia, preferito alla grande competenza in materia che aveva magistralmente mostrato sul campo il più giovane Falcone, candidato allo stesso incarico. Esprimendo il suo voto a favore di Falcone, la notte del 19 gennaio 1988, Gian Carlo Caselli terrà un discorso davanti al plenum del Consiglio Superiore della Magistratura. In questa occasione egli non solo getta luce sull’enorme portata dei risultati conseguiti dall’antimafia con il Maxiprocesso ( la fine dell’impunità  e del  mito dell’invincibilità di Cosa nostra), ma mina le fondamenta delle  strumentali  e calunniose accuse di “protagonismo” che erano state mosse a Falcone in quegli anni. «Quando i giudici non davano fastidio, quando non erano scomodi», dirà, «erano tutti bravi e belli. Ma quando hanno cominciato ad assumere un ruolo preciso, a dare segni di vitalità, a pretendere di esercitare il controllo di legalità anche verso obiettivi prima impensati, ecco che è cominciata l’accusa di protagonismo». In particolare, Caselli mette a fuoco il bersaglio di quella guerra fredda che si consumava in seno al CSM:  certo Falcone, ma non solo;  anche tutto ciò che egli rappresentava, in  particolare il vincente metodo di lavoro del pool. Abbandonare la direttiva della   professionalità specifica antimafia prescelta per Marsala e passare  con Meli/Falcone alla direttiva opposta della mera anzianità  è dunque  anche una  scelta politica contro il metodo di lavoro del pool di Falcone.  Che per lo stato equivaleva a gettare le armi di fronte alla mafia. La lotta alla mafia – come metodo e risultati – arretra di trent’anni. Si  rinuncia ai parametri  tipici del pool della  specializzazione e centralizzazione dei dati nelle inchieste sulla mafia; da un metodo dimostratosi col maxiprocesso vincente, perché consentiva una visione organica del fenomeno nel suo complesso, si torna alla vecchia e perdente  parcellizzazione, che alla mafia aveva assicurato per anni una sostanziale impunità. È Borsellino a denunciare queste  storture dell’antimafia dopo la “penalizzazione” di Falcone e del pool. Con  due  interviste da lui rilasciate il 20 luglio del 1988 ( ad Attilio Bolzoni e Saverio Lodato), ma le sue denunce vengono liquidate dal CSM che addirittura apre contro di lui un procedimento paradisciplinare per non aver seguito “le vie istituzionali”. Intanto,  soppresso dalla riforma processuale del 1989 l’ufficio istruzione per cui era stata scatenata la bagarre Meli/ Falcone, viene accolta la domanda di Falcone a Procuratore aggiunto di Palermo, ma sul suo conto le calunnie e gli attacchi  non si arrestano. Corvi e veleni vari lo accusano  vilmente di  essersi organizzato da solo l’attentato dell’Addaura del 21 giugno per favorire tale nomina. L’anno seguente viene bocciata la sua candidatura al CSM. Mentre a Palermo, per Giovanni Falcone, il grande protagonista del Maxiprocesso, solo porte chiuse e umiliazioni che lo costringono ad “emigrare” a Roma. Nominato da Claudio  Martelli  dirigente dell’ufficio affari penali al ministero della giustizia, Falcone può riprendere la sua ostinata battaglia alle mafie. Non solo crea la DNA (Direzione Nazionale Antimafia), le DDA (Direzioni Distrettuali Antimafia) e la DIA, ma consolida la legge sui pentiti e getta le basi del  41 bis. Uno strumentario organizzativo che promette  altri scacchi alla mafia. Nello stesso periodo, la Cassazione conferma in via definitiva ( ed è la prima volta nella storia dell’antimafia)  le condanne del Maxiprocesso.  Due “siluri” micidiali cui la mafia reagisce bestialmente con le stragi del 1992. «Prima o poi la mafia mi ucciderà», aveva profetizzato Falcone all’indomani dell’attentato dell’Addaura. Ma aveva cominciato a morire molto prima, secondo Borsellino. Proprio quando il CSM gli aveva negato la nomina a successore di Caponnetto. Falcone è stato ucciso da tanti, in molti modi, innumerevoli volte. Ma con il suo insegnamento rimane vivo e combattente attraverso gli occhi di Caselli  e di tanti altri che ci interrogano: che cosa sceglieremo per domani?

Il pensiero di Giovanni Falcone. Sintesi di Annamaria Nuzzolese tratta da interventi di Giovanni Falcone. La Repubblica il 29 maggio 2019. Leggendo queste righe la sensazione che assale il lettore è di stanchezza, nella seduta del 31 Luglio 1988, Falcone tiene un discorso al Consiglio Superiore della Magistratura, i toni sono quelli equilibrati dell’uomo di sempre ma si nota ormai la fatica nel resoconto finale di tutti i macigni che si è dovuto addossare e di tutti i silenzi che ha dovuto mantenere per evitare polemiche passate o più o meno contemporanee all’epoca del suo discorso. La delusione fa riferimento alla mancata collaborazione evinta da episodi di lettere di richiamo durante la direzione Meli dell’ufficio istruzione di Palermo, il primo discorso del nuovo direttore dopo l’insediamento ha avuto come unico perno la titolarità del più grande processo in atto ovvero quello che aveva in esame Cosa Nostra, nessuno scambio di idee, nessun confronto con chi fino ad allora aveva portato avanti le indagini, una palese e ferma opposizione basata su ragioni di puro formalismo per cui l’istruttoria non poteva essere assegnata congiuntamente a più giudici istruttori, convinzione a cui nulla è valsa l’opposizione della sentenza della Corte di Assise di Palermo che affermava invece la regolarità congiunta. In questa situazione onore al merito di chi cerca di mantenere viva la filosofia del pool rinnovando sempre la stima e la cordialità nei confronti del consigliere che sembra però bocciare qualsiasi tipo di proposta alternativa, senonché la disgregazione del metodo fino ad allora seguito raggiunge la massima evidenza con l’assegnazione dei vari processi attraverso un criterio totalmente oscuro agli altri membri del pool e in contrasto con i criteri tabellari predisposti e approvati dal CSM. Per riportare alcuni esempi: processo sull’omicidio di Tommaso Marsala affidato a Lacommare giustificando l’assegnazione con la tesi per cui tutti dovevano occuparsi in parte di indagini di mafia. Iter identico per il sequestro di Claudio Fiorentino assegnato dal consigliere a se stesso senza spiegazioni in merito, nonostante la gravità del sequestro che metteva in dubbio le regole di Cosa Nostra. Viene richiesta una copia degli atti appellandosi all’art 165 bis del codice di procedura penale, che non viene accolta, affermando che dovevano prima essere chiesti degli atti specifici e poi, che la richiesta costituiva indebita sovrapposizione a un potere dalla legge attribuito al solo capo dell’ufficio, questo è riportato in una lettera del 12 Maggio mentre nel frattempo erano state fatte assegnazioni congiunte di due processi. La risposta merita la più pacata decantazione, ed arriva infatti a meditazione conclusa dodici giorni dopo con i consueti riguardi rispettosi. La situazione presto sembra prendere una piega astrusa, omicidio Casella, ancora una volta confusione nell’assegnazione fatta senza leggere il rapporto, mentre ai colleghi del gruppo antimafia vengono assegnati processi ordinari che portano ad un appesantimento del lavoro di interrogatorio, di indagini e di esami testimoniali che si addossano sulle spalle del solo Falcone. Pendono in questo momento circa 2500 processi e Falcone qui richiama un altro episodio di gravità inaudita, cioè il processo Calderone, il cui mandato di cattura in cui si spiegano i motivi dello stesso e la competenza propria dell’ufficio di Palermo è stato pretermesso e sballottato tra il consigliere istruttore e il procuratore della Repubblica di Marsala, tutto ciò senza consultare alcun collega del pool quando Falcone stesso era fuori Italia. Queste sono grosso modo le controversie di cui si fa portavoce il magistrato palermitano che in un intervento del 17 Dicembre 1984 in occasione di un dibattito organizzato da Unità per la Costituzione, una corrente dell’Associazione Nazionale Magistrati, rivisita ampiamente il concetto di “emergenza mafiosa” ponendo l’accento sulla componente storica della mafia che precede la nascita dello Stato Unitario. La mafia come fenomeno interno e soprattutto economico-sociale riguardante vari strati della popolazione del Mezzogiorno non può essere utilizzato come “alibi per giustificare le carenze dei poteri statuali”, tuttora affermazione attuale e visionaria. L’organizzazione strategica nello studio del fenomeno mafioso e nell’attuazione della repressione attraverso strumenti più incisivi e compatti muove i primi passi in quell’Italia che vive le più grandi sofferenze e insieme somministra e sperimenta i più potenti farmaci per curarsi, tra cui il testimone, il giudice ed infine quello da cui più possiamo imparare: l’uomo, Giovanni Falcone.

I Professionisti dell'Antimafia di Leonardo Sciascia.

Le guardie del feudo. Non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l'efficienza e l'efficacia del patto. Mori, dice Duggan, «era per natura autoritario e fortemente conservatore», aveva «forte fede nello Stato», «rigoroso senso del dovere». Tra il '19 e il '22 si era considerato in dovere di imporre anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma forse gli valse - quel periodo di ozio - a scrivere quei ricordi sulla sua lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo di Tra le zagare, oltre che la foschia che certamente contribuì a farlo apparire come l'uomo adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta criminalità siciliana. Rimasto inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello Stato, che era ormai lo Stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi, l'innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c'è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell'opinione pubblica) nascondeva anche il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne può concludere che l'antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all'ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come «mafioso». Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la Democrazia Cristiana: «et pour cause», come si è tentato prima dl spiegare. Questo è un esempio ipotetico. Ma eccone uno attuale ed effettuato. Lo si trova nel «notiziario straordinario n. 17» (10 settembre 1986) del Consiglio Superiore della Magistratura. Vi si tratta dell'assegnazione del posto di Procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e dalla motivazione con cui si fa proposta di assegnargliela salta agli occhi questo passo: "Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dott. Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il "superamento" da pane del più giovane aspirante".

Per far carriera. Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come «la diversa anzianità», che vuoi dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel «superamento», (pudicamente messo tra virgolette), che vuoi dire della bocciatura degli altri, più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la lettura della proposta, in cui spiega che il dottor Alcamo -che par di capire fosse il primo in graduatoria - è «magistrato di eccellenti doti», e lo si può senz'altro definire come «magistrato gentiluomo», anche perché con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna «a lui assolutamente non imputabile»: quella di non essere stato finora incaricato di un processo di mafia. Circostanza «che comunque non può essere trascurata», anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo «piatisse l'assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo modo di procedere tra l'altro risultato alieno dal suo carattere». E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li abbia quanto più graditi rispetto alta promozione che si aspettava. I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?

Leonardo Sciascia, «I professionisti dell'antimafia» da «Il Corriere della Sera» del 10 gennaio 1987

“PERCHE’ AVETE ARCHIVIATO MAFIA-APPALTI?”

 Giovanni Falcone parlò di mafia-appalti un anno prima di morire. Nell’archivio di Radio Radicale la registrazione di un convegno del 15 marzo 1991, a un mese di distanza dal deposito del dossier dei ros. Il giudice: «è molto più grave di come appare. È illusorio pensare che imprese appartenenti ad altre attività rimangano immuni da certi tipi di collegamenti» Damiano Aliprandi il 21 Maggio 2019 su Il Dubbio. «Si potrebbe dire che abbiamo fatto dei tipi di indagini a campione, da cui si può dedurre con attendibilità un certo tipo di condizionamento, ma l’indagine, di cui mi sono occupato a Palermo, mi induce a ritenere che la situazione sia molto più grave di quello che appare all’esterno». È Giovanni Falcone che parla e lo dice in un convegno dedicato alla criminalità e appalti organizzato il 15 marzo del 1991 presso Castel Utveggio sul monte Pellegrino a Palermo. Esattamente a un mese di distanza da quando depositò nella cassaforte della Procura di Palermo il dossier mafia- appalti redatto dagli ex Ros Giuseppe De Donno e Mario Mori. Lo fece due giorni prima di abbandonare la Procura per andare a lavorare al ministero della Giustizia. Il giudice Giovanni Falcone, dilaniato dal tritolo il 23 maggio del ’ 92 a Capaci, ha precisato durante questo convegno che non può entrare nei dettagli, ma qualcosa però lo anticipa. Il convegno, in futuro poco preso in considerazione, è reperibile nel prezioso e immenso archivio di Radio Radicale, che rischia di scomparire. Un documento importante perché Falcone, dopo vari passaggi tecnici sul nuovo codice di procedura penale appena varato e specificando l’importanza del condizionamento mafioso negli appalti – dove interessate non sono solo le aziende locali, ma anche quelle nazionali, ha tenuto a precisare il magistrato – ha così concluso: «Io credo che la materia dei pubblici appalti è la più importante perché è quella che consente di far emergere come una vera e propria cartina di tornasole quel connubio, quell’ibrido intreccio tra mafia, imprenditoria e politica in termini di condizionamento della prima sulle seconde nell’ambito dei pubblici finanziamenti».

Non di Gladio, non di “entità” non meglio definite: Falcone parla delle cose che si toccano con mano. L’argomento che scotta di più, quello che è «molto più grave di come appare», è quello sulla mafia e gli appalti, dove c’è «una indistinzione – così dice al convegno – tra imprese meridionali e imprese di altre zone d’Italia per quanto attiene al condizionamento e all’inserimento in certe tematiche di schietta matrice mafiosa». Falcone poi aggiunge: «E questo nel futuro verrà fuori!». Sembra proprio che stia anticipando il dossier, e che lo faccia ancora di più quando in un passaggio spiega che «è illusorio pensare che imprese appartenenti ad altre attività, che dovevano essere realizzate in altre zone d’Italia, rimangano immuni da certi tipi di collegamenti, sia che lo vogliano sia che non lo vogliano». Ma da dove lo deduce Falcone tutto ciò? «Sono state acquisite intercettazioni telefoniche di chiarissime indicazioni, di precise scelte operative, a cui tutti sottostanno, a pena di conseguenze gravissime o autoesclusione dal mercato», spiega Falcone più avanti. Il dossier mafia appalti contiene numerose intercettazioni dove, appunto, si evince questa regia occulta.

In sintesi, dopo aver riconosciuto che il condizionamento mafioso esisteva sia al momento della scelta delle imprese, sia nella fase esecutiva, con caratteristiche ambientali e totalizzanti ( senza escludere, quindi, le imprese del Nord), e dopo aver fatto cenno ad alcune intercettazioni telefoniche da cui risultavano varie modalità operative, ha anche testualmente affermato: «Ormai emerge l’imprescindibile necessità di impostare le indagini in maniera seriamente diversa rispetto a quanto si è fatto finora», alludendo non solo ad un salto di qualità investigativa, ma all’utilizzazione nelle indagini su mafia- appalti dell’apparato dell’Alto Commissario e, cioè, teorizzando la messa a disposizione delle informazioni raccolte nel circuito dei servizi al pubblico ministero e, comunque, la sinergia tra l’intelligence e le investigazioni sul territorio. Dagli atti giudiziari, in primis la sentenza di Catania del 2006 sulle stragi del ’92, emerge, d’altronde, che la gestione illecita del sistema di aggiudicazione degli appalti in Sicilia aveva costituito uno dei molteplici moventi che avevano indotto Cosa nostra a deliberare ed eseguire le terribili stragi siciliane. Sulle richiesta di archiviazione in merito all’argomento “filone mafia appalti”, è scritto nero su bianco che tale movente «aveva influito fortemente nella deliberazione adottata da Cosa nostra di attualizzare il progetto, già esistente da tempo, di uccidere Falcone e Borsellino, atteso che era intenzione dell’organizzazione criminale neutralizzare l’intuizione investigativa di Falcone in relazione alla suddetta gestione illecita degli appalti, le indagini sulla quale avrebbero aperto già nel 1991 scenari inquietanti e, se svolte con completezza e tempestività fra il 1991 e il 1992, inquadrandole in un preciso contesto temporale, ambientale e politico, avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima, o al più contestualmente, dell’infuriare nel Paese di “Tangentopoli”».

La figlia di Borsellino: “Perché avete archiviato mafia-appalti?”. La denuncia della figlia del magistrato ucciso a via d’Amelio svela in tv il più grande depistaggio della giustizia italiana, scrive Damiano Aliprandi il 5 Febbraio 2019, su Il Dubbio. «Un tema che stava molto a cuore a mio padre era il rapporto tra la mafia e gli appalti. Infatti mi chiedo come mai il suo dossier fu archiviato il giorno dopo l’uccisione». Le parole, durissime, sono di Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo Borsellino ucciso dalla mafia a via D’Amelio nel 1992, che domenica sera è stata ospite di Fabio Fazio a Che Tempo che Fa. Una lunga intervista, quella di Fazio, preceduta dalle terribili immagini di quel tragico 19 luglio 1992. «Come mai – le ha chiesto il conduttore – ha deciso di parlare proprio ora?». Fiammetta ha risposto partendo da quanto avvenuto un paio di anni fa, ovvero la fine di un processo che non era riuscito ancora a fare piena luce su quanto avvenuto. «Nell’aprile del 2017 – ha raccontato Fiammetta Borsellino – il bilancio è stato amarissimo. C’è stata una sentenza che svelava il grande inganno di Via D’Amelio, in quello che poi verrà definito il depistaggio più grave della storia di questo Paese». Fiammetta ha poi spiegato che le indagini e i processi sono stati una storia di bugie. Borsellino non si è risparmiata e ha fatto nomi e cognomi delle persone coinvolte nel grande depistaggio. «La Procura di Caltanissetta – ha detto – non ha mai ascoltato un testimone fondamentale dopo la morte di mio padre: il procuratore Giammanco. Colui il quale conservava nel cassetto le informative dei Ros che annunciavano l’arrivo del tritolo. Fino a quando Giammanco, poco tempo fa, è morto». Fiammetta Borsellino si riferisce a Pietro Giammanco – morto lo scorso dicembre -, ex Capo della Procura di Palermo dal 1990 al 1992, poi dimessosi e trasferitosi in Corte di Cassazione qualche mese dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, quando otto Sostituti Procuratori avevano lanciato un appello minacciando le dimissioni dalla Procura se lui non se ne fosse andato, oltre a chiedere misure di sicurezza eccezionali per prevenire nuove stragi. Al suo posto – il 15 gennaio del 1993 – arrivò Giancarlo Caselli, che si insediò proprio nel giorno in cui venne catturato Riina grazie ai Ros capitanati dal generale Mario Mori. Il biennio di Giammanco – ricordiamo – fu un periodo caldissimo. Stragi, inchieste delicate, gravi accuse nei suoi confronti poi definitivamente archiviate. L’unica certezza è che gli attriti all’interno della Procura non mancavano. A partire dal disagio di Giovanni Falcone, cristallizzato negli stralci del suo diario pubblicati dalSole24ore dopo l’attentato di Capaci. Tanti sono i passaggi che evocavano il suo malessere per spiegare la sua decisione di lasciare la Sicilia per il ministero: «Che ci rimanevo a fare laggiù? Per fare polemiche? Per subire umiliazioni? O soltanto per fornire un alibi?». Gli stralci dei diari furono confermati da Paolo Borsellino durante la sua ultima uscita pubblica a Casa Professa. Ma anche quest’ultimo era sofferente. Una sofferenza che ritroviamo narrata in un articolo di Luca Rossi pubblicato sul Corriere della Sera il 21 luglio, due giorni dopo la strage di Via D’Amelio (l’intervista era del 2 luglio precedente – come confermò nella testimonianza a Palermo del 6.7.2012). Vale la pena riportarla, soprattutto quando l’eroico magistrato gli ammise testualmente: «Devo reggere il mio entusiasmo con le stampelle». Borsellino gli disse che stava seguendo delle indagini sull’omicidio di Falcone e che aveva un’ipotesi. Quale? «Pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione di appalti, in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando». Il riferimento era all’inchiesta sul dossier mafia- appalti. Ma ritorniamo all’intervista della figlia più piccola di Paolo Borsellino e della sua decisione di rompere il silenzio in occasione del 25esimo anniversario delle stragi del ’ 92, fino a quel momento «dettato da una rispettosa attesa». In quell’occasione ci fu una diretta Rai condotta proprio da Fazio. «Quella sera sono rimasta fino alla rimozione dell’ultima transenna – racconta Fiammetta Borsellino -. Provai un grande senso di vuoto. Non fui avvicinata da nessuno, se non da alcuni ragazzi che erano venuti apposta dalla Campania e dall’unico superstite di quella strage, Antonio Vullo».

Continua con le sue considerazioni sul depistaggio. «C’è stata una grande mole di anomalie e omissioni che hanno caratterizzato indagini e processi – ha aggiunto Fiammetta Borsellino -. Le indagini furono affidate a Tinebra, appartenente alla massoneria. E poi i magistrati alle prime armi che si ritrovarono a gestire indagini complicatissime tanto che dichiararono di non avere competenze in tema di criminalità organizzata palermitana. Fu un depistaggio grossolano perché le indagini furono totalmente delegate ad Arnaldo La Barbera, una persona che era un poliziotto da un lato e dall’altro pare che ricevesse buste paga dal Sisde per condurre una vita dissoluta in giro per l’Italia». Fiammetta poi racconta la vicenda di Scarantino che «fu vestito da mafioso» e che si prestò per far condannare persone poi rivelatesi innocenti. Fiammetta non risparmia nessuno, oltre ai poliziotti, anche i magistrati che «evitarono confronti che avrebbero fatto crollare immediatamente l’impianto accusatorio». Sappiamo che l’anno della svolta è il 2008, quando parlò Spatuzza: dopo gli opportuni riscontri, i magistrati hanno avuto chiari i retroscena della strage Borsellino, organizzata dal clan mafioso di Brancaccio, diretto dai fratelli Graviano. Fiammetta Borsellino parla proprio dell’incontro che lei ha avuto con i fratelli Graviano al 41 bis. «Questa esigenza è venuta fuori da un percorso privato – ha detto Fiammetta Borsellino -. Avevo la necessità di dare voce a un dolore profondo che era stato inflitto non solo alla mia famiglia ma alla società intera. Lo chiamo il mio viaggio nell’inferno dei silenzi, dei cancelli. È stato però un viaggio di speranza. Io dico sempre alle mie figlie che non bisogna mai smettere di sognare. Forse quando intrapresi quel viaggio ero io stessa quella bambina che spera nel cambiamento, nel cambiamento delle coscienze». E quando Fazio le domanda se c’è qualcuno del quale si fida, lei risponde: «Né io né tutta la mia famiglia – risponde Fiammetta – pensiamo di avere dei nemici, neanche i peggiori criminali che attualmente stanno scontando delle pene».

Poi aggiunge: «Credo di non fidarmi di chi dà le pacche sulle spalle, mentre mi fido di chi essendo esposto al peggiore pericolo svolge il suo lavoro con sobrietà e in silenzio. Non mi fido di chi si espone alle liturgie dell’antimafia per la devozione dei devoti». Fazio le chiede su che cosa stava lavorando suo padre, cosa c’era di così di indicibile tanto da ammazzarlo e attuare un depistaggio. «A mio padre – risponde Fiammetta- sicuramente stavano a cuore i temi degli appalti, dei potentati economici: eppure il dossier su mafia e appalti fu archiviato il 20 luglio, a un giorno dalla strage. Ci saranno sicuramente state delle ragioni, ma io non le ho mai sapute». A quanto detto occorre solo fare una piccola precisazione sulla sequenza degli atti che importarono l’archiviazione dell’indagine aperta con il deposito della nota informativa “mafia appalti” da parte dei Ros su insistenza di Giovanni Falcone. Occorre rammentare che dagli atti emerge che la richiesta, scritta nel 13 luglio 1992 dalla Procura palermitana, fu vistata dal Procuratore Capo e inviata al Gip nello stesso 22 luglio. L’archiviazione fu disposta il successivo 14 agosto dello stesso anno, con la motivazione «ritenuto che vanno condivise le argomentazioni del Pm e che devono ritenersi integralmente trascritte».

Mafia-appalti: promemoria (per Travaglio), scrive Damiano Aliprandi il 7 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Travaglio nel suo consueto editoriale dove indica presunte fake news, scrive testualmente: «Falso che Paolo Borsellino sia stato ucciso per l’indagine del Ros “mafia-appalti” archiviata dopo la sua morte (vecchia pista ridicolizzata da tutte le sentenze su via D’Amelio e da quella di primo grado sulla trattativa)». Si apprende così che il direttore de Il Fatto Quotidiano considera valide (tranne il Borsellino ter che prende in considerazione mafia- appalti) le sentenze oggi considerate frutto del depistaggio più grande della storia e non considera la sentenza del Borsellino quater che, oltre, a smascherare il depistaggio, ha considerato eccome il dossier mafia- appalti, ritendendolo un probabile movente che ha accelerato la decisione di compiere la strage di Via D’Amelio. Ma prima ancora che uscissero le motivazioni della sentenza del Borsellino Quater, il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, in commissione Antimafia, aveva parlato della pista del rapporto mafia- appalti, come, appunto, possibile movente della strage in cui morì il giudice Paolo Borsellino. «Allora, di quel rapporto Paolo Borsellino – ha spiegato Paci – chiederà copia quando si trova ancora a Marsala, quando è ancora procuratore della Repubblica di Marsala». Poi prosegue: «Altro dato che emerge inquietante è che, spesso ci siamo soffermati a pensare a quest’aspetto, già nel 1991 Cosa nostra vuole organizzare un attentato a Paolo Borsellino a Marsala. Per quest’attentato che non va in porto muoiono due mafiosi, i fratelli D’Amico, i capi famiglia della famiglia di Marsala. Muoiono perché si dice si oppongano all’eliminazione di Paolo Borsellino a Marsala». Si chiede il magistrato: «Che cosa ha fatto Paolo Borsellino nel 1991 di particolare? Questo è un altro rovello che ha spesso accompagnato i nostri approfondimenti. Paolo Borsellino viene a conoscenza del rapporto tra mafia e appalti, di tutto quello che è collegato a mafia e appalti. Non viene a conoscenza del fatto solamente che c’è un’appendice del rapporto tra mafia e appalti a Pantelleria. Evidentemente, viene a conoscenza di quelle famose notizie che riguardano la De Eccher, il rapporto con imprenditori del Nord e, soprattutto, la vicenda che riguarda l’amministratore della società, comunque legato mani e piedi al potere politico romano». Una ipotesi – quella di Paci – che indirettamente smentisce la sentenza di primo grado sulla trattativa, visto che nelle motivazioni a firma del giudice Montalto si legge che non vi è la «certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafia- appalti e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse». Ma c’è, appunto, la sentenza recentissima del Borsellino Quater che dedica un capitolo proprio a mafia appalti. Viene citata la testimonianza del pentito Antonino Giuffrè, tramite la sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania. La Corte aveva osservato come le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino siano state precisate dal collaborante Giuffrè, il quale ha dichiarato che, dalle notizie apprese dopo la sua uscita dal carcere, ha potuto comprendere come i timori di Cosa Nostra fossero basati su due motivi: la possibilità che Borsellino venisse ad assumere la posizione di Capo della Direzione Nazionale Antimafia, e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti. «Un motivo è da ricercarsi – dichiarò Giuffrè -, per quello che io so, sempre nel discorso degli appalti. Perché sì sono resi conto che il dottore Borsellino era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia politica e appalti. E forse alla pari del dottore Falcone». La motivazione, infatti, preme molto sulla questione mafia appalti che, ricordiamo, fu un’operazione condotta dai Ros capitanati dal generale Mario Mori e depositata nel ’ 91 su spinta di Giovanni Falcone. Giuffrè conferma le precedenti dichiarazioni secondo cui «il dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti». La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti”, appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che ha portato all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali «non interessavano proprio a nessuno» e non erano ben visti neppure all’interno della magistratura. Nella decisione di eliminare i due magistrati aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. «L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova – si legge nella motivazione -, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura». Ma qui, in fondo, parliamo di una sentenza non definitiva. Però c’è quella del 21 aprile del 2006 (confermata poi in Cassazione) da parte della Corte d’Assiste di Catania che riguarda esattamente i processi per le stragi nelle quali morirono Falcone e Borsellino. Una sentenza, definitiva, che mette un sigillo alla fake news di Travaglio. Scrivono i giudici che Falcone e Borsellino erano «pericolosi nemici» di Cosa Nostra in funzione della loro «persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa» e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti. Motivo della “pericolosità” di Borsellino? La notizia che egli potesse prendere il posto di Falcone nel seguire il filone degli appalti. In aggiunta riportano la testimonianza di Pulci che riferiva di aver saputo che avevano accelerato l’esecuzione «poiché il dottor Borsellino si era confidato con una persona delle istituzioni e questa persona aveva avvertito che Borsellino poteva fare più danno di quello che stava facendo Falcone e hanno accelerato l’esecuzione». Questo passaggio smentirebbe anche la cosiddetta trattativa visto che secondo la sentenza di Palermo sarebbe avvenuta dopo la morte di Falcone. Ma questa è un’altra storia.

Una verità alternativa raccontata da Paolo Guzzanti: fu il Kgb ad uccidere Falcone e Borsellino. Una gigantesca operazione di riciclaggio dei soldi dei servizi segreti e del PCUS. I conti della mafia in Italia come “lavatrice” del tesoro sovietico. Un misterioso finanziere italiano. Il gran rifiuto di D’Alema, ma anche, subito dopo la morte dei due magistrati, l’impegno del Pci-Pds-Ds per alzare un polverone e celare la terribile e scomoda verità. L’ex vicedirettore de “il Giornale” e deputato del Partito Liberale Italiano svela al giornale della politica italiana questo misconosciuto “mistero italiano” (e non solo): una vera e propria operazione di guerra, che non sarebbe stata nelle possibilità e nemmeno nella volontà della mafia siciliana, alla base del martirio, possiamo chiamarlo così, di Falcone e Borsellino, che stavano indagando sulla vicenda. Una storia che sfugge al controllo persino di un protagonista della nostra politica della potenza di Giulio Andreotti, che ad un certo punto ammette di trovarsi di fronte a qualcosa di «più grande di me» e invita Giancarlo Lehner a lasciare perdere il progetto di scrivere un libro-denuncia su tutto questo. A distanza di anni, Guzzanti riapre il caso. Un pezzo da non perdere, solo sul giornale della politica italiana, “Il Politico.it”. «Vi spiego perché hanno ammazzato Falcone e Borsellino, e perché nessuno fiata di fronte alla messa funebre solenne approntata alla svelta dal vecchio PCI per imbalsamarli e santificarli a furor di popolo inquadrato per processioni, prima che qualcuno avesse la malsana idea di indagare sulle vere ragioni della loro inspiegabile morte: “Chi ha ammazzato il povero Ivan?». Ecco la vera storia che nessuno ha il coraggio di raccontare perché ancora oggi si rischia la pelle. L’ambasciatore sovietico, e poi russo Adamishin andò da Cossiga e disse: Fermate questa rapina, i soldi russi del KGB e del PCUS stanno transitando in Italia per essere riciclati. Fate qualcosa. Cossiga chiamò D’Alema e gli chiese: State per caso riciclando per conto del KGB su conti gestiti da Cosa nostra? Ohibò, disse D’Alema, assolutamente non io, ma posso dire che un grandissimo finanziere – che se ti dicessi il nome cadresti dalla sedia – mi ha offerto l’affare del riciclaggio e io ho detto di no. Dunque il fatto esiste, ma non sono io. Allora Cossiga disse ad Andreotti, primo ministro: Volete fermare questa porcheria che sta dissanguando la Russia? E Andreotti rispose: NO, perché un gesto del genere sarebbe vissuto dal PCI come aggressivo nei loro confronti e io devo preservare l’equilibrio nel governo. Ma ho un’idea: chiama Falcone e digli di fare qualche passo informale che soddisfi i russi. Cossiga chiamò Falcone e gli spiegò la situazione. Falcone disse: ma io sono ormai soltanto un direttore generale del ministero della giustizia, che cosa posso fare? E Cossiga: incontra questi russi, tranquillizzali, fai vedere che stiamo facendo qualcosa.

Falcone incontrò i giudici russi e organizzò meeting riservati, coperto dalla Farnesina che gestì l’affare. Poi chiamò Paolo Borsellino e gli spiegò il problema che si era creato. Borsellino, vecchio militante del MSI e anticomunista intransigente disse: tu sei un impiegato al ministero, ma io no. Io posso indagare. Aprirò una mia Agenda Rossa su questa faccenda e discretamente cercherò di capire di più. Bum!! Capaci. Borsellino qualche settimana dopo si dette una manata sulla fronte e disse: cazzo, ho capito chi e perché ha ammazzato Giovanni: BUM! Via D’Amelio. Il PCI che sapeva perfettamente la storia, si avventò come un branco di jene sui due morti santificandoli alla svelta con un rito abbreviato e intenso di processioni popolari mummificandoli nella sua glassa mediatica affinché NESSUNO MAI potesse rivangare la verità. E’ come il “missile” inesistente di Ustica. E’ come la strage “fascista” di Bologna. Quando il partito copre la merda, tutti devono dire: che profumo di violette. Giancarlo Lehner voleva scrivere questa storia avendo una moglie russa che aveva parlato con Stepankov, il procuratore di tutte le Russie che aveva trattato con Falcone e che si era subito dimesso per paura: “Io ho famiglia, ho visto quel che hanno fatto a Giovanni”. Giovanni in russo si dice Ivan, e i giornali russi alla morte di Falcone avevano scherzato su “Chi ha fatto fuori il povero Ivan”, sulla falsariga di una filastrocca popolare. Tutti a Mosca sapevano chi e perché aveva fatto fuori il povero Ivan. In Italia nessuno sapeva spiegare perché fosse stato ucciso il povero Ivan. Non era un pericolo attuale per la mafia. E la mafia non uccide “alla memoria” o per vendetta a posteriori. E allora: perché e chi ha ucciso il povero Ivan. Lehner disse a un settimanale del suo progetto di libro sulla morte di Falcone. Andreotti lo mandò a chiamare nel suo studio di piazza in Lucina e gli disse: Voglio aiutarla, spero di recuperare i fonogrammi riservati con cui la Farnesina ha preparato gli incontri segreti con i giudici russi. Quella è la prova del fatto che Falcone indagava, senza averne un mandato, ma era andato molto più avanti del semplice contatto diplomatico con i russi, tanto per far vedere che in Italia il riciclaggio del tesoro sovietico era tenuto sotto osservazione. Poi Andreotti chiamò il giornalista e gli disse: Caro Lehner, butti nel cestino il suo progetto di libro, se non vuole lasciarci la pelle. Come sarebbe a dire?, fece quello. Sarebbe a dire, disse Andreotti, che dalla Farnesina mi hanno risposto che i dispacci si sono persi e che non si trovano più. Questo vuol dire che l’operazione è stata cancellata e le sue tracce distrutte. Dunque ci troviamo di fronte a un nemico più grande di noi due. Lasci perdere la morte di Falcone, dia retta. Alla Camera, in un giorno di votazioni a Camere congiunte, io Lehner e Andreotti abbiamo rivangato il fatto. Giancarlo parlava, Giulio annuiva con un sorriso tirato. Nessuno avrebbe potuto attivare il pulsante di Capaci con la certezza di fare il botto al momento giusto, se non ci fosse stato un emettitore di impulsi sulla macchina. Le due operazioni Capaci e D’Amelio sono operazioni di guerra condotte con tecniche di guerra, del tutto ignote alla mafia siciliana. Il resto sono chiacchiere da bar dello sport. Parola di Paolo Guzzanti.

Tante piste che andrebbero seguite. Come quel "Grande Gioco" che costò la vita al giudice Falcone. Verità analizzato da Daniela Coli su “L’Occidentale”. Ci si lamenta che non c’è più libertà di stampa, si protesta contro la "legge bavaglio", ma in Italia non esiste più nemmeno l’ombra del giornalismo investigativo. Per i delitti comuni, gli articoli dei quotidiani sono quasi sempre simili: il bravo giornalista di cronaca, un po’ detective, è scomparso e ora tutti si adeguano alle tesi del pm di turno, senza farsi, né fare domande, sbattendo in prima pagina il mostro di turno e soprattutto le intercettazioni, quando c’è di mezzo un politico. I magistrati politicizzati poi procedono a colpi di teoremi. Per l’uccisione di Falcone, prima hanno battuto sul teorema di Giulio Andreotti capo della Cupola (come nel Padrino III di Francis Ford Coppola, uscito nel 1990), per abbattere la prima Repubblica. Fallito il tentativo di trovare il capo della mafia in uno statista sette volte Presidente del Consiglio e cinque volte ministro degli Esteri, hanno ripiegato su Berlusconi, che avrebbe usato la mafia, compiuto le stragi del ’92-’93, per creare un nuovo sistema politico e prendersi l’Italia. L’ostinazione con cui la sinistra ripete la trama del Padrino III di Coppola, dove la mafia sicula diretta dal potente Lucchesi-Andreotti, come una piovra è dappertutto, in politica, nella finanza, in Vaticano, col solito Calvi in fuga per Londra, è una fiction scadente. Veltroni rilancia la tesi del Cav. mente delle stragi del ‘92-‘93 e sostiene che furono fatte per sconfiggere gli ex-comunisti. Veltroni non si rende conto che nel ‘94 votammo tutti Berlusconi perché quella fiction non era credibile e per questo i "progressisti" persero. Per chi è abituato a seguire CSI Miami, dove è presente il tema della mafia e del narcotraffico, oppure NCIS, dove Gibbs e i suoi sono come cane e gatto con Fbi e Cia, sa benissimo che i protagonisti indagano a 360 gradi su ogni omicidio, scoprendo per altro traffici d'armi coperti dai servizi segreti. Mentre lavora sulla morte di un grande trafficante d' armi francese, coperto da Cia e Fbi, la battuta più frequente di Gibbs è: "E poi dicono che non riescono a trovare bin Laden…". Gli americani sono più scafati di noi e conoscono quanti strani affari una grande potenza può essere costretta a fare. L’Irangate o l’Iran-Contras affair nel 1985-86 rivelò che alti funzionari dell’amministrazione Reagan erano coinvolti in un traffico illegale d'armi verso l’Iran, paese formalmente nemico degli Stati Uniti dopo i 52 americani tenuti in ostaggio dal 1979 al 1981, ma, benché l’Iran fosse all’epoca in guerra con l’Iraq e violentemente antiamericana, la vendita delle armi all’Iran fu considerata necessaria per liberare gli ostaggi americani in mano agli Hezbollah libanesi, legati all’Iran. L’affare si complicò ulteriormente, perché i ricavati delle armi vendute all’Iran furono usati per finanziare i Contras che stavano combattendo il governo sandinista del Nicaragua. Nell’85-86 a Washington non si parlava d’altro che del colonnello Oliver North e delle tonnellate di crack (droga dei poveri) che i Contras vendevano negli Stati Uniti. L’affare dell’Iran-Contras era un’operazione clandestina, non approvata dal Congresso e coinvolse North, l’ex capo della Cia Casey e molti alti funzionari governativi. Si chiuse quando il presidente Bush senior garantì il perdono a tutti gli indagati per avere agito nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. Una insufficiente cultura investigativa induce alcuni magistrati a costruire teoremi sulle stragi del ‘92-‘93 sullo schema del Padino III e a derubricare la morte di Falcone a "strage di Stato", un concetto che in Italia sembra far luce su qualsiasi mistero e che dimostra solo il disprezzo per lo Stato del quale i giudici si proclamano enfaticamente servitori. I media italiani, diversamente da quelli americani, si limitano a ripetere questi teoremi politici, mettendo in evidenza il degrado del giornalismo. Non c’è più uno Sciascia, né un direttore del Corriere come Piero Ostellino pronto a pubblicarlo. Chissà cosa avrebbe detto Sciascia dei teoremi sulla morte di Falcone. Dal Padrino I (1972), ispirato dal romanzo di Mario Puzo, a La Piovra (1984-2001), si sono riproposti rozzamente i temi della saga del Padrino e non si distingue più tra fiction, letteratura e realtà. È strano come nelle indagini sulla morte di Falcone i magistrati si affidino ai pentiti, alle intercettazioni e non si siano mai soffermati sulle indagini internazionali di Falcone. Sollecitato dal giudice Chinnici, il cui maggiore onore era essere stimato dagli americani, Falcone aveva cominciato ad indagare su Rocco Spatola e, recandosi negli Stati Uniti nel 1980, iniziò a lavorare con Victor Rocco, investigatore del distretto di New York est. Falcone era convinto dell’esistenza di uno stretto rapporto tra mafia americana e siciliana. Lavorava su un traffico di morfina che dalla Siria e l’Afghanistan era approdato tramite un trafficante turco a Palermo nel 1975 e la città era diventata una raffineria che riforniva di eroina gli Stati Uniti. Le indagini si svolsero negli anni dell’occupazione russa dell’Afghanistan, mentre gli Stati Uniti appoggiavano i mujaheddin contro i sovietici, la Cia li riforniva di armi e ai funzionari della Dea (Drug Enforcement Administration) fu chiesto di chiudere un occhio sul traffico di oppio afghano. Prima di morire Falcone si occupava di riciclaggio di denaro in Svizzera. Denaro proveniente dal traffico d'armi e di droga. E proprio i dollari finiti nelle banche svizzere avevano impressionato gli americani, che all’inizio non avevano dato importanza alle sue indagini. Falcone collaborò all’operazione "Pizza Connection" con Louis Freeh, capo del FBI nominato da Clinton. Louis Freeh è finito poi indagato dalla commissione d’indagine sull’11 settembre per non avere tenuto conto delle segnalazioni del controterrorismo e di un agente del Fbi di Phoenix, che nel luglio 2001 fece rapporto su membri di Al Qaeda che frequentavano una scuola di volo: tra loro c’erano alcuni terroristi dell’attacco alle Twin Towers. Il rapporto di Freeh con Clinton, tanto sbandierato dalla sinistra, era tale che, scaduto il mandato al Fbi, Freeh rimase per non dare a Clinton la possibilità di nominare il nuovo capo del Bureau. Il processo di "Pizza Connection" del 1984, dove fu condannato Rosario Gambino, implicato anche nel presunto rapimento Sindona, consolidò il rapporto tra Freeh e Falcone. Gli Stati Uniti hanno sempre avuto attenzione per la Sicilia. Lo stesso Sindona, come altri mafiosi italo-americani e siciliani, aiutò gli americani a sbarcare in Sicilia, fu arruolato nella Cia, andò negli States e fu per anni un rispettato banchiere. Anche la Sicilia indipendentista di Salvatore Giuliano aveva guardato all’America. Per la posizione geopolitica dell’isola, il rapporto degli Stati Uniti con la Sicilia attraverso gli immigrati siculi e le loro relazioni con amici e parenti siciliani è sempre stato importante. Anche Falcone riteneva fondamentale il rapporto con gli Stati Uniti. Fu grazie ai rapporti stabiliti con l’Fbi con "Pizza connection" che Falcone ottenne il trasferimento di Buscetta in Italia. Boss del narcotraffico, Buscetta fu arrestato in Brasile nel 1983, Falcone andò a trovarlo nelle carceri di San Paolo per chiedergli se era disposto a collaborare con la giustizia italiana. Buscetta fu estradato negli Stati Uniti nel 1984, collaborò con l’Fbi, che gli fornì una nuova identità e nel luglio dello stesso anno fu estradato in Italia. Buscetta, primo mafioso pentito, ebbe un feeling particolare con Falcone e fece rivelazioni esplosive, fino a indicare in Giulio Andreotti il referente principale di Cosa nostra, proprio come nel Padrino III e ne La Piovra. Dopo le dichiarazioni di Buscetta e il maxiprocesso di Palermo, Falcone divenne famoso e fu chiamato a partecipare al talk show di Maurizio Costanzo. Il magistrato aveva rapporti con Carla Dal Ponte, il giudice svizzero amica di Madeleine Albright, e nel 1991 scrisse un libro sulla mafia con Marcelle Padovani, del Nouvel Observateur, la poliedrica giornalista mitterandiana all’occorrenza rivoluzionaria e guerrigliera, amica di Régis Debray. Falcone, che nel suo studio aveva una fotografia insieme a Bush senior e Peter Secchia, era diventato ormai un magistrato di fama internazionale. Fiero di essere stimato da Bush senior, il presidente della prima Guerra del Golfo del ’90-91. Bush dichiarò lutto nazionale il giorno della morte di Falcone l’accademia dell'Fbi a Quantico gli dedicò persino un monumento. Il presidente degli Stati Uniti in visita a Roma nel 1989 volle incontrarlo e gli riservò un’ora di colloquio. L’ambasciatore Secchia non faceva mistero della stima per Falcone a Roma per collaborare con Martelli, lo immaginava come un futuro possibile ministro. Bush, Louis Freeh e Rudy Giuliani lo stimavano e, secondo alcuni, pensavano a lui anche come primo ministro. Si è anche fantasticato di un patto tra Falcone e gli Stati Uniti per sbarazzarsi di Craxi dopo Sigonella e della politica filoaraba di Andreotti e si è sbandierata l’ipotesi che sia stato ucciso a Capaci prima dai soliti Andreotti e Craxi e ora da Berlusconi per impedirgli di essere un protagonista della seconda Repubblica. È nota l’amicizia dei Bush per Silvio Berlusconi, gli inviti alla Casa Bianca, al Congresso americano: se vi fosse stata anche soltanto l’ombra di una qualche implicazione nella strage di Capaci questo speciale rapporto col Cavaliere non vi sarebbe stato. Paradossalmente, coloro che oggi ricordano la stima dei Bush per Falcone, fanno parte della sinistra che manifestava contro la Guerra del Golfo di Bush e dava del fascista a Bush jr per la guerra in Afghanistan e in Iraq. Purtroppo non c’è stato un Gil Grissom, né un Gibbs a indagare a 360 gradi sulla morte di Falcone. Alla sinistra faceva comodo dare la colpa ad Andreotti nel ’92-93 e ora fa comodo creare polveroni su Berlusconi. Forse, invece, proprio Falcone ha dato la chiave del suo assassino. "Si muore generalmente perché si è rimasti soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande". Falcone con le sue indagini era entrato davvero senza volerlo nel Grande Gioco e pare avesse anche temuto l’alleanza di servizi segreti stranieri con la mafia. Invece di fissarsi su teoremi italiani, forse sarebbe il caso di vagliare ipotesi alternative. A uccidere Falcone potrebbe essere stato qualche servizio segreto orientale, qualche gruppo del narcotraffico, ma pure anche chi temeva le indagini sul flusso di rublo-dollari che giungevano in Italia attraverso i canali di vecchi compagni del Pci, soldi che venivano riciclati in tutta Europa. Falcone aveva già incontrato il magistrato russo Valentin Stepankov e doveva incontrarlo nel maggio del ’92, se non fosse stato ucciso. Ad assassinare Falcone potrebbe anche essere stato qualche servizio segreto occidentale che operava in Medio Oriente e non gradiva un giudice troppo attento ai traffici di armi e droga. Falcone potrebbe anche essere stato cinicamente ucciso da chi voleva destabilizzare la politica italiana, aiutato da qualche sinistro cervello italiano. Fu ucciso in maniera spettacolare in Sicilia, non a Roma, dove sarebbe stato più facile colpirlo, per inviare un messaggio chiaro alla Dc, mentre in Parlamento si votava per il Presidente della Repubblica. Il nuovo presidente doveva essere Andreotti e si elesse Scalfaro, un magistrato, due giorni dopo la morte di Falcone. Nel giugno del ’92, in certi ambienti di Londra, si parlava di regime change per l’Italia e di un'imminente rivoluzione dei giudici. Però, la corte d'Assise di Roma, pochi giorni, fa ha preso in considerazione anche l’ipotesi che Roberto Calvi sia stato ucciso dai servizi segreti inglesi, perché aveva venduto armi all’Argentina durante la guerra delle Falkland. Falcone e Calvi erano diversissimi, ma avevano in comune il problema che tanti li volevano morti. Dopo la morte di Falcone si sono scoperti tutti falconiani, pochi però hanno indagato davvero sulla sua morte, limitandosi soltanto a riproporre il vecchio film di Francis Ford Coppola. E’ noto che dopo l’uccisione di Falcone gli agenti del Fbi si precipitarono subito sulla scena del crimine di Capaci, raccolsero mozziconi di sigaretta nel luogo dove fu azionato il pulsante del detonatore che provocò l’esplosione di tritolo, che investì le auto della scorta e di Falcone. Il Dna delle prove raccolte dal Fbi non corrispondeva però a quello di Giovanni Brusca, il pluriomicida pentito, che ha goduto di un trattamento carcerario estremamente leggero. In qualsiasi giallo, questo dato provocherebbe qualche dubbio. Forse, chissà, tra una ventina d’anni sapremo qualcosa di più sulla morte di Giovanni Falcone, un uomo coraggioso che non meritava di essere sepolto sotto la retorica del santino buono per tutte le stagioni.

Un’altra verità la racconta Gennaro Ruggiero. Geronimo, alias Paolo Cirino Pomicino, nel suo libro bomba “Strettamente Riservato”, fa alcune considerazioni. In pratica si sofferma su alcune coincidenze molto preoccupanti. Infatti, pare che Giovanni Falcone, avrebbe dovuto incontrare, qualche giorno dopo la sua morte, il procuratore di Mosca Valentin Stepankov, che indagava sull’uscita dalla Russia di grosse somme di denaro esistenti nelle casse del PCUS. Tutto confermato da Valentin Stepankov, il quale ha detto anche che, dopo la morte di Falcone, nessuno gli ha mai più chiesto nulla. Eppure Falcone aveva informato allora Andreotti che il suo interessamento era stato sollecitato dal presidente Cossiga qualche mese prima. Falcone, venne ucciso a Capaci, in una strage in cui furono utilizzati materiali abbastanza insoliti per la mafia e più consueti, invece, per le centrali del terrorismo internazionale. Tutte le conoscenze che Falcone aveva sui flussi di denaro sporco passarono allora a Paolo Borsellino che, a sua volta, secondo l’annuncio dato da Scotti e Martelli in Tv, avrebbe dovuto assumere la guida della Procura nazionale antimafia. Fu la sua condanna a morte. Due mesi dopo Borsellino saltò in aria alla stessa maniera di Falcone. Il Giornale il 3 novembre 2003, raccontava che Giovanni Falcone, il simbolo della lotta alla mafia, prima di morire si stava occupando dei finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano: o meglio del riciclaggio di soldi, tanti soldi, che nella fase di dissolvimento dell’Urss lasciavano Mosca attraverso canali riconducibili al Pci. Per questo motivo Falcone si era già incontrato con l’allora procuratore generale russo Valentin Stepankov che su questo stava concentrando tutta la sua attività. Falcone è stato ucciso alla vigilia di un nuovo e decisivo incontro sollecitato dallo stesso Stepankov. Ci sono telegrammi con oggetto: «Finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano».

L’ambasciatore Salleo comunica al Ministero a Roma: “Il Procuratore generale della Federazione russa, Stepankov, mi ha fatto pervenire lettera con cui, facendo riferimento a colloqui da lui a suo tempo avuti con i magistrati Falcone e Giudiceandrea (il procuratore capo di Roma) mi informa della sua intenzione di effettuare nel periodo 8-20 giugno una missione di cinque giorni a Roma nel quadro della inchiesta sui finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano”. C’era solo un motivo per cui il magistrato russo sollecitava la collaborazione di Giovanni Falcone; dopo averne apprezzato la competenza negli incontri precedenti: Falcone era l’unico in grado di accertare l’eventuale coinvolgimento della «criminalità organizzata internazionale», cioè della mafia (o delle mafie), nel riciclaggio del tesoro sovietico. Falcone, vale la pena ricordarlo, da poco più di un anno ricopriva il ruolo di direttore generale degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia. Era stato chiamato da Claudio Martelli, allora Guardasigilli. Da quel momento attorno gli era stato fatto il deserto. Quei mesi prima della strage di Capaci, Falcone aveva visto bruciare la sua candidatura a procuratore nazionale anti mafia dai suoi nemici al Palazzo di giustizia di Palermo e dentro la magistratura: al Csm al momento di scegliere il «superprocuratore» tre membri laici del Pds gli preferirono Agostino Cordova. I due governi, vale sempre la pena di ricordare, presieduti da Giulio Andreotti dal ‘90 al ‘92, con il ministro dell’Interno Enzo Scotti e i due ministri socialisti alla Giustizia, prima Giuliano Vassalli e poi Martelli che aveva voluto Falcone al suo fianco, avevano emanato un numero impressionante di provvedimenti contro la mafia. Per ricordarne alcuni: dal mandato di cattura per decreto legge che riportò dietro le sbarre i grandi mafiosi del primo maxi processo istruito a Palermo dallo stesso Falcone, alle norme anti-riciclaggio, al varo della Dna, la Direzione nazionale anti mafia. Curiosamente gli uomini di questi due governi che più si erano esposti nella guerra dichiarata dallo Stato alla mafia, con la sola eccezione di Vassalli, saranno tutti travolti da Tangentopoli, e il premier, Andreotti, addirittura accusato di essere il baciatore di Totò Riina, il puparo della mafia e il mandante di un omicidio (quello di Mino Pecorelli). Da quando Falcone aveva accettato l’incarico al ministero, Martelli si era trovato a sostenere uno scontro pressoché quotidiano con il Consiglio superiore della magistratura. Questo era il clima che ha avvelenato la vita di Falcone, prima di Capaci.

Racconta Enzo Scotti: «Lo aveva visto pochi giorni prima che partisse per Palermo, era giù di tono. Era stanco e avvilito. Finora degli incontri tra Falcone e il giudice Stepankov si era saputo per sentito dire. Il primo a parlarne è stato l’ex ministro dc Cirino Pomicino nel suo libro “Strettamente riservato”. «L’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga » spiega Cirino Pomicino «mi ha raccontato che fu lui a chiedere a Falcone di indagare, su quel flusso di denaro del Pcus che usciva dall’ex Unione sovietica ».

Andreotti ha confermato di aver visto i «telegrammi riservatissimi» giunti alla Farnesina nel maggio del ‘92. Adesso c’è la prova documentale. Nel primo, quello dell’11 maggio, è indicato con precisione il periodo in cui Stepankov intendeva venire in Italia, tra «l’8 il 20 giugno», per indagare su finanziamenti de Pcus, mafia e Pci. Il procuratore generale russo rispondeva positivamente anche alla richiesta di assistenza giudiziaria avanzata dal magistrati romani che indagavano su Gladio Rossa (inchiesta poi frettolosamente archiviata). Per l’incontro con Falcone non ci sarà tempo, poco prima delle 18,30 del 23 maggio una gigantesca carica di esplosivo lo ha fermato per sempre. Del 27 maggio 1992, quattro giorni dopo la carneficina, è il secondo telegramma «urgentissimo» e «riservatissimo» dall’ambasciata di Mosca alla Farnesina, questa volta firmato da Girardo. Valentin Stepankov non può far altro che esprimere l’«amarezza» e il «profondo dolore », e prega di portare le condoglianze ai parenti delle vittime. Ma tramite la nostra ambasciata, dopo aver sottolineato come fosse stato in programma di lì a poco il loro incontro, Stepankov non rinuncia a ricordare Falcone «quale degno cittadino dell’Italia, uomo di alto impegno professionale e morale». Peccato che i due telegrammi «urgentissimi» non abbiano mai attirato l’attenzione della commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Luciano Violante e Vice presieduta dal democristiano Paolo Cabras: nel ‘93 preferirono mettere sotto processo la Dc e Giulio Andreotti. E oggi si vuole accusare Silvio Berlusconi e i suoi fedelissimi. Ma allora tutta la storia, perché è di storia che stiamo parlando non di leggenda, che fine ha fatto? Allora è vero che c’è una regia politica dietro tutta la vicenda Spatuzza & Co. Purtroppo stavolta non ci sono Falcone e Borsellino, magistrati veri ed imparziali, ci sono solo quelli che come allora accusarono a vuoto Andreotti; ma adesso chi salterà in aria? E chi lo farà, visto che l’unione sovietica è morta? Ma non è morto anche il comunismo? O ci sono i residui bellici ancora vivi? Lascio al lettore analizzare le notizie storiche che mi sono permesso di riportare in questo resoconto.

"Il viaggio di Falcone a Mosca. Indagine su un mistero italiano", il libro di Francesco Bigazzi, Valentin Stepankov. Un filo rosso intessuto di tradimenti di Stato, trame dei servizi segreti, e soldi, tanti soldi, sembra legare indissolubilmente la strage di Capaci del maggio 1992, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli agenti della scorta, ai nuovi poteri, soprattutto criminali, nati nel vuoto istituzionale e nell'instabilità politica generati dal crollo dell'ex Unione Sovietica. Un anno prima il procuratore generale della Federazione Russa, Valentin Stepankov, aveva iniziato a collaborare con il magistrato italiano nella comune indagine sugli aiuti finanziari concessi dal Pcus al Pci (...) Dopo il fallito golpe di Mosca dell'agosto 1991 e l'affidamento a Stepankov della relativa inchiesta, la visita del procuratore russo a Roma nel febbraio 1992 e l'incontro con Falcone costituiscono il primo atto di un'intesa destinata a interessanti sviluppi e formalizzata dalla promessa di un imminente viaggio del magistrato siciliano in Russia. Ma quella data, già appuntata nell'agenda delle due Procure, viene letteralmente cancellata dal più devastante attentato mafioso della storia, attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta... Contributi di Carlo Nordio e Maurizio Tortorella.

I misteri dell'ultimo viaggio di Falcone a Mosca. In un libro-intervista al procuratore della Russia postcomunista, il possibile movente politico-economico per la morte del magistrato: l'oro del Pcus al Pci, scrive il 30 ottobre 2015 Maurizio Tortorella su "Panorama". Il 23 maggio 1992, nella strage di Capaci, sparirono Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta. Ma anche l'inchiesta internazionale che il magistrato aveva iniziato a seguire sull'Oro di Mosca: rubli e dollari versati segretamente al Pci per un valore di oltre 989 miliardi di lire tra il 1951 e il 1991. Nel libro Il viaggio di Falcone a Mosca: chi furono davvero i mandanti della strage di Capaci? (Mondadori, 152 pagine, 20 euro), Francesco Bigazzi e l’allora procuratore generale della Federazione russa Valentin Stepankov ricostruiscono quelle indagini e ipotizzano che gli assassini di Falcone, o meglio, i loro mandanti, vadano ricercati tra coloro che guardavano con terrore all’inchiesta più esplosiva del secolo: Pcus, mafia, l’oro di Mosca e i “partiti fratelli”. È stato più volte smentito che il magistrato, in quel momento direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia, potesse essere stato incaricato di coordinare le indagini su un colossale riciclaggio dei fondi del Pcus, arrivati segretamente in Italia. Ma Stepankov conferma autorevolmente il fatto. Del resto, anche Il Corriere della Sera del 27 maggio 1992 riportò la notizia: "Tra la fine di maggio e i primi di giugno Falcone sarebbe dovuto venire a Mosca per coordinare le indagini sul trasferimento all’estero dei soldi del Pcus". Nel libro, la cui uscita è prevista per martedì 3 novembre, Stepankov racconta a Bigazzi di avere avuto subito la sensazione che dopo Capaci le inchieste avviate sarebbero finite su un binario morto. Venuto a mancare Falcone, del resto, nessuno si curò più di collaborare con la Procura russa. Il libro ricostruisce anche come, nel corso del tempo, quattro diversi ministri (Claudio Martelli, Giulio Andreotti, Paolo Cirino Pomicino e Renato Altissimo) abbiano dichiarato pubblicamente che Falcone, nel giugno 1992, avrebbe dovuto recarsi in Russia per confermare una cooperazione giudiziaria sul tema, parlandone (e non era la prima volta) con Stepankov. Tra la metà del 1991 e i primissimi mesi del 1992, sostengono tre di quei quattro ministri, Falcone aveva ricevuto direttamente da Cossiga l’incarico di seguire l'inchiesta dal versante italiano.

Il viaggio di Falcone a Mosca. Un filo rosso intessuto di tradimenti di Stato, trame dei servizi segreti, e soldi, tanti soldi, sembra legare indissolubilmente la strage di Capaci del maggio 1992, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli agenti della scorta, ai nuovi poteri, soprattutto criminali, nati nel vuoto istituzionale e nell'instabilità politica generati dal crollo dell'ex Unione Sovietica. Un anno prima il procuratore generale della Federazione Russa, Valentin Stepankov, aveva iniziato a collaborare con il magistrato italiano nella comune indagine sugli aiuti finanziari concessi dal Pcus al Pci e sul ruolo giocato da mafia internazionale e...

Falce, Falcone e martello. Falcone è stato ucciso da Cosa Nostra, o forse no. Mai la giurisprudenza ha seguito la "pista russa". Oggi esce in Italia un libro che cerca di fare luce sulla vicenda: "Il viaggio di Falcone a Mosca", scrive Paolo Guzzanti su "Il Giornale”. Nessuno ha mai saputo dire per quale motivo preciso Giovanni Falcone fu assassinato. Leggeremo il libro di Valentin Stepankov, ex procuratore russo e amico di Falcone, e del giornalista Francesco Bigazzi «Il viaggio di Falcone a Mosca» (Mondadori) con nuovi documenti sullo scenario che in sede giudiziaria italiana è stato evitato come la peste. Sostenere che Cosa Nostra abbia ucciso Falcone perché era «il più grande nemico della mafia» è puerile, ma anche fraudolento: Cosa Nostra non dà premi Oscar alla carriera. La mafia è una macchina per fare soldi, non per vendette teatrali. Quando Cosa Nostra uccide, c'è sempre un motivo gravissimo e immediato. Dunque: per schivare quale pericolo imminente fu assassinato Falcone? Quando arrivò a Mosca la notizia della sua morte, il procuratore Valentin Stepankov ebbe un collasso, disse di aver capito l'antifona e lasciò il suo posto, ufficialmente per dissensi politici. Tutti coloro che in Italia dovrebbero sapere, sanno della pista seguita da Falcone «following the money», ovvero seguendo il cammino in Italia del tesoro del Kgb e del Pcus. L'ambasciatore russo Anatolij Adamiscin supplicò Cossiga di intervenire. Cossiga si rivolse ad Andreotti che suggerì Falcone come investigatore non ufficiale. Non aveva poteri di magistrato inquirente, ma li aveva il suo amico e confidente Paolo Borsellino. Falcone non fece in tempo ad andare a Mosca e il 23 maggio 1992 fu Capaci. Seguì, dopo meno di tre mesi, via D'Amelio.

Rubli, falce e tritolo. Le lunghe ombre russe sulla morte di Falcone. Nuove carte svelano gli intrecci tra mafia dell'Urss, Cremlino e Pci. Il magistrato doveva recarsi a Mosca per indagare sui finanziamenti ai partiti "fratelli". Ma non fece in tempo..., scrive Dario Fertilio su “Il Giornale”. Un secolo e mezzo fa, per Marx, l'ideologia era «la falsa coscienza della classe al potere». Mai l'autore de Il Capitale ne avrebbe immaginato una versione aggiornata così: «l'ideologia comunista è la falsa coscienza della mafia al potere». Eppure, anche in termini rigorosamente marxiani, questa conclusione pare ineccepibile dopo aver letto Il viaggio di Falcone a Mosca, saggio firmato da Francesco Bigazzi e Valentin Stepankov in uscita per Mondadori (pagg. 156, euro 20). Perché l'immagine degli ultimi giorni dell'Urss e di quelli immediatamente successivi, impressi nei nuovi documenti raccolti dal giornalista italiano, già autore con Valerio Riva del fondamentale Oro da Mosca, e dal primo procuratore della Federazione Russa dopo il crollo del gigante totalitario, mostrano un panorama di macerie impressionante: senza nulla di grandioso, e invece percorso da torme di criminali e lezzo di corruzione che soltanto i compartimenti stagni del regime avevano saputo fino all'ultimo dissimulare. Non bisogna pensare che il termine mafia sia metaforico: qui batte il cuore di tenebra dell'Urss, centro propulsore di una criminalità organizzata prima sotto le insegne della falce e martello e poi, strappate le insegne di partito, alleata dei malavitosi di tutto il mondo, da Cosa Nostra alla Yakuza giapponese, dalla Triade cinese alle famiglie di New York. I documenti mettono in luce la stretta continuità fra la gestione segreta del denaro statale al tempo del potere sovietico, il suo utilizzo all'estero sotto forma di finanziamento ai partiti fratelli - primo fra tutti il Pci - e il programma di sopravvivenza al crollo del sistema: una trama di conti segreti, tra cui l'ingegnoso quanto spregiudicato utilizzo di aziende partecipate dai partiti comunisti stranieri - di cui il sistema delle cooperative del Pci rappresentava un modello - e il possibile riciclaggio di quegli ingenti «contributi» da parte di organizzazioni criminali. E qui entra in campo il nome di Giovanni Falcone richiamato nel titolo: non solo nel suo ruolo simbolico di nemico numero uno della mafia italiana, assassinato a Capaci, ma anche in qualità di investigatore a tutto campo, teso a scoprire i segreti dei legami tra il Pci e il Pcus, in particolare quelli riguardanti i finanziamenti a Botteghe Oscure e le cosiddette «attività speciali» di Mosca all'estero. È Falcone che, durante una visita a Roma del collega russo nel maggio del fatale 1992, scopre un'affinità elettiva con Valentin Stepankov, al punto da programmare con lui un successivo viaggio a Mosca. Le loro strade erano fatte per incrociarsi: Falcone, rivela Stepankov, aveva tra l'altro il compito di accertare se, nell'ambito dei finanziamenti inviati dal Pcus al Pci, fosse stato istituito un canale per finanziare anche le Brigate rosse e la cosiddetta «Gladio rossa», un'organizzazione clandestina tesa al sovvertimento violento della democrazia in Italia. A sua volta, Stepankov si aspettava dal collega italiano un aiuto di fondamentale importanza per rintracciare il percorso dell'«oro da Mosca», volatilizzatosi proprio nei giorni immediatamente successivi al fallito golpe comunista contro la nascente democrazia. Stepankov era convinto che per portare a termine questo compito fosse intervenuta una cooperazione tra mafia italiana e «alcuni personaggi del Pci». Non il partito in quanto tale, piuttosto suoi singoli esponenti collusi con la criminalità organizzata. Per non perdere tempo, l'intrepido Stepankov inviò anche alla Procura di Roma tutta la documentazione, e una parte dell'istruttoria raccolta per il processo che doveva essere intentato agli autori del fallito golpe.Una simile coppia di ferro costituiva un pericolo mortale per la nomenklatura sovietica alleata di Cosa Nostra. Venne spezzata dai cinque quintali di tritolo fatti esplodere a Capaci il 23 maggio del 1992.Tutto, o quasi, oggi si conosce sull'identità degli esecutori. Ma l'attentato venne attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta. E Stepankov, che se ne intende, non manca di farne notare l'effetto principale: le inchieste avviate con Falcone finirono su un binario morto. Aggiunge la sensazione che il collega italiano possa «essere stato danneggiato dalle attività» che stava conducendo al suo fianco. E conclude: gli attentatori hanno raggiunto «l'obiettivo di impedire il suo viaggio a Mosca».La collaborazione italo-russa, in realtà, continuò, ma il vento della politica stava cambiando. Lo stesso Stepankov, dopo aver sfidato il presidente Boris Eltsin condannando il bombardamento della sede dove si erano asserragliati i parlamentari ribelli della Duma, fu costretto a dimettersi. Fine della storia? Non del tutto, anche se l'«oro del Pcus» svanisce nel nulla, in un vorticoso valzer d'investimenti immobiliari, nascite e morti di società fittizie. Proprio come - rivelano i documenti - sognava a suo tempo il tesoriere del Pcus, Nikolaj Krucina.E l'insegnamento che se ne trae? Se dietro a ogni sistema totalitario si nasconde una piovra mafiosa, non basta tagliarne alcuni tentacoli per farla morire. Il diritto sovietico, fino alla caduta, si basava sul teorema Pashukanis: un reato si giudica principalmente secondo il grado di pericolosità per il regime. Il «ladro in legge» (in russo, vor v zakone) aveva poteri più grandi del padrino in Sicilia: come se avesse ricevuto una delega dallo Stato, controllava tutte le attività criminali e doveva rispondere solo ai capi dei servizi di sicurezza. Il bilancio del Pcus era per così dire in nero, sottratto senza controllo a quello ufficiale. E il suo «tesoro», nonché i beni dell'Urss rimasti all'estero - il ricchissimo patrimonio immobiliare sparso in tutto il mondo e i fondi clandestini che per decenni erano stati messi a disposizione non solo del Kgb, ma anche di altri servizi segreti militari e politici - diventarono la grande torta da spartire e proteggere a colpi di mitra e pistola Makarov. E, forse, anche di tritolo.

58 giorni. Cossiga va da Borsellino: “Sei tu l’erede di Falcone”, scrive il 15 giugno 2013 Giovanni Marinetti su “Barbadillo”. 13 giugno 1992. Cossiga incontra Borsellino. L’ex presidente della Repubblica giunge a Palermo per rendere omaggio alle vittime della strage di Capaci. Accompagnato dal prefetto Mario Jovine, Cossiga mostra il suo cordoglio ai parenti delle vittime e prega, inginocchiato, assieme alla moglie di Vito Schifani, Rosaria. «Presidente, preghi forte: voglio sentire cosa dice». È Rosaria a chiederlo a Cossiga, e insieme recitano il De Profundis, un Pater e un’Ave. Nel pomeriggio incontra Paolo Borsellino. Sarà lo stesso Cossiga a ricordarlo: «Glielo dissi chiaro e tondo, è inutile che si agiti: lei è il successore e l’erede di Falcone Lei e nessun altro». Sul Corriere della Sera, il ministro Martelli polemizza con i magistrati, che definisce “professionisti dell’Associazionismo”. Mentre il Psi critica la linea politica di Bettino Craxi, iniziando a voltargli le spalle, i giornali riportano la celebrazione che il Wall Street Journal fanno di Antonio Di Pietro. Il Sole 24 Ore, invece, nell’articolo dal titolo “Affari di droga tra mafia e Pcus. Falcone indagava con i russi”, riporta le parole di Teldman Gdlian, ex giudice della Procura generale dell’Urss, che sostiene che il Cremlino ricavava miliardi di lire vendendo in Italia la droga delle repubbliche asiatiche dell’Urss in accordo con la mafia siciliana. Insomma, il viaggio di Falcone a Mosca, dice, non stava bene né alla mafia italiana né a quella russa. 14 giugno 1992. Il governo fatica a vedere la luce, ma i mercati iniziano a “innervosirsi”. Il Giornale: “Traballa anche la lira”. Scrive l’editorialista Giancarlo Mazzuca: «Un superministro per l’economia? Ciampi al governo? Non c’è più tempo, ormai, per i soliti dibattiti: bisogna agire. A cominciare dalle privatizzazioni appena decollate che, anche dal punto di vista psicologico, possono rappresentare il sospirato segnale di svolta». Tutti i quotidiani riportano i risultati di un’indagine sulla criminalità: metà degli italiani vuole la pena di morte contro i boss mafiosi, e nove cittadini su dieci pensano che la mafia sia la più grave delle minacce per il paese. Il clima è questo. E la politica è debolissima, spaventata dalle inchieste milanesi, in continua lite con la magistratura e senza leadership nei partiti.

I DEPISTAGGI.

Borsellino: Spatuzza, dissi verità anni fa. Pentito sentito al processo per depistaggio, "rubai io la 126", scrive il 5 febbraio 2019 (ANSA). "Sono colpevole. Ho rubato io la 126 usata per l'attentato e me pento": inizia così la deposizione del pentito Gaspare Spatuzza, sentito in trasferta a Roma dai giudici di Caltanissetta che celebrano il processo sul depistaggio delle indagini per la strage di via d'Amelio, costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta. Imputati i funzionari di polizia Bo, Mattei e Ribaudo che, secondo l'accusa, avrebbero costretto tre falsi pentiti a dare una ricostruzione non veritiera dell'attentato. Spatuzza, che con le sue rivelazioni ha scagionato 8 persone ingiustamente condannate all'ergastolo, ha raccontato di aver portato in un garage la 126, poi imbottita di tritolo alla presenza di uno sconosciuto. Spatuzza ha riferito ai giudici di aver rivelato il clamoroso errore investigativo commesso dagli inquirenti già mentre era detenuto a L'Aquila. "Dissi sia a Vigna che a Grasso (entrambi procuratori nazionali antimafia ndr) che in carcere c'erano innocenti", ha spiegato.

PROCESSO DEPISTAGGIO VIA D'AMELIO. Depistaggio via d'Amelio, Spatuzza: ''Nel '93 anche a Napoli mandammo l'esplosivo per gli attentati'', scrive il 6 Febbraio 2019 su Antimafiaduemila Aaron Pettinari. Assieme all'ex boss di Brancaccio sentito Mario Santo Di Matteo. Salta la deposizione di Di Carlo. Nel 1993, dopo le stragi di Roma e Milano e prima dell'attentato allo stadio Olimpico di Roma, anche la città di Napoli doveva essere colpita secondo il disegno stragista di Cosa nostra. Il dettaglio è emerso oggi nel corso del processo sul depistaggio di via d'Amelio che vede imputati i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra. Di fronte al collegio del tribunale di Caltanissetta, presieduto da Francesco D'Arrigo, ieri hanno deposto i collaboratori di giustizia Mario Santo Di Matteo e l'ex boss di Brancaccio, Gaspare Spatuzza, ovvero il pentito che ha contribuito a riscrivere parte della storia della strage del 19 luglio 1992. Quest'ultimo, rispondendo all domande del sostituto procuratore Stefano Luciani, ha parlato di quella lunga serie di attentati avvenuti tra il 1992 ed il 1994: "C'era una questione a Napoli che abbiamo gestito anche noi in parte. Nel primo punto noi abbiamo prelevato l'esplosivo, lo abbiamo macinato e lo abbiamo inviato a Napoli in quanto, come mi disse Giuseppe Graviano, si sarebbero fatti tutto loro, i napoletani. Successivamente venne a dirmi che per quella circostanza ci saremmo dovuti muore io e Cosimo Lo Nigro perché loro non erano esperti della tipologia del nuovo esplosivo". Questo progetto di attentato, secondo quanto dichiarato dal collaboratore, sarebbe stato messo in piedi dopo le stragi di Milano e Roma e prima dell'incontro con Graviano a Campofelice di Roccella, avvenuto tra ottobre e novembre 1993. "C'era questa famiglia napoletana dei Nuvoletta che si muoveva per quel che riguardava Cosa nostra". Il progetto su Napoli, però, venne accantonato. Quella sequela di attentati in Continente, secondo Spatuzza, rappresentavano "qualcosa che andava oltre Cosa nostra". "Gli attentati di Falcone e Borsellino per quello che rappresentavano, anche se erano complesse e con una devastazione, erano passabili. - ha detto l'ex boss di Brancaccio - Rispetto al 1992 quello che viene dopo ha la modalità terroristica. Ci si spostava in qualcosa che andava oltre".

Gli incontri con Giuseppe Graviano e il "colpetto" da dare. Come ha fatto in altre occasioni Spatuzza ha parlato degli incontri avuti con Giuseppe Graviano tra il 1993 ed il 1994. Il primo tra ottobre e novembre, assieme a Cosimo Lo Nigro, a Campofelice di Roccella dove "venne pianificato l'attentato contro i carabinieri". "Io dissi in quell'occasione che ci stavamo portando dietro dei morti che non ci appartenevano, come Firenze, dove erano morti bambini e persone civili, così come Milano. Era qualcosa di esterno da noi. Ed è in quell'occasione che ci disse se capivamo d politica. Lui ci spiegò che 'era in piedi una cosa che se andava a buon fine avremo tutti benefici, a partire dai carcerati'". Tempo dopo la squadra dei killer di Brancaccio si trasferì a Roma, preparando l'attentato all'Olimpico. Una strage che solo per il mancato funzionamento del telecomando non ha avuto luogo e che sarebbe stata, forse, la più devastante di sempre. "Avevamo programmato 80-90 chili di esplosivo ma avevamo ricevuto l'indicazione di rendere tutto ancora più potente e così aggiungemmo diversi chili di tondini di ferro tagliati a pezzettini - ha raccontato ancora il killer di don Pino Puglisi - C'era però una direttiva. Prima di andare avanti dovevamo aspettare l'arrivo a Roma di Giuseppe Graviano". Il boss di Brancaccio arrivò pochi giorni prima del 23 gennaio 1994, la domenica individuata per colpire. "Graviano lo incontrai al bar Doney - ha continuato Spatuzza - Mi dice che 'avevamo chiuso tutto ed avevamo ottenuto quello che cercavamo. Disse che avevamo chiuso grazie a persone serie che avevano portato avanti questa cosa ed ebbe a dire che la personalità era Berlusconi. Chiesi se era quello di canale 5 e lui rispose affermativamente e che 'in mezzo c'era il nostro compaesano Dell'Utri'. Io ero contento e dissi il mio intento di colpire Contorno che sapevamo si trovava a Formello. Ma lui mi disse che si doveva andare avanti con l'attentato ai carabinieri perché con questo dovevamo dare il colpo di grazia. Poi in macchina aggiunse anche che 'i calabresi si erano già mossi' e poi appresi dell'uccisione di due carabinieri".

La strage di via d'Amelio. Parlando del ruolo avuto nella strage di via d'Amelio Spatuzza ha detto senza mezze misure: "Sono colpevole. Ho rubato io la 126 usata per l’attentato e me pento”. Successivamente ha raccontato in maniera sintetica tutte le fasi in cui l'auto venne prelevata fino al trasporto, li 18 luglio 1992, al garage di Villasevallos. Qui la 126 utilizzata per la strage venne imbottita di tritolo alla presenza di uno sconosciuto che il collaboratore di giustizia non ha più rivisto successivamente. Alla domanda del pm Stefano Luciani se sapesse descrivere l’uomo, che sarebbe stato estraneo a Cosa nostra, il pentito ha risposto “ho ricordo di una foto sfocata. Nel momento in cui arrivo c'è Tinnirello che mi sta pilotando all'interno e noto questa persona in fondo al garage ma la mia massima attenzione era nella persona di Tinnirello che lo conoscevo. Ho cercato di dare indicazioni sull'immagine di questo negativo che è memorizzato nella mia memoria".

Il colloquio con Grasso e Vigna. Spatuzza ha anche ricordato che prima della sua collaborazione con la giustizia aveva avuto dei colloqui investigativi con il Procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e con Piero Grasso. "Io a loro diedi delle indicazioni. Dissi che in carcere c'erano innocenti e che stavano prendendo degli errori. Era il 1997, 1998. In quel periodo avevo già iniziato a prendere delle distanze da Cosa nostra. Lo dissi anche a Vigna e lui disse che era contento di questo percorso ma che un pentimento profondo avrebbe significato dare un contributo con la giustizia. Ma in quel momento non ero intenzionato a collaborare. Di quel colloquio parlai anche a Tolmezzo con Filippo Graviano. Al tempo si parlava anche di dissociazione e riprendendo il discorso e di quella disponibilità di Vigna, Filippo Graviano venne a dire di far sapere a Giuseppe che se non arrivava niente da dove deve arrivare è bene che anche noi iniziamo a parlare con i magistrati".  Rispondendo alle domande delle parti civili, tornando sul colloquio investigativo con Vigna e Grasso ha aggiunto: "In un primo momento anche credevo che noi avessimo rubato una macchina che altri avevano già rubato. Quella era la mia convinzione all'epoca. Avevo poi avuto modo di vedere entrambe le persone che per conoscenze dirette le ritenevo estranee ai fatti (il riferimento è ad Orofino e Murana che furono ingiustamente condannati, ndr), per conoscenze dirette, e stavo dando indicazioni per far capire che stavano commettendo errori gravissimi in questo punto". Quei colloqui investigativi Spatuzza non li ha mai firmati "perché non avrebbe avuto senso in quanto così sarebbe stata palese la mia collaborazione. Ma avrei negato totalmente".

Mario Santo Di Matteo e quell'intercettazione con la moglie. Dopo Spatuzza a salire sul pretorio è stato il collaboratore di giustizia Mario Santo Di Matteo. Quest'ultimo, così come aveva fatto al Borsellino Quater, non è riuscito a dare una spiegazione chiara su un episodio che rappresenta un buco nero nella ricerca della verità sulla strage di via d'Amelio. I pm hanno infatti contestato al collaboratore di giustizia il contenuto di un colloquio in carcere, intercettato, avuto con la moglie Francesca Castellese il 14 dicembre del 1993. I due si trovavano presso i locali della Dia, a poche settimane dalla scomparsa del figlio. Un dialogo concitato e dai toni accesi in cui la madre appare disperata, in cui ad un certo punto si parla di "infiltrati nella polizia" inseriti nella strage Borsellino.

CASTELLESE: tu a tò figliu accussì l’ha fari nesciri, si fa questo discorso

DI MATTEO: ma che discorso? Ma che fa

CASTELLESE: parlare della mafia

DI MATTEO: Ah, nun ha caputu un cazzu

CASTELLESE: come non ha caputu un cazzu?

Parlano sottovoce

CASTELLESE: Oh, senti a mia, qualcuno è infiltrato (?) per conto della mafia

DI MATTEO: (?)

CASTELLESE: Aspè, fammi parlare (incomprensibile) Tu questo stai facendo, pirchì tu ha pinsari alla strage di BORSELLINO, a BORSELLINO c’è stato qualcuno infiltrato che ha preso (?)

DI MATTEO: (?)

CASTELLESE: Io chistu ti dicu … forse non hai capito

DI MATTEO: tu fa finta, ora parramo cu’…

CASTELLESE: Io haia a fare finta, io quannu cu’ papà ci dissi ca dà vota vinni ni tì capito, parlare cu to figlio

Parlano sottovoce e velocemente: incomprensibile

DI MATTEO: No tu dici se u’ sannu, lu sta dicinnu tu

CASTELLESE: capire se c’è qualcuno della Polizia infiltrato pure nella mafia e ti … 

DI MATTEO: Cu?

CASTELLESE: mi dievi aiutare da tutti i punti di vista, picchì iu mi scantu, mi scantu

DI MATTEO: intanto pensa a to (figliu) (…..)

CASTELLESE: cioè io pensu au picciriddu, caputu? Tu m’ha capiri! Però, Sa, u discursu è chuistu, nuatri hamma a fari (?)

Incomprensibile, parlano a bassa voce

DI MATTEO: Iddu mi dissi, dice, tò muglieri (?) suo marito ava a ritrattari (Inc.) Iddu, BAGARELLA e Totò (?) sanno pure che c’hanno...

"Queste intercettazioni a distanza di anni sono inserite in un momento drammatico ma a cosa facevano riferimento?" ha chiesto Paci. E Di Matteo ha risposto: "Dopo 25 anni sempre mi chiedete questa cosa dell'intercettazione ma non esiste. L'unica persona che ho avuto contatti come dei servizi segreti che ho conosciuto è solo questo tal Bellini". "Ma le parole hanno un senso e i riferimenti sono specifici" ha insistito Paci. Ma ancora una volta il teste ha insistito: "Il colloquio l'ho avuto ma per il fatto di Giuseppe e che mia moglie parlava con me perché avevano sequestrato Giuseppe. Ma non che io parlavo dei servizi segreti. Che io non conosco. Ogni volta mi fanno la domanda... Ma è sempre la stessa storia. Non è vero niente. Io non lo so, non conosco nessuno dei servizi".  A quel punto è anche intervenuto Luciani: "Non si può dire che queste cose non esistono qui si sta leggendo il contenuto di un'intercettazione in cui parla lei con sua mogie". E Di Matteo ha replicato: "Io non credo che c'è un'intercettazione perché è come Scarnatino che ha dentro tante str... e magari ha messo una parola diversa.. e non è vero. Io non avevo problemi a dire se c'era qualcuno dei servizi. Avevo parlato di tutto, di Capaci. Perché dovevano non dire la verità?". Ugualmente il procuratore aggiunto nisseno ha ricordato al teste il contenuto di un'intervista rilasciata al Tg1 il 23 novembre 2008. Al giornalista, Raul Passaretti, che annunciava che Di Matteo avrebbe presto fatto “i nomi dei killer della strage di Via d’Amelio" il pentito, che era al tempo in diretta, rispose "Anche se li so in questo momento non posso dire nulla". Alla contestazione Di Matteo ha detto che "i nomi che sapevo sono quelli che ci siamo detti oggi, i Riina, i fratelli Graviano e compagnia". Ma il dubbio che vi fosse dell'altro, resta. Così il pentito ha parlato del confronto con Scarantino nel 1995: "In questa occasione dopo che ha finito di parlare ho detto che questo non sapeva niente di Cosa nostra e più che rubare le ruote di scorta delle macchine non sapeva. Se non volevano credere me ci sono altri pentiti, e dissi di chiedere ad altri pentiti. Per me questo non esisteva a Cosa nostra". Sempre rispondendo alle domande dei pm sull'attentato di Borsellino, Di Matteo le ha fatte in merito alla consegna, a Gioé, dei telecomandi che poi sarebbero stati utilizzati per far saltare in aria l’autobomba che 57 giorni dopo uccise a Palermo il giudice e la sua scorta. "Mi disse che sarebbero serviti ai Graviano. Mi disse che c'era un lavoro ma che lo dovevano fare loro, i Graviano, come incarico. E nient'altro".

L'ultimo colloquio con Gioè. Altro episodio misterioso che ha visto coinvolto Di Matteo prima che fosse pentito è quello dell'ultimo dialogo con Antonino Gioé, prima che questi morisse in circostanze che ancora oggi sono tutte da chiarire nella notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993, la notte dopo le stragi di Roma e Milano. “Mi trovavo presso il carcere di Rebibbia e passeggiavo all'esterno durante l'ora d'aria. Da una finestra si affaccia Gioé. Mi sembrava un barbone per come era messo in viso con la barba lunga. Gli chiesi come stava se faceva colloqui con la famiglia. Mi disse che stava bene che mangiava pesce spada e che tutti i giorni vedeva il fratello. In quel momento capii che stava combinando qualcosa e pensai che stesse collaborando. E all'indomani mattina mi portano all'Asinara. Lì dopo qualche giorno che si diffuse la notizia della morte vennero ad interrogarmi e mi dissero che Gioé aveva parlato di me nella lettera. Se aveva contatti con inquirenti prima di allora? A me non risultano”. Di Matteo ha anche confermato degli incontri tra Antonino Gioé e Paolo Bellini, uomo che “a dire di Gioé era appartenente dei servizi segreti". Infine ieri era prevista la deposizione di Francesco Di Carlo ma la sua escussione è stata rinviata ad altra data. Oggi si terrà l’ultimo giorno di trasferta e saranno sentiti Giovanni Brusca, Francesco Onorato e Gaspare Mutolo.

BORSELLINO. IL MOVENTE “MAFIA-APPALTI” & TAV INSABBIATO E LO SPATUZZA DIMENTICATO PER 21 ANNI, scrive il 5 Febbraio 2019 Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci. Botti da novanta sulla strage di via D’Amelio. Ai microfoni di “Che tempo che fa”, Fiammetta Borsellino denuncia con forza straziante tutti i buchi nell’inchiesta, punta l’indice contro gli inquirenti che non hanno voluto vedere e soprattutto indica nel dossier “Mafia appalti” il nodo insabbiato e invece movente principale di quella strage, ancora oggi senza colpevoli. Secondo botto. A Roma una verbalizzazione esplosiva, quella del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, il quale racconta come addirittura 21 anni fa, nel carcere dell’Aquila, aveva già svelato il taroccamento del falso pentito Vincenzo Scarantino e la pista fasulla seguita dai magistrati, a due big delle istituzioni: l’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e il suo vice, Piero Grasso, che ne prenderà il posto per poi tuffarsi in politica. Per la serie: sapevano e non hanno mosso un dito. Partiamo da quest’ultima, incredibile vicenda, che la dice lunga sullo stato comatoso – e già da decenni – della giustizia di casa nostra. Si trattò di un cosiddetto “colloquio investigativo”, quello tra gli “interroganti” Grasso e Vigna e il picciotto Spatuzza, soprattutto per sondare la possibilità di arruolarlo tra i collaboratori di giustizia.  Colloqui non possono essere utilizzati a fini processuali, ma risultare molto utili per trovare nuovi elementi e aprire nuove piste investigative. Il colloquio clou si svolse nel carcere dell’Aquila il 26 giugno 1998, ma si desume dal contesto che non si trattava certo del primo. A Spatuzza venne chiesto di Scarantino. Dalla lettura del verbale risulta in modo chiarissimo che Spatuzza scagionò totalmente sia Scarantino che gli altri indagati e poi ingiustamente condannati (scontando 16 anni). Chiese esplicitamente Grasso: “Scarantino che c’entra?”. E rispose Spatuzza: “Non esiste completamente”. Ecco un commento espresso dall’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari: “Certo, leggendo ora quel verbale qualche rammarico viene. Forse se si fosse battuta quella pista qualcosa sarebbe venuta fuori prima e quegli innocenti non sarebbero andati in galera”. Solo qualche rammarico…Va ricordato per sommi capi come nacque il “caso Scarantino”. Tutta la colpa, oggi, viene scaricata sull’ex capo della Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, incaricato delle prime indagini. Di tutta evidenza, comunque, pur sempre alle “dipendenze” della magistratura inquirente. Il primo fascicolo venne assegnato a due toghe, Anna Maria Palma (all’epoca considerata una ‘toga rossa’, dopo molti anni passata come capo di gabinetto nel Senato retto da Renato Schifani) e Carmine Petralia; pochi mesi dopo affiancati dall’oggi mitico Nino De Matteo, allora pm di primo pelo, del quale oggi dice Fiammetta: “perchè affidargli un caso del genere se non era esperto di mafia?”. E nessuno tra gli inquirenti ha mai tenuto in considerazione le parole di Ilda Boccassini, che aveva messo in guardia a chiare lettere sulla totale non attendibilità né credibilità del pentito Scarantino. Il processo per il depistaggio nelle indagini sulla strage di via D’Amelio vede oggi alla sbarra solo tre poliziotti del team di La Barbera. Perchè nessun altro, fino ad oggi, è stato chiamato a risponderne? Mistero.

QUEL DOSSIER BOLLENTE “MAFIA-APPALTI”. Nino Di Matteo alla seconda storia bollente, certo non meno clamorosa. A “Che tempo che fa” Fiammetta Borsellino rammenta: “Un tema che stava molto a cuore a mio padre era il rapporto tra la mafia e gli appalti. Infatti mi chiedo come mai il suo dossier fu archiviato il giorno dopo l’uccisione”. Parole, oltre che amarissime, anche durissime, soprattutto nei confronti di quei magistrati che “archiviarono” quella pista bollente a pochi giorni dalla strage di via D’Amelio. Attenzione alle date. Il 13 luglio 1992 la procura di Palermo chiede l’archiviazione dell’inchiesta sul dossier Mafia-appalti. La richiesta arriva dai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, altra icona antimafia oggi. La firma del procuratore capo Pietro Giammancoviene apposta quando Borsellino è stato ucciso da appena tre giorni. Mentre l’archiviazione finale è sottoscritta dal gip di Palermo, Sergio La Commare, il 14 agosto. Vale a dire: quando tutti sono sotto l’ombrellone di ferragosto, alla procura si pensa bene d’insabbiare – è il caso di dirlo vista la temperatura delle spiagge palermitane – il super giallo che era alla base dell’ultima maxi inchiesta di Falcone e Borsellino. Anche l’iter di quell’inchiesta è tutto avvolto nel mistero. Il materiale base era costituto dalle indagini effettuate dal Ros di Palermo, la bellezza di 890 pagine finite a febbraio 1991 sulla scrivania di Falcone e Borsellino che drizzarono subito le antenne e cominciarono ad approfondire quelle indagini. Nel dossier venivano indicati appalti, imprese colluse o in fase collusiva, importi, piste da seguire. Di tutto e di più, compresi gli interecci tra mafia e aziende non solo siciliane ma anche del nord. E big come ad esempio la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi. Fu proprio allora che Falcone sbottò: “La mafia è entrata in Borsa!”, riferendesi allo stesso gruppo Ferruzzi, con la sua propaggine siciliana, la Calcestruzzi, sulla quale le cosche avevano allungato i tentacoli. Impegnati nelle indagini ben otto magistrati, alle prese con il parto del topolino, l’inspiegabile archiviazione. Ma l’inchiesta, ormai, era “bruciata”: per il semplice motivo che da Palazzo di Giustizia erano “uscite” notizie sui personaggi e le imprese coinvolte. Nella stessa ordinanza di archiviazione, paradossalmente, viene ammesso: “Non può affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati oggetto del presente procedimento, possano essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalità politiche, i magistrati odierni indagati”. E invece di continuare ad indagare archiviate tutto? Altra vicenda ai confini della realtà.

IL J’ACCUSE DI IMPOSIMATO E LA PISTA TAV. Come assolutamente paradossale è la finta ignoranza di inquirenti e non solo su tutta la “Mafia-appalti” story. Per il semplice motivo che era stranota. A denunciarla con gran forza, infatti, era stato già nel 1995 Ferdinando Imposimato, che nella relazione di minoranza firmata per la Commissione Antimafia all’epoca presieduta da Tiziana Parenti, individuò proprio nel dossier Mafia-Appalti il vero movente per la strage di via D’Amelio. Ma con un altro elemento bomba da nessuno mai neanche lontanamente sospettato: i grandi affari in vista del Treno ad Alta Velocità, quel TAV che sta mandando in tilt il governo gialloverde. Nelle loro primissime indagini, infatti, Falcone e Borsellino puntarono i riflettori proprio su quella quarantina di imprese impegnate sul fronte dei lavori pubblici. E molte di quelle erano già pronte a tuffarsi nel grande business del decennio (anni ’90) e non solo, come si vede oggi, quello griffato TAV. Tra le società finite nel mirino non c’era solo la Calcestruzzi. Ma ad esempio la trentina Rizzani De Eccher e la napoletana Fondedile-Icla, la sigla del cuore di ‘O ministro Paolo Cirino Pomicino. Non solo. Perchè Ferdinando Imposimato, insieme a Sandro Provvisionato, nel 1999 scrissero un j’accuse in piena regola, “Corruzione ad Alta Velocità”, in cui veniva dettagliato per filo e per segno quell’affaire, partito da 27 mila miliardi di lire e già all’epoca lievitato a 150 mila. Imposimato e Provvisionato, in particolare, accendevano i riflettori proprio sul dossier Mafia-appalti da un lato, e sugli insabbiamenti delle prime inchieste sull’Alta velocità dall’altro (a livello milanese il pm Antonio Di Pietro alle prese con “l’Uomo a un passo da Dio”, Chicci Pacini Battaglia). Ma leggiamo qualche passaggio-base del volume, da tutti ignorato “politicamente” perchè l’alta velocità era la più colossale occasione per imprese, mafia e politica di intrecciare connection & affari arci miliardari. Da pagina 62: “La Fondedile nel 1992 era stata incorporata dall‘Icla.Ma proprio la Fondedile lo stesso anno era stata oggetto di un’indagine condotta sia dalla squadra mobile di Caltanissetta, sia dal Ros dei carabinieri di Palermo, a proposito di alcuni appalti irregolari acquisiti da mafiosi, imprenditori e politici. Il contenuto di quelle due indagini era finito sul tavolo dell’allora procuratore aggiunto di Palermo Giovanni Falcone. In quei rapporti spiccavano nomi di mafiosi del calibro di Angelo Siino, indicato come il ‘proconsole di Totò Riina‘, l’uomo di Cosa nostra nel settore degli appalti, nonché quelli di aziende di importanza nazionale, come la Rizzani De Eccher, la Saiseb e, appunto, la Fondedile. Capo zona per la Rizzani De Eccher era quel geometra Giuseppe Li Pera che diventerà un collaboratore di giustizia in grado di mettere in serie difficoltà la procura di Palermo. Capo zona in Sicilia per la Fondedile era invece Gaspare Di Caro Scorsone, già denunciato per associazione a delinquere di stampo mafioso per gli appalti della superstrada Mussomeli-Caltanissetta”. Continua la già allora esplosiva ricostruzione (siamo nel 1999!): “Le confessioni di Li Pera sono esplosive, anche se tutte da verificare: il geometra ricostruisce il funzionamento del sistema degli appalti in Sicilia, rivolge accuse ai magistrati, chiamati in causa con nomi e cognomi. Essi sono: il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco (oggi Fiammetta Borsellino si chiede: “perchè non fu mai interrogato?”, ndr), oltre a quattro suoi sostituti: Guido Lo Forte, considerato vicinissimo al procuratore; Roberto Scarpinato, considerato un magistrato al di sopra di ogni sospetto e molto amico di Giovanni Falcone; Giuseppe Pignatone (oggi procuratore capo a Roma, ndr) e Ignazio De Francisci, entrambi da anni alla procura di Palermo”. E poi – in modo che più chiaro non si può – Imposimato e Provvisionato denunciano il “sistema degli appalti nel quale sarebbe maturata almeno una delle stragi che insanguinarono il 1992: quella in cui morì, 57 giorni dopo Giovanni Falcone, Paolo Borsellino – assassinato insieme a cinque uomini della scorta – quasi ossessionato, nei giorni immediatamente precedenti la sua tragica fine, proprio da quel dossier, il dossier Mafia-appalti”. Così scrissero 20 anni fa esatti Imposimato e Provvisionato. Perchè nessuna toga mai ha pensato di seguire quella pista chiara e non visibile solo per chi non voleva e non vuole vedere?

P.S. La Voce ha costantemente seguito la pista “Mafia-appalti” come documentano le nostre raccolte. Fin dal 1993, quando ‘lievitava’ l’affare Tav. E abbiamo incalzato soprattutto dopo la illuminante relazione di Ferdinando Imposimato alla commissione antimafia, mentre gli altri membri dormivano e troppi tacevano. Ancor più dopo l’uscita di “Corruzione ad Alta Velocità” che già nel 1999 forniva riscontri arcidocumentati. Nel totale silenzio dei media di regime: quei media omertosi e complici – ricordava sempre Imposimato – finanziati proprio dai signori della Tav.

Storia di un incontro segreto per 15 anni. Cosa sappiamo oggi del contenuto del colloquio del 1998 tra Vigna, Grasso e Spatuzza, divenuto noto per un "disguido", scrive giovedì 13 luglio 2017 Il Post. Il 26 giugno 1998 il Procuratore nazionale antimafia e il suo vice – Pier Luigi Vigna e Pietro Grasso – vedono nel carcere dell’Aquila Gaspare Spatuzza nella forma di un “colloquio investigativo” prevista dalla legge per consentire delle conversazioni informali tra investigatori e detenuti che possano essere utili alle indagini senza avere valore processuale (e senza un avvocato presente, per esempio). L’incontro dura due ore e mezzo (con una pausa) e la trascrizione della conversazione occuperà 80 pagine: dal suo contenuto si evince che ce ne fosse stato almeno un altro in precedenza. Proprio per la sua natura legale, dell’incontro non è informato nessuno, né ce ne sarà traccia resa pubblica. Quindi ancora oggi nel 2017 non sappiamo niente di che cosa sia successo in conseguenza delle cose dette in quel colloquio, alcune delle quali apparentemente molto rilevanti per delle indagini e dei processi in corso. La prassi prevede che del contenuto del colloquio connesso a indagini o notizie di reato sia data informazione alle procure competenti: quello di cui Spatuzza parla – con dichiarazioni molto laconiche, ma numerose e in alcuni punti molto chiare – riguarda potenzialmente inchieste in corso a Palermo, Caltanissetta, Firenze. Il processo più importante che potrebbe esserne influenzato (ne sarà infatti travolto nel 2008, quando Spatuzza parlerà ufficialmente collaborando con la giustizia) è in corso a Caltanissetta e riguarda la strage di via D’Amelio in cui nel 1992 è stato ucciso il magistrato Paolo Borsellino: si sarebbe concluso di lì a poco con la condanna di imputati in realtà estranei all’attentato, e dei quali Spatuzza aveva sostenuto l’estraneità già in quel colloquio segreto. L’ipotesi logica e realistica è che i due magistrati della Direzione Nazionale Antimafia (DNA) abbiano inoltrato la documentazione a Caltanissetta (ma in quale forma? La registrazione del colloquio, una sua trascrizione o una sintesi? La prassi era di inoltrare una breve nota informativa sulle relative questioni). Pietro Grasso ha spiegato al Post: Di solito il Procuratore Vigna – io all’epoca ero Sostituto procuratore – trasmetteva alle Procure interessate il verbale riassuntivo in cui si evidenziavano gli spunti investigativi su cui avviare le indagini. Dopo la collaborazione di Spatuzza, nel 2008, a richiesta della Procura di Caltanissetta, furono mandate le copie di tutte le registrazioni dei colloqui investigativi per far tornare alla memoria del collaboratore eventuali circostanze e particolari che col passare del tempo poteva aver dimenticato. Quello che sappiamo è che la procura di Caltanissetta non risulta aver dato seguito in nessun modo alle rivelazioni ineludibili di quel colloquio investigativo, in cui Spatuzza sostenne l’estraneità alla strage dei principali accusati, aggiungendo dettagli da verificare e riscontrare: non venne interrogato formalmente Spatuzza (sarà lui a dire di non essere mai stato interrogato in questo periodo), non venne registrato o ufficializzato nessun atto che, come la ragione dei colloqui investigativi prevede, cerchi riscontri e conferme a quanto detto dallo stesso Spatuzza. Non solo rimase ignoto e segreto il colloquio investigativo e quanto vi era stato detto, ma fu come se non fosse mai avvenuto, non ne seguì nessuna traccia o conseguenza. Quando la tesi dell’accusa – trasformata in sentenze di condanna – sulla strage di via D’Amelio verrà disintegrata nel 2009 sarà perché Spatuzza avrà deciso di diventare formalmente “collaboratore di giustizia” e dunque di raccontare ufficialmente e con valore giudiziario quello che aveva già accennato nel 1998 e molto altro, compresi particolari che varranno come riscontri indiscutibili alla sua versione e al suo accusarsi di aver partecipato all’organizzazione dell’attentato (in particolare relativi alla preparazione dell’autobomba usata). Ma anche nelle molte occasioni – interrogatori e processi – in cui Spatuzza parlerà da lì in poi, si limiterà a citare un colloquio investigativo avvenuto nel 1997 con Vigna, oltre a quelli successivi del 2005 e 2008 con Vigna prima e Grasso poi che sono culminati nel suo “pentimento”. La prima volta che viene rivelato che Spatuzza aveva già smentito nel 1998 l’accusa contro almeno due dei condannati per la strage via D’Amelio, sostenendo che le confessioni su cui si reggeva tutta l’inchiesta erano false ed erano state ottenute con la forza, è il 12 giugno 2013, e avviene per caso. Fino ad allora, ricordiamolo, sono passati quindici anni in cui quel colloquio non è esistito. Durante un’udienza di un nuovo processo per la strage di via D’Amelio – chiamato “Borsellino quater”, basato in gran parte sulle dichiarazioni di Spatuzza – l’avvocato di uno degli imputati usa una trascrizione di quel colloquio per interrogare Spatuzza. Dove l’ha presa, l’avvocato Sinatra? La trascrizione – 80 pagine – è stranamente tratta dalle carte del pubblico ministero, ovvero i documenti che l’accusa porta a processo, accessibili agli avvocati delle parti. Come ci sia finita, essendo un documento escluso dal valore processuale per legge, non si capisce: il Procuratore generale di Caltanissetta, alla richiesta di spiegazioni, dirà che è stato «un disguido» (può darsi che ci sia stato un equivoco sull’espressione «agli atti» usata in fondo al verbale, o che il trascrittore l’abbia definito “interrogatorio”). Sta di fatto però che l’avvocato Sinatra ha deciso di usarlo e questo genera una discussione concitata in aula sul suo uso (ascoltabile qui dal minuto 1.48.20, FILE 3/5) dopo le vivaci obiezioni del pm: e il presidente della Corte – che si è ritirata per decidere – conclude che non si può interrogare Spatuzza sui fatti citati in quel verbale. Però prima della decisione e in mezzo alle continue opposizioni del pubblico ministero l’avvocato ha potuto chiedere poche cose a Spatuzza su quel colloquio investigativo e sui suoi contenuti: e Spatuzza prima ha negato con certezza che ci sia stato alcun colloquio investigativo nel 1998 («no, no, impossibile»), confermando solo quello del 1997; poi di fronte alla documentazione datata con esattezza ha ammesso di essersene ricordato all’improvviso: «ma è durato pochissimo» (durò due ore e mezza, in realtà). E in generale – dopo che per il resto del processo aveva ripetuto le sue dichiarazioni e i suoi ricordi con grande precisione e insistenza – Spatuzza adesso risponde (qui, FILE 5/5 dall’inizio) «non ricordo» praticamente su tutto quello che aveva detto nel 1998, e in alcuni casi nega di averlo detto. Avvisando con una certa premura il Presidente della Corte che lui quel verbale non lo aveva firmato, comunque (era normale che chi non aveva deciso di “collaborare” formalmente non firmasse nessun documento del genere). Il giorno precedente, Spatuzza aveva ricordato in aula di avere accennato già ai tempi del suo arresto alcune informazioni sulla falsa pista via D’Amelio, ma lo aveva collocato in un colloquio investigativo del 1997 che nel tempo ricorderà a volte solo con Vigna e a volte anche con Grasso. Quello del 1998 con Vigna e Grasso era stato taciuto fino a quel momento dallo stesso Spatuzza. Non è solo strano come quel documento sia entrato tra gli atti del pm, ma non è ancora oggi certo che cosa sia, in concreto, quel documento: apparentemente, e secondo le informazioni raccolte dal Post, la trascrizione del colloquio – molto parziale e inaccurata – non risalirebbe al 1998, ma al 2009 (2 febbraio 2009 è la data della breve nota dell’appuntato dei carabinieri che lo inoltra al procuratore di Caltanissetta, firmando la trascrizione). L’ipotesi più plausibile è che la procura di Caltanissetta avesse ricevuto da Vigna una nota relativa (Vigna parla di un «verbale riassuntivo» a fine colloquio) a ciò che Spatuzza aveva detto rispetto alla strage di via D’Amelio e l’avesse trascurata (la procura di Caltanissetta si oppose per anni a considerare decine di smentite e prove contro la prima versione di cui si era fatta promotrice): fino a quando, dopo il “pentimento” di Spatuzza, il nuovo Procuratore generale Lari non aveva chiesto il file audio del colloquio del 1998 e l’aveva fatto trascrivere. Ma è un’ipotesi. Una nuova richiesta degli avvocati della difesa alla fine del processo “Borsellino quater” – siamo allo scorso aprile 2017 – ha fatto cambiare idea al presidente, e quella trascrizione è stata acquisita agli atti del processo, ed è dunque oggi “ostensibile”, ovvero pubblica. Ma malgrado l’evidente illogicità di questo, non lo è il file audio originale che potrebbe mostrare più chiaramente tutto quello che venne detto in quel colloquio, spesso sbocconcellato o con salti logici nella forma della trascrizione oggi pubblica. Se la trascrizione pubblica è completamente aderente, non c’è ragione di tenere segreto il file audio; se non lo fosse, c’è ragione di mostrare il file audio, a questo punto “ostensibile” come la sua trascrizione. Il file audio è in possesso sia della procura di Caltanissetta che della Direzione Nazionale Antimafia. Il suo contenuto e la sua storia di quindici anni piena di passaggi ignoti potrebbero essere preziosi per capire qualcosa di più del grande depistaggio acclarato sulla strage di via D’Amelio o su altre cose che possano essere state ignorate.

Quando Spatuzza parlò di via D’Amelio, e non successe niente per dieci anni. Il documento completo del "colloquio investigativo" del 1998 tra il collaboratore di giustizia e i magistrati Vigna e Grasso, scrive giovedì 13 luglio 2017 Il Post.

Che cos’è questo documento. La mattina del 26 giugno 1998 il capo della Direzione Nazionale Antimafia e il suo vice – i magistrati Pier Luigi Vigna e Piero Grasso – andarono nel carcere dell’Aquila per avere un colloquio investigativo con un mafioso che vi era detenuto, Gaspare Spatuzza. Un colloquio investigativo è un formato di interrogatorio previsto dal codice che avviene tra investigatori e detenuti, per ottenere notizie ai fini di un’indagine ma il cui contenuto non può essere usato a processo: una sorta di raccolta informale di informazioni, su cui costruire successive indagini e verifiche, e che salvo eccezioni resterà riservato. Il verbale di quel colloquio è una trascrizione linguisticamente molto maldestra e inaccurata che fu fatta undici anni dopo, con molti palesi errori, ma racconta molte cose che erano state tenute segrete – come da norma, come per altri colloqui del genere – per sedici anni, prima di comparire per un accidente imprevisto nelle carte pubbliche di un processo nel 2013, a cui fu accluso per errore. Per capire meglio quelle cose – diverse non si capiscono completamente tuttora – c’è bisogno di alcune premesse e descrizioni di contesti che abbiamo intervallato (in corsivo) alla trascrizione: il documento originale è qui. Ma come può capire chiunque legga la trascrizione e le sue incertezze e i suoi vuoti, sarebbe prezioso un ascolto più accurato dell’audio originale, che la Procura di Caltanissetta – che ne è in possesso – ritiene non divulgabile, con valutazione che suona piuttosto illogica, essendo invece pubblica la sua trascrizione. Ugualmente preziosi alla comprensione di cose tuttora ignote sarebbero i contenuti degli altri colloqui investigativi con Spatuzza di quel periodo.

Chi sono i personaggi. Gaspare Spatuzza è un mafioso palermitano, associato alla famiglia Graviano, che era stato arrestato nel luglio 1997 dopo un conflitto a fuoco. È uno degli assassini di don Puglisi, un parroco ucciso nel 1993 per il suo impegno contro la mafia, ha partecipato al rapimento di Santino Di Matteo – il figlio tredicenne di un collaboratore giustizia che fu ucciso dopo due anni di sequestro – ed è stato condannato in primo grado all’ergastolo a Firenze per la strage di via dei Georgofili, uno degli attentati del “periodo delle bombe mafiose” tra il 1992 e il 1993, che è il tema principale del colloquio con i due magistrati. Fu in contatto fin da dopo l’arresto con gli inquirenti, e nel colloquio viene “sondato” sulla possibilità che diventi un “collaborante”. Dal verbale del colloquio si capisce che ce ne sia stato almeno un altro precedente, e che Spatuzza stia trattando con risposte molto parziali e laconiche l’eventualità di diventare un collaboratore di giustizia – succederà ufficialmente solo nel 2008, dieci anni dopo – e valutando il proprio potere contrattuale. Pier Luigi Vigna, noto magistrato che condusse molte inchieste importanti, fu il Procuratore nazionale antimafia dal 1997. Fiorentino, affida la gran parte dell’interrogatorio al suo vice, anche perché siciliano e maggiore conoscitore della lingua e della cultura mafiosa. Il loro interesse principale nel colloquio è ottenere eventuali conferme all’ipotesi di un rapporto tra Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri con i boss mafiosi Graviano, rapporto più volte indagato negli scorsi decenni e mai confermato (Dell’Utri è stato invece condannato nel 2014 a sette anni di carcere per avere costruito un rapporto di protezione ed estorsione da parte di alcuni boss mafiosi nei confronti di Berlusconi negli anni Settanta e Ottanta). Il procuratore Vigna andò in pensione nel 2005 e morì nel 2012. Piero Grasso, che allora aveva 53 anni, era il vice Procuratore nazionale antimafia. Prima era stato giudice a latere in un famoso “maxiprocesso” alla mafia alla fine degli anni Ottanta, in conseguenza del quale era stato preparato un attentato mafioso contro di lui, poi non eseguito. Nel 1999 sarà nominato Procuratore capo a Palermo e nel 2005 Procuratore nazionale antimafia, succedendo a Vigna (oggi quel ruolo è del magistrato Franco Roberti). Nel 2013 è stato eletto senatore per il Partito Democratico ed è diventato presidente del Senato. “I Graviano”, sono le persone di cui si parla più spesso nel colloquio. Sono Giuseppe e Filippo Graviano, boss del quartiere Brancaccio di Palermo, che erano stati arrestati nel gennaio 1994 a Milano e che sono considerati gli ideatori della campagna di stragi di Cosa Nostra tra il 1992 e 1993 su cui Grasso e Vigna stanno indagando. I due fratelli sono figli di Michele Graviano, che secondo alcuni pentiti investì nelle aziende di Silvio Berlusconi i soldi della mafia: e la conservazione di rapporti con Berlusconi da parte dei figli Graviano, e addirittura il coinvolgimento di Berlusconi nelle loro attività criminali, sono spesso evocati da Vigna e Grasso in diverse domande fatte a Spatuzza.

La storia del documento. Il colloquio del giugno 1998 tra Vigna, Grasso e Spatuzza fu registrato. Pietro Grasso ha riferito al Post, tramite il suo portavoce, che sicuramente le informazioni rilevanti furono inviate da Vigna alle procure competenti: quindi evidentemente anche a Caltanissetta, dove erano in corso inchieste e processi sulla strage di via D’Amelio, su cui Spatuzza dice cose importantissime. Da lì in poi però non risulta in undici anni nessun atto compiuto dalla procura di Caltanissetta per dare seguito o riscontro a quello che Spatuzza disse, e che avrebbe sovvertito i risultati dei processi allora in corso e le condanne a molti anni di carcere di diversi imputati estranei alla strage. A quanto disse poi, Spatuzza non venne mai interrogato fino a dopo il 2008, quando decise ufficialmente di “collaborare con la giustizia” e le sentenze precedenti vennero smentite e ribaltate. Di questo colloquio del 1998 e del suo contenuto si è saputo solamente nel 2013, quando la trascrizione dell’audio – compiuta nel 2009 dalla procura di Caltanissetta, per le indagini seguenti al “pentimento” di Spatuzza – venne inserita “per un disguido” tra le carte del pubblico ministero nel processo “Borsellino quater” e l’avvocato di uno degli imputati la citò in aula e contribuì a renderla pubblica. Il procuratore di Caltanissetta Lari disse allora di avere ricevuto verbale e trascrizione da Grasso – divenuto intanto Procuratore nazionale antimafia – a dicembre 2008. Fu di conseguenza messa agli atti del processo e da allora è un documento pubblico, mentre non lo è ancora la registrazione originale del colloquio. La trascrizione del colloquio è molto trascurata, frammentata, incompleta: ma è stata mantenuta in originale salvo la correzione di pochi palesi refusi.

Quando Spatuzza parlò di via D’Amelio, e non successe niente per dieci anni. Il documento completo del "colloquio investigativo" del 1998 tra il collaboratore di giustizia e i magistrati Vigna e Grasso, scrive giovedì 13 luglio 2017 Il Post.

Direzione Nazionale Antimafia. Trascrizione del verbale di interrogatorio riassuntivo reso da SPATUZZA GASPARE il 26 giugno 1998 alle ore 10,10. La prima parte della discussione riguarda i vantaggi che Spatuzza avrebbe dalla collaborazione. Prospettive e condizioni di detenzione, mantenimento della patria potestà, opportunità di una collaborazione, dopo la condanna all’ergastolo subita: si intuisce che il colloquio non è il primo.

Proc. VIGNA: Allora, è il?

Proc. GRASSO: 26

Proc. VIGNA: Il 26 di giugno, 98, io sono VIGNA, c’è il collega GRASSO, sono le ore 10 e 10, per procedere al colloquio investigativo con SPATUZZA Gaspare, siamo nella Casa Circondariale dell’Aquila. Il provvedimento in base al qualce è stato disposto il colloquio investigativo è in data 25 di giugno 1998, ed è stato consegnato alla responsabile della Polizia Penitenziaria.

Proc. GRASSO: prego.

Proc. VIGNA: voleva accertare il discorso su alcune cose.

SPATUZZA: su?

Proc. VIGNA: su alcune cose.

Proc. GRASSO: intanto, lei ha avuto dei colloqui dove si così, si parlava.

SPATUZZA: si.

Proc. GRASSO: non ci sono novità rispetto alla sua posizione iniziale, diciamo quello che pensava lei circa eventuale possibilità della sua collaborazione, o qualcosa del certo, adesso lei non si aspettasse che con quello che è successo a Firenze, cioè la sentenza.

SPATUZZA: per me era programmata.

Proc. GRASSO: era programmata, è vero? Quindi non ci pensiamo più.

SPATUZZA: no, no.

Proc. GRASSO: noi volevamo soltanto rappresentarle la situazione di ordine giuridico: recentemente c’è stata una sentenza della Cassazione che ha stabilito che chi è condannato all’ergastolo non può avere misure alternative alla detenzione, perché l’ergastolo è una pena più specifica rispetto alla reclusione. Per cui, se uno ha delle attenuanti, secondo lui dovessero scendere a 30, 20 o quello che è, allora può avere la detenzione domiciliare per esempio. Come misura alternativa al carcere si prevede quello che si prevede per i programmi di protezione che dopo scontato un certa pena si può trasformare la detenzione in carcere in detenzione domiciliare per chi ha il programma di protezione.

SPATUZZA: giusto.

Proc. GRASSO: quindi questa norma non si può applicare nel caso in cui uno è condannato all’ergastolo. Questa è la situazione che va a rispettare, perché al precedente incontro non c’era questa sentenza quindi teoricamente uno anche condannato all’ergastolo teoricamente poteva, nel tempo, la detenzione domiciliare. Anche oggi c’è questa nuova situazione e quindi noi abbiamo prospettato, per correttezza, che è cambiata un po’ la situazione rispetto a quella di ieri. Perché nella sua valutazione entri anche questo discorso perché se.

SPATUZZA: sì.

Proc. GRASSO: perché se prima lei poteva scegliere come voleva nei tempi, adesso prima che diventi definitiva la sentenza dell’ergastolo che ha avuto in primo grado, che poi ci sarà l’appello, chiaramente. Ma lei sappia che se per caso dovesse avere ehm dovesse cambiare idea e divenire a una collaborazione con la giustizia, il tempo ce l’ha finché non diventa definitivo l’ergastolo. Questo era intanto un dovere per correttezza.

SPATUZZA: grazie.

Proc. GRASSO: nei suoi confronti, per dirle che è cambiata questa situazione rispetto a quando ha detto al precedente colloquio e perché entri nella sua valutazione anche questo.

SPATUZZA: certo.

Proc. GRASSO: e poi, così, volevamo sapere anche come va. Lei da Parma è venuto all’Aquila perché lo ha chiesto lei? Oppure perché?

SPATUZZA: no, infatti io mi aspettavo questo.

Proc. GRASSO: questo trasferimento al’Aquila.

SPATUZZA: sì.

Proc. GRASSO: ma qui come sta?

SPATUZZA: ma diciamo che ehm.

Proc. GRASSO: ci sono altri qui, pochissimi.

SPATUZZA: no, solo GIACALONE

Proc. GRASSO: GIACALONE, chi? E di altri grossi ce n’è?

SPATUZZA: no, poi c’è tutta gente che non conosco.

Proc. GRASSO: napoletani?

SPATUZZA: SI.

Proc. GRASSO: E state insieme? Oppure?

SPATUZZA: divisi.

Proc. GRASSO: all’aria, nemmeno?

SPATUZZA: no.

Proc. GRASSO: quindi, non c’è nemmeno la possibilità.

SPATUZZA: ci vediamo solo nell’ora di aria.

Proc. GRASSO: Senta, e quindi diciamo non ha nessuna prospettiva, sempre per il discorso del fine, mi pare di ricordare che, però diciamo lei lo sa che la condanna all’ergastolo fa perdere la patria podestà.

SPATUZZA: non importa.

Proc. GRASSO: non importa, no, le dico come discorso giuridico formale, capisco che dentro il cuore non si perde, però io le ripeto quel discorso che le avevo fatto l’altra volta: che ormai questo figlio sentirà parlare di questo fenomeno e quindi, e io penso che anche lui potrà capire che così come lei ci ha spiegato a noi che lei pensava di compiere un suo dovere e rispettare le regole che per il fatto che per lei la legge veniva per aver; oltretutto ci ha fatto capire che anche nei confronti del ehm della religione lei non andava con la coscienza a posto. Mi pare che lei questo ci ha spiegato.

SPATUZZA: io un soldato sono.

Proc. GRASSO: eh?

SPATUZZA: un soldato.

Proc. GRASSO: un soldato. Quindi un soldato in guerra che rischia la vita e uccide gli unici che indicano, giusto? Dico, perché pensa che questo discorso che lei affronta a noi non venga compreso? non possa essere compreso anche dai suoi figli. Lei pensa che questo sia un ostacolo.

SPATUZZA: sopra questo punto non faccio sempre che idee.

Proc. GRASSO: ci pensa. Perché il futuro di suo figlio che cosa ehm che cosa dovrebbe eh sempre, eh?

SPATUZZA: sia a qualsiasi futuro di mio figlio; il futuro dei nipoti, ce ne sono altri.

Proc. GRASSO: ne ha molti?

SPATUZZA: il futuro dei miei figli.

Proc. GRASSO: dico, sono molti? Siete lei e suo fratello?

SPATUZZA: il futuro.

Proc. VIGNA: si, ma questa esperienza, voglio dire, di Cosa Nostra, a un fratello suo fatto sparire.

SPATUZZA: solo questo.

Proc. VIGNA: quando lei aveva 11 anni. Mi so riletto quelli appunti che si presero in occasione dei precedenti discorsi che abbiamo fatto; altra conseguenza è che lei c’ha avuto condanne. Quindi tirando questo numero, non è stata una esperienza positiva sul piano delle resa.

SPATUZZA: ma io né ci ho guadagnato e né ci ho perso, la famiglia.

Proc. VIGNA: e allora le sembra un discorso da uomo cercare di interrompere il legame con questa Cosa Nostra.

SPATUZZA: io ho interrotto definitivamente.

Proc. VIGNA: si, ma non interromperlo solitariamente, interromperlo parlando, capito? Perché.

SPATUZZA: io oggi so che la mia famiglia e mia moglie è tutto; amici non ne esistono.

Proc. VIGNA: questo me ne rendo conto SPATUZZA, ma resta un discorso sempre solitario cioè resta un discorso: il mio mondo è, io che sto in un carcere, il 41 bis; la mia famiglia che è separata da me; un mio figlio per il quale io posso avere la decadenza dal padre podestà. Allora, come vede, questo risultato non è positivo anche se lei il suo mondo è ormai la sua fine perché ha una famiglia rotta, eh? Allora, c’è un modo per fare un discorso con lei su queste storie. Già, e soprattutto sarebbe bene che questo discorso, per utilità sua processuale, che lei poi lo potesse formalizzare con il magistrato come le abbiamo spiegato in questi nostri colloqui che sono colloqui personali, così li chiama la legge, che non hanno valore nel processo che a noi possono essere utili per farci certe idee su di lei, strategie sulle dinamiche e così via. Ma il suo vero interesse sarebbe che lei con un magistrato parlasse, con un magistrato che conduce le indagini sotto il profilo processuale. Questo è il discorso che voglio che sia ben chiaro, eh? Non ha contatto con sua moglie?

SPATUZZA: dottore, per telefono che ci metto a dire.

Proc. GRASSO: il colloquio non lo fa?

SPATUZZA: come?

Proc. GRASSO: il colloquio non lo fa?

SPATUZZA: sì.

Proc. GRASSO: ma lei dice che per telefono. Che c’è il timore che siete ascoltati e che sua moglie lo rapporti all’esterno. Già, prima ancora di.

SPATUZZA: siccome già c’è stata una storia, non vorrei che abbia altri problemi.

Proc. GRASSO: che lei ha creato i problemi per il fatto di essere stata chiamata dalla Squadra Mobile? Si?

SPATUZZA: eh.

Proc. GRASSO: ma lo ha fatto, secondo lei, per cercare di parlare con lei?

SPATUZZA: si, a parte che lo ha visto di come mi hanno trattato alla Squadra Mobile.

Grasso prova a convincere Spatuzza che non deve sentirsi fedele a nessuno, proponendo allusioni complici alla sicilianità di entrambi.

Proc. GRASSO: ho capito. Senta, qualcuno ha detto: noi alla fine noi paghiamo per tutti e come al solito chi ci ha strumentalizzato la fa franca. Lei se lo ha posto questo problemino che lei è un capro espiatorio per interessi di altri che magari lei non sa chi siano questi altri, però che magari si godono quello che voi avete preparato? Non so chi siano, però lei ci pensa a questo? Lei paga per tutti.

SPATUZZA: siccome è stata una scelta mia, e oggi.

Proc. GRASSO: lei si rende conto? Chi lo ha strumentalizzato è libero e si gode tutto quanto e voi state pagando. Ma secondo ehm io.

SPATUZZA: e senza una lira.

Proc. GRASSO: io da siciliano ehm, ma è mai possibile che ci dobbiamo sempre fare strumentalizzare da quelli ehm da qualcuno che è estraneo alla Sicilia, dobbiamo sempre essere dominati; essere sfruttati; sempre ehm pure in queste cose sul piano della giustizia. Per me è una ulteriore ingiustizia questa che viene realizzata su siciliani che vengono illusi, strumentalizzati di soldi, di potere e di tutto quanto. Alla fine c’è chi si gode queste cose e voi state in carcere a marcire in ogni caso. Dico, ma non si deve reagire a questo; io ho una mia ideologia che cerco di realizzare lavorando e cercando di convincermi che questa strada potrebbe essere un modo per cercare di affrancare la Sicilia da questa sudditanza sempre che c’è stata, da Garibaldi in poi siamo sempre stati, anche prima veramente.

SPATUZZA: sempre sfruttati.

Proc. GRASSO: sempre pilotati e strumentalizzati. Tutte le vicende della storia, non so se lei, che so: Giuliano e poi tutto quello che via via è successo.

SPATUZZA: certo.

Proc. GRASSO: è sempre stato così, o no? E loro continuano a godersi i frutti di questa cosa. Ma dico, dobbiamo sempre soggiacere a queste cose?

SPATUZZA: la colpa è chi ci ha creduto in queste cose.

Proc. GRASSO: ci ha creduto, però, chi lo ha strumentalizzato non è che adesso, vi ha abbandonato. Tanto lei ha già un bel ergastolo, sebbene in primo grado, e per come sono messe le cose non è che ehm che lei ha seguito il processo. Voi sapete, anche i suoi difensori, s’è visto che hanno abbandonato, una difesa seria non c’è stata.

SPATUZZA: non esiste.

Proc. GRASSO: lei, io lo so che lei ha seguito tutto il processo, un po’ perchè un po’ anche per ascolto. Voglio dire, che prospettive ci sono?

SPATUZZA: niente, solo. Le prospettive sono di vedere un po’ la famiglia.

Proc. VIGNA: prospettive ridotte.

Proc. GRASSO: che vita è questa? Lei se la sente? Lei è una persona, io.

SPATUZZA: il vostro piano pi ora. Ne ca pigniavanu a mia, io tutti i giorni ero Palermo Palermo, con la macchina, a girare, e io di quello che portavo sopra già era abbastanza pesante, e intanto io mi trovavo a Palermo. Pirchi già io ero un po’ nauseato di quello.

Proc. GRASSO: già quando era libero a Palermo si era reso conto come ha buttato via i suoi anni, utilizzato, strumentalizzato e buttato via. Già quando era a Palermo libero e quindi figuriamoci.

SPATUZZA: io, tutti i giorni scendevo da casa alle otto, e me ne andavo in giro, Palermo Palermo. E lei che pensa che una persona come me di quello che portavo sopra le spalle ehm impegnava Palermo Palermo a girare.

Proc. GRASSO: che cosa otteneva girando per Palermo Palermo?

SPATUZZA: io uscivo da casa perché non potevo stare più.

Proc. GRASSO: diciamo una specie di rimorso diciamo di pensiero.

SPATUZZA: perché si parlava solo di soldi, e l’amicizia mia dopo 20 anni, vorrei sapere se tu ci ha mentiri. nella parola fine.

Spatuzza si lamenta dei Graviano, che erano i suoi capi, e se ne dice deluso. Vigna gli spiega che lui e Grasso hanno bisogno di informazioni chiare per “verificare un quadro che abbiamo in mente”.

Proc. GRASSO: lei sta parlando, non tanto per le persone esterne a, parliamoci chiaro: i GRAVIANO.

SPATUZZA: ehm dopo 20 anni, quando sono stati arrestati io sono stato fatto uomo d’onore. E tu mi istighi a me? E sapere quello che ho fatto io, dopo 20 anni.

Proc. GRASSO: sta parlando di GRAVIANO?

SPATUZZA: ca certo.

Proc. GRASSO: del suo rapporto personale.

SPATUZZA: fratello.

Proc. GRASSO: fratello. Se diceva vatti ammazzare.

SPATUZZA: neanche un minuto.

Proc. GRASSO: e invece poi che cosa voleva, i soldi?

SPATUZZA: troppu tardi ci pinsai, ma purtroppu.

Proc. GRASSO: questo proprio umanamente, lei accetta ehm questa situazione?

Proc. VIGNA: a lei imposterei il discorso in questa maniera: se lei, come io mi auguro, decide di collaborare con la giustizia, questo va preceduto da una chiarezza della situazione; lei può farci telefonare, laddove c’è bisogno di parlare col dottor GRASSO o col dottor VIGNA, e si capisce quali sono i problemi. E, molto onestamente le dirò cosa si può fare e cosa non si può fare, quello che si dice che si può fare: sarà un appello; quello che si dice che non si può fare: non si può fare. E poi parlare chiaro della situazione, eh? Che secondo me, proprio per il percorso che lei aveva cominciato già a fare, qua ne ha parlato, mi sembra che ultimamente lei ha aperto una predisposizione. Allora, se ci sono dei problemi pratici vanno messi sopra un tappeto e bisogna cercare di risolverli in un modo e nell’altro. Considerando razionalmente i problemi questo, questo, questo e questo; e si vede se possono essere risolti, o no. In modo chiaro, non dicendole da parte nostra cose che poi non si possono attuare. E questo lei lo deve pianificare, se ce lo vuole dire fin da ora? Lo può dire fin da ora se ci sono questi problemi, quali sono e li esaminiamo; se ce lo vuole dire in un secondo momento, quando lei ha focalizzato, fa dare un colpo di telefono. Noi, però, ora parliamo di avere una diciamo che in questo momento informale, no? Che ci faccia capire un momentino certe cose che noi ancora, abbiamo un quadro in mente, ma che abbiamo bisogno di verificare. Quindi queste cose da decidere. Questa è una delle lettere, è una fotocopia, e abbiamo trovato anche quell’altra, quella famosa che è una fotocopia. Si ricorda che se ne è parlato?

Proc. GRASSO: lui, comunque ha sempre dichiarato che questo non.

Proc. VIGNA: non lo so, io glielo chiedo.

Proc. GRASSO: con i fratelli GRAVIANO ho già chiuso, mi pare di ricordare.

Proc. VIGNA: si, si.

Proc. GRASSO: cioè, qui sta enunciando.

Quando Spatuzza parlò di via D’Amelio, e non successe niente per dieci anni.

Il documento completo del "colloquio investigativo" del 1998 tra il collaboratore di giustizia e i magistrati Vigna e Grasso. Qui si parla delle rivendicazioni che furono spedite a due giornali nazionali alla vigilia degli attentati di Milano e Roma, il 26 luglio 1993, (allora l’invio non era ancora stato attribuito a Spatuzza) e del progettato attentato allo Stadio Olimpico del gennaio 1994, di cui le indagini ignoravano allora la data e molto altro.

Proc. VIGNA: queste, infatti sono state spedite nella notte prima delle stragi di Firenze e di Milano. Chiaro?

Proc. GRASSO: qui, si preannunciava la morte, dice: la prossima volta. Eh? Colpiremo questo. Però.

Proc. VIGNA: dice che tutto quello che è accaduto è soltanto il prologo, cioè a dire l’inizio. Dopo queste ultime bombe, che sono quelle di Milano e di Roma, informiamo che le prossime.

Proc. GRASSO: le prossime.

Proc. VIGNA: le prossime a venire, andranno collocate soltanto di giorno, infatti quell’altra era di notte, e in luoghi pubblici poiché saranno esclusione alla ricerca di videocamere. Post-scriptum: garantiamo che saranno a centinaia. Questo che fino ad ora si sono messe di notte, e quindi se è morto qualcuno se la è cercato insomma; noi si è cercato di non metterle di giorno. Probabilmente quello che si doveva fare all’Olimpico, siccome era di giorno, era una attuazione questa di idee, ne conviene?

SPATUZZA: non lo so.

Proc. VIGNA: eh? Ma ne erano state pensate altre?

SPATUZZA: no, no.

Proc. VIGNA: quella dell’Olimpico era giorno che doveva avvenire, eh?

SPATUZZA: esclusivamente per.

Proc. VIGNA: i Carabinieri, si però se c’era gente li intorno, eh.

Proc. GRASSO: le volevo dire che quando questi scrivono questa cosa già è ideata quella dei Carabinieri.

Proc. VIGNA: quella di luglio, sì.

SPATUZZA: no.

Proc. GRASSO: no, e quindi c’è un intervallo dove qualcuno dice: adesso ci leviamo i Carabinieri. Dopo questo.

SPATUZZA: sì, sì.

Proc. GRASSO: quindi che intervallo c’è? Lei riesce a collocare nell’arco dell’anno 93? Questa quando si incomincia che a lei le dicono vai; e le dicono pure quale deve essere l’obiettivo.

SPATUZZA: dopo, verso settembre.

Proc. GRASSO: dopo settembre 93, dopo l’omicidio di Padre Puglisi. Parte proprio in eh alla cooperativa?

SPATUZZA: sì.

Grasso e Spatuzza parlano degli obiettivi della campagna stragista. L’obiettivo di alcuni attentati sono i carabinieri, rivela Spatuzza, ma dice di non conoscerne le ragioni politiche, malgrado le insistenze dei magistrati che hanno “un quadro in mente”. Entra nel colloquio anche un attentato contro i carabinieri a Gravina di Catania del settembre 1993, che a oggi non è stato invece attribuito alla campagna di stragi mafiose, ma a ragioni diverse di mafia locale.

Proc. GRASSO: e come parte? Qualcuno le dice: dobbiamo colpire i Carabinieri? Oppure già nasce assieme: parliamo e vediamo che possiamo fare.

SPATUZZA: io avevo questo obiettivo, punto e basta.

Proc. GRASSO: già le dicono a lei l’obiettivo Olimpico, che già scelto l’obiettivo Olimpico? O lei partecipa nel dire. Quale è l’input? Scusi, lei ha dei rapporti con Giuseppe GRAVIANO.

SPATUZZA: l’obiettivo.

Proc. VIGNA: l’obiettivo, contro lo Stato? Carabinieri, forze dell’ordine?

SPATUZZA: sì, sì.

Prec. VIGNA: Carabinieri? Ah, bene.

Proc. GRASSO: e GRAVIANO le dice, cioè se lei ci fa capire il rapporto con GRAVIANO, che cosa dice? E … cama a fari?

SPATUZZA: dovevo uccidere più Carabinieri possibili.

Proc. GRASSO: bene. In quell’anno c’era stato un attentato in Gravina di Catania, alla caserma dei Carabinieri, non c’entra niente lei? Ne sa qualcosa?

SPATUZZA: come che erano discursi che rientravano, infatti pure che in Calabria ci sono stati dei delitti.

Proc. GRASSO: di Carabinieri?

SPATUZZA: sì.

Proc. GRASSO: sempre in quel periodo?

SPATUZZA: sì.

Proc. GRASSO: ed è sempre in questa strategia di colpire a?

SPATUZZA: non lo so.

Proc. GRASSO: quindi GRAVIANO le dice il luogo e le dice che: dobbiamo colpire i Carabinieri. E lei che fa? Che doveva essere a Roma? di nuovo, nel senso di accettare quello che dice; di accettare, giusto?

SPATUZZA: sì, sì.

Proc. GRASSO: quindi questo discorso nasce perché eravate impiegati per fare queste cose, oppure perché visto che succede un qualche fatto o non succede, si passa e si va avanti?

SPATUZZA: io, quello che dice adesso non so. lo so solo questa collocazione e basta; non ho saputo se ci sono stati altri accordi o altre cose, non lo so.

Proc. GRASSO: non lo sa. Quindi, dopo il settembre 93, per lei e Giovanni ehm Giuseppe GRAVIANO, le dice che bisogna fare qualcosa ai Carabinieri, a Roma.

Poi lei ci mette da settembre, riuscite a ricostruire gennaio del 94. e il problema che c’erano le elezioni vicine che c’erano state, qualcuno se l’ha posto? Che c’era già il problema di una discesa in campo di nuove forze politiche?

SPATUZZA: no, di questo no.

Proc. GRASSO: niente. Ma lei da settembre, non ha più contatto con i GRAVIANO?

SPATUZZA: si, siccome in politica ehm di cose che non abbiamo parlato.

Proc. GRASSO: eppure poi, qualcuno come il ROMEO e CIARAMITARO riferivano che in certi discorsi qualche nome usciva fuori e lo attribuiscono addirittura a lei e ai GRAVIANO.

SPATUZZA: sulle posizioni?

Proc. GRASSO: no, questa non è politica.

SPATUZZA: non esiste questo.

Vigna e Grasso chiedono chiarimenti sull’attentato di Milano in via Palestro, dove il 27 luglio 1993 era esplosa un’autobomba che aveva ucciso cinque persone, davanti al museo PAC: non sono convinti che l’obiettivo fosse quello, ma Spatuzza lo conferma.

Proc. GRASSO: se torniamo un attimo indietro, noi abbiamo avuto l’impressione, dalla ricostruzione, che nella fase operativa di Milano ci fosse un errore; perché dico questo? Perché abbiamo visto che c’è una miccia per la combustione come quella di Firenze, di una lunghezza tale che una quindicina o una ventina di minuti poteva durare. Se è così, per evitare il disinnesco bisogna lasciare la macchina in un posto meno visibile; invece viene lasciata contromano, messo per traverso. E allora deve essere successa qualcosa per cui qualcuno ha abbandonato la macchina, ha acceso la miccia e se n’è andato. E poi c’è stato tutta una serie di conseguenze che voi non credevate: l’intervento dei Vigili del Fuoco per evitare lo scoppio mentre ci sono le persone che cercano la bomba.

Proc. VIGNA: quale doveva essere il vero obiettivo di Milano?

SPATUZZA: questo, un cento metri più avanti.

Proc. GRASSO: Piazza Cavour?

Proc. VIGNA: più avanti?

SPATUZZA: più avanti o più indietro, non mi ma forse più avanti.

Proc. VIGNA: più avanti. Quale era l’obiettivo?

SPATUZZA: non lo so perché io non c’ero. Comunque, o cento metri più avanti o cento metri più indietro.

Proc. GRASSO: e più indietro perchè? Se mai si pensa che potrebbe essere più avanti; e lì c’è qualche cosa che dicevo, si ci sfascia la macchina.

SPATUZZA: può darsi pure che non potevano posteggiare e quindi andare più avanti. Comunque, in non so o cento metri più indietro o cento metri più avanti.

Proc. VIGNA: chi lo doveva scegliere l’obiettivo in carcere, perché lei ha detto che se lo conoscevo anche io ehm, se pure avrebbe avuto l’indicazione contro lo Stato. Quindi, Milano dove?

SPATUZZA: ehm verso che hanno indicato loro.

Proc. GRASSO: e allora hanno questa facoltà di scegliere? Ma un’indicazione, dovevano essere giornali, mi dica, Piazza Cavour, c’è tutta la ehm della Repubblica, capito? Poteva girare dove ci sono le sedi dei giornali, poco prima ci poteva essere il museo. Non lo so, i giornali?

SPATUZZA: quello era cento metri prima.

Proc. VIGNA: cento metri dopo. A distanza di pochi centinaia di metri, come dice lei, c’è il palazzo dei giornali e la villa grande. Siccome qualcuno ha mandato lettere ai giornali, le chiedo: le risulta che ha Milano potesse essere l’obiettivo il palazzo dei giornali?

SPATUZZA: no, no.

Proc. VIGNA: lo conosceva l’obiettivo di Milano quale era?

SPATUZZA: questa arte contemporanea.

Proc. GRASSO: quindi quello era l’obiettivo, il padiglione di arte contemporanea dove si facevano convegni, mostre di arte e queste cose.

SPATUZZA: questa.

Proc. GRASSO: quindi quello era. Allora diciamo che erano nei pressi, solo che la macchina fu posteggiata male perché anziché metterla lato giusto fu messa ad, eh?

SPATUZZA: certo.

Proc. GRASSO: o forse per lui ha messo questa macchina di traverso e contromano, no?

SPATUZZA: eh.

Proc. GRASSO: messa così, che poi c’è questa miccia che viene innestata accesa dall’interno.

SPATUZZA: si.

Proc. GRASSO: per cui ha provocato il fatto che, ora che ha provocato o casuale?

SPATUZZA: casuale.

Proc. GRASSO: casuale, che con queste cose e le persone. Ma quando lui organizza all’Olimpico ai Carabinieri, persone sempre eh vite umane sempre sono. Quindi, lei esclude nella maniera più assoluta che qualcuno le abbia indicato, per esempio a Roma, gli obiettivi?

Spatuzza cita un attentato a Roma “contro una sede americana”, che lui non ha compiuto e che lo inquieta: oggi non risultano attentati che possano corrispondere a quelle sue parole.

SPATUZZA: lei lo sa cosa mi ha stranizzato di più? Che nello stesso periodo c’è stato un attentato a Roma, contro un sede americana.

Proc. GRASSO: americana.

Proc. VIGNA: e allora?

SPATUZZA: siccome da parte nostra non ne sapevamo, qua io sto pensando un po’: ma c’è altra gente sopra di noi che sta cercando?

Proc. GRASSO: di lavorare. Lì, a Roma, c’è stato un altro episodio che c’è stato quello dell’abbandono di una macchina vicino Palazzo Chigi, con dentro.

Proc. VIGNA: dell’esplosivo.

Proc. GRASSO: un ordigno che non poteva mai esplodere, cioè per fare terrore.

SPATUZZA: non ne so io di questa cosa.

Proc. GRASSO: invece questa è una cosa vecchia.

SPATUZZA: che io ho un dubbio, e dissi: come mai.

Proc. VIGNA: gli interessi tornavano a Roma.

SPATUZZA: sì, sì.

Proc. GRASSO: rispetto al mese di luglio, quando.

SPATUZZA: non mi ricordo.

Proc. GRASSO: lei ancora lavorava per questa cosa, e mentre eravate là succede questa cosa. Se ci da qualche altro particolare, noi possiamo.

Proc. VIGNA: lei la zona o il nome, si ricorda?

SPATUZZA: che praticamente se noi facciamo un qualcosa di ehm comunque, qualche cosa che appartiene all’America; e allora io riflettendo dico: ci vogliamo mettere l’America contro? Per cercare di sollecitare e che è qualcosa che poteva essere contro di noi.

Proc. GRASSO: e questo con GRAVIANO, quando ne parla?

SPATUZZA: no, mai.

Proc. GRASSO: e in quel periodo GRAVIANO dove era?

SPATUZZA: a Palermo.

Proc. GRASSO: a Palermo. Perché, se ne vanno dopo Padre PUGLISI; mentre, durante tutto questo periodo se ne stavano tranquillamente a Palermo?

SPATUZZA: questo, non so.

Proc. GRASSO: quindi lei ebbe la sensazione che qualcuno lavorasse sopra di voi?

SPATUZZA: contro di noi.

Proc. GRASSO: contro di voi. Che poi l’America pensa che questi sono sempre, continuano queste strategie e per cui noi poi ci troviamo l’America contro, Giusto?

SPATUZZA: sì.

Proc. GRASSO: come è avvenuto per FALCONE, per esempio che era intervanuta FBI, no? Che era venuta e ha dato il suo aiuto. Lei ha la stessa preoccupazione del fatto precedente?

SPATUZZA: valutando la situazione.

Grasso sembra riprendere una precedente conversazione in cui Spatuzza aveva commentato anche un’altra storia di cui ignorava la spiegazione, il ritrovamento a Roma di materiali esplosivi su un treno diretto a Genova, per cui erano stati accusati degli agenti del SISDE (come in altri passaggi del colloquio, Grasso sembra essere più diplomatico e tattico con Spatuzza, Vigna più impaziente di concludere qualcosa).

Proc. GRASSO: esatto. Questa era la sua. E poi qualche altra cosa che le è sembrata strana, non so, per esempio: ci sono state delle bombe lasciate sui treni, esplosivo.

Proc. VIGNA: Genova.

Proc. GRASSO: un sul treno a Genova.

SPATUZZA: queste non, che poi mi sembra che è stato indagato un...

Proc. GRASSO: uno dei Servizi.

SPATUZZA: uno dei Servizi.

Proc. GRASSO: contatti con, mica sapere come si chiamano, ma qualche suggerimento, lo può sapere lei. Quindi, tornando su Milano, a livello operativo eccetera, ne ha parlato con le persone che non hanno fatto, come ci si sono giustificati?

SPATUZZA: che c’era un problema, non mi ricordo il problema che non ha potuto posteggiare.

Proc. GRASSO: dove doveva posteggiare? Aveva trovato il posteggio occupato ed era a marcia contraria, questo è stato il ehm. Ma noi non vogliamo sapere il nome di questi due.

Proc. VIGNA: io sì.

Proc. GRASSO: ah, lo vogliamo sapere.

Proc. VIGNA: io voglio sapere il nome delle persone, l’atra volta si è persa mezz’ora, e non lo voglio dire il perché. Eh?

SPATUZZA: no.

Proc. VIGNA: Invece, si perché può serv1re a noi. Perché con la sue indicazione vengono.

Proc. GRASSO: non possiamo utilizzare.

SPATUZZA: no.

Proc. VIGNA: so sempre liberi?

SPATUZZA: come.

Proc. VIGNA: so sempre liberi?

Proc. GRASSO: da chi?

SPATUZZA: come.

Proc. VIGNA: non li vuol dire.

SPATUZZA: znu

Proc. GRASSO: LU? LU?

SPATUZZA: no. Tanto è arrestato.

Proc. GRASSO: vabbé, che significa, può essere arrestato per...

SPATUZZA: ma eravate voi, o aspettavo io?

Proc. VIGNA: qui si sta separando il discorso, per tornare.

Proc. GRASSO: a un’altra cosa.

SPATUZZA: che poi a questi signorini hanno trovato armi, e quindi avrei guadagnato io, eh.

Si passa a parlare del fallito attentato contro il conduttore televisivo Maurizio Costanzo – allora impegnato in frequenti trasmissioni contro la mafia – il 14 maggio 1993 in via Fauro a Roma, in cui furono ferite sette persone e per un errore da parte degli attentatori sopravvissero Costanzo e la sua compagna Maria De Filippi (un primo progetto di uccidere Costanzo era già stato preparato nel 1992). Dopo che il processo relativo lo aveva condannato, una sentenza del 2011 concluse poi che Spatuzza non era presente all’esecuzione dell’attentato pur avendo partecipato alla sua organizzazione. Dove si parla di Firenze, invece, l’oggetto è l’attentato in via dei Georgofili, dietro al museo degli Uffizi, del 27 maggio 1993, in cui morirono cinque persone.

Proc. GRASSO: ormai tutto quello che succederà a Palermo e non si meravigli di questo, ed ecco perché. Senta, mi faccia capire una cosa: quando lei va a Roma per la cosa di COSTANZO.

Proc. VIGNA: COSTANZO.

SPATUZZA: non ci sono stato mai.

Proc. GRASSO: non c’è stato mai?

SPATUZZA: no.

Proc. GRASSO: noi pensavamo, c’è anche CANNELLA.

SPATUZZA: no mi sono interessato.

Proc. VIGNA: non si è interessato per nulla?

Proc. GRASSO: come mai i GRAVIANO non l’hanno fatto entrare? A parte che non gli è riuscito quello che volevano fare; ci fu qualche rivuglio contro qualcuno.

SPATUZZA: no, guardi, io ho preparato diciamo tutto questo materiale, però non saprei.

Proc. GRASSO: lo ha preparato a Palermo? o a Roma?

SPATUZZA: non so dove.

Proc. GRASSO: lo ha preparato a Palermo per fare. Quindi li ha forniti soltanto. Ma allora quello che si dovevano occupare della cosa del...?

SPATUZZA: non so.

Proc. GRASSO: non sa questo. Allora era questo il discorso: ma non erano quelle stesse persone, almeno dal processo si è accertato che dopo avere fatto COSTANZO, nel caso di tornare al Palermo.

SPATUZZA: ma di chissà nun sa caputu nianti.

Proc. GRASSO: no. E perciò noi cerchiamo di capire: sono andati direttamente a Firenze? Eravate gli stessi? Dovevano essere organizzate insieme? Dovevano essere una specie di doppietta.

SPATUZZA: ormai chistu ha ghiutu, quindi ormai.

Proc. GRASSO: che centra, noi cerchiamo e non ci accontentiamo di una cosa processuale e basta. Poi, COSTANZO era solo per COSTANZO? O per quello che rappresentava la Fininvest?

SPATUZZA: ma, penso solo COSTANZO.

Proc. GRASSO: lo pensa lei, su che base? Su una sua opinione personale? O perché ha fatto qualche discorso?

SPATUZZA: ma tramite dichiarazioni che ha fatto lui assieme a SANTORO.

Proc. GRASSO: questo c’è. Ma lei lo sa che nel 92, Giuseppe GRAVIANO è andato a Roma assieme a SINACORl per andare a uccidere COSTANZO.

SPATUZZA: no, questo io l’ho appreso dalle....

Proc. GRASSO:...

SPATUZZA: no.

Proc. GRASSO: ma allora quando GRAVIANO se ne andò, lei non sapeva che era per, sta confidenza non gliela dava. Insomma, lo usava soltanto per, eh? E lei non sapeva niente? Quindi lei non sapeva che COSTANZO doveva essere ucciso? perché siamo nel 92, e addirittura a maggio del 93, poi viene fatto COSTANZO. C’è un gruppo che parte per andare a Roma e vedere di potere uccidere FALCONE.

SPATUZZA: tutto che poi non è successo.

Proc. GRASSO: che dovevano andare a uccidere FALCONE, MARTELLI o COSTANZO o altri. E lei di questo progetto non ne sapeva? E com’è che GRAVIANO non si portava a lei? Si portò a TINNIRELLO.

SPATUZZA: perché io, rimanendo a Palermo ero più utile, e non ne sapevo niente.

Proc. GRASSO: ma ha notato che non c’era in quel periodo a Palermo?

SPATUZZA: non è che ci vedevamo ogni giorno.

Proc. GRASSO: lei continuava a gestire questo studio e quindi non può sapere se nel momento in cui si doveva fare nel 92, c’era una certa motivazione? E se quella del 93 è la stessa motivazione o se ne è aggiunta qualche altra? Cioè, dal 92 al maggio 93, c’è quasi.

SPATUZZA: per una idea mia, partendo da FALCONE e arrivare all’ultima strage, in tutto l’anno.

Proc. GRASSO: ci faccia capire. Lei ha sintetizzato, però ci faccia un po’ capire il termine.

Grasso cerca di ottenere informazioni su qualcuno che “coprisse le spalle” ai mafiosi responsabili delle stragi, e Spatuzza qualcosa comincia a concedere. Grasso commenta – in un creativo capovolgimento – che quindi lo Stato avrebbe tradito Spatuzza, smettendo di proteggerlo.

SPATUZZA: i discursi che un po’ ignoranti in materia, che possiamo essere noi, lei pensa che io vado contro lo Stato, e lo Stato poi non mi import ehm che devo essere un po’ .

Pree. GRASSO: per avere le spalle coperte, parliamo un po’ in termini più chiari.

SPATUZZA: certo.

Pree. GRASSO: chi le copriva le spalle? Cioè, la sensazione che qualcuno diceva: andate tranquilli che.

SPATUZZA: ma voi pensate che sono accussi? Gnoranti possiamo essere in qualche materia, e poi andiamo a fare un contro lo Stato, che poi le conseguenze saranno un po’ catastrofiche contro di noi.

Proc. GRASSO: e ma scusi, ma allora c’è stato un tradimento, perché se qualcuno vi doveva proteggere, e invece poi lo Stato si è rivoltato, e voi siete in queste condizioni e chi hanno tradito.

Proc. VIGNA: che vi doveva proteggere?

SPATUZZA: non lo so.

Proc. VIGNA: secondo la sua idea.

SPATUZZA: come?

Proc. VIGNA: secondo voi?

SPATUZZA: ma una cosa che ho fatto che non so ehm.

Proc. GRASSO: quindi già da FALCONE, questo.

Spatuzza racconta da dove veniva l’esplosivo usato per tutte le stragi: e smentisce molte tesi e perizie che resteranno invece valide e assodate per molti anni ancora (ancora oggi, in molti casi e ricostruzioni scritte), per le quali l’esplosivo usato sarebbe stato del Semtex di produzione postbellica.

SPATUZZA: ehm l’esplosivo, una buona parte.

Proc. VIGNA: ma tutto questo esplosivo, da dove veniva?

SPATUZZA: ma c’è esplosivo che può saltare tutta l’Italia.

Proc. VIGNA: appunto, da dove veniva? Da dove? Voglio sapere, non la persona, voglio sapere da dove. Dall’estero? o dall’Italia?

SPATUZZA: dall’Italia.

Proc. VIGNA: dall’Italia. Da una fabbrica?

SPATUZZA: no.

Proc. VIGNA: allora mi dica da dove, come provenienza.

SPATUZZA: sono ordigni bellici.

Proc. VIGNA: ordigni bellici. In mare?

SPATUZZA: in mare.

Proc. VIGNA: in mare. Dalla Calabria?

SPATUZZA: ovunque, chisti pescatori che li raccolgono.

Proc. GRASSO: e dove li pescavano.

SPATUZZA: fanno a strascinu.

Proc. GRASSO: a strascino e si trovavano queste cose che poi come si faceva.

SPATUZZA: un regalino.

Proc. GRASSO: un regalino, per rifarsi la rete. Vabbè, ma tutta questa quantità?

SPATUZZA: vi dico che ce n’è per saltare tutta l’Italia.

Proc. GRASSO: tutti a mare. Quindi, quando un ha bisogno.

Proc. VIGNA: ci può dire qualche deposito di questo?

SPATUZZA: no, non esiste.

Proc. VIGNA: dove sta ora qualche esplosivo?

SPATUZZA: no, che bisogno c’è ehm uno va a mare e lo va a prendere.

Proc. GRASSO: comunque qualcuno sa dov’ è a mare tutta questa?

SPATUZZA: no, a tempi di guerra quando c’erano queste cose belliche.

Proc. VIGNA: sicuro?

SPATUZZA: eh?

Proc. VIGNA: sicuro?

SPATUZZA: sì.

Proc. GRASSO: quindi lei dice che c’è qualcuno dietro sin da FALCONE?

SPATUZZA: che ha dato la spinta e poi sicuramente si è ammucciato.

Proc. GRASSO: si è ammucciato vuol dire si è nascosto. No, per tradurre. Lei ha avuto questa sensazione vabbe’. Su FALCONE, lo so che nell’organizzazione non c’era lei materialmente ehm, ma lei affronta pure il fatto dell’esplosivo, sempre con questi metodi di recupero?

SPATUZZA: tutti là.

Proc. GRASSO: ma da preparare per la frantumazione, che si faceva?

Proc. VIGNA: sapeva a cosa doveva servire?

SPATUZZA: sapevo solo dove non andare.

Spatuzza conferma che nelle settimane precedenti le due stragi del 1992 in cui vennero uccisi i magistrati Falcone e Borsellino in molti erano stati avvertiti di non muoversi nelle zone dove sarebbero avvenute le esplosioni, per la loro sicurezza.

Proc. GRASSO: sapeva, le avevano detto di non passare finché non succedeva una certa cosa, per l’autostrada o per via d’Amelio.

Perché questa è una voce che è stata data a molti, a quelli di Trapani dicevano: non andate a Palermo per 15 giorni, finché non succede una certa cosa; e a voi dicevano: non andate all’aeroporto che vi può succede qualche cosa.

E quindi questa voce si era sparsa, però voi se arrivava qualche parente? Pregavate che non passassero nel momento in cui succedeva quella cosa. Cioè, se eravate con suo fratello, lei gli diceva: fai u giru di Capaci paese anziché passare dall’autostrada, è così? O no?

SPATUZZA: si.

Proc. GRASSO: si, che è successo?

SPATUZZA: no.

Proc. GRASSO: ma lei, se sapeva che doveva arrivare un suo parente, gli diceva: non fare l’autostrada, vai a fare u giru di Capaci. Così era? O no?

SPATUZZA: si.

Proc. GRASSO: quindi diciamo che c’era questa cosa della preparazione, e che cosa succede poi? Perché su BORSELLINO il discorso è più complicato.

SPATUZZA: sempre quello è.

Proc. GRASSO: lei, l’altra volta ci aveva detto quando ripensa a FALCONE già si organizza BORSELLINO.

SPATUZZA: si ehm.

Questa è la parte del colloquio in cui Spatuzza contraddice e confuta l’impianto dell’accusa in corso in quel momento per la strage di via D’Amelio (in cui fu ucciso Paolo Borsellino), per le quali saranno condannate dieci persone che ne sono innocenti sulla base delle false confessioni estorte a Vincenzo Scarantino, che se ne è accusato. La versione di Spatuzza però sarà rivelata solo nel 2008, dieci anni dopo, e permetterà di demolire tutta la costruzione dei primi processi. L’elemento centrale che conferma la veridicità del racconto di Spatuzza è la sua versione – verificata poi – del furto della macchina usata per l’attentato: Grasso espone a Spatuzza la versione dell’inchiesta basata sulla confessione di Scarantino.

Proc. GRASSO: la macchina,

SPATUZZA G.: questo della macchina si.

Proc. GRASSO: ma è quella la macchina? Quella del processo? Ma c’è tutta una storia con questa macchina che.

SPATUZZA G.: questi l’hanno rubata e poi altri l’hanno rubata.

Proc. GRASSO: ah, così è. E quindi quelli che l’hanno avuta rubata non sanno niente?

SPATUZZA: non sanno niente

Proc. GRASSO: l’hanno rubata per conto loro,

SPATUZZA G.: poi, altri ladri l’hanno rubata a loro.

Proc. GRASSO: altri uhm l’hanno rubata loro.

Giuseppe Orofino è il meccanico che Scarantino ha accusato di aver preparato l’auto per l’attentato nel proprio garage, e che sarà condannato a 18 anni in primo grado e a 9 in appello, che sconterà completamente prima che nel 2008 la versione di Spatuzza resa pubblica e valida dalla certificazione del suo “pentimento” lo scagioni.

SPATUZZA G.: OROFINO, non esiste questo.

Proc. GRASSO: OROFINO è quello che ne abbiamo parlato?

SPATUZZA G.: no, non esiste questo.

Proc. GRASSO: in che senso non esiste?

SPATUZZA G.: non esiste. Perché chi l’ha rubata, l’ha messa dentro e l’hanno preparata. Per logica stessa SCIORTINO custodiva la macchina dentro il garage; prendeva targhe da lì una macchina che ci ha in custodia lui e la mette nella macchina per andare a fare l’attentato. Poi vanno a rubare un’altra macchina.

Proc. GRASSO: infatti questa sembra una cosa strana. Ma chi l’ha rubata non si sa? non venne fuori il passaggio, o si sa e magari come mandante invece che come esecutore o qualcosa del genere.

SPATUZZA G.: secondo i ladri?

Proc. GRASSO: eh!

SPATUZZA G.: no, loro non sanno niente. Secondo i ladri?

Proc. GRASSO: secondo i ladri, ne rispondono, sono stati condannati

SPATUZZA G.: si si

Proc. GRASSO: sono innocenti, cioè sono fuori dal processo perché non si sa. Ma i ladri lo sapevano? Non lo hanno fatto apposta? Lo sapevano che avevano rubato?

SPATUZZA G.: si si

Proc. GRASSO: e quindi per incastrare questi?

SPATUZZA G.: no no. Che mica c’è scritto macchina rubata. La macchina è posteggiata

Proc. GRASSO: quindi, quelli che l’hanno rubata; l’hanno posteggiata; e poi prima riandare ARCIDIACONA, per caso, e giusto giusto era la macchina di OROFINO?

SPATUZZA G.: no

Proc. GRASSO: no, cioè, com’era il discorso?

SPATUZZA G.: la macchina era di un signore, il nome ehm, che gliel’hanno rubata, l’hanno posteggiata sti ragazzi della Guadagna. Ma l’hanno rubata per conto suo. E poi questi autisti hanno riarubata la macchina.

Proc. GRASSO: e portata lì

SPATUZZA G.: in un garage.

Proc. GRASSO: in un garage, che non è quello che mi aveva detto?

SPATUZZA G.: poi servivano un paio di targhe e quindi loro che le hanno cercato, di quel poco che ho capito, e poi sono andato a vedere le targhe ed erano sul 126.

Spatuzza scagiona perentoriamente Orofino.

Proc. GRASSO: uhm, e la macchina che avevano quella di OROFINO, come si spiega? Le targhe sono di OROFINO, OROFINO non sa nulla di questa storia, gli prendono le targhe, mettono in questa macchina, e poi si può andare a prepararla come autobomba, no?

SPATUZZA G.: si

Proc. GRASSO: che era di sabato o venerdì? Non si sa? E quello dell’autorimessa, non si doveva vedere, l’officina era lì? era presente? lo sapeva?

SPATUZZA G.: lui è estraneo a tutto. Aveva subito un furto.

Proc. GRASSO: lei allora dice che OROFINO non sa?

SPATUZZA G.: non esiste. Loro hanno questa situazione all’officina, e prendono per dire una macchina mia?

Dottore: e allora come è andata?

SPATUZZA G.: praticamente stu disgraziato di OROFINO fu coinvolto pirchi c’iru a rubari i targhi a notti stissu.

Proc. GRASSO: anche le targhe hanno rubato? Ma allora non si è fatta nell’officina di OROFINO la preparazione.

SPATUZZA G.: nru nru. (verosimilmente lo SPATUZZA annuisce come per dire di no).

Proc. GRASSO: e queste targhe di macchine a loro volta rubate? Oppure?

SPATUZZA G.: no, erano di macchine che OROFINO aveva nell’officina.

Proc. GRASSO: allora. OROFINO aveva le macchine, vanno a rubare nell’officina di OROFINO la targa che lui aveva dentro in riparazione. Dopo la usano per metterla nella macchina dell’autobomba, così è?

SPATUZZA G.: si.

A questo punto Grasso chiede informazioni anche sull’autore della falsa versione adottata dall’inchiesta in corso, Vincenzo Scarantino, e sulle responsabilità nell’attentato dello stesso Scarantino: il quale ha confessato di avere partecipato all’organizzazione del furto della macchina e dell’attentato, e ha accusato altre persone. E Spatuzza nega anche queste. Anche su questo sarà riscontrato e creduto nel 2008, quando si “pentirà” ufficialmente. “Lui era a Pianosa, ha ammazzato un cristiano che doveva ammazzare e gli fecero dire quello che non doveva dire. Toto La Barbera” (Totò La Barbera non è l’ex prefetto e questore Arnaldo La Barbera, suo superiore, ma più probabilmente Salvatore, della Squadra Mobile di Palermo: ma è una ricostruzione incerta). Che a Scarantino sia stato “fatto dire” molto da chi lo interrogò è invece acclarato, però non risultano omicidi per cui fosse stato accusato o arrestato: un’ipotesi che è stata fatta è che le sue false confessioni siano state ottenute anche sulla base di una minacciata accusa di omicidio.

Proc. GRASSO: che viene preparata in un altro luogo, e non nell’officina di OROFINO. E CIARAMITARO in questa cosa che cosa che c’entra? CIARAMITARO, mi scusi, SCARANTINO.

SPATUZZA G.: non esiste completamente.

Proc. GRASSO: non partecipa completamente?

SPATUZZA G.: non esiste.

Proc. GRASSO: e scusi, com’è che allora le cose che lui ha detto che sa?

SPATUZZA G.: lui era a Pianosa, ha ammazzato un cristiano che doveva ammazzare, e ci ficiru diri chiddu ca nu avia adiri. Toto LA BARBERA.

Proc. GRASSO: e quell’altro che era con lui, ANDREOTTI?

SPATUZZA G.: ma, di . . . . . vieninu chisti? Si sono rifatti di nuovo pentiti?

Proc. GRASSO: no, dice che poi eh, non.

SPATUZZA G.: tutti questi cinque nella stessa cordata, evidentemente.

Proc. VIGNA: sì, ma qualche.

SPATUZZA G.: voi andate a prendere dagli uffici ehm di tutti e cinque.

Vigna chiede a Spatuzza delle due lettere di rivendicazione spedite ai giornali alla vigilia degli attentati del luglio 1993, e tornano a parlare della bomba di Firenze in via dei Georgofili, che non fu invece preceduta da una rivendicazione. Spatuzza dice qualcosa in più sullo “scopo” degli attentati: “se chi si doveva piegare in queste cose non si piegava e si continuava sempre”.

Poi tornano a parlare dell’attentato a Costanzo e Grasso di nuovo chiede se c’entrasse anche la Fininvest.

Proc. VIGNA: no, due cioè questa del Messaggero e un’altra al Corriere della Sera.

SPATUZZA G.: tutti questi uffici che ritirano la posta, non viene registrata?

Proc. VIGNA: se lei non mi dice dove sono state mandate.

SPATUZZA G.: non lo so.

Proc. VIGNA: non lo sa.

Proc. GRASSO: come mai a Firenze non si fece, lei l’organizzazione Firenze la cura? E come mai Firenze, non circola la rivendicazione? O ci fu e non? Io, ormai non pensavo più.

SPATUZZA G.: no, questa no.

Proc. GRASSO: dico, questa differenza tra Firenze e Roma.

Proc. VIGNA: COSTANZO, a Roma.

Proc. GRASSO: lei capisce adesso che sono cose. Siccome là dovevano mettere una bomba vicino al museo, poi tutte le volte ehm che non potevate sapere che c’era quella famiglia, fra l’altro viene messa lì vicino agli uffizi, vabbè lasciamo perdere. Firenze è una organizzazione, lei intanto mi chiarisca questo tempo tra Firenze e dell’altra, è soltanto per organizzare? O, prima dice: adesso facciamo Firenze e poi facciamo l’altra.

SPATUZZA G.: se ehm, diciamo che c’era uno scopo chi si doveva piegare in queste cose non si piegava e si continuava sempre.

Proc. GRASSO: quindi si attende? Un tempo per vedere.

SPATUZZA G.: certo. Perché se tu non mi dai una risposta, tuttu u discuilsu e ca tu nu mi na datu.

Proc. GRASSO: quindi, il primo è fatto per attendere una risposta.

Proc. VIGNA: ma che tipo di risposta vi attendevate? Cioè, cosa doveva fare? Chi?

SPATUZZA G.: dovevamo essere tutti ehm, sa parte che io.

Proc. GRASSO: quindi, diciamo che aspettando la risposta, si fa Firenze. Firenze è una organizzazione spaccata da di COSTANZO? Oppure si, e altre no?

SPATUZZA G.: tutta una strategia è.

Proc. GRASSO: quindi è tutta una strategia. E COSTANZO si poteva ammazzare. Lo avete mai pensato?

SPATUZZA G.: no, io no centro.

Proc. GRASSO: lei non centra. Ma dico, si poteva ammazzare? L’auto bomba ha un significato diverso; ammazzare COSTANZO con una bomba.

SPATUZZA G.: che pensa, chi lo può capire lo capisce.

Proc. GRASSO: e giusto?

SPATUZZA G.: si.

Proc. GRASSO: e chi lo deve capire lo capisce il messaggio di COSTANZO. Giusto? Perché lui andava a passeggiare il cane, col giornale, e penso si sapesse questo in Cosa Nostra, o chi aveva la possibilità, giusto?

SPATUZZA G.: si.

Proc. GRASSO: hanno fatto così anche per dare, oltre a COSTANZO, anche un messaggio sia per l’autobomba in sé: il terrore, l’intimidazione, no?

SPATUZZA G.: si, un qualche cosa così.

Proc. GRASSO: secondo lei, anche qualche messaggio alla Fininvest, di cui il COSTANZO fa parte? O è generalizzato?

SPATUZZA G.: alla Fininvest non penso, poi.

Proc. GRASSO: lo dice perché sa qualcosa? O è un sua idea?

SPATUZZA G.: no, una mia idea.

L’attentato contro Maurizio Costanzo a Roma fallì perché l’autobomba fu fatta esplodere con qualche istante di ritardo: nel racconto di Spatuzza il fallimento generò dei dissidi (o fu generato da dissidi), e nell’attentato successivo a Firenze – due settimane dopo – intervenne lo stesso Spatuzza.

Proc. GRASSO: una sua idea. Senta, invece Firenze che entra in questa fase in cui lei la gestisce, che la gestisce e ha un risultato, ma COSTANZO fallisce sostanzialmente.

SPATUZZA G.: ci sono stati dei disguidi e si sono un po’ azzuffati.

Proc. GRASSO: si sono azzuffati, in che senso?

SPATUZZA G.: tra di loro.

Proc. GRASSO: dopo?

SPATUZZA G.: lì.

Proc. GRASSO: lì, mentre dovevano pressare il telecomando: lo presso io, lo pressi tu? CANNELLA e il tizio?

SPATUZZA G.: quelli che dovevano operare.

Proc. GRASSO: quelli che hanno operato, litigi su che cosa?

SPATUZZA G.: fra di loro, non so bene quali sono stati gli inconvenienti. E poi, si è cambiato diciamo la squadra.

Proc. GRASSO: si è cambiata la squadra, squadra che perde si cambia, giusto?

SPATUZZA G.: si.

Proc. GRASSO: e c’è una aderenza di ehm, lo aveva già programmato Firenze quando si doveva fare COSTANZO?

SPATUZZA G.: no, non lo so.

Proc. GRASSO: cioè, l’esplosivo

SPATUZZA G.: tutto conservato, si continuava sempre a racimolare esplosivo e a conservare. Dice: andiamolo a conservare. Però, non a sotterrare, sempre a portata di mano.

Proc. GRASSO: a portata di mano, pronto per l’impiego. Lì a Firenze, dice che si cambia la squadra che non diede risultato. Lei si prende in mano questa organizzazione a Firenze, e va bene. Ma dico, tra quello che succede a Firenze e quello che succede a Roma o Milano, maggio luglio, quando è che, quanto tempo si aspetta la risposta e poi qualcuno le dice riandare, qualcuno tipo GRAVIANO, perché se è con lui che lei, oppure c’era incontro con BAGARELLA o con altri?

SPATUZZA G.: lui?

Proc. GRASSO: no, dico, lei che so con GRAVIANO se ci sono dei contrasti.

SPATUZZA G.: no, con nessuno.

Spatuzza racconta che l’obiettivo dell’attentato di Firenze – il museo degli Uffizi – fu scelto consultando un catalogo d’arte. Un’altra ipotesi era stato Ponte Vecchio.

Proc. GRASSO: quindi GRAVIANO. Riesce a localizzare quando inizia la fase operativa di Roma, Milano. Maggio, l’obiettivo è già fatto.

Proc. VIGNA: l’obiettivo di Firenze, a chi?

SPATUZZA G.: ragazzi che sono partiti settimane prima.

Proc. VIGNA: per trovare un luogo?

SPATUZZA G.: tranne che però le indicazioni in un catalogo di arte.

Proc. GRASSO: di.

SPATUZZA G.: una rivista.

Proc. GRASSO: una rivista?

SPATUZZA G.: Leonardo.

Proc. GRASSO: e chi l’aveva fornito?

SPATUZZA G.: in un appuntamento che abbiamo avuto noi, che mi hanno dato di andare a fare questa situazione e hanno scelto l’obiettivo quale era. Che erano 3 o 4.

Proc. GRASSO: gli altri quali erano?

SPATUZZA G.: il ponte vecchio, ehm comunque erano 3 o 4.

Proc. GRASSO: sempre nelle fotografie che erano nello stesso album? Era solo fotografia? O c’era anche scritto?

SPATUZZA G.: no, anche scritto.

Proc. GRASSO: quindi un libro su Firenze.

SPATUZZA G.: si.

Proc. GRASSO: con le fotografie di Firenze, e nella prima vi dicevano: questo, questo o questo.

Proc. VIGNA: chi?

Proc. GRASSO: all’incontro chi c’era?

SPATUZZA G.: sempre fra di noi.

Proc. GRASSO: Matteo Messina DENARO, c’era? Perché era vicinissimo al GRAVIANO. Libri su di.

SPATUZZA G.: no, non c’era.

Proc. GRASSO: noi sappiamo da altre fonti che questo libro girava, glielo facevano vedere alle riunioni.

SPATUZZA G.: girava, si.

Proc. GRASSO: no, io ho detto alle riunioni.

SPATUZZA G.: no, c’era.

Proc. GRASSO: lui, chi?

SPATUZZA G.: GRAVIANO c’era.

Proc. GRASSO: ma GRAVIANO c’era?

SPATUZZA G.: si.

Proc. GRASSO: quelli che dovevano operare? O quelli della zona di Brancaccio?

SPATUZZA G.: no, lui.

Proc. GRASSO: e quindi vi danno le istruzioni. Quindi lei parla con GRAVIANO, GRAVIANO significa il libro su Firenze, dove ci sono gli uffizi, il Ponte Vecchio e qualche altra cosa, ma lei non si ricorda quale.

SPATUZZA G.: si.

Proc. GRASSO: e quindi a Roma avevate il libro pure?

SPATUZZA G.: no.

Proc. GRASSO: e come mai? A Roma non ce n’è di bisogno?

SPATUZZA G.: perché Roma era più, che ci potevamo muovere senza.

Spatuzza smentisce un’altra versione di Scarantino.

Proc. GRASSO: ma avevate la casa di attesa?

SPATUZZA G.: no, no.

Proc. GRASSO: non avevate questa casa? La casa che aveva detto Giovanni SCADUTO? Non ve l’hanno messa a disposizione questa casa?

SPATUZZA G.: no, era una cosa che neanche ci potevamo mettere con questa casa.

Proc. GRASSO: lo ha detto SCARANTINO e Giovanni SCADUTO, che avevano affittato questa casa.

SPATUZZA G.: no, io non ne sapevo niente.

Proc. VIGNA: e lei dove dormiva a Roma?

SPATUZZA G.: in un posto che.

Proc. GRASSO: in una famiglia palermitana?

SPATUZZA G.: no, no.

Proc. VIGNA: che va a dormire, in via che Ghetaua? (via Dire Daua, a Roma, ndr) Che non so dov’è?

Proc. GRASSO: quindi tra l’organizzazione di Firenze e l’organizzazione di Roma, lei che è uno pratico, dico lì Firenze, scegliamo un obiettivo con i GRAVIANO e andiamo; a Roma non c’è bisogno; a Milano qualcuno lo aiuta?

SPATUZZA G.: no, mi trovano sul posto.

Proc. GRASSO: e poi, sostanzialmente chi lo aiutò, sempre parlando di casa, una famiglia palermitana?

SPATUZZA G.: si.

Proc. GRASSO: però sta parlando in generale di Milano.

SPATUZZA G.: contatti.

Proc. GRASSO: contatti. E qualche indicazione la può dare?

SPATUZZA G.: infatti c’è il problema della strada di ritorno che.

Il procuratore Vigna dà l’impressione di spazientirsi sulla mancanza di dettagli concreti e nomi e cognomi nelle risposte di Spatuzza. E a un certo punto prova ad andare al dunque chiedendogli se a Milano lo abbia ospitato “uno che era al maneggio ai cavalli”. Al maneggio ai cavalli era ufficialmente delegato Vittorio Mangano, ospite nella villa di Silvio Berlusconi e sospettato in diverse inchieste di essere il tramite tra I fratelli Graviano e Berlusconi stesso. Spatuzza non dà a Vigna le risposte che Vigna cerca: ma nel 2014 racconterà di avere detto agli stessi due magistrati, in un altro colloquio precedente a questo nel 1997, di “fare attenzione a Milano 2”, per metterli su quella pista.

Proc. VIGNA: perché qui si appoggiava a qualche palermitano che vive a Milano?

SPATUZZA G.: questo, che non so se è palermitano.

Proc. VIGNA: chi l’ospitava, eh? Non sa?

Proc. GRASSO: questo che l’ospitava.

SPATUZZA G.: no, non lo so

Proc. VIGNA: era uno che era al maneggio ai cavalli?

SPATUZZA G.: no, non lo so

Proc. GRASSO: pulito, oppure? Ma scusi, questi che erano a Milano erano poi in un’altro posto?

SPATUZZA G.: no, solo qua

Proc. GRASSO: solo a Milano.

Proc. VIGNA: era uno pulito che aveva un certa posizione sociale?

SPATUZZA G.: no, a me il posto che mi hanno individuato era un posto a basso a livello, gente non di ceto sociale abbastanza alto.

Grasso e Vigna tornano a chiedere a Spatuzza chi “gli copriva le spalle”: Spatuzza conferma che qualcuno c’era, ma nega di essersene interessato.

Proc. VIGNA: io non capisco che uno dalla età di 10 anni come lei, con GRAVIANO eravate come fratelli; che il GRAVIANO inizia questa strategia e la porta. E non ci sia stato un discorso tra lei e GRAVIANO: chi ci para le spalle? Chi ci protegge? Come mai si fanno queste cose?

SPATUZZA G.: non chiedevo questa cosa perché ci sono vissuto in questa cosa e risono riuscito.

Proc. GRASSO: mentre siete in giro, il discorso con GIULIANO

SPATUZZA G.: non ce ne hanno.

Proc. GRASSO: fra voi, nella squadra, GRAVIANO pare che si potesse. Tra voi, ve li ponevate questi problemi, dice: ma.

SPATUZZA G.: questo ciclo, da me in poi, tutte queste persone che sono, erano tutti gentazza ehm. Se lei pensa che io mi oseggiavo a dire brizzi a lui Giuseppe, lei pensa che. Che poi sti quattro, fra di loro parlavano e faceva palazzi e castighi, e poi non c’era niente.

Proc. GRASSO: quindi lei dice che non erano affidabili. Sempre un discorso che va a mare. Questi discorsi tra GIULIANO e ROMBO, per esempio, o GIULIANO e CIARAMITARO o ROMBO e CIARAMITARO.

SPATUZZA G.: pensavano a qualche cosa e spartevano tutti questi bigliettini per fare credere sa che, ma poi non c’era niente.

Proc. GRASSO: però, lei è convinto che qualcuno che parava le spalle.

SPATUZZA G.: si, indubbiamente. Certo.

Proc. GRASSO: però io questo volevo capire. Tra Firenze organizzata in un certo modo, per dire: andate a mettere l’autobomba lì. Quando poi ridicono di andare a fare un contatto, dopo un certo tempo lei ancora non è riuscito a localizzare bene, perché c’è maggio, no? Poi c’è giugno, e finisce. Quando avete aspettato prima di fare? Riesce a collegare? Quest’è che lei parte per andare a Roma?

SPATUZZA G.: le partenze sono state parecchie, e poi io ci andavo a Roma solo per questo.

Proc. GRASSO: ci andava per altre cose?

SPATUZZA G.: certo.

Proc. GRASSO: ma lei come partiva per andare a Roma?

SPATUZZA G.: con il treno.

Proc. GRASSO: con il treno. Quindi non sa se eh. Ha un nome particolare? Ma l’albergo?

Proc. VIGNA: mi sembra che lei ha detto di un nome particolare, Madruzza.

SPATUZZA G.: Matruzza.

Proc. GRASSO: quindi in treno, e non si ricorda quando ha iniziato? Se, primo porta l’esplosivo e poi porta altre cose. Un conto è portare a Firenze, sempre da Roma passate.

SPATUZZA G.: siamo stati parecchio, quindi non.

Proc. GRASSO: non se lo ricorda. Però, un certo tempo è passato.

SPATUZZA G.: certo.

Proc. GRASSO: non è che. Dice: facciamo Firenze, Roma, Milano e torniamo. Passa un certo tempo, dopo di che si prepara l’organizzazione. Ecco, questa organizzazione è assolutamente più complessa, perché si tratta di colpire più obiettivi contemporaneamente, anche in città diverse, e nella stessa città. Ci doveva essere un orario che doveva essere a mezzanotte, mi pare di aver capito, poi per varie cose, un minuto più o un minuto prima a Roma, c’è che poi ci sarà successo qualche cosa che riuscivano a lasciare la macchina al posto giusto, lei così ha detto, giusto?

SPATUZZA G.: si.

Proc. GRASSO: ma, a questo, c’è in più il fatto dei messaggi e delle lettere mandati ai giornali. Ora, questo tipo di organizzazioni diverse, a chi è che è venuta in mente? E doveva avere un significato diverso rispetto a quello di prima, o no? Dico, lei ha compreso benissimo il discorso che ho fatto? Cioè, qualcuno disse: facciamo una cosa più in grande; facciamo una cosa che mette più terrore. Perché a Milano, un fatto isolato; qua, aspetta là, aspetta qua, cioè uno pensa che sia tutta una cosa organizzata su tutto il territorio nazionale e contemporaneamente capace, una organizzazione capace di mettere in atto.

SPATUZZA G.: tutto quello era, più segnali.

Grasso e Vigna cercano di farsi dire meglio da Spatuzza quale fosse l’obiettivo della campagna di stragi mafiose, che le inchieste principali hanno sempre messo in relazione con l’intenzione dei responsabili di ottenere qualcosa dallo Stato. Spatuzza parla della possibilità di ottenere condizioni migliori per i detenuti di mafia sottoposti a regimi particolarmente severi. Dice che “sono supposizioni mie” ma Vigna e Grasso parlano di “guerra civile” e “colpo di Stato”: e Spatuzza conferma.

Proc. GRASSO: ecco, io volevo capIre. GRAVIANO, avete parlato di questo tipo di organizzazione? Non è che.

SPATUZZA G.: si doveva fare questa situazione e poi basta: dobbiamo fare, dobbiamo dare. Sono poi delle fasi che lui non mi diceva: stiamo faciannu o stamu faciannu per questo. Una volta che ci scappo, per dire, per dare un po’ di libertà a queste persone ca su tutti consumati.

Proc. VIGNA: per dare?

Proc. GRASSO: libertà a queste persone che sono consumate, cioè il motivo era fare liberare dalle carceri.

SPATUZZA G.: avere dei benefici.

Proc. GRASSO: e chi li doveva dare sti benefici?

SPATUZZA G.: qualcuno s’avanzò.

Proc. VIGNA: come?

Proc. GRASSO: s’avanzò, qualcuno si fece avanti, si fece sotto. Ma scusi, se qualcuno si fece sotto, che bisogno c’è di andare a mettere le bombe, se già qualcuno si fece sotto?

SPATUZZA G.: sistemare. Dice: faciti chistu e poi lo dovevano sistemare loro. Sono supposizioni mie.

Proc. GRASSO: si, sono supposizioni sue, o magari ha accenno a qualcosa di GRAVIANO?

SPATUZZA G.: impressione che.

Proc. GRASSO: quindi, qualcuno si fa sotto, e nel farsi sotto suggerisce come bisognava fare per aggiustare le cose. Ma, con questa strategia che doveva culminare con fatto dell’Olimpico, si va verso la guerra civile.

SPATUZZA G.: sì, e là e che loro.

Proc. GRASSO: si va verso cioè un colpo di Stato si può fare, era questo quello che doveva avvenire?

SPATUZZA G.: se non si ottiene quello che si ha, una volta che si iniziò con questa guerra, e mi ci pare che poi ritornavano indietro. Quando è partito è partito, che poi ci doveva essere un vincitore. Sicuramente.

Proc. GRASSO: e quindi doveva essere qualcosa che lei comprende bene che come l’organizza lei, in più obiettivi contemporaneamente aumenta il grado di terrore e siamo quasi a una guerra civile, giusto? Siamo a un colpo di Stato, siamo a un qualcosa di grave che sta succedendo, era questo quello che dovevate?

SPATUZZA G.: sì.

Proc. GRASSO: e l’avevano suggerito questo?

SPATUZZA G.: mano mano poi lo capisci che te ne rendi conto: ma qua stiamo avendo uno scontro viaru.

Proc. GRASSO: soprattutto poi con i Carabinieri che sono una Istituzione in Italia, giusto?

SPATUZZA G.: certo.

Proc. GRASSO: quindi, quando dopo Padre Puglisi le dicono Carabinieri; qualcuno aveva ancora interesse che si avesse l’impressione che si andava verso un colpo di Stato. Ma, era per farlo veramente? O perché poi qualcuno evitasse di farlo con un soluzione poi democratica?

SPATUZZA G.: non lo so questo. Se non cercano i risultati mica, una notte potevano appiccare chissà. È una strategia.

La ricostruzione prevalente è che a interrompere le stragi fu l’arresto dei fratelli Graviano, a Milano il 27 gennaio 1994. Il 23 gennaio – ma la data fu ricostruita solo molti anni dopo, con il “pentimento” di Spatuzza – era stato preparato un attentato allo Stadio Olimpico di Roma, durante la partita Roma-Udinese, che fallì perché non funzionò il telecomando che doveva far esplodere una bomba. Le inchieste sulla cosiddetta “trattativa” ipotizzano che ci fossero state concessioni da parte di autorità dello Stato che poi furono ritirate, con un cambio di approccio che portò all’arresto dei Graviano. Secondo le domande di Grasso – che probabilmente riprende precedenti dichiarazioni di Spatuzza – l’arresto dei Graviano fu reso possibile da qualcuno che lo decise per interrompere la successione di attentati.

Proc. GRASSO: e poi perché non si continuò più? Perché, nel gennaio 94, quando fallisce, per un motivo banale del telecomando.

SPATUZZA G.: vengono arrestati i GRAVIANO.

Proc. GRASSO: ma qualcuno sapeva chi frequentavano a Milano i fratelli GRAVIANO. Era un modo anche per bloccare la strategia.

SPATUZZA G.: certo. Può darsi che là si è chiusa.

Proc. GRASSO: e l’hanno chiusa quelli che non ne volevano più sapere e bloccano tutto.

SPATUZZA G.: certo, tranne che poi si è chiuso il contatto.

Proc. GRASSO: Giuseppe chiese il contatto con quelle persone che avevano suggerito di andare avanti.

SPATUZZA G.: certo.

Proc. GRASSO: questa è la sua ipotesi. Noi stiamo facendo ipotesi, non è che stiamo facendo; noi stiamo ragionando insieme su queste cose. Quindi, secondo lei qualcuno forse sapeva che si doveva fare una cosa contro i Carabinieri, una volta che non si fa, vengono arrestati GRAVIANO?

Proc. VIGNA: vengono arrestati GRAVIANO.

Proc. GRASSO: vengono arrestati GRAVIANO?

SPATUZZA G.: certo.

Proc. VIGNA: dopo pochi giorni, una settimana o due. E a questo punto si chiude il contatto.

Proc. GRASSO: si chiude il contatto. Quindi i GRAVIANO avevano il contatto.

SPATUZZA G.: dopo l’arresto di loro anch’io mi sono messo da parte.

Proc. GRASSO: in cosa nostra? In che senso? Mi faccia capire.

Spatuzza racconta cosa gli successe dopo l’arresto dei Graviano: venne fatto “uomo d’onore”, ma ebbe problemi con il boss Bagarella. E un altro boss, Provenzano, lo voleva ammazzare tramite il suo vice Benedetto Spera.

SPATUZZA G.: si era chiusa un po’ di più i ehm erano.

Proc. GRASSO: chi?

SPATUZZA G.: BAGARELLA.

Proc. GRASSO: siamo nel gennaio 94.

Proc. VIGNA: non si chiusa tanto perché poi lo fanno uomo d’onore nell’estate 95.

Proc. GRASSO: venne inserito dopo, tra gennaio 94 e il 95, per il territorio lo fanno uomo d’onore e...

SPATUZZA G.: tutto il gruppo, che era abbastanza ehm.

Proc. GRASSO: facendolo uomo d’onore se lo mettono sotto le loro, giusto?

SPATUZZA G.: poi nasce lo scontro con Benedetto SPERA.

Proc. GRASSO: SPERA.

SPATUZZA G.: e poi chighi vuannu ammazzari a mia.

Proc. GRASSO: vogliono ammazzare lei, perché lei aveva ammazzato qualcuno?

SPATUZZA G.: no, perché con Giuseppe non passava buon sangue e quindi ero.

Proc. GRASSO: Giuseppe, praticamente.

SPATUZZA G.: non era di buon viso.

Proc. GRASSO: e come parlavate di questo scontro.

SPATUZZA G.: no, noi non facciamo niente. Dopo l’arresto di...

Proc. GRASSO: BAGARELLA.

SPATUZZA G.: e altre persone palermitane, chistu VITALE fu attenzionato a livello.

Proc. GRASSO: pure, dopo l’accordo, perché prima c’è BRUSCA che lei ha buoni rapporti.

SPATUZZA G.: sì.

Proc. GRASSO: questo VITALE, perché?

SPATUZZA G.: perché praticamente cercavano di abbracciare tutte queste zone.

Proc. GRASSO: quindi estendere la loro influenza su zone di Palermo, come Porta Nuova, Brancaccio e così via, giusto? Siccome, ammazzando lei si metteva ci mettevano qualcuno dei loro che controllavano, questo era il progetto.

Proc. VIGNA: volevo dire una cosa. Quella notte in cui avvengono gli attentati alle Chiese di Roma, si staccano i collegamenti telefonici con Palazzo Chigi, non ne sa nulla?

SPATUZZA G.: no. Tranne che sempre quella ala che si appoggiava a noi, può darsi che hanno fatto il discorso della bomba messa.

Proc. GRASSO: come, c’è qualcuno dall’esterno, lui ha la sensazione che va seguendo e comunque interviene per altre cose.

SPATUZZA G.: si. Fra i due litiganti il terzo gode.

Proc. GRASSO: senta, lei nell’agosto 93, si certo.

Proc. VIGNA: questa al cos’è? Che tipo?

SPATUZZA G.: per ora non esiste. Questi dopo sono stati un po’ affiancati a noi però non esiste completamente.

Proc. GRASSO: Pietro MANGANO? Nino MANGANO? O altre persone?

SPATUZZA G.: no, se ehm.

Grasso approfitta di una serie di omonimi citati per chiedere più esplicitamente a Spatuzza di Vittorio Mangano. E poi, ancora evidentemente dentro “il quadro in mente” che i magistrati hanno bisogno di verificare, insiste molto su un soggiorno in Sardegna dei fratelli Graviano: cercando di ricostruire possibilità dalle cose che Spatuzza dice e non dice, e alludendo a “belle donne e la personalità”. Ma Spatuzza dice solo che era “a pescare” o a fare “un lavoro”.

Proc. GRASSO: senta, e l’altro MANGANO, Vittorio MANGANO, lei?

SPATUZZA G.: no, mai conosciuto.

Proc. GRASSO: non ha mai saputo nulla che potesse interessare.

SPATUZZA G.: no.

Proc. VIGNA: vogliamo sospendere?

Proc. GRASSO: perché c’è già, con quello eravamo d’accordo che lei.

Proc. VIGNA: ah, va bene.

Proc. GRASSO: io però vorrei capire una cosa. In Sardegna che ci andate a fare?

SPATUZZA G.: no, mai stato in Sardegna.

Proc. GRASSO: risulta da un viaggio insieme a TACCHINI Fabio.

SPATUZZA G.: Biagio?

Proc. GRASSO: risulta dai suoi spostamenti che lei è stato in Sardegna nell’agosto 93.

SPATUZZA G.: o tramite telefono. Ma risulta la mia presenza?

Proc. VIGNA: dal cellulare.

Proc. GRASSO: dal cellulare.

SPATUZZA G.: no, è stato un ponte radio.

Proc. GRASSO: che vuol dire?

SPATUZZA G.: no, io mi trovavo in un posto, ero più vicino alla Sardegna.

Proc. GRASSO: il posto qual è? Cosi controlliamo in ponte radio. Il posto più vicino alla Sardegna col ponte radio, Non lo vuole dire?

SPATUZZA G.: stavamo lavorando al mare, in un posto più vicino alla Sardegna.

Proc. VIGNA: però, che personaggio è? Questa è la mia, eh?

Proc. GRASSO: quindi lavoravate a mare, fa una telefonata, ah! Il contrabbando di ashishiss, le tonnellate che avete portato?

Proc. VIGNA: no, deve essere qualche, no.

SPATUZZA G.: gli ho detto a mio figlio di portare il motorino.

Proc. GRASSO: di...?

SPATUZZA G.: ci dissi che papà deve scappare. Siccome c’era che ehm si affaccia col motorino.

Proc. GRASSO: quindi c’è qualche progetto per fare.

Proc. VIGNA: eh!

SPATUZZA G.: no, una battuta di pesca.

Proc. GRASSO: lo avrebbe detto subito e non c’era bisogno. Eh, ecco! Era in barca con questa persona, ecco perché non lo vuole dire. Era ospite in barca assieme a GRAVIANO, perché era agosto, girava attorno alla Sardegna.

Proc. VIGNA: che anno?

Proc. GRASSO: 93, dopo le stragi gli fanno fare le vacanze, in una bella barca con belle donne e la personalità, questo. Ecco perché non lo vuole dire.

Proc. VIGNA: perché non ce lo racconta, C’era qualcuno?

SPATUZZA G.: dovevo andare a pescare.

Proc. GRASSO: così, chi sa che ci fa pensare, magari è una cosa che non può dire perché; non è che ci deve dire con chi era, ci deve dire.

SPATUZZA G.: sono andato per lavoro.

Proc. GRASSO: per lavoro, a mare. Comunque, nei pressi della Sardegna, agosto.

Proc. VIGNA: agosto del 93, i GRAVIANO erano a Forte dei Marmi. Forte dei Marmi che sta in Versilia, agosto del 93, i fratellini erano lì, nella villa a Forte dei Marmi.

Proc. GRASSO: poi in Sardegna.

Proc. VIGNA: con la ragazza. Poi sono andati anche in Sardegna, in una villa.

SPATUZZA G.: il problema non è con chi erano loro.

Proc. VIGNA: siccome lei non ci vuol dire con chi era.

SPATUZZA G.: no, ero lì per lavoro, a mare. Poi dice lei: la Sardegna. Ma uno che a mare non c’è strata, che capisce dove si trova.

Proc. VIGNA: era una barca?

SPATUZZA G.: sì.

Proc. VIGNA: bella. Non è in vacanza in Sardegna?

SPATUZZA G.: no.

Proc. VIGNA: è partito da Palermo?

SPATUZZA G.: no.

Proc. GRASSO: ah ecco, il traffico di armi, ecco che cosa era. Ci sono arrivato, il lavoro è lavoro. Potevano farsi un arsenale per la guerra civile, è questo il problema, no? Se uno deve fare la guerra civile si deve armare, è così, o no?

Spatuzza approfitta della piega che hanno preso le insistenze di Grasso per cambiare discorso e protestare contro le modalità del suo arresto: secondo lui la polizia ha cercato di ucciderlo, sparando senza necessità. Spatuzza era stato arrestato a Palermo il 2 luglio 1997 – un anno prima di questo colloquio – con un grande dispiego di uomini che lo avevano sorpreso in un’auto parcheggiata e che avevano sparato molti colpi, ferendolo, quando aveva tentato di scappare disarmato.

SPATUZZA G.: la Squadra Mobile di Palermo la voleva fare la guerra civile.

Proc. GRASSO: qualcuno in particolare?

SPATUZZA G.: tutti, tutti.

Proc. GRASSO: vabbè, quelli fanno il loro lavoro.

SPATUZZA G.: il suo lavoro è ammazzare i cristiani?

Proc. GRASSO: a chi hanno ammazzato?

SPATUZZA G.: il mio arresto.

Proc. GRASSO: scusi, ma lei ha fatto le stragi e non lo dovevano arrestare?

SPATUZZA G.: ma no a sparare per ammazzare.

Proc. GRASSO: può darsi qualcuno aveva detto: questo domani può parlare e quindi lo ammazziamo. Lei che pensa una cosa del genere?

Proc. VIGNA: non ho capito.

Proc. GRASSO: dice che nel corso dell’arresto, praticamente hanno tirato per ammazzare.

Proc. VIGNA: no, no.

SPATUZZA G.: come no, io.

Proc. VIGNA: uhm.

Proc. GRASSO: delitti che passano fra le.

Proc. VIGNA: ma, un colpo solo?

SPATUZZA G.: 5 colpi, tutti nel vetro.

Proc. GRASSO: nel vetro della macchina?

SPATUZZA G.: vetro della macchina.

Proc. VIGNA: vabbè, queste sono da distanze.

SPATUZZA G.: io sono nella macchina, messo così. E a colpo, così, ntierra c’era. A parte che c’ho tutti i referti medici, che quando uscito, e sono sailbati. E poi più in là, ce ne parliamo con la squadra mobile.

Proc. GRASSO: ah, perciò non può volere bene la Squadra Mobile.

SPATUZZA G.: come?

Proc. GRASSO: no, era solo una battuta.

Proc. VIGNA: chissà quante ne ha fatte di guerra civile, fra di voi.

Proc. GRASSO: lei dice, ma è una. Però avevate delle armi, anche.

Proc. VIGNA: eh!

SPATUZZA G.: questa è.

Proc. GRASSO: c’era questa idea?

SPATUZZA G.: no, per niente.

Proc. GRASSO: no, non cadiamo nell’equivoco.

SPATUZZA G.: no, per niente.

Proc. GRASSO: quindi, questa cosa dell’agosto del 93, lavora a mare, ma non riusciamo a capire cosa. Lei non vuole dire con chi era perché non vuole coinvolgere altre persone, giusto? Questo è il motivo, perché lei dice che è il mio lavoro, perché non ci sarebbe il motivo di dire il nome delle altre persone. Quindi è un lavoro, dice, che possono fare loro. Mi sta facendo spuilniciare, come si dice. Vabbè, rispettiamo quello che dice lei. Quindi lei è sicuro che dicendo il tipo di lavoro si individuano le persone? Non può essere un lavoro così agganciato alle persone da farle identificare. Lo sa che è una specie di rebus? È una enigmistica, non riesco proprio ad immaginarla questa cosa, ma anche nel rebus qualche indizio lo danno per come si deve fare.

SPATUZZA G.: diciamo un lavuru a mare.

Proc. GRASSO: un lavoro al mare, ha qualche indizio.

SPATUZZA G.: tonno? Mesi estivi sono?

Proc. GRASSO: no.

SPATUZZA G.: tonnare, le ha tolte.

Proc. GRASSO: le tonnare?

SPATUZZA G.: c’è il discorso anche sigarette.

Proc. GRASSO: vabbé.

Grasso rinuncia a ottenere di più sulla Sardegna: Spatuzza spiega delle sue esigenze rispetto alla detenzione e poi racconta di come a Roma cercasse di individuare le famiglie dei pentiti che si erano trasferite lì.

SPATUZZA G.: ci hanno chiuso le finestre.

Proc. VIGNA: come?

SPATUZZA G.: ci hanno chiuso le finestre.

Proc. GRASSO: ci hanno messo l’aria condizionata.

SPATUZZA G.: ci hanno chiuso tutte le finestre.

Proc. VIGNA: sigillate?

SPATUZZA G.: no, col vetro.

Proc. GRASSO: vetro antiproiettile.

SPATUZZA G.: no, tutto messo a fasce.

Proc. GRASSO: e questo non vi fa parlare? Vi dà problemi.

SPATUZZA G.: certo, abbiamo fatto un po’ di sciopero.

Proc. GRASSO: vabbè, ora parliamo col Direttore.

Proc. VIGNA: allora, bisogna che lei faccia queste cose: decidere se fa questo passo; eh?

Proc. GRASSO: scusi, un’ultima cosa. Lei, nel 96 era a Roma?

SPATUZZA G. : 96?

Proc. GRASSO: 96, la sua presenza a Roma.

Proc. VIGNA: è quella dell’edicola.

Proc. GRASSO: eh. 96 o 97.

SPATUZZA G.: u fattu ehm. Io perché mi interessavo a Roma, perché era vicino a queste famiglie di pentiti. Quindi, tramite lui avevo questo. Siccome, per abitudine nostra, dovevamo comprare il Giornale di Sicilia, quante edicole a Roma? 4 o 5; io prendevo ogni mattina in una edicola e qualcuno lo dovevo beccare.

Proc. GRASSO: qualcuno che conosceva.

SPATUZZA G.: certo.

Proc. GRASSO: perché non è che conosceva tutti?

SPATUZZA G.: no, però qualcuno sicuramente cadeva.

Proc. GRASSO: perché lei sapeva che erano a Roma.

SPATUZZA G.: la maggior parte tutti a Roma.

Proc. GRASSO: quindi era questo il motivo. Poi c’è di mezzo che si mette in contatto con qualcuno per sostanze stupefacenti.

SPATUZZA G.: a gente vicino a questo GAROFALO.

Proc. GRASSO: lei è sicuro di questo? Oppure?

SPATUZZA G.: no, io ho detto: qui c’è da guadagnare qualche cosa.

Grasso riprova a ottenere di nuovo informazioni da Spatuzza su chi possa avere deciso l’arresto dei Graviano per interrompere la campagna di attentati, implicando che fosse qualcuno che ne era informato e precedentemente complice.

Proc. GRASSO: quindi, lei l’arresto di GRAVIANO lo ha visto come un blocco della strategia perché non c’è più bisogno di continuare. E se succedeva lo scoppio dei Carabinieri? Cioè lo scoppio della bomba.

SPATUZZA G.: ancora erano liberi.

Proc. GRASSO: ancora erano liberi e andavano. La prima settimana del 94.

Proc. VIGNA: sì.

SPATUZZA G.: penso di sì.

Proc. GRASSO: e quindi, secondo lei, questa strategia chi l’ha suggerita? Lei, poco fa, ha detto che qualcuno si è fatto sotto, dopo di che gli dice basta. Ecco, voglio dire, ecco la strumentalizzazione. Se è così è evidente la strumentalizzazione; cioè, io prima ti faccio andare avanti, ti faccio rischiare e ti faccio fare cose terribili per la nazione, dopo di che, quando non mi servi più ti blocco. Non so, capace che lo dovevano arrestare perché avevano messo in atto delle strategie; perché sostanzialmente i GRAVIANO sono a mettere in atto strategie. Quindi, sono gente che aveva rapporti contatti esclusivamente con i GRAVIANO.

SPATUZZA G.: certo.

Proc. GRASSO: perché se io so che facendo l’arresto dei GRAVIANO, la strategia blocca, so che è un contatto esclusivo. Chi era questo contatto esclusivo?

SPATUZZA G.: non ho la minima idea.

Proc. GRASSO: è come il lavoro al mare.

SPATUZZA G.: no.

Proc. GRASSO: sinceramente perché non c’è motivo, perché lei questa cosa è libero di non dire.

SPATUZZA G.: no.

Proc. GRASSO: nemmeno la può ipotizzare. Però i GRAVIANO. Scusi, se lei doveva urgentemente parlare con i GRAVIANO che si trovavano fuori sede, come faceva?

SPATUZZA G.: aspettavo.

Proc. GRASSO: aspettava? E se era una cosa urgente, è mai possibile che non li rintracciava, aveva un recapito? Un telefono?

SPATUZZA G.: aspettavo. Ci vediamo tra 15 giorni.

Proc. GRASSO: e dove? a Milano? A Palermo? a Forte dei Marmi? Ma a lei come lo rintracciavano?

SPATUZZA G.: no, io non dovevo prendere mai l’iniziativa, anche se sapevo dove potere trovare.

Proc. GRASSO: quindi, lei non doveva prendere l’iniziativa di rintracciarli, doveva aspettare, qualsiasi cosa succedeva. I GRAVIANO rintracciavano a lei.

SPATUZZA G.: se c’era qualche cosa lo devo decidere io.

Proc. GRASSO: se era una cosa, diciamo, del mandamento? Lo poteva decidere lei; se invece era qualche altra cosa?

SPATUZZA G.: aspettavo.

Proc. GRASSO: e i soldi come li facevano avere? Quelli che.

SPATUZZA G.: no, io non avevo.

Proc. GRASSO: chi li gestiva i soldi della cassa?

SPATUZZA G.: io gestione non ne avevo. Quando io avevo bisogno, li chiedevo e li avevo.

Proc. VIGNA: a chi?

SPATUZZA G.: a questo interessato per questi soldi.

Proc. GRASSO: perché GRAVIANO non c’era?

SPATUZZA G.: no. Però qualunque cifra che io avevo bisogno a livello personale.

Proc. GRASSO: mai una banca, sempre soldi in contanti? Perché voi vi spostavate in continente, dovevate affrontare delle spese.

SPATUZZA G.: soldi in contanti.

Proc. GRASSO: soldi contanti. Persone della famiglia di Brancaccio che vi davano questi soldi. Lei, naturalmente non vuole dire il nome. Sono arrestati? Sono liberi?

SPATUZZA G.: qualcuno è arrestato.

Proc. VIGNA: sarà il BASILE?

SPATUZZA G.: no, neanche li conosco questi.

Proc. GRASSO: senta, Giuseppe BASILE?

SPATUZZA G.: non lo conosco.

Proc. GRASSO: non lo conosce.

Vigna e Grasso provano con un altro tema, quello della fantomatica “Falange armata”, un nome che è stato usato nella storia d’Italia per moltissime rivendicazioni senza che si sia mai provata l’effettiva esistenza di un’organizzazione reale, e che era stato usato anche a proposito di alcuni degli attentati mafiosi.

Proc. VIGNA: si è mai pensato di, a parte queste lettere, di rivendicare questi fatti con una sigla? Allora si ricorda, non so se, veniva divulgato.

Proc. GRASSO: la falange armate.

Proc. VIGNA: ecco, che cosa è questa falange armata? L’avete mai trattata?

SPATUZZA G.: no, no.

Proc. GRASSO: ha sentito di questa?

SPATUZZA G.: sì, sì.

Proc. VIGNA: lei aveva saputo che MAZZEI aveva visto questa bomba vecchia a Firenze?

SPATUZZA G.: questa del processo?

Proc. VIGNA: no, prima.

SPATUZZA G.: no, no.

Proc. GRASSO: senta, che doveva avvenire un attentato nei miei confronti, lei lo aveva saputo?

SPATUZZA G.: no, per niente.

Proc. GRASSO: perché, dopo FALCONE e BORSELLINO.

SPATUZZA G.: no, no.

Proc. GRASSO: non lo aveva mai saputo?

SPATUZZA G.: no, no.

Proc. GRASSO: quindi è una cosa che a certi. Il rapporto con GRAVIANO con BRUSCA?

SPATUZZA G.: un po’ raffreddati.

Proc. GRASSO: anche dopo l’arresto di RIINA?

SPATUZZA G.: si, si.

Proc. GRASSO: e con BAGARELLA?

SPATUZZA G.: questi lo sa che strategia hanno usato sempre?

Proc. GRASSO: questi, dice i corleonesi.

SPATUZZA G.: di parlare con me e sparlare a loro.

Proc. GRASSO: parlare?

SPATUZZA G.: parlare con me e sparlare a loro. Parlo con lui e sparlo a lei.

Proc. VIGNA: ho capito.

SPATUZZA G.: penso di avere nei miei riguardi ehm ma quando io mi pighiu u me cori e tu dugnu nde manu e tu hai ipocrisia. E poi le cose si capiscono sempre tardi, pazienza.

Proc. GRASSO: quindi, BAGARELLA ha lo stesso modo.

SPATUZZA G.: ma tutti u fannu.

Proc. GRASSO: GRAVIANO però, nel momento in cui, potevano prendere iniziative senza avere un accordo di massima con BAGARELLA.

SPATUZZA G.: si, BAGARELLA solo era.

Proc. GRASSO: e GRAVIANO se fosse andata avanti sta cosa diventavano i padroni di Cosa Nostra.

SPATUZZA G.: ca certu.

Proc. GRASSO: era questo il loro l’obiettivo. Dico, loro avevano il rapporto, diciamo in un certo senso, squisito.

SPATUZZA G.: la potenza loro erano. Sti corleonesi a chi hanno avuto ora? Tutto quello che hanno fatto hanno avuto sempre bisogno della manovalanza, perché iddi non hanno avuto l’esercito.

Proc. GRASSO: quindi erano dei Re senza esercito.

SPATUZZA G.: senza esercito.

Proc. GRASSO: per contatti, i GRAVIANO; questi contatti erano personali dei GRAVIANO? Oppure, che so, passati ad altri.

SPATUZZA G.: so solo che RIINA una stima.

Proc. GRASSO: RIINA?

SPATUZZA G.: si.

Proc. GRASSO: quindi, i GRAVIANO per conto di RIINA?

SPATUZZA G.: so che li stimava tantissimo.

Proc. GRASSO: senta, quando nel 95, a lei lo fanno uomo d’onore, lei entra in qualche discorso con BRUSCA, DI TRAPANI, GUASTELLA.

SPATUZZA G.: sì.

Proc. GRASSO: si riprende il discorso.

SPATUZZA G.: sì, si deve riprendere.

Proc. GRASSO: e perché? Lei qua partecipa alle riunioni, che Palermo presenta tutto il mandamento.

Spatuzza spiega che dal 1995 la risposta dei suoi nuovi boss agli arresti compiuti non fu più di attentati indiscriminati e bombe, ma di obiettivi singoli e fucili di precisione, e magistrati da uccidere. Perché “il popolo si era rivoltato” contro “queste cose che facevano del male alle persone”.

SPATUZZA G.: visto che avevamo subito tutti questi arresti, tutte queste persone, ehm si cerca di fare qualcosa contro lo Stato. Però l’obiettivo singolo.

Proc. GRASSO: uno. E chi era?

SPATUZZA G.: uno qualsiasi.

Proc. GRASSO: e chi doveva sparare? Sparare col fucile? Cosa Nostra mai ha usato questo.

SPATUZZA G.: e ora ehm.

Proc. GRASSO: quindi doveva essere singolo per una sola persona?

SPATUZZA G.: si, si.

Proc. GRASSO: in che cosa, Economia? Della Politica? Della.

SPATUZZA G.: obiettivi.

Proc. GRASSO: si, ma avete discusso di obiettivi veri?

SPATUZZA G.: obiettivi CASELLI e altri Procuratori.

Proc. GRASSO: per quanto riguarda il discorso che riguardava i figli, lei c’era alla proposta che aveva fatto GUASTELLA?

SPATUZZA G.: ma questa, che anno?

Proc. GRASSO: 95.

SPATUZZA G.: no, nel 95 GUASTELLA era già messo da parte.

Proc. GRASSO: c’era DI TRAPANI.

SPATUZZA G.: prima che DI TRAPANI era in galera.

Proc. GRASSO: era DI TRAPANI che aveva proposto questa cosa?

SPATUZZA G.: no, DI TRAPANI è in galera arrestato.

Proc. GRASSO: gestiva GUASTELLA quando DI TRAPANI viene arrestato? Zona San Lorenzo e Resuttano.

SPATUZZA G.: si.

Proc. GRASSO: questa cosa rientrava in una strategia, lei ha saputo?

SPATUZZA G.: no, no.

Proc. GRASSO: dai giornali. Ma faceva parte di quelle cose di cui, che qualcuno parlava anche di interrompere l’oleodotto che collegava o qualcosa del genere, lei non ha mai sentito?

SPATUZZA G.: no.

Proc. GRASSO: lei quando è stato fatto uomo d’onore?

SPATUZZA G.: 95.

Proc. VIGNA: settembre 95, dopo l’estate del 95.

Proc. GRASSO: già è cambiata la situazione politica, c’è stato un cambiamento.

SPATUZZA G.: ma noi di politica non.

Proc. GRASSO: non ne discutete. Dopo quando, da quando lei è stato fatto uomo d’onore, si incomincia a discutere di queste cose? Non so se sono chiaro.

SPATUZZA G.: dopo un quindici giorni.

Proc. GRASSO: quindi, fine 95.

SPATUZZA G.: si incomincia a discutere.

Proc. GRASSO: quindi, si discute di riprendere questa strategia.

Proc. VIGNA: obiettivi singoli.

Proc. GRASSO: obiettivi singoli. Ma si è parlato di mettere una macchina con bomba lì?

SPATUZZA G.: questi erano accantonate.

Proc. GRASSO: queste cose erano accantonate. Ma lei si era armato per sparare col fucile?

SPATUZZA G.: dovevano arrivare questi fucili.

Proc. GRASSO: dovevano arrivare?

SPATUZZA G.: si. lo non ne avevo.

Proc. GRASSO: lei non aveva questi fucili di precisione.

SPATUZZA G.: avevo queste cose che mi potevo allenare.

Proc. GRASSO: il luogo, se già individuato, dove sparare con questo fucile?

SPATUZZA G.: no, ognuno cominciava a fare allenamento e poi quando era al cento per cento, e due e tre si faceva l’operazione.

Proc. GRASSO: per riprendere la strategia per l’attacco alle Istituzioni?

SPATUZZA G.: però con singola persona.

Proc. GRASSO: e come mai non l’autobomba?

SPATUZZA G.: a parte che, secondo me, non c’era più il canale con quei contatti che penso io; poi perché il popolo si ruppe, si è rivoltato contro queste cose che facevano un po’ del male alle persone.

Proc. GRASSO: innocenti.

SPATUZZA G.: innocenti.

Proc. GRASSO: quindi, significava colpire chi ritieni responsabile.

SPATUZZA G.: si, obiettivi.

Proc. GRASSO: obiettivi. Lei, quando allude a quella persona che pensa lei, che possono suggerire le autobombe, a chi sta?

Proc. VIGNA: che cosa.

Proc. GRASSO: per capirci di che cosa stiamo parlando.

SPATUZZA G.: certo che qualche mente c’era.

Proc. GRASSO: la va a collocare a...?

SPATUZZA G.: a nessuno, perché quando io incomincia a interessarmi di queste cose, dopo queste stragi ho incominciato ad avvicinarmi un po’ alla politica, compravo Panorama, l’Espresso.

Proc. GRASSO: si, ma lei dice che a questi contatti non c’erano più con quelle persone che ottenevano suggerire l’uso della autobomba, giusto?

SPATUZZA G.: certo.

Proc. GRASSO: lei entra nella attività completa, e quindi per dire che non più, è dall’inizio che non c’erano perché ne parlavate, giusto?

SPATUZZA G.: certo.

Proc. GRASSO: sono apparati esterni a Cosa Nostra.

SPATUZZA G: io penso di sì.

Proc. GRASSO: giusto?

SPATUZZA G: sì.

Proc. GRASSO: esterni a Cosa Nostra che però potevano suggerire un certo tipo di attività sovversivo terroristico, qualcosa del genere. Questo intende dire?

SPATUZZA G: no, in questi incontri che abbiamo avuto abbiamo parlato esclusivamente di fare obiettivi singoli.

Proc. GRASSO: obiettivi singoli per evitare stragi di innocenti, in modi di non avere il ritorno negativo della Cosa Nostra in Sicilia, eccetera.

SPATUZZA G: si.

Proc. GRASSO: e fare qualche cosa che riprendesse, perché ormai non si da più come vantaggio, si doveva ottenere.

SPATUZZA G: certo.

Proc. GRASSO: e quindi all’agosto del 95.

Proc. VIGNA: ecco.

Proc. GRASSO: io penso che, se abbiamo qualche altra cosa?

Proc. VIGNA: vabbè. Sospendiamo l’interrogatorio e poi ritorna un attimino, mezzogiorno. Si accomodi.

Dopo una pausa Vigna e Grasso tornano a interrogare Spatuzza sui Graviano e sui loro soggiorni al nord. “Baiardo” è un ex consigliere comunale di Omegna che si occupò in modi e tempi mai chiariti esattamente di organizzare e gestire quei soggiorni in diversi luoghi dell’Italia centrosettentrionale. Spatuzza spiega come sarebbe andato l’arresto dei Graviano a gennaio 1994 (in una trattoria, grazie all’informazione che si trovavano lì), che a Grasso e Vigna interessa per capire se sia stato progettato o “occasionale”. Allora, alle ore 12, viene ripreso il colloquio investigativo con SPATUZZA Gaspare. Si era sospeso perché doveva essere interrogato dal magistrato. Prego. Allora, lei non ha mai conosciuto un certo BAIARDO? Uno che stava al nord.

SPATUZZA G: no. palermitano?

Proc. VIGNA: che aveva ospitato i GRAVIANO, questo risulta da accertamenti, perché anche lui aveva ospitato i GRAVIANO in una certa epoca.

SPATUZZA G: no.

Proc. GRASSO: feste di Natale, nel 93.

SPATUZZA G: no, quando loro si spostavano era difficile comunicare la dimora.

Proc. VIGNA: secondo lei, per quello che avrebbe saputo Cosa Nostra, avete fatto poi una piccola inchiesta. Com’è che si arriva all’arresto dei fratelli GRAVIANO?

SPATUZZA G: l’accertamento che ho fatto io dopo?

Proc. VIGNA: eh.

SPATUZZA G: c’è stato che certo Carmelo aveva una relazione con una ragazza.

Proc. GRASSO: questo Carmelo aveva una relazione con una ragazza.

SPATUZZA G: tra l’altro era sposato. Questa a sua volta aveva una relazione con un Carabiniere.

Proc. GRASSO: la ragazza.

SPATUZZA G: tramite queste confidenze hanno messo nelle tracce di SPATOLA Salvatore (interferenze impediscono l’ascolto della conversazione).

Proc. GRASSO: per potere continuare lei aveva bisogno di un altro po’ di tempo.

SPATUZZA G: certo.

Proc. GRASSO: sul tempo nessuno per fermarla o di proseguire, giusto?

SPATUZZA G: certo.

Proc. GRASSO: e poi l’arrestano.

SPATUZZA G: sì,

Proc. GRASSO: lei attribuisce a questo fatto della, quasi una interruzione di quella che doveva essere una strategia. Perché sia visto così, ci deve essere qualcuno che dice: fermiamo la strategia e fate sparire gli altri. Se invece avviene in maniera occasionale.

SPATUZZA G.: non penso.

Proc. GRASSO: non pensa, occasionale. Su che cosa basa queste, deve avere rapporti con qualcuno che lo. Questo aveva una ragazza; la ragazza aveva una relazione con un Carabiniere. Lui dice che la ragazza può avere assunto qualche informazione sui GRAVIANO, che va a finire nei Carabinieri. Seconda ipotesi: la cognata di SPATOLA Salvatore. Questo è quello che è riuscito ad accertare lei, però lei sta dicendo che come si muovevano i GRAVIANO non si potevano prendere.

SPATUZZA G: sì.

Proc. GRASSO: ce lo fa capire?

SPATUZZA G: era un cervellone Giuseppe, è, non era. Di come si muoveva lui è difficilissimo prenderlo, che dubitava pure di me che io mica parlavo, perché siamo cresciuti assieme. Quindi, figuriamoci dagli altri.

Proc. GRASSO: lei si incontra con SPADARO e D’AGOSTINO.

SPATUZZA G: che devono andare a Milano.

Proc. GRASSO: gli devono portare dei soldi (interferenze impediscono l’ascolto della conversazione). Nella zona di Villabate, Bagheria si sa che queste zone qua sono sempre state.

Proc. VIGNA: e come mai è difficile prenderli, secondo lei?

SPATUZZAG: perché è vinnuto.

Proc. GRASSO: perché è venduto?

Proc. VIGNA: vorrei chiederle questo: quando, per fortuna va male questa storia dell’Olimpico, lei incontra i GRAVIANO?

SPATUZZA G.: no.

Proc. VIGNA: non li incontra. Loro sapevano che dovevano venire in un certo giorno, il giorno era messo alla determinazione sua? Questo non c’è dubbio.

Proc. GRASSO: di altri contatti che ci possono essere con altre persone? Cioè, sta riprendendo il vecchio rapporto che c’era tra Cosa Nostra, lei vuole dire, e alcuni rappresentanti di Istituzioni, come per esempio il maresciallo dei Carabinieri.

SPATUZZA G: può darsi che ehm.

Proc. GRASSO: quindi lei dice che dentro ci sono quelli vecchi ed è possibile che sono messi in atto dai vecchi, lei allude a PROVENZANO.

SPATUZZA G: si, SPERA.

Proc. GRASSO: SPERA, lo stesso.

SPATUZZA G: e poi qualche altro che.

Proc. GRASSO: per prendere SPERA cosa bisogna fare?

SPATUZZA G: il discorso che faccio io non è niente di sicuro. Ci basta pensare.

Proc. GRASSO: sono sue deduzioni. Lei ritiene che se lo Stato vuole arrestare qualcuno ci riesce?

SPATUZZA G: allo Stato ci interessa la pace.

Proc. GRASSO: la pace. E chi la può garantire questa? PROVENZANO?

SPATUZZA G: ehm.

Proc. GRASSO: però, nonostante la pace c’era VITALE che tanta pace non metteva. L’arresto di VITALE è pure per?

SPATUZZA G: cioè, seguire a fimmina. Io sono un ragazzo e quindi penso negli anni e speriamo anche per poi che potete onestamente.

Grasso e Vigna chiedono consigli a Spatuzza per ottenere eventualmente la collaborazione con la giustizia dei fratelli Graviano, spiegando che senza maggiori informazioni non possono sostenere le ipotesi investigative: ancora non abbiamo certezze sulla strage di Portella della Ginestra del 1947, dice Grasso per tornare a temi familiari, siciliani; Spatuzza gli ricorda che non le abbiamo neanche sulla strage di Piazza Fontana a Milano del 1969.

Proc. GRASSO: capire. Ma se non ci aiuta nessuno è difficile potere capire queste cose. Se chi sa, anche piccole che possono aiutare le indagini e non ci aiuta, e difficile che i vecchi misteri, che ancora discutiamo di GIULIANO.

SPATUZZA G: di Piazza Fontana.

Proc. GRASSO: di Piazza Fontana. Discutiamo di Portella della Ginestra. Ancora non sono chiarite e quindi se non c’è un aiuto dall’interno mi pare difficile. Noi abbiamo testi, ma per chiarire le cose come stanno senza nessuna tesi precostituita, però.

SPATUZZA G: ho fatto la domandina per avere la residenza qua.

Proc. GRASSO: perché ormai lei è stato assegnato qua. Lei ai processi ci va?

SPATUZZA G: non.

Proc. VIGNA: come si fa a fare un discorso con i GRAVIANO, si deve parlare tutti e tre insieme. Gli da retta lei ai GRAVIANO?

SPATUZZA G: no.

Proc. VIGNA: no?

SPATUZZA G: pensavo che andavo a finire a Spoleto, quando abbiamo avuto il trasferimento. Perché la maggior parte sono là.

Proc. GRASSO: per convincere i GRAVIANO a venire dalla nostra parte, secondo lei non c’è mezzo?

SPATUZZA G.: dru, il problema è il carcere.

Proc. GRASSO: e non c’è anche lei in carcere, uno fa un figlio per poi non vederlo.

SPATUZZA G: purtroppo sono scelte e dobbiamo pagare le conseguenze.

Proc. GRASSO: quindi, ritornando all’arresto dei GRAVIANO, lei crede a questo fatto che sono persone assolutamente non all’altezza di poter essere i GRAVIANO. Lo vede come un fatto sintomatico che chi doveva arrestare, aveva le informazioni o lo fa arrestare ad altri?

SPATUZZA G: infatti.

Proc. GRASSO: sarebbe interessante sapere a chi ha telefonato la cognata di SPATARO Salvatore. Cioè, a chi ha telefonato, con chi ha avuto il contatto? Perché se ha telefonato ai Carabinieri, il discorso.

SPATUZZA G: io penso se la seconda ipotesi che faccio io è la telefonata, io con tutti che so ehm il 113, deve contattare e il primo impatto qual è? Il 113, quindi già è da discutere anche questo.

Proc. GRASSO: vabbè, se qualcuno l’aveva contattata prima e poi dice: ti faccio sapere.

SPATUZZA G: può essere pure.

Proc. GRASSO: c’era qualcuno che aveva rapporti con questi Carabinieri? Magari per altre cose, faceva l’informatore?

SPATUZZA G.: no.

Proc. GRASSO: chi lo sapeva che SPATARO doveva incontrare i GRAVIANO?

SPATUZZA G: nessuno, neanche io.

Proc. GRASSO: neanche lei. D’AGOSTINO, si.

SPATUZZA G: no, neanche lui.

Proc. GRASSO: SPATARO lo sapeva.

SPATUZZA G: no, tra SPATARO e...

Proc. GRASSO: quindi che GRAVIANO è stato ospitato in casa di D’AGOSTINO, lei lo sapeva?

SPATUZZA G: no, mai.

Proc. GRASSO: mai. Quindi, nell’ambiente per SPATARO che doveva andare a Milano, lo sa? E allora, scusi, la cognata come fa a telefonare?

SPATUZZA G: perché fra loro parlavano.

Proc. GRASSO: e quindi SPATARO lo sa.

SPATUZZA G: si che lo sa.

Proc. GRASSO: se lo sa la cognata.

SPATUZZA G: SPATARO lo sa, ma non lo viene a dire a mia.

Proc. GRASSO: non viene a raccontarlo a lei.

Proc. VIGNA: il verbale lei lo firma?

SPATUZZA G: non lo firmo.

Proc. VIGNA: non lo firma.

Proc. GRASSO: si prende atto della volontà di non sottoscrivere il verbale.

Proc. VIGNA: per il verbale riassuntivo. Allora, sono 12 e 45, SPATUZZA rifletta a quello che si è detto, va bene?

SPATUZZA G: va bene.

Trattativa Stato-Mafia: le balle di Spatuzza. Enrico Deaglio "rivela" che nel 1997 il killer pentito mise a verbale le sue accuse su Berlusconi e la mafia, e scrive che furono "riscontrate e secretate fino al 2015". Ma non è affatto così, scrive Maurizio Tortorella il 5 maggio 2018 su Panorama. UPDATE: Questo articolo è stato pubblicato il giorno 5 maggio 2018. A un mese dalla sua pubblicazione abbiamo ricevuto una nota di commento da parte di Enrico Deaglio che pubblichiamo in fondo.

Il Venerdì di Repubblica rivela questa settimana un clamoroso scandalo giudiziario. L’articolo s’intitola, perentoriamente, “Affaire Stato-mafia, riassunto per i distratti” e racconta una storia pazzesca: che il processo sulla Trattativa Stato-mafia, appena conclusosi a Palermo, è stato fondamentalmente un errore, “un misto di grottesco e surreale” che ha spinto la giustizia su un binario morto, lontano dalla verità. E attenzione, perché l’autore dell’articolo è Enrico Deaglio, uno che di cose di Cosa nostra s’intende parecchio. Deaglio, va detto, scrive veramente da Dio, è avvincente. Racconta di un’altra Trattativa tra mafia e politica, totalmente diversa e ben più suggestiva rispetto a quella dei pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo. Deaglio rivela che il vero depositario della verità, un pentito siciliano, fu ascoltato in carcere già nel 1997 da due alti magistrati. Il pentito raccontò loro fatti precisi e circostanziati sulle stragi del 1992-93, fatti che chiamavano in campo una precisa forza politica. Ai due alti magistrati, scrive Deaglio, il pentito raccontò “una storia terribile”. E cioè che “l’omicidio Borsellino l’aveva organizzato lui, e così le stragi di Roma, Firenze e Milano (…) Ad organizzare tutto – da un’idea di Marcello Dell’Utri, disse il pentito - era stata la famiglia mafiosa dei Graviano, socia in affari della Fininvest, per facilitare la neonata Forza Italia e per prendere il potere politico”. Che cosa accadde di quell’interrogatorio? Perché per 21 anni quella “storia terribile” è stata tenuta nascosta? Tuffandosi nell’ennesimo mistero d’Italia, Deaglio aggiunge che “tutte quelle rivelazioni vennero riscontrate (cioè verificate e trovate vere, ndr), ma secretate (cioè poste sotto il segreto investigativo, ndr). Solo nel 2015 l’opinione pubblica venne informata del caso, invero piuttosto imbarazzante, ma la questione non suscitò il minimo interesse”. Grande storia, davvero. Però… è meglio fare un po’ d’ordine. Il pentito di cui scrive Deaglio è più che noto alle cronache ed è tutt’altro che un uomo nascosto, o che non ha avuto modo di raccontare quelle presunte “verità”: è Gaspare Spatuzza, uno dei più tardivi e controversi collaboratori di giustizia dell’era moderna. Spatuzza, va detto, ha una storia che veramente travalica il più cupo dramma shakespeariano: accusato di sei stragi e 40 omicidi, ha collezionato numerosi ergastoli e ora si redime avvolgendosi in una specie di crisi mistica. Tra i suoi delitti c'è il peggio della cronaca nera siciliana degli ultimi decenni: dall'uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santino che fu sciolto nell’acido, all’omicidio di Don Pino Puglisi, fino alla partecipazione alla strage di Paolo Borsellino e della sua scorta. Malgrado questo mostruoso curriculum, Spatuzza è stato però in qualche modo riscattato dalle cronache nostrane. Non perché si sia convertito alla religione, ma perché, dopo essersi pentito nel 2008, ha dichiarato che, creando Forza Italia, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri si trasformarono nei nuovi referenti della mafia nella Seconda Repubblica. Spatuzza ha raccontato anche che le stragi del 1992-93, così come il mancato eccidio all’Olimpico di Roma del 1994, furono di fatto concordate con i vertici di Forza Italia (che in realtà ancora non esisteva): insomma, le stragi mafiose sarebbero state un “favore” nei confronti del partito nascente contro la vecchia guardia politica della Prima Repubblica, che veniva costretta a ritirarsi. Sempre secondo Spatuzza, in cambio Cosa nostra avrebbe avuto il suo nuovo referente politico in Berlusconi e nei suoi accoliti. Il problema è che Deaglio sul Venerdì scrive che Spatuzza consegnò già nel 1997 tutte queste presunte “verità” alla giustizia. E per le sue rivelazioni scelse personaggi di prim’ordine: “Convocò l’allora procuratore antimafia Piero Luigi Vigna e il suo vice Pietro Grasso” scrive Deaglio. Il problema, aggiunge il giornalista, è che “tutte quelle rivelazioni vennero riscontrate, ma secretate”, restando così inutilizzate per troppo tempo. Insomma, insiste Deaglio: c’è stata una vera Trattativa Stato-mafia totalmente diversa da quella di cui abbiamo letto finora; e anche la sentenza di Palermo di due settimane fa “non avvicina ad alcuna verità”.  Perché purtroppo, “la narrazione alternativa sulle stragi, fornita 21 anni fa ai vertici della magistratura italiana, si è intanto persa per strada”. Eppure le cose non stanno proprio così. E anche la storia è un po’ diversa, a partire da alcuni dettagli importanti: l’interrogatorio, infatti, si svolse non nel 1997, ma nel giugno 1998; e Spatuzza non “convocò” affatto i due alti magistrati antimafia, perché furono loro ad andare a sentirlo nel carcere dell’Aquila. Spontaneamente. Ma, soprattutto, il verbale di Spatuzza non fu affatto “secretato”. Né fu nascosto all’opinione pubblica, al contrario di quanto scrive Il Venerdì, ferendo così la memoria di un ottimo, grande magistrato nel frattempo deceduto (Vigna) e anche il buon nome di chi fu il suo successore a capo della Procura nazionale antimafia (Grasso), per poi essere eletto presidente del Senato della Repubblica. In realtà non fu nemmeno stilato un verbale. Perché quello con Spatuzza, in quel momento ancora non collaboratore di giustizia, non fu un normale interrogatorio in carcere, bensì un “colloquio investigativo”. La differenza non è da poco: il “colloquio investigativo” (un contatto con magistrati della Procura nazionale antimafia che per esempio può servire a convincere un mafioso a collaborare con la giustizia) è infatti un atto estraneo alla normale procedura penale. Il colloquio si svolge senza difensore e in modo informale, e se anche viene registrato ne è esclusa la verbalizzazione. Per tutto questo, correttamente, la legge proibisce che gli elementi raccolti in quel modo possano essere utilizzati in ambito processuale. Questo è il vero motivo per cui quel colloquio del giugno 1998 non è mai stato usato in un’aula di giustizia: non perché “fu secretato”, come scrive Deaglio, ma solo perché la legge vieta espressamente che atti di quel genere siano utilizzabili in giudizio. Quanto al contenuto di quel colloquio, vale soltanto la pena di ricordare che le presunte “rivelazioni” di Spatuzza su presunti accordi tra la mafia e Berlusconi sono state ripetute molte altre volte in varie aule di giustizia, ma sono anche state giudicate “infondate”. È stato così soprattutto nelle motivazioni della sentenza (19 novembre 2010) con cui i giudici della seconda sezione della Corte d'appello di Palermo hanno confermato la condanna di Marcello Dell'Utri a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Un capitolo delle motivazioni di quella sentenza è dedicato proprio a Spatuzza, descritto come "uno dei più attivi protagonisti della strategia stragista": le sue dichiarazioni sono state tacciate dai giudici della Corte d’appello di Palermo come "tardive e inattendibili”, oltre che contraddette “dall’assoluta mancanza di qualsivoglia riscontro”. Scrivono i giudici di Spatuzza: “S’impone pertanto di ritenere il contributo che egli ha offerto nel processo sostanzialmente inconsistente, oltre che privo di significativa rilevanza e valenza probatoria”. Già. A volte servirebbe proprio un riassunto per i distratti…

Riceviamo da Enrico Deaglio e volentieri pubblichiamo: Ringrazio per l’attenzione con cui Panorama, a firma di Maurizio Tortorella, ha ripreso la mia ricostruzione dell’affaire “Stato mafia” e della recente sentenza di Palermo. Ci sono però inesattezze ed errori che mi preme segnalare. In particolare - contro i dubbi espressi nell’articolo - confermo che Gaspare Spatuzza, a partire dal 1997, anno del suo arresto a Palermo, diede ai magistrati della DNA Vigna e Grasso molti elementi utili per ricostruire la stagione delle stragi di cui era stato protagonista. Per brevità: Spatuzza disse che le stragi furono eseguite dalla famiglia Graviano su input di Marcello Dell’Utri. Non solo, ma spiegò nel dettaglio che polizia e procura di Caltanissetta avevano commesso un clamoroso errore giudiziario riguardo alla strage di via D’Amelio, per cui diverse persone innocenti stavano scontando l’ergastolo. Tutto il verbale del “colloquio investigativo” (sono settanta pagine di domande e risposte, che vi invito a leggere, e - perché no? - a pubblicare) si trova digitando su Google “Spatuzza - Il Post”; il testo (purtroppo non ancora l’audio) è riemerso - e nessuno ha spiegato dove era stato fino ad allora -  solo dopo 17 anni, nel 2015. Nel 1998 le dichiarazioni di Spatuzza alla DNA, che contenevano notizie di reato, fatti allora sconosciuti, notizie di depistaggio, e impulsi per ulteriori indagini, furono comunicate - come prevedono la legge, il buon senso e la morale civile- agli investigatori e alle procure interessate, ma rimasero senza effetto per almeno dieci anni. Nel 2005 Massimo Ciancimino fornì ai magistrati di Palermo una versione alternativa delle stragi, a partire dall’omicidio Borsellino. Diversi magistrati siciliani gli credettero e imbastirono il processo detto della “trattativa”, che io - per bontà d’animo - ho definito surreale, invece che scandaloso. Segnalo ancora che il verbale del colloquio investigativo è stato infine acquisito agli atti al processo Borsellino Quater ed è quindi un atto pubblico, utilizzabile da chiunque (procure, avvocati, opinione pubblica, giornali, CSM) sia ancora interessato a ristabilire la verità. Per quanto mi riguarda, ho depositato tutti i documenti in mio possesso alla Commissione Antimafia nel novembre 2017, su invito della Commissione stessa. Ho aggiunto anche la mia interpretazione dei fatti, chiedendo espressamente che non fosse secretata. Cordiali saluti, Enrico Deaglio

Il teste di Stato-mafia: «Parlo per deduzione…». Il pentito Ciro Vara è stato sentito come test durante il processo che vede imputati tre poliziotti, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra, scrive Damiano Aliprandi il 6 Febbraio 2019 su Il Dubbio. «La trattativa Stato-mafia come elemento scatenante della strage di Via d’Amelio? È una mia deduzione scaturita dal processo sulla trattativa, perché nessun mafioso ne faceva cenno». In compenso, l’unico elemento certo per testimonianza diretta è che il motivo scatenante è stato il maxiprocesso, anche se ammette in una precisa domanda fatta dall’avvocato Giuseppe Seminara -, c’era anche preoccupazione per il dossier mafia- appalti. Quindi una deduzione fatta a posteriori quando si svolse il processo sulla trattativa e due elementi certi per testimonianza diretta. A parlare è il pentito Ciro Vara sentito come test durante il processo che vede imputati i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. Parliamo del primo giorno di trasferta a Roma per il collegio del tribunale di Caltanissetta, presieduto da Francesco D’Arrigo. Ciro Vara, già appartenente, anche con posizione di vertice, alla cosca mafiosa di Vallelunga Pratameno, dopo un periodo di latitanza, si è costituito il 26 aprile 1996 ed ha iniziato a collaborare con la giustizia dal 5 dicembre 2002. Si avvicina a cosa nostra, in particolare alla famiglia dei Madonia, negli anni 70 e, in seguito strinse amicizia con Piddu Madonia. Per inquadrare meglio, ricordiamo che il mandamento di Vallelunga Pratameno, comprendeva le famiglie di Caltanissetta, San Cataldo, Marianopoli e Villalba. Giuseppe “Piddu” Madonia – originario di Vallelunga Pratameno ha ricoperto la carica di reggente provinciale di Cosa Nostra ed è riuscito in passato ad estendere l’influenza del mandamento anche in talune zone di Enna e di Catania. L’arresto di Madonia e gli arresti conseguenti la collaborazione di Ciro Vara avevano spinto le famiglie del mandamento verso una ristrutturazione profonda. Di cosa ha parlato sostanzialmente Ciro Vara? Cose già dette durante altri processi con l’aggiunta di mafia appalti, scaturita da una precisa domanda fatta dall’avvocato difensore dei poliziotti Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Ma non solo, ha anche dovuto ammettere che la trattativa non era mai stata nominata dai boss mafiosi, ma che c’è arrivato tramite una deduzione ascoltando il processo di Palermo sulla trattativa. Rispondendo alle domande del pm Luciani, Vara ha riferito dei vari tentativi di aggiustamento del maxi processo tramite l’avvicendamento di alcuni magistrati e soprattutto persone del mondo imprenditoriale. Poi racconta di un colloquio avvenuto in carcere con Giovanni Napoli (ex fedelissimo di Provenzano). «Ad un certo punto – racconta il pentito – Napoli mi disse che dopo la strage di Capaci Peppino Comparetto (uomo d’onore di Prizzi, nel palermitano) aveva avvicinato il presidente del tribunale di Palermo Piraino Leto, suocero di Paolo Borsellino, e gli aveva detto che Borsellino si doveva mettere da parte, Piraino Leto lo aveva però mandato a quel paese». Il pentito Vara dice che quel “mettersi da parte’ era riferibile alla trattativa che era in corso tra Stato e mafia. Ma è qui che poi interviene l’avvocato Seminara durante il controesame. «Lei – domanda l’avvocato – ha fatto riferimento al tentativo di avvicinamento del suocero e per questo ha detto che successivamente ha pensato a questa vicenda come ricollegabile ‘ ad un’opzione di trattativa’, piuttosto che agli incarichi che avrebbero potuto toccare a Borsellino. Questa è una sua deduzione?» Risponde Vara: ‘ No io quando Napoli mi dice questa cosa, noi parlavamo delle stragi a cavallo tra Capaci e Via d’Amelio. Quando durante il processo sulle stragi mi facevano le domande, il magistrato Messineo in particolare nel 2002- 2003 mi chiedeva ma perché si doveva no mettere da parte? in quel periodo non sapevo il motivo, nessuno mi aveva parlato che c’era una trattativa e dicevo ‘ ma forse perché lo volevano fare procuratore nazionale antimafia’ ». Vara aggiunge: «Poi quando è venuta fuori il discorso della trattativa avanzata dai Pm di Palermo io ho collegato che quella frase si riferiva a quello». L’avvocato, sempre nel controesame, a quel punto gli dice: «E’ una sua deduzione quindi. Se lei successivamente acquisisce degli elementi, fa una ricostruzione sulla base di una sua deduzione, cioè attribuisce a una o ad un’altra ipotesi una valenza che dipende dalla sua interpretazione». Vara ammette che si tratta di una deduzione e cerca anche di darne una spiegazione: «Ma perché in Cosa Nostra bastava una frase. Il dott Napoli mi ha detto una frase con un ghigno e io l’ho conservato, la sua espressione il suo tono, la sua frase è sempre una mia deduzione. A me nessuno ha detto che c’era una trattativa». Il pentito Vara ha solo una certezza, come fonte diretta: il motivo della strage è nel maxiprocesso. A questo però si aggiunge anche un’altra preoccupazione, certa, che avevano i mafiosi. L’avvocato gli domanda se sapesse del dossier mafia appalti. «Sì, lo seppi proprio da Madonia nel 91 – risponde Vara – perché era coinvolto Angelo Siino che era un collettore di tangenti di politici e imprenditori verso i mafiosi e lui portava tanti soldi a Madonia». Poi aggiunge: «Nel 91 mi parlava di mafia appalti e c’era preoccupazione nel mondo imprenditoriale e politico». La preoccupazione dell’indagine dei Ros era contestuale alla pendenza del procedimento, visto che l’informatica viene depositata nel 1989 in Procura su insistenza di Giovanni Falcone. L’avvocato Seminara chiede al pentito se ha notizia che l’indagine mafia appalti potesse costituire «un antefatto o una causa» sull’omicidio di Borsellino. Risponde Vara che Madonia gli disse solo che era la sentenza del maxiprocesso e la preoccupazione dell’esito della cassazione il motivo della pianificazione delle stragi. Ma il pentito Vara poteva sapere tutto fino in fondo? No, perché ammette che alla Commissione Regionale in cui si decidono le stragi, lui non era presente. In sintesi, soprattutto sulla cosiddetta trattativa, solo deduzioni a posteriori.

LE ORIGINI DELLA MAFIA.

Lo Stato nemico dei briganti e amico dei mafiosi, scrive il 20 giugno 2018 su "La Repubblica" Enzo Ciconte, Storico. Perché il Regno d’Italia, nato a seguito dell’impresa di Garibaldi e dei suoi Mille, sin dall’inizio sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione con camorra e mafia – che altro non sono che gruppi di uomini che si organizzano e decidono di agire contro le leggi usando la violenza per ottenere potere e ricchezza – mentre invece combatte i briganti fino alla loro sconfitta finale? È una scelta precisa: lo Stato combatte i briganti fino alla loro distruzione mentre per il fenomeno mafioso imbocca la strada opposta della tolleranza e della convivenza i cui effetti si prolungheranno fino ai nostri giorni. La scelta è fatta per assecondare i desideri della grande proprietà terriera meridionale che non accetta di venire incontro alle richieste dei contadini di avere almeno uno spicchio di terra delle immense distese di terreni demaniali usurpati con l’inganno dai galantuomini. Queste erano le terre richieste, mentre non c’erano rivendicazioni su quelle dell’aristocrazia il cui possesso legittimo non era posto in discussione. Ma la grande paura avvinse gli uni e gli altri preoccupati del fatto che, intaccate le proprietà degli usurpatori, si finisse col prendere di mira anche le altre proprietà. La conseguenza fu che tutte le richieste contadine furono respinte. E ciò alimentò il grande brigantaggio sociale che spinse alla macchia gran parte dei contadini che avendo occupato le terre temevano di finire in prigione. Nel fenomeno del brigantaggio, oltre ai criminali, ci furono anche coloro che sognavano il ritorno al potere della dinastia dei Borbone. Ma il brigantaggio di marca borbonica e clericale è durato un paio d’anni; s’è spento ben presto nell’illusione di far risorgere due regni – quello dei Borbone e quello del papa – che non sarebbero più tornati. Persino il generale Govone, uno degli ufficiali più noti di quel periodo, ha colto la radice sociale del fenomeno scrivendo che il brigantaggio era “una vendetta sociale la quale talora si applica con qualche giustizia”. I proprietari si sentirono minacciati dai briganti e protetti dai militari mentre i mafiosi erano visti, dagli stessi proprietari, come persone con le quali si poteva trattare e raggiungere un accordo. La lotta al brigantaggio è affidata con ampia delega ai militari che mostrano la loro inadeguatezza ad affrontare un nemico che usa i metodi della guerriglia invece che quelli insegnati nelle accademie militari più prestigiose e moderne. La carica in terreno aperto era un sogno irrealizzabile e le bande brigantesche erano favorite perché conoscevano i posti, i boschi e gli anfratti delle montagne. Il potere affidato ai militari ha determinato nei fatti la supremazia sulle autorità civili, prefetti e magistratura compresa. Hanno origine ben presto conflitti tra apparati dello Stato che si manifestano nei primi anni del nuovo Regno e che prelude ad altri, più impegnativi, conflitti. Durante il primo decennio della destra storica si sospendono le garanzie costituzionali per ragioni d’ordine pubblico. Non tutti erano d’accordo, ci furono discussioni e fondati dubbi sulla legalità dei provvedimenti che non vengono bloccati perché riguardano il Mezzogiorno; circostanza, questa, che rese la prima sperimentazione, che è una soluzione di forza, accettabile, o quasi. Eppure, nonostante un dispiegamento impressionante di militari, gli stati d’assedio e l’adozione di leggi eccezionali come la legge Pica, cresce e si rafforza la convinzione nei vertici militari – con l’avallo tacito o esplicito dei ministri e di qualche presidente del Consiglio – che per sconfiggere i briganti ci sia bisogno del terrore e di oltrepassare la stretta legalità adottando misure non consentite dalle leggi ordinarie. Nasce da questa convinzione l’idea che occorra dare mano libera ai militari che fucilano un numero enorme di persone, molte delle quali catturate senza armi in mano, arrestano i parenti dei briganti senza consegnarli alla magistratura, oppure uccidono i briganti mentre sono portati da un luogo ad un altro. Ci sono, inoltre, stragi e incendi dei paesi da parte delle truppe. S’introduce nella cultura dei militari – gran parte dei quali sono i parlamentari del nuovo Regno d’Italia – l’idea che i predecessori francesi e borbonici avevano messo in pratica: bisogna dare l’esempio e terrorizzare le popolazioni, fare stragi, bruciare paesi o case, arrestare tutti i parenti dei briganti per il solo fatto di essere parenti. Emergono una concezione e una cultura che s’impadroniscono della concreta azione dei militari, i quali non trovano ostacoli nel governo se non quando non se ne può proprio fare a meno. Questa è la ragione che spiega il fatto che nessuno degli ufficiali superiori, responsabili di stragi, di assassinii, di violazioni della legalità verrà mai punito. I vertici militari e i vertici governativi copriranno sempre chi ha commesso le violazioni. Dunque, nella lotta ai cafoni meridionali emergono i tratti illiberali e la mentalità coloniale di gruppi dirigenti che si definiscono liberali e che nella pratica sconfessano questa loro appartenenza. Un fatto è certo: la lotta, anzi la guerra vera e propria, intrapresa dai poteri costituiti contro banditi e briganti ha riguardato quasi sempre le classi subalterne, infime come vengono definite in alcuni documenti, i contadini affamati e senza terra, i poveri e i poverissimi, i braccianti senza lavoro, i soggetti più deboli. Per queste ragioni ci furono più guerre oltre a quella militare: una guerra civile che ha contrapposto selvaggiamente italiani del Nord e italiani del Sud, una guerra fratricida, paese per paese, di meridionali contro altri meridionali, una guerra di classe tra proprietari e contadini senza terre. Il brigantaggio è stato un fenomeno sociale e di classe che fu trasformato in un problema criminale. È stato un errore tragico che ha segnato la stessa formazione delle classi dirigenti meridionali ed italiane. In quegli anni di sfiducia profonda e di disprezzo verso i meridionali, sentimenti che aveva una parte della classe dirigente nazionale, si inviarono nel Mezzogiorno, oltre ai quadri dell’esercito e dei carabinieri, anche prefetti, questori, magistrati, personale amministrativo d’origine settentrionale perché solo loro avrebbero potuto risolvere i problemi della realtà meridionale, peraltro del tutto sconosciuta ai nuovi arrivati. Ma fu un’illusione che si rivelò sbagliata e dannosa. Il libro: “La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio”, Laterza

Illustri traditori del meridione, Crispi: l’eroe garibaldino, scrive Luigi Maganuco il 25 agosto 2018 su "Il Quotidiano di Gela. Gela. Abbiamo raccontato degli uomini del risorgimento Italiano, e con nostra grande sorpresa, abbiamo scoperto ch nessuno appartiene alla categoria degli onesti ma chi più chi meno si sono macchiati di crimini spaventosi, però nella vita hanno raggiunto posti di responsabilità invidiabili. Tra questi, visto che le nostre città sono pieni di questi uomini illustri, vogliamo ricordare il siciliano Francesco Crispi. Nasce a Ribera, provincia di Agrigento, di etnia Albanese nel 1818, non brillante avvocato a Napoli, fu prima carbonaro e mazziniano, complice di Orsini nell’attentato a Napoleone III. Al momento opportuno, trasformatosi in massone, divenne l’eminenza grigia, l’arruolatore e l’organizzatore della logica Garibaldina. Crispi si avvale delle sue originali e giovanili conoscenze mafiose, quando il 10 aprile del 1860 sbarcò segretamente a Messina, assieme a Rosolino Pilo e Giovanni Corrao per preparare quel disordine popolare che, provocando la repressione Borbonica, avrebbe giustificato la spedizione dei mille, ormai pronta. L’altro aspetto della missione segreta era contattare ed accordarsi con i capi dei picciotti di Carini, Terrasini, Montelepre, S. Cipirello, Piana degli Albanesi, Partinico e Trapani. Fu così che Crispi, che lo stesso Garibaldi diceva che “…arruolava tutti, in ispecia gli avanzi di galera…”, preparò gran parte del successo della spedizione dei mille. Una volta divenuto Primo Ministro del re Umberto I, soffocherà, usando un esercito che spara ed uccide, i Fasci Siciliani, facendo centinaia di morti e feriti tra i suoi conterranei: Crispi era stato un ex rivoluzionario, ex carbonaro, ex mazziniano, ex democratico, ex siciliano ma grande uomo di Stato per noi servili adulatori della malavita organizzata (da risorgimento o rivolgimento di Aurelio Vento). Nel 1887 diviene Presidente del Consiglio Italiano, ma nel tentativo di trasformare l’Italia in potenza coloniale, incappa nella disfatta africana di Adua, che provocò migliaia di morti in Abissinia e il fallimento provvisorio dell’avventura coloniale dell’Italia in Africa. Fu accusato di bigamia perché sessantenne sposò la chiacchierata giovane siracusana Lina Barbagallo, allora sposato con Rosa Monimasson, che fu l’unica donna vestita da uomo a seguirlo tra le camicie rosse garibaldine. Così, l’armata Garibaldina dei mille al porto di partenza da Quarto presso Genova assorbiva tra le sue file di piccoli borghesi spiantati e indebitati di Bergamo, una Legione Britannica, migliaia di picciotti arruolati dall’instancabile Francesco Crispi, con il permesso ottenuto dai capizona mafiosi, conosciuti e frequentati durante la sua gioventù vissuta in Agrigento. Secondo l’autore, Aurelio Vento, che cita uno scritto ironico di Massimo D’Azeglio “…quando s’è vista un’armata sbrindellata di 60.000 uomini conquistare un regno di sei milioni con la perdita di solo otto uomini e diciotto storpiati, bisogna pensare che sotto ci sia qualcosa di non ordinario…”. Il dubbio è perfettamente legittimo perché il tradimento operato dai nostri grandi uomini è eclatante e le documentazioni venute alla luce in questi ultimi anni dimostrano chiaramente come i generali e alti comandanti borbonici, si sono venduti per trenta denari ai nostri salvatori. Questi, con l’oro rubato al banco di Napoli e al banco di Sicilia, oggi venerati e ricordati nei nostri centri abitati con strade e piazze a loro dedicate per non dimenticare, hanno corrotto parte degli ufficiali borbonici. Tratteremo questo argomento e proviamo a ricordare l’onorario pagato per tradire. Un esempio eclatante è la storia del gen. Salvatore Landi, che aveva ottenuto direttamente da Garibaldi, un pagherò di 14.000 ducati, purchè nella battaglia del 15 maggio 1860, suonasse la ritirata delle forze borboniche, per permettere ai Garibaldini di dilagare e sconfiggere l’armata borbonica. L’esito della vittoria mise in crisi il grande scrittore Cesare Abba, al seguito come reporter di guerra, che aveva inventato la famosa frase indirizzata a Nino Bixio “qui si fa l’Italia o si muore”. Ma l’anno successivo il generale si presenta al Banco di Napoli per incassare il pagherò, si accorge che era falso e valeva solo 14 ducati. Aveva tradito per 13 danari e né morì di pena. Altro grande traditore fu il gen. Ferdinando Lanza che tenne bloccati i suoi 24.000 uomini al palazzo Reale per permettere ai Garibaldini di entrare a Palermo già ingrossati dei 2.000 picciotti forniti da Francesco Crispi e arruolati nel territorio (noi gelesi abbiamo dedicato una arteria importante della nostra città per i suoi meriti) Il gen. Lanza si affrettò a firmare l’armistizio di resa alle ridicole forze garibaldine, sulla nave dell’ammiraglio inglese Mundy, fermo sulla rada con una piccola flotta militare. Il gen. Lanza così potè partecipare al furto compiuto da Garibaldi al Banco di Sicilia e incassare 600.000 ducati d’oro, per spese di guerra. La ricevuta, debitamente firmata fu consegnata a Ippolito Nievo, intendente delle finanze Garibaldine. Anche questo poeta merita una arteria importante nelle nostre città meridionali. Il 20 luglio 1860 Garibaldi arriva a Milazzo e qui il capitano Amilcare Anquissola, della corvetta “la veloce”, si consegna, senza combattere, all’ammiraglio sabaudo Persano, così la flotta militare borbonica composta da 100 vascelli 796 cannoni, si consegnò alle forze Savoiarde nel porto di Napoli. La conquista fu completata quando il criminale gen. Enrico Cialdini, il 13 gennaio 1861, rade al suolo la città di Gaeta con 160.000 cannonate. Tutti gli scrittori apologetici hanno voluto mettere in evidenza la grande armata dell’eroe dei due mondi che conquista il Regno delle Due Sicilie per la sua bravura di combattente e grande stratega militare, come l’ammiraglio Carlo Pellion di Persan ex comandante borbonico, tradisce e diventa Ammiraglio del regno Sabaudo che il 20 luglio 1866, nel corso della III guerra di indipendenza, viene sconfitto pesantemente a Lissa da pochi vascelli di legno della flotta Austriaca. Atro grande traditore il gen. Pinelli che in una nota poteva cinicamente permettersi di bandire (come asserisce lo scrittore Aurelio Vento): “sua eccellenza il Ministro della guerra si rallegra con voi del vostro slancio e delle eroiche vostre gesta. Ufficiali e soldati! Voi molto operaste ma nulla è fatto quando qualcosa rimane a fare. Ancora ladroni si annidano tra i monti, correte e snidateli e siate inesorabili come il destino. Contro tali nemici la pietà è delitto! Noi li annienteremo e purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda bava”. Altra nota degna di rilievo, riguarda i fatti di Casalduni e Pontelandolfo, dove i soldati nordisti e sabaudi fecero stragi, saccheggi e stupri senza alcun processo e uccisero quattrocento persone per quaranta soldati nordisti. La stessa identica proporzione l’applicarono nel 1944 i soldati nazisti uccidendo trecento civili per trenta militari nazisti uccisi in via Rasella a Roma. E’ da mettere in evidenza l’onestà dei nazisti che non distrussero il quartiere di via Rasella a Roma, come fecero i piemontesi che saccheggiarono due centri di circa ottomila abitanti. Secondo i pennivendoli ufficiali, il massacro delle fosse Ardeatine non fu compiuto per vendetta dell’attentato di via Rasella ma per volontà del regime nazista. Così i partigiani che compirono l’attentato poterono continuare ad uccidere. A che serve ricordare questi epistemi storici? A chi servono? Sicuramente a nessuno legato ai colonizzatori nordisti o ai fanatici attuali al servizio della massoneria dominante. Hanno una enorme importanza per i meridionali onesti che tengono alla dignità e alla loro storia di uomini liberi e pensanti.

Le origini lontane della mafia. Da "Il Corriere della Sera del 5 ottobre 2000.

Caro Montanelli, I suoi libri di storia m'accompagnano da anni anche qui nel mio esilio in Spagna. Ora, però, debbo chiederle un aiuto, perché sono stanco di sentirmi sempre dire perfino dagli abitanti di questo Paese che, come italiano, sono un mafioso. Al contrario, io ricordo di avere letto alcuni suoi interventi sulle origini spagnole della mafia, ma non sono riuscito a risalirvi. Ha la pazienza (e il tempo) di aiutarmi? Giuseppe Garifo

Caro Garifo, No, ricorda male: io non posso aver scritto che le origini della mafia sono spagnole perché non lo penso. Su queste origini sono state scritte intere biblioteche. Secondo il mio amico Virgilio Titone, uno storico siciliano che, come spesso i siciliani, era un impasto di genialità e di follia, quelle origini sono piuttosto saracene e risalgono al 1200, quando l'esercito del grande imperatore Federico II - lo stupor mundi come veniva con ammirazione chiamato - ch’era appunto composto in stragrande maggioranza di saraceni, si dissolse nell’isola, e un po' per autodifesa, un po' per conservarvi qualche posizione di potere, vi costituì una società di mutuo soccorso: la mafia, appunto. È possibile, ma non ci giurerei. Come non giuro, intendiamoci, su nessuna delle altre innumerevoli teorie che sono state escogitate - ognuna con le sue brave «pezze d'appoggio» - da storici, sociologi, etnologi che a quest'argomento hanno dedicato i loro studi e la loro vita, e fra i quali non le consiglio di arruolarsi. Contentiamoci dunque di riassumere gli ultimi sviluppi della mafia, quelli che le hanno dato i caratteri attuali. Per secoli, i siciliani hanno lamentato l'assenza o l'inefficienza dei poteri centrali - arabi, normanni, spagnoli, francesi e, dall'Ottocento in poi, italiani - che si sono avvicendati sull’isola e che sempre hanno finito per lasciarli in balia dei signori feudali locali che monopolizzavano le ricchezze dell'isola, una ricchezza fatta soprattutto, anzi esclusivamente di terre. La mafia infatti (questo è accertato) ha origini agrarie, e trova i suoi fondatori in quel ceto medio, che sta fra il grande proprietario (il «barone») e il «servo» qual è considerato il contadino. Quest'elemento intermedio, che nell'Italia continentale si chiama «fattore», o «amministratore», è il «massaro», cioè il servo che, più evoluto e scaltro degli altri, diventa il «rappresentante» del barone, che alla vita di «fattoria» - come la si chiama in Toscana - preferisce quella di palazzo in città e vi consuma tutte le sue sostanze, mentre il «massaro» arrotonda le sue derubando il barone e rendendo ancor più esoso lo sfruttamento del servo. I massari sono certamente molto più efficienti dei vecchi signori e capiscono che per poterne ereditare i privilegi debbono avere dalla loro i poteri centrali, cioè quelli del governo: Giustizia, polizia, carabinieri, enti locali eccetera. Ecco la mafia «storica» quale io l'ho conosciuta una cinquantina di anni orsono nel suo ultimo grande capo, Don Calogero Vizzini (nei miei «Incontri» c'è di lui un mio ritratto che credo molto somigliante), ex massaro. La sua mafia, più che ai soldi, teneva al potere e aveva imparato a esercitarlo ricorrendo il meno possibile al sangue (non volle, per esempio, aver a che fare col bandito Salvatore Giuliano, e fu essa ad eliminarlo). A questo punto però avvenne qualcosa di traumatico. Fin allora, quando un mafioso s'inguaiava con la Giustizia, la mafia lo «esportava» in America, la cui mafia non era che una succursale o spurgo di quella siciliana. Dovendo però adattarsi a una società metropolitana, industrializzata e violenta, s'era trasformata in gangsterismo. Nel ’43, per prepararvi il loro sbarco, gli americani mandarono in Sicilia gli ex mafiosi siciliani. I quali non erano più i figli o i nipoti del «massaro», ma i figli e i nipoti del «padrino» di Puzo, col mitra in pugno e i miliardi in banca. È stata questa nuova mafia a fare piazza pulita di quella vecchia dei massari, che comunque, anche senza l'avvento dei «padrini» americani, avrebbe finito per prevalere in una società siciliana che sempre meno si basa sul desolato e giallastro latifondo baronale e sempre più somiglia a quella di una Las Vegas senza freni di tribunale e di pena di morte. Don Calogero fece appena in tempo a morire nel suo letto. Altrimenti ci avrebbero pensato i «corleonesi» di Totò Riina.

Il saggio. Esce in libreria il 6 dicembre il saggio di Salvatore Lupo «La mafia. Cento-sessant’anni di storia», edito da Donzelli (pagine XVI-416, euro 30). Nato a Siena nel 1951, lo storico Salvatore Lupo insegna nell’Università di Palermo.

Mafia, la storia delle origini. Salvatore Lupo (Donzelli) scrive sulle vicende di Cosa nostra dal XIX secolo e smentisce che le cosche siano state favorite dagli americani. Forti riserve sulle teorie complottiste, scrive Paolo Mieli il 26 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Il capomafia Michele Greco (1924- 2008), detto «il papa» per la sua autorevolezza all’interno di Cosa nostra (Ansa). Qui il boss è ritratto a Messina nel novembre 1986 durante il processo d’appello per l’omicidio del magistrato Rocco Chinnici, ucciso nel 1983 a Palermo da un’autobomba con due uomini della scorta.

La mafia nacque a metà Ottocento da una costola in un certo senso della «rivoluzione» siciliana. Questa in sintesi la tesi del libro — La mafia. Centosessant’anni di storia tra Sicilia e America — di un grande studioso di questa materia, Salvatore Lupo. Il libro tira le somme di una serie di precedenti lavori e sta per essere pubblicato da Donzelli. Qualche lontana origine del fenomeno — sostiene Lupo — può essere rinvenuta nel partito democratico del proprietario terriero Francesco Bentivegna il quale nel 1848 a Palermo guidò un manipolo di uomini per sostenere l’insurrezione antiborbonica e successivamente si collegò con i circoli radicali che — dopo la sua morte — avrebbero ispirato la sfortunata impresa di Carlo Pisacane a Sapri; lui nel frattempo aveva mobilitato una «squadra popolare» per «sollevare» nuovamente Palermo, ma era stato catturato e fucilato dai soldati borbonici. I suoi seguaci nel 1860 si schierarono con la corrente radicale garibaldina. Suo fratello, Giuseppe Bentivegna, nel 1862 sarebbe stato a fianco di Garibaldi sull’Aspromonte. Identiche considerazioni valgono per Giovanni Corrao, anche lui rivoluzionario del 1848, finito poi in prigione e in esilio. Mazziniano «spinto», Corrao fu con Garibaldi al tempo dei «Mille» e lo seguì fino alla battaglia finale sul fiume Volturno. Cospiratori antiborbonici erano stati anche due amici di Corrao, Giuseppe Badia e Francesco Bonafede. «È possibile che i Corrao e i Bentivegna», scrive Lupo con le dovute cautele, «si siano rapportati, lungo il loro percorso, anche ad elementi definibili come proto-mafiosi». Quanto a coloro, prosegue Lupo, che furono qualificati come capimafia in tempi successivi, vale a dire in età postunitaria, «troviamo nella loro biografia non pochi punti di contatto con l’esperienza rivoluzionaria». In questo senso Lupo crede «si possa dire che la mafia rappresentò il frutto tossico di una stabilizzazione post-rivoluzionaria».

Come ciò avvenne lo si può capire da un opuscolo pubblicato nel 1864 dal senatore della sinistra «moderata» Nicolò Turrisi: Cenni sullo stato della sicurezza pubblica in Sicilia. Turrisi racconta come sia nel 1848, sia nel 1860 nell’isola «era in armi tutta la vecchia setta dei ladri, tutta la gioventù che viveva col mestiere di guardiani rurali, e la numerosa classe dei contrabbandieri dell’agro palermitano». Poi, dopo l’impresa garibaldina, era mancato un governo in grado di restaurare l’ordine, sicché a quella setta di «tristi» si affiliarono altri personaggi della stessa risma. Turrisi, nota Lupo, non usa il termine «mafia», ma ricorre ad altre parole chiave: «setta» appunto, e poi «camorra», «infamia», «umiltà». In che senso «umiltà»? Spiega Turrisi: «umiltà comporta rispetto e devozione alla setta ed obbligo di guardarsi da qualunque atto che può nuocere direttamente o indirettamente agli affiliati». Due anni dopo lo stesso Turrisi chiamerà la setta con il suo nuovo nome, mafia, testimoniando davanti alla Commissione parlamentare sulla rivolta del 1866. Dirà: questi uomini armati «si fanno o si impongono guardiani della proprietà; proteggono le proprietà e ne sono protetti; ma restano malandrini; la Mafia fu protetta da’ signori che se ne valsero nel ’48». E il cerchio si chiude.

La prima volta che il termine «maffia» (con due effe) compare in un documento governativo è in una relazione del prefetto di Palermo Filippo Gualterio (nel 1865). Il funzionario spiegava che la mafia era una specie di «camorra», un’«associazione malandrinesca» in rapporto con i «potenti», a suo tempo guidata dal già citato Corrao e ora capeggiata dal suo sodale Badia. In altre parole «la faceva coincidere col partito repubblicano, col chiaro intento di delegittimarlo», osserva Lupo. L’operazione politica di Gualterio consisteva nel «mettere insieme promiscuamente l’aspetto politico e quello criminale». Il primo giuramento di mafia registrato in un rapporto di polizia è del 29 febbraio 1876. Il rito, scrive Lupo, ci rinvia non solo al futuro della mafia, ma anche al passato della rivoluzione, in particolare alle «vendite» carbonare e a quei patti «giurati» (di cui dicono le fonti sul 1848), in forza dei quali il popolo prometteva di seguire le classi superiori nella lotta contro il dispotismo borbonico, ma impegnandosi a non mettere in discussione l’ordine sociale». Dopodiché la mafia non solo trasse originariamente suggestioni o modelli dalla massoneria, ma condivise con la stessa massoneria «alcuni caratteri di fondo». Qui Lupo afferma — pur senza «voler criminalizzare la tradizione massonica», mette in chiaro — che «le cosche mafiose e le logge massoniche sono società di confratelli che si basano sull’idea del mutuo sostegno, usano rituali barocchi per l’ammissione dei neofiti, puntano sul mantenimento del segreto». E in questo sono assai simili tra loro. Nel 1874 l’ultimo governo della Destra storica, guidato da Marco Minghetti, propose una legge per l’ordine pubblico, una legge «straordinaria» e specifica per la Sicilia. Minghetti citò la statistica sugli omicidi del 1873 che vedeva l’isola in testa tra le regioni d’Italia, con un omicidio ogni 3.194 persone, laddove la Lombardia era in coda, con un ucciso ogni 44.674 abitanti. Il prefetto di Palermo, Giovacchino Rasponi, protestò per il varo della «legge straordinaria» e si dimise. Quello di Caltanissetta, Guido Fortuzzi, si disse, invece, entusiasta e volle specificare che l’idea di governare i siciliani «con leggi e ordinamenti all’inglese o alla belga, che suppongono un popolo colto e morale come colà o come almeno nella parte superiore della penisola», implica «un azzardoso e terribile esperimento». Destinato a fallire. Successivamente i sospetti di collusione si spostarono sulla destra per iniziativa del procuratore generale del re Diego Tajani, che ebbe uno scontro con il questore di Palermo Giuseppe Albanese, da lui accusato di essere il mandante di una catena di omicidi. Nel giugno del 1875 il caso arriva in Parlamento, dove il deputato della Sinistra Francesco Cordova puntò l’indice contro i banchi governativi: «Signori del governo», urlò, «il centro della maffia è nelle fila della vostra forza pubblica, i manutengoli siete voi». E quando Leopoldo Franchetti con Sidney Sonnino andò a trovare Tajani prima di «scendere» — tra il marzo e il maggio del 1876 — a studiare il «caso siciliano», l’uomo del re rivelò loro che la degenerazione del governo della Destra in Sicilia era cominciata, a suo avviso, nel 1866-67 essendo prefetto Antonio Starabba, marchese Rudinì. Il quale Rudinì, disse Tajani, «principiò a impiegare assassini contro assassini, per modo che per un assassino che distruggeva ne creava quattro». E l’uso della forza per combattere la mafia? Negli anni iniziali della storia d’Italia, quando il Paese fu governato dalla Destra storica (1861-76), «ancora non era ben consolidato il sistema delle garanzie liberali e si era appena avviato il tormentato percorso verso la democrazia politica». La prima battaglia di quell’epoca contro la mafia fu combattuta sotto il segno di un sistema di governo centralistico, autoritario, che non disdegnava di far ricorso allo stato d’assedio e di affidarsi ai militari. Accadeva che «per difendere la propria rozza idea di legalità, indulgesse ad ogni genere di sostanziale illegalismo». In alcuni periodi storici, almeno due, «la lotta alla mafia — sostiene Lupo — confinò con la negazione di valori, che per noi sono irrinunciabili, di rispetto dei diritti individuali e collettivi, insomma di libertà». La mafia, è vero, rappresenta una patologia delle relazioni sociali e dei sistemi rappresentativi. Ma, afferma Lupo, alcune delle soluzioni che storicamente sono state proposte possono ai nostri occhi essere considerate peggiori del male.Dopodiché vanno annotate anche le due stagioni, quella tardo ottocentesca della Sinistra storica e quella della prima età repubblicana, che Lupo definisce del «lungo armistizio». Ne parlò per primo, subito dopo la Grande guerra, il giurista Santi Romano, il quale notò come ai suoi tempi l’«ordinamento giuridico maggiore» (lo Stato) si mostrasse tollerante verso quelli «minori» (le associazioni) reagendo solo contro quelle che ne minacciavano il potere (le organizzazioni rivoluzionarie). La mafia poteva agevolmente essere collocata in questo schema. Sotto la minaccia delle leggi statuali, scriveva Santi Romano, «vivono spesso, nell’ombra, associazioni, la cui organizzazione si direbbe quasi analoga, in piccolo, a quella dello Stato: hanno autorità legislative ed esecutive, tribunali che dirimono controversie e puniscono, agenti che eseguono inesorabilmente le punizioni, statuti elaborati e precisi come le leggi statuali». Esse dunque, proseguiva Santi Romano, «realizzano un proprio ordine, come lo Stato e le istituzioni statualmente lecite». Lo Stato italiano (liberale-monarchico, fascista e repubblicano) ha oscillato tra fasi di tolleranza e fasi di repressione. Ma le prime sono state assai più lunghe delle seconde. Lo storico propone un paragone tra la lotta alla mafia di Cesare Mori (1926-1929) e quella degli anni Ottanta, rilevandone le differenze a partire da quelle concettuali. Il fascismo «aborriva l’idea di una spinta dal basso nonché di un’autonoma partecipazione della società civile» e «sosteneva l’incompatibilità tra logiche liberal-democratiche da un lato e legalità dall’altro». Sul piano pratico la repressione fascista fu pesante, «spesso indiscriminata» e «si accompagnò ad ogni genere di abuso». Però dai processi di quell’epoca la grande maggioranza degli imputati «uscì bene»: molte delle condanne furono di «modesta entità» e seguì un’amnistia. Niente a che vedere, sottolinea l’autore, con le pesantissime pene inflitte ai mafiosi dai tribunali della Repubblica a partire dal 1985-86. Lupo non crede alla «leggenda» («priva di qualsiasi base documentaria») stando alla quale lo sbarco in Sicilia del luglio 1943 sarebbe stato «il frutto di un complotto tra mafiosi e servizi segreti statunitensi». E anche a proposito della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) non gli sembra «sia venuto qualcosa di serio dai vari tentativi di dimostrare che gli americani abbiano avuto in essa qualche responsabilità», mentre «è vero», concede, «che, in generale, intorno alla vicenda del bandito Salvatore Giuliano si intrecciarono complotti a ogni livello». Molti sono stati quelli che (in Italia e altrove) hanno ricondotto i successi della mafia nel secondo Novecento alle «trame del governo statunitense o delle sue agenzie di sicurezza, nell’ambito di strategie della tensione destinate ad inquinare in permanenza la vita democratica della nostra Repubblica». Si tratta, per Lupo, di una tesi «che ha avuto fortuna nella cultura di sinistra, sinistra che è stata a lungo antiamericana per definizione». Ma questa tesi ha spopolato anche «su altri versanti che antiamericani non lo sono stati mai». Ora, secondo l’autore, «può darsi che, nei giochi complicati dei servizi segreti, qualche spezzone di qualche agenzia statunitense abbia tramato con qualche banda mafiosa americana o siciliana». Però in sostanza l’unica cosa «provata» è questa: «Più volte il governo statunitense intervenne, anche su sollecitazione dell’agenzia federale antidroga (il Narcotic Bureau) perché le autorità italiane facessero qualcosa contro la mafia, ottenendo scarso successo». Nient’altro. Lupo si dice consapevole che solo parzialmente la ricerca può illuminare gli spazi torbidi oscuri in cui si sviluppa questo fenomeno, la rete di intrighi che «costituisce la storia della mafia». Ritiene però che «la storiografia possa fare la sua parte, dal punto di vista conoscitivo e anche da quello civile, evitando di accreditare le mitologie del Super-complotto». Sottraendosi cioè alla tentazione di «seguire la china della discussione pubblica, che troppo spesso si ubriaca dell’immagine della mafia come invincibile super-potere: finendo per risolversi, quali che siano le sue intenzioni, in una sottile apologia». Un’apologia che rischia di provocare un danno non lieve, che va ad aggiungersi a quelli provocati dalla mafia in sé.

La mafia sono più organizzazioni malavitose, con una struttura univoca e piramidale (Cosa Nostra) o nucleare autonoma estesa e tentacolare (Camorra e 'Ndrangheta), che affondano i loro tentacoli in tutti gli aspetti politici ed economici del paese. E' importante la definizione della mafia data da Franchetti e Sonnino nella relazione finale della Commissione d'inchiesta, istituita nel 1875/76, dove si legge che «la mafia non è un'associazione che abbia forme stabili e organismi speciali... Non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti, se non i più forti ed i più abili; ma è piuttosto lo sviluppo ed il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male».

Del termine mafia sono state individuate diverse possibili origini etimologiche. Alcuni sostengono che mafia derivi dalla parola araba Ma Hias, "spacconeria", che sta in relazione con la spavalderia mostrata dagli appartenenti a tale organizzazione.

Altra derivazione possibile sarebbe sempre dalla lingua araba dalla parola mu'afak, che significa “protezione dei deboli".

Ancora altri fanno la fanno derivare da maha, "cava di pietra"; dove si rifugiavano fautori dell'unità d'Italia e le squadre rurali occulte in appoggio a Garibaldi, che poi sarebbero stati ribattezzati mafiosi.

Un'altra ricostruzione è quella fatta nel 1897 dallo storico William Heckethorn che considera il termine mafia come acronimo di Mazzini Autorizza Furti Incendi Avvelenamenti. Tale appello sarebbe stato rivolto alle organizzazioni segrete che nascevano sull'isola.

Infine, un’altra ricostruzione abbastanza leggendaria narra che un soldato francese chiamato Droetto violentò una giovane e che la madre terrorizzata per quanto accaduto alla figlia corse per le strade, urlando «Ma – ffia! Ma - ffia!» ovvero «mia figlia! mia figlia!». Il grido della madre, ripetuto da altri, da Palermo si diffuse in tutta la Sicilia. Il termine mafia diventò così parola d'ordine del movimento di resistenza ed ebbe quindi genesi dalla lotta dei siciliani.

L'espressione mafia diviene un termine corrente a partire dal 1863, con il dramma “I mafiusi de la Vicaria” di Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca, che ebbe grande successo e venne tradotto in italiano, napoletano e meneghino, diffondendo il termine su tutto il territorio nazionale.

Il documento ufficiale nel quale appare per la prima volta il termine mafia fu il rapporto del prefetto di Palermo Filippo Gualterio dell'aprile 1865, con riferimento a un'"associazione malandrinesca" ritenuta "dipendente dai partiti" e in particolare collegata con gli oppositori, dai borbonici ai garibaldini, ed era stato indicato tra i capi il generale garibaldino Corrao, ucciso nell'agosto del 1863. 

Le origini. Sul periodo storico entro il quale collocare la data di nascita della mafia non vi è univocità di opinioni tra gli studiosi che si sono occupati del fenomeno. La diversità di opinioni nasce dal fatto che questa organizzazione, essendo segreta, non ha lasciato documenti scritti della sua costituzione, elenchi dei partecipanti, norme di comportamento, o regolamenti. Alcuni fanno risalire l'origine della mafia ai primi dell’ottocento a seguito della progressiva scomparsa del mondo feudale e della nascita del processo di privatizzazione delle terre.

Il processo che porta alla stretta connessione tra brigantaggio e mafia è un percorso lungo e radicato nella tradizione sociale meridionale che incomincia a proporsi come problema ufficiale soltanto con l’unificazione d’Italia nel 1861, perché la fusione delle due “Italie”, la realtà settentrionale e quella meridionale, costringe all’inevitabile scontro di sistemi di vita che fino ad allora si erano ignorati reciprocamente. La noncuranza verso il prossimo, il rifiuto d’interesse riguardo ai problemi del Sud da parte del settentrione, però, ha accentuato l’ormai evidente inadeguatezza del meridione nella questione risorgimentale all’interno della quale nessun cittadino appartenente all’ex-regno borbonico avrebbe mai riconosciuto quegli ideali o quegli interessi come propri. Questo perché l’unificazione dello Stato italiano si è presentata fin dall’inizio come una “piemontesizzazione” degli Stati, lasciando così pochissimo o inesistente spazio decisionale alla realtà del Mezzogiorno. Chiaramente, nonostante quest’ufficiosa estromissione del Sud dalla realtà italiana, il problema della coesione tra dimensioni sociali differenti incomincia a farsi sentire con più insistenza rispetto ai secoli precedenti.  L’indubitabile necessità di riforme sociali, di cambiamenti nel settore economico-finanziario, amministrativo e politico sono manifestazioni di una propensione all’unificazione non solo fisica tra Nord e Sud. 

L’annientamento del feudalesimo, la subordinazione economica e sociale del contadino al latifondista, manifestatasi sempre come una sorta di vassallaggio tra bracciante e proprietario, l’eliminazione dei sistemi clientelari, l’emancipazione delle masse dal punto di vista culturale sono stati fin dall’inizio i concreti programmi d’ammodernamento di cui il Mezzogiorno ha avuto un netto bisogno. Ad essi si opponevano le teorie tardo-illuministiche dell’epoca che inquadravano la terra del Sud come il luogo ideale per incoraggiare la rivoluzione, poiché per l’arretratezza del sistema e l’insufficienza d’informazione i contadini non avrebbero fatto resistenza a qualsiasi cambiamento. Ovviamente gli intellettuali del Nord, progressisti e aggiornati, non erano di certo informati sulla chiusura del Sud e le loro illusioni non tenevano conto della realtà. 

Esempio n’è la spedizione di Pisacane, socialista radicale, che nel 1857 vede sconfitta l’illusione di una cooperazione attiva da parte dei contadini a causa della diseducazione politica e della demotivazione delle masse. La sfiducia del popolo meridionale nei confronti delle organizzazioni e delle rappresentazioni democratiche, il binomio “nuovo governo - nuovo padrone”, l’analfabetismo, il distacco dalle questioni politiche, la lontananza dagli ideali e dalle parole d’ordine del tempo, i sistemi d’amministrazione paralleli (quali il clientelismo politico e la protezione criminale), costituiscono un quadro generale di una società che, fin dai primi tempi, si prospetta come un mondo circoscritto alle proprie ristrettezze economiche e alle proprie tradizioni;  una terra sulla quale tutti hanno, però, sempre teso le mani: un’ipotetica “isola del tesoro” in cui fioriscono aranci e limoni, dove la pesca e l’allevamento sono redditizi, dove la terra è pervasa da una sorta di humus alchemico che, unito all’abbondanza d’acque, converge a creare un’economia florida, ma mal sfruttata.

Le prime origini della mafia risalgono alla seconda metà del XIX secolo quando, nonostante le apparenti novità portate dall’unificazione italiana, continuò a mantenersi in Sicilia il sistema feudale che vedeva le grandi proprietà terriere nelle mani di pochi baroni, ai quali si andava a poco a poco sostituendo la nuova classe emergente dei “burgisi”. Come gli antichi baroni, anche i nuovi proprietari non coltivavano direttamente i loro feudi, ma ne affidavano la gestione ad un intermediario, “il gabelloto”, grande affittuario del feudo che dava quote a piccoli coltivatori a compartecipazione. Al servizio del gabelloto c’era il campiere, sorta di guardia armata, cui si affidava il compito di assicurare l’ordine costituito nella campagna. Alle origini e fino alla metà del secolo XX, la mafia fu soprattutto “mafia del feudo” articolata in gruppi di potere (le cosiddette cosche) che agivano su territori ben delineati e si arrogavano il diritto di dirimere controversie, ricorrendo anche all’uso della forza. E già fin dai primi anni del regno, si determinò la tendenza del trasferimento, il così detto “sistema mafioso”, al campo dell’attività politica e amministrativa. Fin dalle sue origini, quindi, la mafia si rivelò un elemento determinante della competizione politica come garante del poter costituito. Tale funzione di garante della conservazione fu assolta soprattutto tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo in opposizione al movimento contadino che, dopo la fase protestatoria dei Fasci dei lavoratori, si organizzò in leghe e cooperative per la tutela dei braccianti e per la gestione diretta della terra. Furono quelli gli anni della repressione di ogni forma di rivendicazione: si pensi ai gravi episodi del 1904 contro le cooperative agricole, alla soppressione degli organizzatori dell’occupazione di terre incolte del primo dopoguerra e alle sanguinose rappresaglie di sindacalisti verificatesi tra il 1946 e il 1955.

Cronologia Caduti nella lotta alle mafie e per la democrazia e vittime innocenti (da legalitaegiustizia.it):

1861

3 marzo. A Santa Margherita Belice (Agrigento) viene ucciso il medico Giuseppe Montalbano che guidava i contadini che rivendicavano le terre usurpate da Giovanna Filangeri, nonna dello scrittore Tomasi di Lampedusa.

17 maggio. A Palermo viene ucciso Pietro Sampolo, docente di diritto. Sono rimasti ignoti mandanti ed esecutori, ma si è ipotizzata la pista mafiosa.

1863

3 agosto. A Palermo viene ucciso Giovanni Corrao, generale garibaldino: un delitto “politico-mafioso” teso ad eliminare un protagonista della vita politica, scomodo per le sue doti e per il seguito popolare di cui godeva.

1872

26 novembre. A S. Mauro Castelverde (Palermo) ucciso dalla banda Rocca-Rinaldi il sindaco trentenne Giuseppe Pace Torrisi, che si adoperava per la cattura dei banditi.

1876

15 giugno. A Bagheria (Palermo) viene ucciso il caporale delle guardie campestri Giuseppe Aguglia che si opponeva apertamente alla mafia della zona.

1878

10 marzo. A Palermo scompare la diciassettenne Anna Nocera, ad opera del mafioso Leonardo Amoroso che dopo averla sedotta voleva disfarsi di lei.

1889

25 febbraio. A Castelbuono (Palermo) si suicida il delegato di Pubblica sicurezza Stanislao Rampolla. Aveva denunciato le compromissioni del sindaco di Marineo (Palermo) con la mafia. Il sindaco era rimasto al suo posto e il funzionario era stato trasferito.

1893

20 gennaio. A Caltavuturo (Palermo) l’esercito spara sui contadini che avevano occupato le terre che avrebbero dovuto essere divise per compensare l’abolizione degli usi civici e che erano state usurpate da alcuni borghesi: 13 morti e molti feriti.

1 febbraio. Sul treno tra Trabia e Palermo, viene ucciso Emanuele Notarbartolo, sindaco di Palermo dal 1873 al 1875 e direttore del Banco di Sicilia dal 1876 al 1890. Avveduto amministratore e incorruttibile moralizzatore si era opposto alle manovre speculative per il controllo del Banco.

25 dicembre. Natale di sangue a Lercara Friddi (Palermo). Durante una manifestazione contro le tasse i soldati sparano sui dimostranti. 7 morti: Antonino Di Gregorio, Antonina Greco, Paolo Lo Monaco, Gaspare Mavaro, Francesco Piazza, Teresa Seminerio, Stefano Vicari, e vari feriti. Il “tumulto” di Lercara si spiega con le ambiguità del Fascio locale e la contrapposizione tra due famiglie rivali. Nel processo ai dirigenti dei Fasci siciliani sarà incriminato e condannato Bernardino Verro.

1894

1 gennaio. A Pietraperzia, attualmente in provincia di Enna, durante una manifestazione contro le tasse comunali, i soldati sparano sulla folla: 8 morti, tra cui una bambina, e 15 feriti. È uno degli ultimi episodi della vicenda dei Fasci siciliani, privi di direzione in seguito all’arresto dei dirigenti, assimilabili alle tradizionali rivolte contadine represse nel sangue dalle forze dell’ordine.

2 gennaio. A Gibellina (Trapani) manifestazione contro le tasse comunali. Alcune guardie campestri e i soldati aprono il fuoco (i militari senza squilli di tromba): 14 morti tra i manifestanti. Il pretore Tommaso Casapinta, che erroneamente si credeva che avesse ordinato il fuoco, viene ucciso a sassate e bastonate.

Lo stesso giorno a Belmonte Mezzagno (Palermo) scontro tra soldati e manifestanti. Due morti: il soldato Francesco Sculli e il contadino Stefano Monte.

3 gennaio. Viene decretato lo stato d’assedio in Sicilia, i Fasci dei lavoratori sono sciolti e i dirigenti vengono arrestati e processati. A Marineo (Palermo) durante una manifestazione contro le tasse le forze dell’ordine sparano sui dimostranti. Rimasero uccisi: Filippo Barbaccia (anni 65), Giorgio Dragotta (26), Antonino Francaviglia(43), Giovanni Greco (24), Concetta Lombardo (o Barcia) (40), Matteo Maneri (36), Ciro (o Andrea) Raineri (42), Michele Russo (25), Filippo Triolo (43). Morirono successivamente: Giuseppe Daidone (40), Santo Lo Pinto (mesi 9), Antonino Mansello (o Manzello) (32), Anna Oliveri (anni 1), Cira Russo (mesi 9), Antonino Salerno (anni 2), Maria Spinella (2), Giuseppe Taormina (46).

5 gennaio. A Santa Caterina Villarmosa (Caltanissetta) manifestazione contro le tasse. L’esercito spara sulla folla: 14 morti e molti feriti.

1896

27 dicembre 1896. A Palermo viene uccisa Emanuela Sansone, figlia diciassettenne della bettoliera Giuseppa Di Sano. I mafiosi sospettavano che la madre li avesse denunciati per fabbricazione di banconote false.

1904

13 settembre. A Castelluzzo, borgata di Monte San Giuliano (l’attuale Erice, in provincia di Trapani), i carabinieri sparano sui contadini soci di una cooperativa, riunitisi per svolgere delle pratiche per prendere in affittanza collettiva dei terreni: 2 morti, Vito Lombardo e Giuseppe Poma, e 8 feriti, tra cui una donna.

1905

14 ottobre. A Corleone (Palermo) viene ucciso Luciano Nicoletti, bracciante, impegnato nelle lotte dei Fasci siciliani e per le affittanze collettive.

1906

12 gennaio. A Corleone uccisione del medico Andrea Orlando che aveva sostenuto le lotte dei contadini per le affittanze collettive e per il rinnovo dell’amministrazione comunale.

1909

12 marzo. A Palermo, in Piazza Marina, uccisione del tenente di polizia degli Stati Uniti Joe Petrosino, in Sicilia per indagare sull’emigrazione clandestina. Indiziato dell’omicidio è il capomafia Vito Cascio Ferro ma il delitto rimane impunito.

1911

16 maggio. A Santo Stefano Quisquina (Agrigento) uccisione di Lorenzo Panepinto, dirigente del movimento contadino e del Partito socialista. Sospettato dell’omicidio è il gabelloto Giuseppe Anzalone, figlioccio del Ministro di Grazia e Giustizia Camillo Finocchiaro Aprile. Il processo svoltosi a Catania vide l’abbandono degli avvocati di parte civile e si concluse con l’assoluzione dell’imputato.

1914

20 maggio. A Piana dei Greci (Palermo) viene assassinato il dirigente socialista Mariano Barbato, cugino di Nicola Barbato, uno dei dirigenti più prestigiosi del movimento contadino, assieme al cognato Giorgio Pecoraro.

1915

3 novembre. A Corleone (Palermo) uccisione di Bernardino Verro, uno dei principali organizzatori del movimento contadino fin dai tempi dei Fasci siciliani, dirigente del Partito socialista, sindaco del paese.

1916

Febbraio. A Palermo, nella borgata di Ciaculli, ucciso il sacerdote Giorgio Gennaro, che aveva denunciato il ruolo dei mafiosi nell’amministrazione delle rendite ecclesiastiche.

1919

29 gennaio. A Corleone (Palermo) uccisione di Giovanni Zangara, dirigente del movimento contadino e assessore comunale della giunta socialista.

6 luglio. A Resuttano (Caltanissetta) muore l’arciprete Costantino Stella. Era stato accoltellato, il 29 giugno sulla porta di casa, da un sicario rimasto sconosciuto. Don Stella era un “prete sociale” impegnato in varie attività e aveva fondato la Cassa rurale e artigiana.

22 settembre. A Prizzi (Palermo) ucciso Giuseppe Rumore, segretario della Lega contadina.

9 ottobre. A Terranova (l’attuale Gela) uccisi durante una manifestazione i contadini socialisti Vincenzo Catutti e Giuseppe Iozza. Il procedimento contro rappresentanti delle forze dell’ordine si concluse con il proscioglimento.

10 dicembre. A Gangi (Palermo) ucciso dal brigante Nicolò Andaloro il maresciallo dei carabinieri Francesco Tralongo.

13 dicembre. A Barrafranca (Enna) uccisione del presidente della Lega per il miglioramento agricolo Alfonso Canzio. Organizzava le lotte contadine per l’esproprio dei latifondi.

1920

29 febbraio. A Prizzi (Palermo) uccisione di Nicolò Alongi, dirigente del movimento contadino. La dirigente socialista Maria Giudice e il segretario del sindacato dei metalmeccanici di Palermo Giovanni Orcel indicano come mandante il capomafia di Prizzi Silvestro Gristina, indicato dallo stesso Alongi come responsabile del suo previsto assassinio, ma il delitto rimarrà impunito.

30 settembre. Nel corso del mese di settembre, nella frazione Raffo di Petralia Soprana (Palermo), sono uccisi Paolo Li Puma e Croce Di Gangi, consiglieri comunali socialisti.

3 ottobre. A Noto (Siracusa) uccisione del sindacalista socialista Paolo Mirmina. Anche in Sicilia orientale negli anni che precedono l’avvento del fascismo è in atto un’offensiva condotta da agrari, mafiosi, dove ci sono, e nazionalisti che attaccano le giunte comunali di sinistra e colpiscono dirigenti e militanti impegnati nelle occupazioni delle terre e nella difesa della democrazia.

14 ottobre. A Palermo, in corso Vittorio Emanuele, con un colpo di pugnale viene assassinato Giovanni Orcel. Segretario della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, direttore del foglio “La Dittatura proletaria”, aveva organizzato l’occupazione del Cantiere navale con l’autogestione operaia e assieme a Nicolò Alongi aveva avviato forme di lotta unitaria con il movimento contadino.

17 ottobre. A Trapani ucciso il socialista Pietro Grammatico.

27 ottobre. A Vita (Trapani) viene ucciso il capolega Giuseppe Monticciuolo. Il prefetto di Trapani scriveva: “La sua fine fu decisa perché Presidente dell’Associazione pel miglioramento dei contadini ed esponente maggiore dell’agitazione agraria in Vita”.

6 novembre. A Monte San Giuliano (l’attuale Erice) ucciso il socialista Giovanni Augugliaro.

27 novembre. A Gibellina (Trapani) viene ucciso l’arciprete Stefano Caronia, organizzatore della sezione locale del Partito popolare, che aveva contrastato la mafia chiedendo di controllare personalmente l’esazione dei censi enfiteutici ecclesiastici.

26 dicembre. A Casteltermini (Agrigento) quattro mafiosi lanciano una bomba nella sezione socialista uccidendo 5 persone: Giuseppe Zaffuto segretario della sezione, Calogero Faldetta, Gaetano Circo, Carmelo Minardi e Salvatore Varsalona. Secondo gli inquirenti responsabili furono mafiosi della Valle del Platani.

1921

29 gennaio. A Vittoria (Ragusa) combattenti di orientamento nazionalista, fascisti e il gruppo mafioso locale devastano il circolo socialista e sparano sui lavoratori, provocando la morte di Giuseppe Compagna, consigliere comunale socialista.

19 febbraio. Nelle campagne di Salemi (Trapani) ucciso il contadino socialista Pietro Ponzo. Impegnato nelle lotte contadine fin dai Fasci siciliani, presidente della Cooperativa Agricola di Salemi. Negli anni 1919-1920 partecipa alle manifestazioni e alle occupazioni delle terre per l’assegnazione dei latifondi.

28 aprile. A Piana dei Greci, dal 1941 degli Albanesi (Palermo), assassinio del presidente della Lega dei contadini Vito Stassi, detto Carusci. Consigliere comunale socialista nel 1907 e nel 1914, era un protagonista delle lotte contadine per l’assegnazione delle terre incolte.

4 maggio. A Piana dei Greci (Palermo) uccisione dei militanti socialisti Vito e Giuseppe Cassarà.

1922

16 gennaio. A Paceco (Trapani) vengono uccisi Domenico Spatola, militante comunista, Mario e Pietro Paolo Spatola, figli del dirigente comunista Giacomo, protagonista delle lotte contadine fin dai Fasci siciliani.

23 gennaio. A Castelvetrano (Trapani), ferito in un agguato Tommaso Mangiapanello, organizzatore delle lotte agrarie e assessore comunale socialista. Muore il giorno dopo.

16 febbraio. A Dattilo-Paceco (Trapani) viene ucciso Antonino Scuderi, consigliere comunale socialista e segretario della locale Società Agricola Cooperativa.

10 giugno. Sulla strada provinciale per Monte San Giuliano (l’attuale Erice, Trapani) viene ucciso Sebastiano Bonfiglio, sindaco socialista del paese. Membro della direzione del Partito socialista, era uno dei più significativi organizzatori delle lotte contadine e della resistenza al fascismo.

1943

2 settembre. Nei pressi di San Giuseppe Jato (Palermo) il ventunenne Salvatore Giuliano uccide il carabiniere Antonio Mancino, di 24 anni, che voleva sequestrargli dei sacchi di grano trasportati in contravvenzione alle norme sul contrabbando. Giuliano si dà alla latitanza e comincia così la sua carriera di bandito che durerà fino al 5 luglio 1950.

1944

29 marzo. A Partinico (Palermo), durante una dimostrazione contro il carovita, rimane ucciso per un colpo d’arma da fuoco il ragazzo Lorenzo Pupillo. Il maresciallo Benedetto Scaglione, ritenuto responsabile dell’uccisione del ragazzo, viene ferito da una bomba a mano e muore dissanguato.

27 maggio. A Regalbuto (Enna), nel corso di disordini in occasione di un raduno separatista, viene ucciso Santi Milisenna, segretario della federazione comunista di Enna.

6 agosto. A Casteldaccia (Palermo) omicidio di Andrea Raia, militante comunista e componente del comitato di controllo sui granai del popolo. “La Voce comunista” del 12 agosto scrive: “Le modalità dell’assassinio sono tali da fare sicuramente ritenere che gli esecutori materiali siano da ricercare tra i maffiosi locali”.

19 ottobre. A Palermo durante una manifestazione contro il carovita davanti alla Prefettura, l’esercito spara sui manifestanti. Secondo le dichiarazioni ufficiali i morti furono 19 e 108 i feriti. Secondo il Comitato di Liberazione i morti furono 30 e i feriti 150. Tra le vittime molti ragazzi. Nel cinquantesimo anniversario della strage a Palazzo Comitini, prima sede della Prefettura ed ora della Provincia, è stata scoperta una lapide che riporta i nomi di 24 caduti: Giuseppe Balistreri di anni 16, Vincenzo Buccio di anni 22, Vincenzo Cacciatore di anni 38, Domenico Cordone di anni 16, Rosario Corsaro di anni 30, Michele Damiano di anni 12, Natale D’Atria di anni 28,Giuseppe Ferrante di anni 18, Vincenzo Galatà di anni 19, Carmelo Gandolfo di anni 25, Francesco Giannotta di anni 22, Salvatore Grifati di anni 9, Eugenio Lanzarone di anni 20, Gioacchino La Spisa di anni 17, Rosario Lo Verde di anni 17, Giuseppe Maligno di anni 22, Erasmo Midolo di anni 19, Andrea Oliveri di anni 15, Salvatore Orlando di anni 17, Cristina Parrinello di anni 68, Anna Pecoraro di anni 37, Vincenzo Puccio di anni 22, Giacomo Venturelli di anni 70, Aldo Volpesdi anni 23.

1945

28 marzo. A Corleone (Palermo) uccisione della guardia campestre Calogero Comajanni. Aveva denunciato un furto commesso da Luciano Liggio.

20 giugno. A San Giuseppe Jato (Palermo) la banda Giuliano uccide il maresciallo dei carabinieri Filippo Scimone.

11 settembre. A Ficarazzi (Palermo) uccisione di Agostino D’Alessandria, guardiano di pozzi e segretario della Camera del lavoro, che aveva avviato una lotta contro il controllo mafioso dell’acqua per l’irrigazione dei giardini.

18 settembre. A Palma di Montechiaro (Agrigento) in un conflitto a fuoco con dei banditi muoiono i carabinieri Calogero Cicero e Fedele De Francisca.

16 ottobre. Nei pressi di Niscemi (Caltanissetta) in un conflitto a fuoco con i banditi cadono tre carabinieri: Michele Di Miceli, Mario Paoletti, Rosario Pagano.

18 novembre. A Cattolica Eraclea (Agrigento) ucciso il segretario della Camera del Lavoro Giuseppe Scalia. In un conflitto a fuoco con i mafiosi viene colpito a morte Scalia e rimane ferito il vicesindaco socialista Aurelio Bentivegna.

4 dicembre. A Ventimiglia (Palermo) viene assassinato Giuseppe Puntarello, segretario della locale sezione del Partito comunista, impegnato nel movimento contadino.

1946

8 gennaio. A Partinico (Palermo) banditi della banda Giuliano uccidono il carabiniere Vincenzo Miserendino.

18 gennaio. Nei pressi di Montelepre (Palermo) in un’imboscata tesa dalla banda Giuliano muoiono 4 militari: Vitangelo Cinquepalmi, Vittorio Epifani, Angelo Lombardi, Imerio Piccini.

28 gennaio. In territorio di Gela (Caltanissetta) agguato della banda dei “niscemesi”. Uccisi i carabinieri Vincenzo Amenduni, Fiorentino Bonfiglio, Mario Boscone, Emanuele Greco, Giovanni La Brocca, Vittorio Levico, Pietro Loria, Mario Spampinato. I corpi, gettati in una miniera, saranno ritrovati il 25 maggio del ’46.

7 marzo. A Burgio (Agrigento) ucciso il segretario della Camera del lavoro Antonino Guarisco. Rimane uccisa anche la passante Marina Spinelli.

25 marzo. Nelle campagne di Pioppo, frazione di Monreale (Palermo), trovato il corpo del carabiniere Francesco Sassano. Accanto un foglio con la scritta: “Questa è la fine delle spie. Giuliano”.

25 aprile. A San Cipirello (Palermo) nella notte tra il 25 e il 26 aprile banditi della banda Giuliano uccidono i fratelli Giuseppe e Mario Misuraca, feriscono l’altro fratello Salvatore e il cognato Salvatore Cappello. È un’esecuzione in piena regola, come punizione per aver abbandonato la banda e avere cominciato a collaborare con la giustizia.

16 maggio. A Favara (Agrigento) viene ucciso il sindaco socialista Gaetano Guarino. Farmacista, nelle elezioni comunali del marzo precedente si era candidato nella lista del Blocco del popolo che aveva ottenuto un gran numero di voti.

28 giugno. Uccisione del sindaco socialista di Naro (Agrigento) e dirigente contadino Pino Camilleri. Colpito con fucile caricato a lupara mentre si recava a cavallo a Riesi (Caltanissetta), al feudo Deliella, oggetto di contesa tra gabelloti mafiosi e contadini.

22 settembre. Ad Alia (Palermo) una bomba lanciata all’interno della casa del segretario della Camera del lavoro, dove si svolgeva una riunione di contadini, uccide Giovanni Castiglione e Girolamo Scaccia e ferisce 13 persone. I contadini stavano preparando l’occupazione dei feudi gestiti da gabelloti mafiosi.

6 ottobre. A Castronovo (Palermo) durante un comizio per le elezioni comunali, una bomba viene lanciata tra la folla: 3 morti e 17 feriti.

22 ottobre. A Santa Ninfa (Trapani) viene ucciso Giuseppe Biondo, mezzadro iscritto alla Federterra, che lottava per l’applicazione della legge sulla divisione del prodotto al 60% per il mezzadro e al 40% per il proprietario. Era stato sfrattato illegalmente dal proprietario del terreno ma era tornato a lavorarvi.

2 novembre. Nelle campagne di Belmonte Mezzagno (Palermo) vengono uccisi i fratelli Giovanni, Vincenzo e Giuseppe Santangelo, contadini. Con loro erano due ragazzi, fatti allontanare da tredici banditi che sparano ai contadini alla nuca come se si trattasse di un’esecuzione. È rimasto oscuro il movente ma è evidente l’intento di terrorizzare i contadini della zona.

25 novembre. A Joppolo (Agrigento) viene ucciso Giovanni Severino, segretario della Camera del lavoro.

28 novembre. A Calabricata (Crotone) un campiere uccide Giuditta Levato, di 31 anni, madre di due figli e incinta, protagonista delle lotte contadine di Calabria.

21 dicembre. A Baucina (Palermo) attentato a Nicolò Azoti, segretario della Camera del lavoro. Otto giorni prima era stato avvicinato con toni minacciosi dal gabelloto del feudo Traversa che i contadini chiedevano in concessione. Muore il 23 dicembre.

1947

4 gennaio. A Sciacca (Agrigento) uccisione di Accursio Miraglia, segretario della Camera del lavoro e dirigente comunista. Il delitto, come del resto tutti gli omicidi di dirigenti e militanti del movimento contadino, è rimasto impunito.

17 gennaio. A Ficarazzi (Palermo) viene ucciso Pietro Macchiarella, militante del Partito comunista, impegnato nelle lotte contadine.

13 febbraio. A Villabate (Palermo) ucciso il sindacalista Nunzio Sansone.

7 marzo. A Messina, durante una manifestazione contro il carovita, i carabinieri al grido di “Avanti Savoia” (c’era già la Repubblica) sparano sulla folla. Uccisi i manifestanti Biagio Pellegrino e Giuseppe Maiorana. 15 feriti.

13 aprile. A Petilia Policastro (Catanzaro), nel corso di una manifestazione di contadini, la polizia spara uccidendo Francesco Mascaro e Isabella Carvelli e ferendo molti altri manifestanti.

29 aprile. A Potenza, durante una manifestazione per il lavoro, sono uccisi dalle forze dell’ordine Antonio Bastiano e Pietro Rosa.

1 maggio. Strage di Portella della Ginestra (Palermo). Nel pianoro tra Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, dove fin dai tempi dei Fasci siciliani si manifestava per il primo maggio, quell’anno i contadini erano affluiti in gran numero per la festa del lavoro e per festeggiare la vittoria delle sinistre raccolte nel Blocco del popolo alle prime elezioni regionali del 20 aprile. Improvvisamente dalla montagne circostanti si comincia a sparare sulla folla. Secondo le fonti ufficiali ci furono 11 morti e 27 feriti. In realtà i morti furono di più (alcuni morirono successivamente per le ferite riportate) e il numero dei feriti varia da 33 a 65.

Morirono sul colpo: Margherita Clesceri, madre di sei figli e incinta, Giorgio Cusenza, Castrense Intravaia di 18 anni, Vincenzina La Fata di 8 anni, Serafino Lascaridi 15 anni, Giovanni Megna, Francesco Vicari. Morivano pochi giorni dopo: Vito Allotta di 19 anni, Giuseppe Di Maggio di 13 anni, Filippo Di Salvo, Giovanni Grifòdi 12 anni. Morivano successivamente: Provvidenza Greco, Vincenza Spina. Vincenzo La Rocca, padre di Cristina, una bambina di 9 anni ferita a Portella (un esame radiografico del 1997 ha rilevato nel suo corpo la presenza di un frammento metallico, probabilmente una scheggia di granata), con la figlia sulle spalle si recò a piedi a San Cipirello e morì qualche settimana dopo, stremato dalla fatica. Tra i morti del primo maggio c’è anche il campiere Emanuele Busellini, ucciso dai banditi della banda Giuliano che l’avevano incontrato lungo la strada per recarsi sul luogo della strage.

9 maggio. Nelle campagne di Partinico (Palermo) ritrovato il corpo del contadino Michelangelo Salvia, ucciso con colpi di arma da fuoco, probabilmente ad opera di mafiosi del luogo.

22 giugno. In provincia di Palermo attacchi con armi da fuoco e bombe a mano alle sezioni del Partito comunista di Partinico, Borgetto e Cinisi, alle sedi delle Camere del lavoro di Carini e San Giuseppe Jato e alla sezione del Partito socialista di Monreale. A Partinico vengono colpiti a morte Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Jacono. Sul posto viene trovato un volantino firmato dal bandito Giuliano che invita i siciliani a lottare “contro la canea dei rossi” e annuncia la costituzione di un quartiere generale di lotta contro il bolscevismo, promettendo sussidi a quanti si sarebbero presentati alla sede della formazione militare, il feudo Sagana nelle vicinanze.

22 ottobre. A Terrasini (Palermo) uccisione di Giuseppe Maniaci, segretario della Confederterra e militante del Pci. Si era politicizzato nel carcere di Porto Longone, dove era detenuto per reati comuni e aveva conosciuto i dirigenti comunisti Scoccimarro e Terracini.

3 novembre. A San Giuseppe Jato (Palermo) viene ucciso Calogero Caiola. Doveva testimoniare per la strage di Portella.

8 novembre. A Marsala (Trapani) uccisione di Vito Pipitone, segretario della Confederterra, impegnato nelle lotte contadine.

19 novembre. A Gravina (Bari), durante uno sciopero agricolo, negli scontri con le forze dell’ordine muore Ignazio Labadessa.

20 novembre. A Campi Salentini (Lecce), negli scontri con le forze dell’ordine durante una manifestazione contadina, muoiono Antonio Augusti e Santo Niccoli.

21 novembre. A Partinico (Palermo) viene ferito dai banditi il tenente colonnello Luigi Geronazzo, che muore successivamente.

25 novembre. A Bisignano (Cosenza), durante una manifestazione, viene ucciso dalle forze dell’ordine l’operaio Rosmundo Mari.

5 dicembre. A Roma, durante uno sciopero a rovescio degli edili, negli scontri con le forze dell’ordine muore Giuseppe Tanas.

21 dicembre. A Canicattì (Agrigento), durante una manifestazione di disoccupati, un carabiniere spara sulla folla. Segue un conflitto in cui cadono i manifestanti Domenico Amato, Angelo Laura e Salvatore Lupo e viene ferito il carabiniere Giuseppe Iannolino che morirà dopo quattro giorni.

A Campobello di Licata (Agrigento), negli scontri con le forze dell’ordine durante una manifestazione, muore il bracciante Francesco D’Antone.

1948

4 gennaio. La banda Giuliano uccide nelle campagne tra Palermo e Trapani il confidente Carlo Gulino e il nipotino Francesco di 3 anni.

8 febbraio. A San Ferdinando di Puglia (Foggia) militanti di destra e guardie campestri sparano sui partecipanti a una manifestazione del Fronte democratico popolare uccidendo Vincenzo Dionisi, Giuseppe Di Troia e Giuseppe De Michele e ferendo 25 persone. Seguono attacchi alle sedi dei partiti di sinistra, della Camera del lavoro e dell’Anpi con l’uccisione del socialista Nicola Francone e del bambino di 7 anni Raffaele Riondino.

2 marzo. Nella campagne di Petralia Soprana (Palermo) ucciso Epifanio Li Puma, socialista, dirigente del movimento contadino per l’occupazione delle terre incolte. Si era opposto all’ingresso dei mafiosi nella cooperativa “La madre terra”.

10 marzo. A Corleone (Palermo) scompare Placido Rizzotto, partigiano, socialista, segretario della Camera del lavoro, dirigente delle lotte contadine. Il bambino Giuseppe Letizia, in stato di shock per avere assistito all’esecuzione del delitto, muore in seguito alle “cure” prestate dal medico capomafia Michele Navarra e dal dottor Ignazio Dell’Aira.

1 aprile. A Camporeale (Palermo) assassinio del segretario della Confederterra ed esponente socialista Calogero Cangelosi e ferimento dei militanti del movimento contadino Vito Di Salvo e Vincenzo Liotta. Il delitto era stato preceduto da intimidazioni e nel paese, dominato dal capomafia Vanni Sacco, si erano registrati fatti allarmanti: attentati a dirigenti del movimento contadino, incendio della sezione socialista. Il delitto rimane impunito.

13 aprile. Ad Andria (Bari) la polizia spara sui contadini che manifestano per l’assegnazione delle terre. Cade ucciso il bracciante Riccardo Suriano.

20 maggio. A Trecenta (Rovigo), durante uno scipero di braccianti, l’intervento delle forze dell’ordine causa la morte di Evelino Tosarello.

3 giugno. A Spino d’Adda (Cremona) le forze dell’ordine sparano durante una manifestazione di braccianti uccidendo Luigi Venturini.

11 giugno. A Partinico i banditi della banda Giuliano uccidono il possidente Marcantonio Giacalone e il figlio Antonio: si erano rifiutati di sborsare una somma di denaro.

30 giugno. A S. Martino in Rio (Reggio Emilia) l’intervento delle forze dell’ordine durante uno sciopero agricolo causa la morte di Sante Mussini.

3 settembre. A Partinico (Palermo) la banda Giuliano uccide il capitano dei carabinieri Antonino Di Salvo, il maresciallo Nicola Messina e il commissario di Pubblica Sicurezza Celestino Zapponi.

22 settembre. A Pianello (Piacenza) in un’imboscata viene ucciso il segretario della Camera del lavoro Artemio Repetti.

16 dicembre. In un agguato della banda Giuliano cade ucciso il brigadiere di PS Giovanni Tasquier e vengono feriti tre agenti.

1949

4 aprile. A Mazara del Vallo (Trapani) il bracciante Francesco La Rosa muore durante un interrogatorio nella caserma dei carabinieri.

17 maggio. A Molinella (Bologna), durante uno sciopero, il carabiniere Francesco Galati uccide Maria Margotti, 34 anni, mondina, vedova di guerra e madre di due bambine, mentre tornava a casa con un gruppo di compagni, dopo avere ottenuto l’astensione dal lavoro dei “crumiri”, ingaggiati dagli agrari. Il carabiniere fu condannato a sei mesi.

20 maggio. A Mediglia (Milano) un proprietario terriero uccide il diciottenne Pasquale Lombardi che invitava i braccianti allo sciopero.

3 giugno. A Forlì durante uno sciopero la polizia interviene e uccide l’operaia Iolanda Bertaccini.

11 giugno. A Gambara (Brescia) durante uno sciopero bracciantile le forze dell’ordine uccidono Marziano Girelli.

12 giugno. A San Giovanni in Persiceto (Bologna), mentre un gruppo di braccianti cercava di convincere altri lavoratori a lasciare il lavoro e partecipare allo sciopero, un fattore spara contro i braccianti e uccide il giovane Loredano Bizzarri, militante del sindacato e del Pci. Viene ferito Amedeo Benuzzi. L’autore dell’omicidio, Guido Cenacchi, ex squadrista fascista, venne assolto per “legittima difesa”. Alcuni braccianti che avevano testimoniato al processo vennero condannati con diverse motivazioni.

17 giugno. A Minervino Murge (Bari) durante una manifestazione le forze dell’ordine uccidono il bracciante Felice Magginelli.

2 luglio. A Portella della Paglia (Palermo) in un agguato teso dalla banda Giuliano cadono gli agenti di Pubblica sicurezza Carmelo Agnone, Candeloro Catanese, Carmelo Lentini, Michele Marinaro, Quinto Reda.

19 agosto. Strage di Bellolampo (Palermo). La banda Giuliano fa saltare un automezzo militare: 7 carabinieri morti: Giovan Battista Aloe, Armando Loddo, Sergio Mancini, Pasquale Marcone, Antonio Pabusa, Gabriele Palandrani, Ilario Russo e 11 feriti.

21 agosto. A Sancipirello (Palermo) la banda Giuliano uccide i carabinieri Giovanni Calabrese e Giuseppe Fiorenza.

28 ottobre. A Isola Capo Rizzuto (Catanzaro) la polizia uccide l’anziano contadino Matteo Aceto, tra i promotori delle lotte per l’espropriazione delle terre.

29 ottobre. A Melissa (Catanzaro) un reparto della Celere, la polizia creata dal ministro Scelba, spara sui contadini che occupano il feudo di Fragalà. 3 morti, Francesco Nigro di 29 anni, Giovanni Zito di 15 anni, Angelina Mauro, e 15 feriti, tutti colpiti alle spalle.

28 novembre. A Bagheria (Palermo), in uno scontro a fuoco con dei latitanti, uccisi il maresciallo dei carabinieri Salvatore Messina e l’appuntato Francesco Butifar.

29 novembre. A Torremaggiore (Foggia) la polizia spara sui contadini in lotta per la gestione democratica del collocamento e la riforma agraria e uccide il bracciante Antonio La Vacca e lo stradino comunale Giuseppe Lamedica, militanti del Partito comunista.

14 dicembre. A Montescaglioso (Matera) la polizia spara sui contadini in lotta per la riforma agraria. Cadono colpiti a morte i braccianti Michele Oliva e Giuseppe Novello.

1950

9 gennaio. A Modena, durante uno sciopero, la polizia spara sulla folla uccidendo sei operai, Arturo Chiappelli, Angelo Appiani, Roberto Rovatti, Ennio Garagnani, Renzo Bersani, Arturo Malagoli, e ferendone circa 200.

28 gennaio. A Salice (Lecce) ucciso in agguato il segretario della Camera del lavoro Donato Leuzzi.

14 febbraio. A Seclà (Lecce) durante una manifestazione di braccianti l’intervento delle forze dell’ordine causa la morte di Antonio Micali.

21 marzo. A Lentella (Chieti), durante uno sciopero a rovescio dei braccianti, le forze dell’ordine colpiscono a morte Nicola Mattia e Cosimo Maciocco.

22 marzo. Durante lo sciopero generale indetto dalla Cgil, scontri con la polizia a Parma, in provincia dell’Aquila e di Foggia con 4 morti: Attila Alberti, Luciano Filippelli, Francesco Laboni, Michele Di Nunzio.

30 aprile. A Celano (L’Aquila) fascisti e carabinieri sparano sui contadini del Fucino in lotta contro il principe Torlonia. Muoiono i braccianti Antonio Berardicuti e Agostino Parvis e il comunista Antonio D’Alessandro.

17 maggio. A Porto Mantovano, nel corso di uno sciopero bracciantile, viene ucciso il bracciante e sindacalista Vittorio Veronesi.

1951

17-18 gennaio. Durante manifestazioni per la pace le forze dell’ordine colpiscono a morte a Piana degli Albanesi (Palermo) il militante comunista Damiano Lo Greco, ad Adrano (Catania) il sindacalista Cisl Girolamo Rosano e Grazia Buscemi, a Comacchio (Ravenna) Antonio Fantinoli.

30 agosto. A Delianuova (Reggio Calabria) il maresciallo Antonio Sanginiti viene ucciso da Angelo Macrì, fratello di Giovanni che era rimasto ucciso durante un conflitto a fuoco con i carabinieri, e di Rocco e Giuseppe che il maresciallo aveva fatto arrestare. Nello stesso giorno, nei pressi del santuario della Madonan di Polsi, Angelo Macrì uccide il pastore Francesco Papalia, ritenendolo un confidente del maresciallo Sanginiti.

3 ottobre. A San Martino di Taurianova (Reggio Calabria) muore la bambina di tre anni Domenica Zucco, colpita durante un agguato contro il padre.

1952

19 marzo. A Villa Literno (Caserta), durante una manifestazione per l’assegnazione delle terre, le forze dell’ordine colpiscono a morte il bracciante Luigi Noviello.

7 agosto. Nelle campagne di Caccamo (Palermo) viene ucciso a colpi d’accetta il contadino Filippo Intile: voleva dividere il prodotto dei campi che aveva a mezzadria al 60% per il mezzadro e il 40% per il proprietario, in base a un decreto del ministro Fausto Gullo dell’ottobre 1944. A molti anni dal decreto agrari e mafiosi pretendevano di dividere ancora al 50%.

1954

16 febbraio. A Mussomeli (Caltanissetta), durante una manifestazione di protesta per la mancanza d’acqua, le forze dell’ordine lanciano bombe lacrimogene contro la folla. Nella ressa restano uccisi: Giuseppina Valenza di 72 anni, Onofria Pellicceri madre di otto figli, Vincenza Messina di 25 anni, madre di tre figli e incinta, Giuseppe Cappalonga di 16 anni.

A Milano, nel corso di una manifestazione di lavoratori dell’Om, le forze dell’ordine aprono il fuoco uccidendo l’operaio Ernesto Leoni.

1955

16 maggio. A Sciara (Palermo) assassinio del sindacalista Salvatore Carnevale, impegnato nelle lotte contadine e operaie della zona. La madre Francesca Serio accusa i mafiosi come responsabili del delitto e si costituisce parte civile. Al suo fianco, per l’esposto, Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica. Difensore degli imputati in Cassazione Giovanni Leone, che sarà anche lui presidente della Repubblica. I mafiosi incriminati sono condannati in primo grado e assolti in appello.

19 maggio. A Cattolica Eraclea (Agrigento), in un conflitto a fuoco tra una pattuglia di carabinieri e due pregiudicati latitanti ucciso il carabiniere Domenico Barranco.

13 agosto. Uccisione di Giuseppe Spagnolo, dirigente del movimento contadino e sindaco comunista di Cattolica Eraclea (Agrigento).

1956

13 gennaio. A Venosa (Potenza) durante una manifestazione per il lavoro le forze dell’ordine colpiscono a morte il giovane bracciante Rocco Girasole e feriscono 14 persone.

14 marzo. A Barletta (Bari) la polizia spara sulla folla durante un corteo di donne e braccianti. Muoiono Giuseppe Spadaro, Giuseppe Di Corato e Giuseppe Lo Iodice.

1957

25 marzo. A Camporeale (Palermo) viene ucciso Pasquale Almerico e ferito il fratello. Muore il passante Antonino Pollari. Almerico, sindaco democristiano, si opponeva all’ingresso di mafiosi nel partito e si era rivolto al segretario provinciale Giovanni Gioia, senza avere risposta. Il capomafia Vanni Sacco, indiziato del delitto, venne assolto per insufficienza di prove.

9 settembre. A San Donaci (Brindisi), durante una manifestazione di contadini la polizia spara sulla folla. Muoiono Mario Calò, Luciano Valentini e una donna, Antonia Calignano, uscita per mettere al sicuro i suoi bambini.

1958

18 marzo. A Licata (Agrigento) ucciso Vincenzo Di Salvo, dirigente della Lega degli edili. Da una settimana era alla testa dello sciopero dei dipendenti della ditta Jacona, presso cui lavorava, che da più di un mese non ricevevano la paga. Accusato del delitto il capomafia del paese Salvatore Puzzo, che sfugge alla giustizia rifugiandosi in America.

1959

26 giugno. A Palermo uccisa Anna Prestigiacomo, di 15 anni, forse per vendetta nei confronti del padre ritenuto confidente dei carabinieri.

8 settembre. Nei pressi di Corleone (Palermo) ucciso in un conflitto a fuoco con dei banditi il carabiniere Clemente Bovi.

18 settembre. A Palermo durante una sparatoria tra mafiosi cade uccisa la tredicenne Giuseppina Savoca.

26 ottobre. A Godrano (Palermo), in un conflitto tra le cosche mafiose della zona, vengono uccisi il bambino Antonino Pecoraro di 10 anni e il fratellino Vincenzo.

1960

30 marzo. Ad Agrigento, assieme al commissario Cataldo Tandoj viene ucciso un giovane passante, Antonio Damanti. Per la Commissione parlamentare antimafia, l’omicidio di Tandoj va inserito “nel contesto delle relazioni tra il commissario e l’organizzazione mafiosa di Raffadali (Agrigento)”. I mafiosi temevano che il commissario, in procinto di trasferirsi a Roma, potesse rivelare segreti riguardanti delitti e attività della mafia.

5 maggio. Nei pressi di Termini Imerese (Palermo) sui binari della ferrovia viene trovato il corpo senza vita di Cosimo Cristina che aveva fondato un foglio locale ed era corrispondente del giornale “L’Ora” di Palermo. Si era occupato di varie inchieste e in particolare della vicenda dei frati di Mazzarino, processati e condannati per i loro rapporti con mafiosi.

5-8 luglio. Durante le manifestazioni contro il governo di destra presieduto da Tambroni la polizia spara sui manifestanti. Muoiono: il 5 luglio a Licata (Agrigento), Vincenzo Napoli; il 7 luglio a Reggio Emilia, Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli; l’8 luglio a Palermo, Andrea Gangitano, Rosa La Barbera, Giuseppe Malleo, Francesco Vella; a Catania, Salvatore Novembre.

27 settembre. A Lucca Sicula (Agrigento) uccisione di Paolo Bongiorno, dirigente del movimento contadino, operante nell’Agrigentino fin da tempi dei Fasci siciliani.

1961

18 gennaio. A Tommaso Natale, borgata di Palermo, nel corso della faida mafiosa tra le famiglie Cracolici e Riccobono, viene ucciso il tredicenne Paolino Riccobono.

1962

28 maggio. A Ceccano (Frosinone) le forze dell’ordine aprono il fuoco durante una manifestazione operaia. Cade ucciso l’operaio Luigi Mastrogiacomo.

2 luglio. A Bagheria (Palermo) ucciso il bracciante Giacinto Puleo.

27 ottobre. A Bascapè (Pavia) cade l’aereo personale e muore il presidente dell’Eni (Ente nazionale idrocarburi) Enrico Mattei. Anche se le inchieste giudiziarie non hanno dato risultati definitivi, è probabile un ruolo della mafia nella preparazione dell’ “incidente” che ha determinato la scomparsa di Mattei, impegnato in una politica energetica concorrenziale con quella delle grandi società petrolifere.

1963

30 giugno. Nella mattinata a Villabate (Palermo) una giulietta imbottita di tritolo scoppia davanti al garage del capomafia Giovanni Di Peri, uccidendo assieme al guardiano del garage Pietro Cannizzaro il fornaio Giuseppe Tesauro che passava nel momento dell’esplosione.

Nel pomeriggio strage di Ciaculli (borgata di Palermo), regno della famiglia mafiosa dei Greco. Era in corso una sanguinosa guerra di mafia tra i Greco e i fratelli La Barbera. Una giulietta al tritolo, destinata ad esplodere vicino all’abitazione di mafiosi della zona, scoppia uccidendo 7 rappresentanti delle forze dell’ordine accorsi sul posto, in seguito a una chiamata telefonica. Muoiono il tenente dei carabinieri Mario Malausa, i marescialli dei carabinieri Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, il maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio, i carabinieri Eugenio Altomare e Marino Fardelli, il soldato Giorgio Ciacci. Dopo la strage comincia a operare la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia in Sicilia, richiesta fin dal 1948 e costituita nel 1961.

1966

24 marzo. A Tusa (Messina) uccisione del sindacalista Carmelo Battaglia. Assessore comunale socialista, faceva parte della cooperativa di pascolo “Risveglio alesino”.

1967

2 febbraio. A Campobasso ucciso in una sparatoria con un pregiudicato l’appuntato dei carabinieri Nicola Mignogna.

29 dicembre. A Torre del Greco (Napoli) uccisione dell’appuntato dei carabinieri Giuseppe Piani.

1968

2 dicembre. Ad Avola (Siracusa), durante uno sciopero di braccianti le forze dell’ordine sparano sui manifestanti: due morti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia e 48 feriti.

1969

9 aprile. A Battipaglia (Salerno), durante una manifestazione per la chiusura di due stabilimenti che davano lavoro a 800 operai, la folla assalta il municipio. Reparti di polizia sparano sui manifestanti. Due morti: Teresa Ricciardi, che si era affacciata al balcone, e Carmine Citro, che era per strada, e 200 feriti. Le aziende saranno riaperte. I sindacati organizzano uno sciopero nazionale che darà l’avvio alle lotte alla Fiat.

27 aprile. Nelle campagne di Altavilla Milicia (Palermo), nel corso di un’operazione per la cattura degli autori di un’estorsione, viene ucciso il carabiniere Orazio Costantino.

10 dicembre. A Palermo strage negli uffici di un’impresa di costruzioni in viale Lazio, ad opera dei “corleonesi”, durante la quale viene ucciso anche il custode Giovanni Domè, riconosciuto vittima innocente.

1970

16 settembre. A Palermo scompare il giornalista Mauro De Mauro, del giornale “L’Ora”. Il delitto è stato messo in relazione con un’inchiesta che De Mauro si accingeva a svolgere sulla morte del Presidente dell’Eni Enrico Mattei e con il fallito golpe Borghese del 1970.

1971

2 febbraio. A Foggia, nel corso di scontri tra scioperanti e forze dell’ordine, muore il bracciante agricolo Domenico Centola.

4 febbraio. A Catanzaro vengono lanciate bombe contro un corteo antifascista. Muore Giuseppe Malacaria e ci sono 14 feriti.

4 aprile. A Caulonia Marina (Reggio Calabria) ucciso il carpentiere Vincenzo Scuteri. Non accettava le forniture della ‘ndrangheta.

5 maggio. A Palermo uccisione del procuratore della Repubblica Pietro Scaglione e dell’autista Antonino Lo Russo. Scaglione era stato chiamato in causa per le vicende relative alla sparizione di Luciano Liggio, ma con sentenza passata in giudicato, dopo la conferma della Cassazione, è stato riconosciuto che si era “attivamente adoperato per l’arresto del Liggio” e aveva preso “numerose iniziative” a carico dello stesso capomafia.

21 maggio. A Delianuova (Reggio Calabria) Domenico Ietto ferito gravemente durante un tentativo di sequestro morirà qualche mese dopo.

1972

16 aprile. A Polistena (Reggio Calabria) ucciso per errore Domenico Cannata. Nel 2005 è stato riconosciuto vittima innocente della ‘ndrangheta.

5 maggio. A Pisa, durante una manifestazione antifascista, negli scontri con la polizia rimane ferito lo studente Franco Serantini. Incarcerato e privo di assistenza morirà due giorni dopo.

27 ottobre. A Ragusa viene ucciso il cronista del giornale “L’Ora” Giovanni Spampinato, di 27 anni. Il delitto è opera del giovane Roberto Cambria, figlio del presidente del tribunale, ed è frutto dei rapporti conflittuali tra neofascisti, servizi segreti e ambienti criminali, su cui Spampinato indagava.

27 dicembre. A Cittanova (Reggio Calabria) ucciso da un proiettile vagante il consigliere comunale del PCI Giovanni Ventra, durante un’imboscata a un uomo del clan Facchineri.

1973

23 gennaio. A Milano, nel corso di scontri tra manifestanti del Movimento studentesco e forze dell’ordine, viene ucciso lo studente Roberto Franceschi.

26 luglio. A Crotone durante una sparatoria viene colpita a morte l’anziana Maria Giovanna Elia.

1974

10 gennaio. Nella borgata palermitana di San Lorenzo ucciso il maresciallo di polizia in pensione Angelo Sorino che collaborava con un collega in servizio a un’inchiesta sulla mafia della zona.

6 febbraio. A Bari ucciso Nicola Ruffo, un macchinista delle ferrovie dello Stato mentre cercava di difendere la titolare di una tabaccheria nel corso di una rapina.

14 ottobre. A Varese, rapito dal clan Zagari, Emanuele Riboli, e ucciso con il veleno dopo che i rapitori avevano scoperto che nella valigetta con il denaro del riscatto c’era una ricetrasmittente.

15 ottobre. A Olginate (Lecco) rapito Giovanni Stucchi, che muore durante il sequestro.

1975

13 febbraio. A Comerio (Varese) rapimento dell’imprenditore Tullio De Micheli, che verrà ucciso.

13 aprile. A Cittanova (Reggio Calabria) in una faida uccisi Michele, di 12 anni, e Domenico Facchineri, di 9 anni, figli di Giuseppe anche lui ucciso. Domenico in ginocchio aveva scongiurato i suoi assassini di non sparare.

17 aprile. A Milano, durante una manifestazione per l’uccisione dello studente Claudio Varalli, avvenuta il giorno prima ad opera di neofascisti, i carabinieri caricano i manifestanti e uccidono Giannino Zibecchi. A Torino, per un colpo di pistola sparato da una guardia giurata, durante una manifestazione per Varalli, muore l’operaioTonino Miccichè di 25 anni.

18 giugno. A Roccamena (Palermo) ucciso Calogero Morreale, segretario socialista e dirigente dell’Alleanza coltivatori. Era stato uno dei principali artefici della vittoria delle sinistre alle elezioni comunali del 15 giugno. Ai funerali partecipano duemila persone e accanto alla vedova è la madre di Salvatore Carnevale, Francesca Serio. Il padre di Morreale, Pietro, accusa come responsabili del delitto i mafiosi della zona, ma le indagini ben presto si arenano e il delitto rimane impunito.

1 luglio. A Eupidio (Como) viene sequestrata Cristina Mazzotti. Il suo corpo verrà trovato due mesi dopo in una discarica.

2 luglio. A Palermo, durante il sequestro dell’imprenditore Angelo Randazzo, viene ucciso l’agente di polizia Gaetano Cappiello.

3 luglio. A Nicastro (Catanzaro) uccisione dell’avvocato generale dello Stato presso la Corte d’appello Francesco Ferlaino. Era stato presidente del Tribunale che aveva processato numerosi mafiosi. Il delitto è rimasto impunito.

1976

5 gennaio. Ad Afragola (Napoli) uccisione del maresciallo dei carabinieri Gerardo D’Arminio.

27 gennaio. Ad Alcamo Marina (Trapani) uccisi i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Non si è riusciti a individuare il movente. Sono stati condannati: all’ergastolo Giuseppe Gulotta, a 22 anni Gaetano Santangelo e a 14 anni Vincenzo Ferrantelli, gli ultimi due latitanti in Brasile. Era stato incriminato anche Giuseppe Vesco, suicidatosi nel carcere di Trapani nell’ottobre del 1977. I condannati non risultano legati a gruppi mafiosi o a formazioni terroristiche.

4 marzo. A Mezzojuso (Palermo) assassinio del dirigente dell’Alleanza coltivatori Giuseppe Muscarella. Aveva promosso una campagna per l’acquisto collettivo di fertilizzanti rompendo il monopolio delle cosche e aveva proposto la costituzione di una cooperativa.

4 maggio. A Melicuccà (Reggio Calabria) muoiono durante un tentativo di rapimento il 73enne avvocato e possidente Alberto Capua (ex sindaco di Melicuccà) e il suo autista Vincenzo Ranieri.

23 maggio. A Torino sequestrato Mario Ceretto. Il suo corpo fu trovato qualche tempo dopo nelle campagne vicino a Orbassano.

7 luglio. A Catania scompaiono quattro ragazzi, Giovanni La Greca, Riccardo Cristaldi, Lorenzo Pace e Benedetto Zuccaro. Avevano scippato la madre di Nitto Santapaola. Verranno uccisi e gettati in un pozzo.

19 settembre. A Ottaviano (Napoli) uccisione di Pasquale Cappuccio, avvocato e segretario della sezione comunista.

29 settembre. A Taurianova (Reggio Calabria) ucciso il piccolo Rocco Corica, di sette anni, nella faida tra famiglie della ‘ndrangheta.

7 ottobre. A Grotteria (Reggio Calabria) rapimento del farmacista Vincenzo Macrì, che verrà ucciso.

15 ottobre. A Torino viene rapito l’imprenditore Adriano Ruscalla. Muore durante il sequestro.

25 ottobre. A Milano viene rapito l’imprenditore Mario Ceschina, che muore durante il sequestro.

10 dicembre. Nelle campagne di Gioia Tauro (Reggio Calabria) viene ucciso per sbaglio nel corso della faida tra clan rivali il giovane Francesco Vinci, militante comunista impegnato in attività antimafia.

31 dicembre. Ad Africo (Reggio Calabria) ucciso dalla ‘ndrangheta il ventisettenne anarchico Salvatore Barbagallo.

1977

11 marzo. A Bologna negli scontri tra forze dell’ordine e studenti di sinista è ucciso lo studente Francesco Lorusso.

12 marzo. A Giojosa Jonica (Reggio Calabria) ucciso Rocco Gatto, mugnaio, militante comunista impegnato nella lotta contro la ‘ndrangheta. Avevano tentato di estorcergli del denaro e aveva ricevuto minacce.

1 aprile. A Razzà di Taurianova (Reggio Calabria), durante un conflitto a fuoco davanti a una casa nella quale si stava svolgendo un summit di mafia, vengono uccisi l’appuntato dei carabinieri Stefano Condello e il carabiniere Vincenzo Caruso.

12 maggio. A Roma, durante una manifestazione di piazza, intervengono le forze dell’ordine. Cade uccisa la diciottenne Giorgiana Masi.

28 agosto. In Calabria, dove si trovava in vacanza con la famiglia, rapita Mariangela Passiatore, che non è stata più ritrovata.

15 luglio. Ucciso a Sidney Donald Mackay, agente della squadra antidroga che aveva arrestato quattro persone di origini italiane.

20 agosto. Nella piazza del borgo di Ficuzza, nei pressi di Corleone (Palermo), uccisi l’ex colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo e l’insegnante Filippo Costa che lo accompagnava. L’omicidio è stato collegato con le indagini del colonnello Russo sul sequestro dell’esattore Corleo e con altre indagini.

30 settembre. A Roma ucciso da un gruppo di neofascisti, alla presenza di un blindato della polizia, il giovane comunista Walter Rossi, mentre effettuava un volantinaggio di protesta per le aggressioni subite nei giorni precedenti da alcuni militanti e simpatizzanti della sinistra.

30 novembre. A Palermo uccisione del maresciallo degli agenti di custodia del carcere Ucciardone Attilio Bonincontro. Un commando di killer lo ha assassinato sotto casa, nei pressi del carcere.

1978

26 gennaio. A Corleone (Palermo) viene ucciso l’avvocato Ugo Triolo, vicepretore onorario di Prizzi. In precedenza aveva ricevuto intimidazioni.

7 febbraio. A Torino viene rapito l’imprenditore Francesco Stola, che morirà durante il sequestro.

18 marzo. A Milano, i giovani Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci (Iaio) vengono uccisi da killer rimasti ignoti. Il giornalista Mauro Brutto, che si era occupato del delitto, muore il 25 novembre dello stesso anno in un incidente stradale sospetto. Fausto e Iaio avevano collaborato alla redazione di un dossier sulla droga.

9 maggio. Sui binari della ferrovia Trapani-Palermo, nei pressi di Cinisi (Palermo), vengono trovati i resti del corpo di Giuseppe Impastato, dilaniato da un’esplosione. Proveniente da una famiglia mafiosa, giovanissimo aveva rotto con il padre e la parentela e avviato un’attività antimafia, impegnandosi nei gruppi di Nuova Sinistra e conducendo campagne di denunzia e mobilitazione, assieme a un’intensa attività culturale, negli ultimi anni attraverso i microfoni di Radio Aut. Era candidato alle elezioni comunali in una lista di Democrazia proletaria.

22 maggio. A Palermo, assieme al capomafia Giuseppe Sirchia, viene uccisa la moglie, Giacoma Gambino. Sirchia, sapendosi in pericolo, era solito farsi accompagnare dalla moglie perché pensava che i mafiosi non avrebbero ucciso una donna.

21 agosto. A Platì (Reggio Calabria) ucciso il commerciante Fortunato Furore, probabilmente perché non aveva pagato il pizzo.

29 agosto. A Pagani (Salerno) uccisione di Antonio Esposito Ferraioli, di 23 anni. Delegato sindacale della Cgil presso la Fatme, denunciava la pessima qualità delle carni fornite alla mensa aziendale, provenienti dalla macellazione clandestina.

26 settembre. A Bolognetta (Palermo) uccisione del vigile urbano Salvatore Castelbuono. Aveva collaborato con le Forze dell’ordine nella ricerca di latitanti.

9 novembre. A Meda (Milano) rapito e ucciso lo studente Paolo Giorgetti, 16 anni, figlio di un mobiliere.

1979

5 gennaio. A Rizziconi (Reggio Calabria) uccisi Carmelo Di Giorgio e Primo Perdoncini, operai della Montresor e Morselli di Verona. Avevano acquistato agrumi dai produttori di Gioia Tauro turbando il mercato controllato dalla ‘ndrangheta.

11 gennaio. A Palermo uccisione del sottufficiale di PS Filadelfo Aparo, impegnato in indagini di mafia.

26 gennaio. A Palermo uccisione di Mario Francese, cronista del “Giornale di Sicilia”. Si era interessato di speculazioni mafiose nei lavori della costruzione della diga Garcia e aveva documentato l’ascesa del gruppo dei “corleonesi”. Il figlio di Mario, Giuseppe, che si era prodigato per ottenere l’accertamento della verità, ci ha lasciato il 3 settembre 2002.

9 febbraio. A Reggio Calabria vengono uccisi Antonino Tripodo e Rocco Giuseppe Barillà, per avere dato un passaggio in auto al sorvegliato speciale Rocco D’Agostino.

9 marzo. A Palermo uccisione del segretario provinciale democristiano Michele Reina. Anche se non risulta una presa di posizione contro la mafia, il delitto potrebbe essere messo in relazione con i tentativi dell’uomo politico di intrecciare rapporti con l’opposizione. Reina aveva appena partecipato a un congresso del Partito comunista.

26 aprile. A Palermo, durante una rapina alla Cassa di Risparmio, viene ucciso il metronotte Alfonso Sgroi. Facevano parte della banda di rapinatori i mafiosi Pino Greco, detto “scarpuzzedda”, e Pietro Marchese.

4 giugno. In provincia di Agrigento ucciso ad un posto di blocco il carabiniere Baldassare Nastasi.

11 luglio. A Milano uccisione dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Il killer è il mafioso William Aricò, che il 21 febbraio del 1984, durante un processo, cadrà dal nono piano del Memorial Correctional Center di New York. Condannato all’ergastolo come mandante il banchiere Sindona, successivamente morto di veleno in carcere.

21 luglio. A Palermo uccisione del vicequestore Boris Giuliano, particolarmente impegnato nelle inchieste sul traffico internazionale di droga.

31 luglio. A Limbadi (Vibo Valentia) ucciso Orlando Legname, militante del Pci che si occupava dell’azienda agricola della famiglia. Si opponeva alle richieste del clan Mancuso.

28 agosto. A Palermo scompare il vicecomandante delle guardie del carcere Ucciardone Calogero Di Bona. Aveva redatto un rapporto di denuncia sul pestaggio di un agente di custodia avvenuto nel carcere: potrebbe essere stato il movente del delitto. Nel 2011 la Procura di Palermo riapre le indagini su richiesta dei familiari. Nel dicembre del 2012 viene chiesto il rinvio a giudizio per il boss Salvatore Lo Piccolo e per Salvatore Liga, già in carcere per altri reati. Secondo alcune dichiarazioni dei pentiti, dopo essere stato rapito, il maresciallo fu sottoposto a un interrogatorio, su mandato del capomafia Rosario Riccobono: i boss volevano sapere i nomi degli agenti di custodia che avevano spedito una lettera ai giornali, per denunciare la situazione del carcere dell’Ucciardone, dove la nona sezione era stata trasformata dai capi di Cosa nostra in un club esclusivo, che aveva anche come succursale il reparto infermeria. Solo dopo la scomparsa del maresciallo, il ministero della Giustizia mandò un’ispezione.

25 settembre. A Palermo uccisione del magistrato Cesare Terranova e della guardia del corpo e collaboratore maresciallo Lenin Mancuso. Nel corso degli anni ’60 Terranova aveva istruito i principali processi di mafia, sostenendo la tesi dell’esistenza dell’associazione criminale e del coordinamento tra le varie cosche. Successivamente era stato eletto al Parlamento come indipendente nelle liste del Pci e aveva fatto parte della Commissione antimafia, collaborando alla relazione di minoranza del Partito comunista. Tornato a Palermo si accingeva a ricoprire l’incarico di Consigliere istruttore. Del delitto viene incriminato Luciano Liggio, assolto. Successivamente sono stati condannati come mandanti i capi della cupola.

10 novembre. Al casello autostradale di San Gregorio, nei pressi di Catania, durante il trasferimento del detenuto Angelo Pavone, in un agguato vengono uccisi il vicebrigadiere Giovanni Bellissima e gli appuntati Salvatore Bologna e Domenico Marrara. Il triplice omicidio viene consumato durante la visita del Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Pavone viene sequestrato e ucciso.

14 novembre. A Milano viene rapito Cesare Pedesini, titolare di un’azienda, che morirà durante il sequestro.

1980

6 gennaio. A Palermo, in via Libertà, uccisione del presidente della Regione e dirigente democristiano Piersanti Mattarella. Si era impegnato in un’azione di moralizzazione della vita pubblica, bloccando alcuni appalti a cui erano interessati imprenditori mafiosi e si adoperava per un rinnovamento del quadro politico aperto al coinvolgimento del Partito comunista.

4 maggio. A Monreale (Palermo) la sera dei festeggiamenti del Santo patrono viene ucciso il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Aveva in braccio la figlia di pochi anni. Si era impegnato in indagini sulla mafia della zona, soprattutto attraverso accertamenti bancari.

11 giugno. A Rosarno (Reggio Calabria) uccisione di Giuseppe Valarioti, giovane dirigente comunista, impegnato nella lotta contro la ‘ndrangheta.

21 giugno. A Cetraro (Cosenza) ucciso Giovanni Losardo, assessore comunale ai Lavori pubblici che si opponeva agli interessi della ‘ndrangheta collegati con gli appalti e i subappalti di opere pubbliche.

13 luglio. A Palermo ucciso l’agente di polizia penitenziaria Pietro Cerulli.

6 agosto. A Palermo, in via Cavour, ucciso il procuratore capo Gaetano Costa. Aveva firmato da solo, poiché i sostituti procuratori si erano rifiutati di farlo, dei mandati di cattura contro vari mafiosi, tra cui gli Inzerillo, implicati nel traffico di droga. Il delitto è rimasto impunito.

28 agosto. Nei pressi dell’aeroporto di Punta Raisi (Palermo) uccisione dell’albergatore Carmelo Iannì. La sua collaborazione con le forze dell’ordine aveva portato all’arresto di mafiosi e del chimico francese André Busquet che raffinava eroina e alloggiava nell’albergo che, dopo la morte del titolare, resterà chiuso per anni.

11 ottobre. A San Giovanni a Teduccio (Napoli) ucciso da un proiettile vagante in una sparatoria tra clan rivali il giovane operaio Ciro Rossetti.

17 ottobre. A Siderno (Reggio Calabria) viene rapito Antonino Colista, procuratore dell’Ufficio delle imposte di Stignano, che muore durante il sequestro.

7 novembre. A Ottaviano (Napoli) ucciso il segretario della sezione comunista e consigliere comunale Domenico Beneventano. Medico chirurgo, si era impegnato nell’attività politica ed era stato eletto consigliere nelle liste del Pci nel 1975 e riconfermato nel 1980. Si era opposto decisamente alle connivenze tra gruppi camorristici e politici locali.

11 dicembre. A Pagani (Salerno) ucciso l’avvocato e sindaco democristiano Marcello Torre, che si opponeva alle infiltrazioni camorristiche negli appalti per la ricostruzione dopo il terremoto nell’Irpinia.

1981

9 febbraio. Ad Alessandria della Rocca (Agrigento) uccisi per sbaglio Domenico Francavilla, Mariano Virone e il dodicenne Vincenzo Mulè in un agguato contro il capomafia del paese.

27 marzo. A Salerno ucciso nel suo studio l’avvocato Leopoldo Gassani per non aver voluto rinunciare alla difesa di un componente di una banda di sequestratori che aveva deciso di collaborare con la giustizia. Con lui è stato ucciso il suo segretario Giuseppe Grimaldi.

14 aprile. A Napoli ucciso dagli uomini di Cutolo il direttore di Poggioreale Giuseppe Salvia.

3 luglio. A Torino viene rapito il costruttore Lorenzo Crosetto, che morirà durante la prigionia.

10 settembre. A Palermo uccisione del maresciallo dei carabinieri Vito Ievolella. Indagava sul contrabbando di sigarette e sul traffico di droga.

29 settembre. A Castronovo di Sicilia (Palermo) uccisi Vincenzo Romano e Michele Ciminnisi in un bar, durante una sparatoria per uccidere il capomafia Calogero Pizzuto.

6 novembre. A Palermo uccisione del chirurgo Sebastiano Bosio. Secondo le dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia, Bosio sarebbe stato ucciso perché secondo i mafiosi aveva curato male Pietro Fascella, che era rimasto ferito dalla polizia, in un blitz durante un summit di mafia.

11 novembre. A Fasano (Brindisi), viene trovata ustionata e agonizzante a casa sua Palmina Martinelli, di 14 anni, che morirà, dopo atroci sofferenze, non senza essere riuscita a parlare e a dire che l’avevano cosparsa di alcol e dato fuoco perché rifiutava di prostituirsi.

25 dicembre. A Bagheria (Palermo) ucciso in una sparatoria tra mafiosi il pensionato Onofrio Valvola.

1982

8 gennaio. A Torre Annunziata (Napoli) ucciso il maresciallo dei carabinieri Luigi D’Alessio, da camorristi che aveva fermato per un controllo. Nella sparatoria è stata uccisa la sedicenne Rosa Visone.

13 gennaio. A Cutro (Catanzaro), durante un attentato al boss Antonio Dragone, rimane ucciso il maresciallo dei carabinieri Francesco Borrelli.

26 gennaio. A Isola delle Femmine (Palermo) uccisione del carabiniere in pensione Nicolò Piombino. Stava collaborando per la ricostruzione di alcuni delitti avvenuti nella zona.

Aprile. A Torre Annunziata (Napoli) ucciso Luigi Cafiero. Secondo la dichiarazione di un collaboratore di giustizia, avvenuta undici anni dopo, sarebbe stato scambiato per un camorrista.

30 aprile. A Palermo uccisione del segretario regionale comunista Pio La Torre e dell’autista e collaboratore Rosario Di Salvo. La Torre, dirigente delle lotte contadine, deputato all’Assemblea regionale siciliana e al Parlamento, dirigente nazionale del partito, era tornato in Sicilia ed era impegnato nella lotta contro la mafia e nella mobilitazione contro l’installazione dei missili a testata nucleare a Comiso. Aveva elaborato il disegno di legge che poi sarà recepito nella legge antimafia del settembre 1982. Condannati per il duplice delitto i capimafia della cupola.

3 maggio. A Reggio Calabria ucciso con un’autobomba l’ingegnere Gennaro Musella. Proprietario di una cava forniva materiali per costruzione. Il delitto è maturato all’interno dei contrasti d’interesse per la costruzione del porto di Bagnara Calabra. La gara d’appalto era stata vinta da un’associazione d’imprese con in testa i “cavalieri” di Catania (gli imprenditori Costanzo, Finocchiaro, Graci e Rendo) e l’ingegnere Musella aveva presentato esposti contro il Genio civile che avrebbe favorito le imprese vincitrici. L’inchiesta è stata archiviata e il delitto è rimasto opera di ignoti.

8 maggio. A Porto Empedocle (Agrigento) uccisi sul loro posto di lavoro Giuseppe Lala, Antonio Valenti e Domenico Vecchio. Sono stati riconosciuti vittime innocenti di un delitto mafioso.

24 maggio. A Palermo nella camera della morte, in Corso dei Mille, vengono strangolati i giovani Rodolfo Buscemi e Matteo Rizzuto. Buscemi indagava sull’omicidio del fratello Salvatore e Rizzuto si trovava solo casualmente in sua compagnia. La sorella Michela si è costituita parte civile nel maxiprocesso contro la cupola mafiosa e i responsabili di una serie di omicidi.

29 maggio. A Cava dei Tirreni viene uccisa Simonetta Lamberti, di 10 anni, da un killer della camorra nel corso di un attentato il cui obiettivo era il padre di Simonetta, il giudice Alfonso Lamberti, procuratore di Sala Consilina, con il quale stava rincasando.

6 giugno. A Palermo ucciso Antonino Peri, autotrasportatore. Come hanno raccontato alcuni collaboratori di giustizia, aveva inseguito una macchina che aveva tamponato la sua autovettura; a bordo erano due mafiosi che facevano da scorta a un’altra auto nel cui bagagliaio c’era il corpo di un uomo appena ucciso. I mafiosi l’hanno scambiato per un poliziotto.

16 giugno. A Palermo, sulla circonvallazione, un commando mafioso uccide assieme al capomafia Alfio Ferlito, in contrasto con Nitto Santapaola, i carabinieri Luigi Di Barca, Silvano Franzolin, Salvatore Raiti e l’autista Giuseppe Di Lavore.

29 giugno. A Termini Imerese (Palermo) ucciso l’agente penitenziario Antonino Burrafato. Si era rifiutato di fare incontrare Leoluca Bagarella con la madre e la sorella.

2 luglio. A Marano (Napoli) uccisione del carabiniere ventenne Salvatore Nuvoletta ad opera di camorristi su mandato di Francesco Schiavone, detto Sandokan.

11 agosto. Al Policlinico di Palermo uccisione del docente universitario e medico legale Paolo Giaccone. Non aveva voluto modificare una perizia che incolpava Giuseppe Marchese, nipote del capomafia Filippo, degli omicidi avvenuti a Bagheria nel Natale 1981.

30 agosto. A Palermo ucciso il giovane commerciante Vincenzo Spinelli. Secondo il collaboratore di giustizia Francesco Onorato, aveva fatto arrestare l’autore di una rapina avvenuta nel suo negozio, un giovane parente dei capimafia Giuseppe Savoca e Masino Spadaro.

3 settembre. A Palermo, in via Carini, uccisione del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente Domenico Russo. Dalla Chiesa era stato nominato prefetto di Palermo dopo l’omicidio di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo.

Nello stesso giorno a Frattaminore (Napoli) ucciso in un agguato il maresciallo della Squadra mobile Andrea Mormile.

14 settembre. A Napoli ucciso dalla camorra il brigadiere Antimo Graziano, che prestava servizio presso la Casa circondariale di Poggioreale.

7 ottobre. Ad Avellino ucciso il carabiniere Elio Di Mella, durante la traduzione dal carcere di Campobasso a quello di Avellino di un detenuto, boss della Nuova camorra organizzata. Alcuni camorristi hanno assaltato il furgone, ucciso Di?Mella cha aveva tentato di reagire e prelevato il detenuto.

15 ottobre. A Cesa (Caserta) viene ucciso l’agente di polizia penitenziaria di Poggioreale (Napoli) Gennaro De Angelis.

9 novembre. A Caraffa del Bianco (Reggio Calabria) ucciso il tredicenne Giovanni Canturi, in un agguato allo zio Rosario Zerilli ucciso per vendetta.

A Castrovillari (Cosenza) viene rapito Eduardo Annichiarico, studente, figlio di un gioielliere. Muore durante il sequestro.

14 novembre. A Palermo, in via Notarbartolo, uccisione dell’agente Calogero Zucchetto, impegnato nella ricerca di mafiosi latitanti.

24 novembre. A San Cataldo (Caltanissetta) ucciso Carmelo Cerruto, probabilmente perché indagava sulla morte del figlio, il giovane Emanuele Cerruto, ucciso il 27 settembre 1981.

10 dicembre. A Locri (Reggio Calabria) ucciso il professore presso il Liceo scientifico Francesco Panzera. Si era attivamente occupato del problema della tossicodipendenza.

1983

2 gennaio. A Vibo Valentia scompare il tredicenne Francesco Pugliese.

25 gennaio. A Valderice (Trapani) viene ucciso il sostituto procuratore Giangiacomo Ciaccio Montalto, impegnato in indagini di mafia nel Trapanese.

31 gennaio. A Napoli ucciso, dopo numerose minacce ricevute, Nicandro Izzo, agente in servizio presso l’istituto penitenziario di Poggioreale.

5 marzo. A Santa Maria Capua Vetere (Cosenza) ucciso Pasquale Mandato, maresciallo degli agenti di custodia del carcere.

11 marzo. A Palermo, uccisione del costruttore edile Salvatore Pollara. Aveva collaborato con la giustizia per fare processare i responsabili dell’omicidio del fratello Giovanni, scomparso nel 1979.

27 aprile. A Palermo ucciso l’appuntato dei carabinieri in pensione Gioacchino Crisafulli. Secondo i collaboratori di giustizia, aveva denunciato due ladri.

28 aprile. Sulla Circonvallazione esterna di Napoli ucciso in un agguato il brigadiere dei carabinieri Domenico Celiento.

13 giugno. A Palermo in via Scobar uccisi il capitano dei carabinieri di Monreale Mario D’Aleo e i carabinieri Giuseppe Bommarito e Pietro Morici. Il capitano D’Aleo aveva sostituito il capitano Basile e aveva continuato le indagini sulle attività della mafia del Monrealese.

26 giugno. A Torino uccisione del procuratore capo Bruno Caccia. Indagava sul “clan dei calabresi” e sui mafiosi catanesi operanti nel Nord Italia.

30 giugno. A Figline Vegliaturo (Cosenza) scompare Attilio Aceti, ristoratore; forse un sequestro per vendetta.

29 luglio. A Palermo, in via Pipitone Federico, un’autobomba uccide il consigliere istruttore Rocco Chinnici, gli uomini di scorta Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Chinnici aveva avviato il pool antimafia e aveva avuto un ruolo decisivo nella strategia giudiziaria fondata sul coordinamento dei magistrati impegnati in inchieste sulla mafia, considerata come un fenomeno unitario. Solo nel 2000 sono stati condannati all’ergastolo come mandanti i capi della cupola e condannati a 18 anni come esecutori Giovanni Brusca, Calogero Ganci, Giovan Battista Ferrante e Francesco Paolo Anzelmo, nel frattempo diventati collaboratori di giustizia. Nel 2003 la Cassazione ha confermato le condanne. La strage sarebbe stata voluta da Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori di Salemi su cui Chinnici indagava.

11 ottobre. A Maddaloni (Caserta) ucciso Franco Imposimato, fratello del magistrato Ferdinando che indagava sui rapporti tra la banda della Magliana e Cosa nostra. Una vendetta trasversale compiuta da camorristi su mandato del capomafia Pippo Calò.

Lo stesso giorno, sempre in provincia di Caserta, viene ucciso l’agente penitenziario Ignazio De Florio.

12 ottobre. A Lamezia Terme (Catanzaro) viene rapito Giuseppe Bertolami, florovivaista, che muore durante il sequestro. Due anni dopo il sequestro la famiglia Bertolami denuncia le inerzie degli investigatori.

4 novembre. A San Ferdinando (Reggio Calabria) uccisi i ragazzi Domenico Cannatà, di undici anni, e Serafino Trifarò, di quattordici anni, durante un agguato contro il padre di Domenico.

29 novembre. A Prizzi (Palermo) scompare il piccolo imprenditore Sebastiano Alongi. La moglie, Anna Pecoraro, costituitasi parte civile nel procedimento contro ignoti, ha denunciato i favoritismi e gli interessi mafiosi nella concessione degli appalti, che avrebbero portato all’isolamento e all’uccisione del marito.

2 dicembre. Ucciso, mentre tornava da Poggioreale (Napoli), assieme a un collega rimasto ferito, Antonio Cristiano, agente presso la Casa circondariale.

15 dicembre. A Napoli ucciso Luigi Cangiano, di 10 anni, durante una sparatoria tra polizia e spacciatori.

1984

5 gennaio. A Catania viene ucciso il giornalista e scrittore Giuseppe Fava, autore di inchieste, romanzi e opere teatrali. Aveva diretto il quotidiano “Giornale del Sud” e aveva fondato il mensile “I Siciliani”. Per primo aveva denunziato, in pieno isolamento, la presenza della mafia a Catania e i suoi collegamenti con imprenditori e politici. Dopo una serie di depistaggi, l’impegno dei familiari è riuscito a ottenere giustizia con la condanna dei mafiosi del clan Santapaola.

31 marzo. A Nardò (Lecce) uccisione dell’assessore comunale Renata Fonte, riconosciuta vittima della criminalità organizzata perché si opponeva alla speculazione edilizia.

1 maggio. A Giffone (Reggio Calabria) viene rapito Alfredo Sorbara, che lavorava nell’azienda familiare di movimentazione terra. Muore durante il sequestro.

10 giugno. A Marano (Napoli), durante uno scontro tra i clan Nuvoletta e Bardellino, rimane ucciso il passante sedicenne Salvatore Squillace.

2 dicembre. A Palermo attentato contro Leonardo Vitale. Nel 1973, per motivi religiosi, si era autoaccusato e aveva accusato altri mafiosi di alcuni delitti compiuti nel suo quartiere, Altarello, e aveva denunciato i collegamenti con alcuni uomini politici. Era stato creduto e condannato per i delitti commessi, ma non si era prestato fede alle altre rivelazioni, considerate frutto di disturbi mentali. Era stato rinchiuso nel manicomio criminale e poi inviato al confino. Rientrato a Palermo non aveva nessuna protezione. Muore il 7 dicembre.

7 dicembre. A Bagheria (Palermo) uccisione di Pietro Busetta, cognato di Tommaso Buscetta. Una vendetta trasversale per colpire il collaboratore di giustizia.

23 dicembre. Strage sul rapido 904 Napoli-Milano, nei pressi di San Benedetto in Val di Sambro (Bologna). 15 morti: Giovanbattista Altobelli, Anna Maria Brandi, Angela Calvanese, Susanna Cavalli, Lucia Cerrato, Anna De Simone, Giovanni De Simone, Nicola De Simone, Pier Francesco Leoni, Luisella Matarazzo, Carmine Moccia, Valeria Moratello, Maria Luigia Morini, Federica Taglialatela, Abramo Vastarella; più di 200 feriti, tra cui Giovanni Calabrò e Gioacchino Taglialatela, morti successivamente per i traumi riportati. La Corte d’assise d’appello di Bologna il 14 marzo del 1992 ha condannato i mafiosi Pippo Calò, Guido Cercola, Franco D’Agostino e il neofascista tedesco Friedrich Schaudinn.

1985

6 febbraio. A San Luca (Reggio Calabria) ucciso in un agguato Carmine Tripodi, brigadiere comandante della stazione dei carabinieri.

23 febbraio. A Palermo vengono uccisi l’imprenditore Roberto Parisi e l’autista Giuseppe Mangano. Da recenti dichiarazioni di collaboratori di giustizia risulta che Parisi si sarebbe opposto alle richieste della mafia.

27 febbraio. A Palermo omicidio dell’imprenditore Pietro Patti, titolare di uno stabilimento per la lavorazione della frutta secca nella zona industriale di Brancaccio. Si era rifiutato di pagare il pizzo.

28 febbraio. A Reggio Calabria ucciso il vigile urbano Giuseppe Macheda, impegnato in una squadra per la repressione dell’abusivismo edilizio.

13 marzo. A Palermo uccisione dell’imprenditore Giovanni Carbone: probabilmente aveva resistito a tentativi di estorsione.

Lo stesso giorno, a Cosenza ucciso da uomini della ‘ndrangheta il direttore del carcere Sergio Cosmai, che faceva rispettare le regole, abitualmente trasgredite per favorire i boss imprigionati.

27 marzo. A Platì (Reggio Calabria) ucciso il sindaco Domenico De Maio. Platì è un centro dell’Aspromonte sede di una delle ‘ndrine (così si chiamano i gruppi della ‘ndrangheta) più antica e radicata, ma presente pure in altri Paesi, come, per esempio, in Australia.

2 aprile. A Pizzolungo (Trapani) attentato al magistrato Carlo Palermo. Salta in aria la macchina che passa in quell’istante e fa da scudo: muoiono la signora Barbara Rizzo Asta e i gemellini Giuseppe e Salvatore Asta di sei anni. Carlo Palermo aveva condotto a Trento un’inchiesta sul traffico internazionale di droga e di armi e aveva chiesto il trasferimento a Trapani per continuare le sue indagini.

28 luglio. A Porticello, a pochi chilometri da Palermo, ucciso il commissario di polizia Beppe Montana, impegnato nella ricerca dei latitanti.

6 agosto. A Palermo, in via Croce Rossa, cadono in un agguato il capo della Squadra mobile Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia. Scampa all’attentato l’agente Natale Mondo, che sarà ucciso successivamente. Ninni Cassarà era in prima linea nella lotta alla mafia e Roberto Antiochia pur essendo in ferie aveva chiesto di stare al suo fianco.

23 settembre. A Napoli viene ucciso il giornalista Giancarlo Siani. Aveva condotto delle inchieste sui legami tra camorristi e uomini politici nelle speculazioni dopo il terremoto dell’Irpinia.

25 novembre. A Palermo, in via Libertà, un’auto dei carabinieri di scorta ai magistrati Borsellino e Guarnotta sbanda e piomba su un gruppo di studenti in attesa dell’autobus. Muore sul colpo Biagio Siciliano di 14 anni e il primo dicembre muore Giuditta Milella di 17 anni. Molti ragazzi rimangono feriti. Successivamente, il 22 dicembre 2000, morirà Pierluigi Lo Monaco.

29 novembre. A Isola delle Femmine (Palermo) ucciso il brigadiere Enrico Monteleone, nel tentativo di sventare una rapina in atto all’ufficio postale.

12 dicembre. A Villafranca Tirrena (Messina) viene uccisa Graziella Campagna di 17 anni. Lavorava in una lavanderia e aveva trovato in un abito un’agendina del capomafia latitante Gerlando Alberti junior. La ragazza viene sequestrata e uccisa nel timore che possa rivelare l’identità del capomafia.

1986

21 gennaio. A Palermo omicidio dell’imprenditore Paolo Bottone, titolare assieme al padre dell’ISAVIA, una ditta di manutenzioni industriali. Probabilmente il delitto è dovuto al rifiuto di pagare il pizzo.

7 febbraio. A Cosenza ucciso in un agguato Filippo Salsone, maresciallo degli agenti di custodia del carcere, un anno dopo l’uccisione del direttore Sergio Cosmai.

11 febbraio. A Platì (Reggio Calabria) uccisi Francesco Prestia, che era stato più volte sindaco del paese, e la moglie Domenica De Girolamo, nella loro tabaccheria forse durante un tentativo di rapina.

6 aprile. A Napoli ucciso l’agente scelto di polizia Antonio Pianese.

3 maggio. A Bruzzano Zeffirio (Reggio Calabria) uccisi gli studenti Pietro e Fortunata Pezzimenti per una vendetta trasversale.

4 luglio. A Torre Annunziata (Napoli) ucciso Luigi Staiano, un imprenditore edile che si era ribellato al racket.

7 luglio. A Napoli uccisione dell’agente scelto di polizia Vittorio Esposito.

30 luglio. A Salerno ucciso l’agricoltore Antonio Sabia, in un agguato contro Vincenzo Marandino nella guerra di camorra tra gli uomini della Nco di Raffaele Cutolo e i membri della Nuova Famiglia.

26 agosto. Ucciso a Palermo Salvatore Benigno, cassiere presso un cinema, che vide dare alle fiamme un’auto da due mafiosi che avevano commesso un omicidio.

21 settembre. A Porto Empedocle (Agrigento), durante un agguato contro mafiosi rimangono uccisi Filippo Gebbia, mentre passeggiava con la fidanzata, e Antonio Morreale, seduto in un bar con la moglie.

7 ottobre. A Palermo, nel quartiere San Lorenzo, viene ucciso il ragazzo di 11 anni Claudio Domino. Autori del delitto sarebbero stati alcuni spacciatori di droga, uccisi qualche tempo dopo. Claudio potrebbe averli visti mentre spacciavano nel quartiere.

5 novembre. A Licola Mare (Napoli) ucciso Mario Ferillo, impresario teatrale, scambiato per un noto camorrista locale.

17 novembre. A Monreale (Palermo) ucciso il carabiniere ausiliario Rosario Pietro Giaccone.

1987

9 gennaio. In provincia di Catania ucciso Cosimo Aleo, ragazzo di sedici anni, che è stato strangolato e poi finito a colpi di pietre da sicari di Scuto perché aveva rubato in casa di un mafioso.

17 gennaio. A Reggio Calabria ucciso Antonio Scirtò, nel corso di una sparatoria tra le cosche Rosmini e Lo Giudice.

4 marzo. A Polistena (Reggio Calabria) ucciso da un proiettile vagante Giuseppe Richichi, vicepreside dell’istituto magistrale, in un agguato contro Vincenzo Luddeni, direttore della Banca popolare di Polistena, rimasto illeso.

10 aprile. A Cittanova (Reggio Calabria) uccisione del vicebrigadiere dei carabinieri Rosario Iozzia.

15 giugno. A Vibo Valentia ucciso il carabiniere Antonino Civinini.

27 agosto. A Niscemi (Caltanissetta) durante una sparatoria tra due gruppi mafiosi, vengono colpiti a morte i bambini Giuseppe Cutroneo e Rosario Montalto, che giocavano per strada.

4 dicembre. A Castel Morrone (Caserta) uccisione dei carabinieri Carmelo Ganci e Luciano Pignatelli. I carabinieri erano liberi dal servizio ma, appresa la notizia di una rapina, andavano alla ricerca dei rapinatori, inseguendoli con la loro auto. I malviventi aprivano il fuoco e uccidevano i due carabinieri.

20 dicembre. A Napoli, in un mobilificio, ucciso Aniello Giordano da una banda di estorsori.

1988

5 gennaio. A Laureana di Borrello (Reggio Calabria) ucciso il professore Nicola Pititto, forse per vicende legate alle estorsioni.

12 gennaio. A Palermo, in pieno centro, viene ucciso Giuseppe Insalaco, ex sindaco democristiano. Aveva denunziato alla Commissione parlamentare antimafia i collegamenti tra mafia e amministrazione comunale. Insalaco prima viene osteggiato e isolato politicamente, poi è eliminato anche fisicamente.

14 gennaio. A Palermo, nel quartiere Acquasanta, uccisione dell’agente Natale Mondo, scampato all’agguato del 6 agosto 1985 in cui erano morti il capo della Squadra mobile Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia. Aveva proseguito l’attività investigativa. Si è pensato anche a una vendetta per la morte nei locali della questura di Salvatore Marino, indiziato per l’omicidio del commissario di polizia Beppe Montana.

2 marzo. A Palermo uccisione dell’ingegnere Donato Boscia, direttore del cantiere dell’impresa romana Ferrocementi. Aveva denunciato alla Commissione antimafia i collegamenti tra mafia e amministrazione comunale.

9 luglio. A Gioia Tauro (Reggio Calabria) ucciso in un agguato il carabiniere Pietro Ragno, che aveva preso parte a diverse operazioni antimafia.

31 agosto. A Sant’Ilario sullo Ionio (Reggio Calabria) ucciso il pensionato Francesco Capogreco, probabilmente perché aveva assistito a un delitto.

2 settembre. A Lamezia Terme (Catanzaro) uccisa la guardia giurata Antonio Talarico.

9 settembre. A Gioia Tauro (Reggio Calabria) ucciso per errore il marocchino Abed Manyami.

14 settembre. A Pietretagliate (Trapani) uccisione del giudice in pensione Alberto Giacomelli. Secondo il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori, il delitto è stato compiuto perché il magistrato aveva firmato il provvedimento di confisca dei beni del fratello di Riina.

25 settembre. Nei pressi di Canicattì (Agrigento) vengono uccisi il giudice del Tribunale di Palermo Antonino Saetta e il figlio Stefano. È il primo magistrato giudicante ad essere assassinato. Aveva presieduto la Corte d’appello per la strage Chinnici del 29 luglio 1983 e per il delitto Basile del 4 maggio 1980. Era candidato a presiedere la Corte d’appello per il primo maxiprocesso.

26 settembre. Nei pressi di Valderice (Trapani) ucciso Mauro Rostagno. Ex leader del movimento studentesco, poi dirigente di Lotta continua, operava presso la comunità per tossicodipendenti Saman. Denunciava da una televisione locale le attività mafiose e le complicità di partiti e istituzioni.

23 ottobre. A Locri (Reggio Calabria) ucciso il primario di chirurgia Girolamo Marino, perché ritenuto responsabile, dal padre e dallo zio di Caterina Giampaolo, 4 anni, della sua morte dopo un intervento di appendicite. I Giampaolo fanno parte di un clan in lotta con gli Strangio.

10 novembre. A Siracusa ucciso il ragazzo Carmelo Zaccarello, figlio del titolare di un bar: i killer hanno sparato tra la folla per uccidere un mafioso.

12 novembre. A Melfi (Potenza) uccisione di Lucia Montagna, di 14 anni. Responsabili del delitto Maria, Filomena e Rosa Russo, sorelle di Santo Russo, ucciso il 4 ottobre 1988, del cui omicidio è stato accusato il cognato Angelo Montagna, fratello di Lucia. Difficile stabilire se si tratti di criminalità comune o organizzata.

18 novembre. A Camporeale (Palermo) ucciso il medico Giuseppe Montalbano. Con sentenza del 25 luglio 1997 è stato accertato che l’omicidio è stato compiuto da Giovanni Brusca e Santino Di Matteo perché il mafioso Biagio Montalbano sospettava che il medico fosse un confidente dei carabinieri.

15 dicembre. A Palermo uccisione dell’imprenditore Luigi Ranieri, titolare della Sageco, un’impresa edilizia che gestiva grossi appalti. Si sarebbe opposto alla spartizione degli appalti imposta dalle famiglie mafiose.

1989

8 gennaio. A Bianco (Reggio Calabria) scompare il sedicenne Rosario Bevilacqua, successivamente assassinato.

10 gennaio. A Deakin (Australia) ucciso, da un appartenente alla ‘ndrangheta, Colin Winchester, ufficiale di polizia maggiore dell’Australia.

29 gennaio. A Taurianova (Reggio Calabria) viene assassinato il bracciante agricolo Giuseppe Caruso.

14 febbraio. A Niscemi (Caltanissetta) ucciso Francesco Pepi, titolare di un’industria conserviera. Probabilmente il delitto è causato dal rifiuto di pagare il pizzo. In quegli anni a Niscemi c’era uno scontro tra cosche rivali con molti omicidi.

17 febbraio. A Tradate (Varese) viene rapito Andrea Cortellezzi, figlio di un industriale. Muore durante il sequestro.

23 febbraio. A Laureana di Borrello (Reggio Calabria), durante una sparatoria, viene uccisa Marcella Tassone, di 10 anni.

11 marzo. A Scordia (Catania) uccisione dell’imprenditore Nicola D’Antrassi. Intitolata al suo nome l’ASAES (Associazione antiracket e antiestorsioni) di Scordia.

16 marzo. A Palermo, nel borgo di Ciaculli, uccisione di Antonio D’Onufrio ritenuto informatore della polizia.

20 marzo. A Locri (Reggio Calabria) ucciso Vincenzo Grasso, gestore di una concessionaria di auto, che si rifiutava di pagare il pizzo.

9 giugno. A Vittoria (Ragusa) ucciso Salvatore Incardona, imprenditore agricolo, commissionario presso il mercato ortofrutticolo. Si sarebbe opposto alla richiesta di pagare il pizzo al clan Carbonaro-Dominante.

11 luglio. A Camporeale (Palermo) ucciso Paolo Vinci, un giovane di 17 anni, testimone di un agguato in cui è stato ucciso il suo datore di lavoro.

5 agosto. A Villagrazia di Carini (Palermo) uccisione dell’agente Antonino Agostino e della moglie Ida Castellucci, incinta. Il delitto è stato messo in relazione con il fallito attentato al giudice Falcone all’Addaura del 29 giugno del 1989.

24 agosto. Ad Agropoli (Salerno) uccisa Carmela Pannone, 5 anni, in un agguato contro suo zio Giuseppe Pannone, camorrista di Afragola.

25 agosto. A Melicucco (Reggio Calabria) ucciso Carmelo Curinga, probabilmente perché aveva assistito a un delitto.

A Villa Literno (Caserta) assassinato da una banda di criminali il rifugiato sudafricano Jerry Essan Masslo. Successivamente si svolgono a Villa Literno uno sciopero degli immigrati contro il caporalato e a Roma la prima manifestazione nazionale antirazzista. La mobilitazione porterà alla legge n. 39 del 1990 sulla condizione dello straniero in Italia.

12 settembre. A Gela, durante una sparatoria tra mafiosi appartenenti a gruppi rivali rimane uccisa la casalinga Grazia Scimè.

2 ottobre. A Taranto ucciso il capo della vigilanza all’Italsider, Giovanbattista Tedesco, dalla Sacra corona unita perché aveva denunciato i traffici all’interno dell’acciaieria.

20 ottobre A Statte (Taranto) ucciso Domenico Calviello, 14 anni.

23 ottobre. A Bovalino (Reggio Calabria) ucciso il bancario Giuseppe Tizian, probabilmente perché si rifiutava di riciclare il denaro sporco.

23 novembre. Uccise a Bagheria (Palermo), Leonarda Costantino, Lucia Costantino e Vincenza Marino Mannoia, rispettivamente madre, zia e sorella di Francesco Marino Mannoia, di cui si diceva che forse stava per collaborare con la giustizia.

21 dicembre. A Bianco (Reggio Calabria) viene rapito Vincenzo Medici, imprenditore agricolo, che muore durante il sequestro.

1990

23 gennaio. Ucciso a Monreale (Palermo) l’ingegnere Vincenzo Miceli. Si è autoaccusato come mandante dell’omicidio Giovanni Brusca che ha definito Miceli: “Un onesto lavoratore. Uno che non voleva pagare il pizzo e che faceva delle denunce”.

7 febbraio. A Villa San Giovanni (Reggio Calabria) ucciso dalla ‘ndrangheta il vicesindaco Giovanni Trecroci.

23 febbraio. A Curinga (Catanzaro) scompare Saverio Purita, 11 anni, che viene soffocato e poi bruciato.

16 marzo. A Palermo scompare il giovane Emanuele Piazza, vicino ai servizi segreti. Il 30 dello stesso mese scompare il vigile del fuoco Gaetano Genova, amico di Piazza. Secondo alcuni collaboratori di giustizia, in seguito a informazioni fornite da Piazza e Genova, sarebbero stati arrestati alcuni mafiosi. La scomparsa e l’uccisione di Piazza e di Genova sono state messe in relazione con il fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura, del 21 giugno 1989.

18 marzo. A Rosarno (Reggio Calabria) rapito e ucciso (il cadavere è stato trovato dopo 7 anni) il ragazzo Michele Arcangelo Tripodi, per vendetta verso il padre legato al clan dei La Malfa.

21 marzo. A Niscemi (Caltanissetta) ucciso il commerciante Nicola Gioitta. Gli assassini sfregiano l’ucciso tagliandogli la gola.

11 aprile. A Milano ucciso Umberto Mormile, educatore nel carcere di Opera. Condannato come mandante dell’omicidio il boss Mico Papalia. La compagna di Mormile, Armida Miserere, che era stata vice direttrice di Opera, si è suicidata il 19 aprile 2003 nella sua abitazione presso il carcere di Sulmona di cui era diventata direttrice.

9 maggio. A Palermo uccisione di Giovanni Bonsignore, funzionario della Regione siciliana, noto per il suo rigore morale. Per il delitto è stato condannato il funzionario regionale Antonino Velio Sprio. Negli anni ’80 Bonsignore aveva condotto un’inchiesta amministrativa su un finanziamento irregolare ad una cooperativa agricola, di cui Sprio era vicepresidente, legata ai mafiosi di Palma di Montechiaro.

18 maggio. Ucciso a Napoli Nunzio Pandolfi, di due anni, nell’agguato in cui è stato ucciso il padre Gennaro.

24 giugno. A Villa San Giovanni (Reggio Calabria) ucciso l’imprenditore Franco Salsone. I fratelli Domenico e Paolo Condello, latitanti, avevano nascosto delle armi nella sua villa durante il periodo invernale in cui era chiusa.

5 luglio. A Strongoli (Catanzaro) viene assassinato per errore il sedicenne Arturo Caputo.

11 luglio. A Mondragone (Caserta) ucciso il vicesindaco Antonio Nugnes.

12 luglio. A Siderno (Reggio Calabria) viene uccisa durante un tentativo di sequestro l’insegnante Raffaella Scordo.

18 luglio. A San Leone (Agrigento) ucciso il funzionario di banca Giuseppe Tragna da killer del clan Grassonelli.

21 agosto. A Rosarno (Reggio Calabria) ucciso Francesco Tassone, forse testimone involontario di un delitto.

1 settembre. Ucciso a Reggio Calabria con diversi colpi di pistola il sedicenne Domenico Catalano. Forse Catalano e un altro ragazzo rimasto ferito sono stati colpiti per aver assistito involontariamente a qualche fatto delittuoso.

7 settembre. A Palermiti (Catanzaro) uccise Maria Marcella e sua figlia Elisabetta Gagliardi, moglie e figlia rispettivamente di Mario Gagliardi, pluripregiudicato per rapina.

8 settembre. A Bovalino superiore (Reggio Calabria) ucciso il brigadiere dei carabinieri Antonio Marino, che per tre anni aveva comandato la stazione di Platì (Reggio Calabria).

11 settembre. A Villa San Giovanni (Reggio Calabria) ucciso da sicari della ‘ndrangheta l’imprenditore edile Pietro Laface, incensurato. Le indagini seguono la pista degli appalti.

21 settembre. Sullo stradale fra Canicattì e Agrigento viene ucciso il magistrato Rosario Livatino che indagava sui mafiosi dell’Agrigentino. Il rappresentante di commercio Piero Nava, che passava con la sua macchina, ha testimoniato contro gli esecutori del delitto ed è stato costretto a cambiare nome e a risiedere in località segreta. Condannati come esecutori Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro, come mandanti Salvatore Calafato, Antonio Gallea, Giuseppe Montanti e Salvatore Parla, capi della Stidda.

8 ottobre. Ucciso a Commenda di Rende (Cosenza) l’imprenditore edile Pino Chiappetta, che aveva tentato di aggiudicarsi un subappalto.

31 ottobre. A Catania duplice omicidio alle Acciaierie Megara. Vengono uccisi l’amministratore delegato Alessandro Rovetta e il capo del personale Francesco Vecchio. Probabilmente si erano opposti alle imposizioni mafiose.

1991

9 gennaio. A Taranto uccisa Valentina Guarino, di 6 mesi, che si trovava in braccio al padre bersaglio dell’agguato.

In Puglia parecchi minori sono rimasti, intenzionalmente o casualmente, vittime della criminalità.

Marzo. A Casarano (Lecce) scomparsa e uccisa assieme alla madre, per ordine della moglie tradita di un boss Angelica Portoli, di 2 anni.

11 marzo. A Locri (Reggio Calabria) ucciso Antonio Valente, impiegato di una ditta che veniva taglieggiata.

30 marzo. Ucciso a Napoli Salvatore D’Addario, agente della Polizia di Stato, mentre tentava di fermare uno scontro a fuoco tra camorristi tra la folla.

2 aprile. Ad Altofonte (Palermo) ucciso il direttore della Cassa artigiana di Altofonte Francesco Pipitone, perché aveva tentato di opporsi a dei mafiosi che stavano compiendo una rapina.

18 aprile. A Villa Literno (Caserta), durante una sparatoria tra gruppi di camorristi, rimangono uccisi il dodicenne Salvatore Richiello, il padre Michele e il loro amico Pellegrino De Micco, estranei alla faida.

A Briatico (Vibo Valentia) viene rapito il medico Giancarlo Conocchiella, che muore durante il sequestro. Durante il processo la quindicenne Mariangela Vavalà collabora con la giustizia contribuendo alla incriminazione del padre Carlo, condannato per il delitto con sentenza definitiva. Successivamente Vavalà collaborerà con la giustizia e farà ritrovare il corpo di Conocchiella.

24 maggio. A Lamezia Terme (Catanzaro) uccisi, forse per un’azione contro il Comune, Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte, operatori ecologici impegnati nella raccolta di rifiuti urbani, in una zona abitata dal clan Sambiase.

13 giugno. A Catania ucciso Vincenzo Leonardi. Lavorava al mercato ortofrutticolo ed era titolare di un’impresa di trasporti.

A Grotteria (Reggio Calabria) ucciso il piccolo imprenditore edile Nicodemo Panetta, assieme all’imprenditore Nicodemo Raschillà. Panetta con le sue denunce aveva fatto arrestare una cinquantina di ‘ndranghetisti vicini alla cosca Ursini.

19 giugno. A Capaci (Palermo) assassinati gli imprenditori Giuseppe e Salvatore Sceusa. Secondo il collaboratore di giustizia Angelo Siino sarebbero stati uccisi perché non si attenevano alle imposizioni della mafia relative agli appalti e non si accordavano per il pizzo.

27 giugno. Sulla strada tra Agrigento e Favara ucciso il metronotte Vincenzo Salvatori, durante un tentativo di rapina a un furgone porta valori.

10 luglio. A Reggio Calabria ucciso il proprietario terriero Antonino Cordopatri. Si era rifiutato di cedere le terre ai capi della ‘ndrangheta.

21 luglio. A San Cipriano d’Aversa (Caserta) durante una sparatoria rimane ucciso il passante Angelo Riccardo.

21 luglio. A Napoli ucciso il bambino Fabio De Pandi, di 10 anni.

24 luglio. Nei pressi di Francolise (Caserta) ucciso il commerciante Alberto Varone. I camorristi volevano rilevare la sua attività.

26 luglio. A Palermo, viene ucciso il bambino di 4 anni Andrea Savoca, assieme al padre, appartenente a famiglia mafiosa.

9 agosto. A Campo Calabro (Reggio Calabria) assassinio del magistrato di Cassazione Antonino Scopelliti. Si doveva occupare del maxiprocesso di Palermo. L’assassinio viene eseguito dalla cosca dei De Stefano, su indicazione della mafia siciliana.

20 agosto. A Soverato (Catanzaro) vengono uccisi i carabinieri Renato Lio e Giuseppe Leone, dagli occupanti di un auto a cui si erano avvicinati per una perquisizione.

25 agosto. A Condofuri (Reggio Calabria) ucciso Domenico Mafrici, allevatore di bestiame, probabilmente perché si era rifiutato di pagare l’estorsione. Era fratello di Bruno, rapito nel 1986 e rilasciato dopo il pagamento di un riscatto.

29 agosto. A Palermo uccisione dell’imprenditore Libero Grassi, titolare dell’azienda tessile Sigma. Si era rifiutato di pagare il pizzo e aveva denunciato pubblicamente gli estorsori. Aveva suscitato l’interesse dei mezzi d’informazione, scarsa solidarietà (a un’assemblea per sostenere la sua azione avevano partecipato trenta persone) ed era stato isolato dagli altri imprenditori e dalle Associazioni imprenditoriali. I familiari ogni anno sul luogo del delitto appendono un cartello in cui denunciano l’isolamento in cui è stato lasciato Libero Grassi. La vecchia Sigma ha chiuso i battenti e il figlio Davide gestisce l’impresa Sigma Nuova. Condannati i mafiosi della famiglia Madonia.

28 settembre. A Reggio Calabria uccisi Demetrio Quattrone, funzionario dell’Ispettorato del Lavoro che aveva svolto alcune perizie per la Procura di Palmi, e Nicola Soverino, medico omeopata che si trovava assieme a Quattrone.

1 ottobre. A Careri (Reggio Calabria) viene ucciso il pastore Giuseppe Rocca, forse perché aveva assistito a un delitto.

7 ottobre. A Grotteria (Reggio Calabria) viene rapito l’anziano medico radiologo Pasquale Malgeri, che muore durante il sequestro.

12 ottobre. A Palermo ucciso da Salvatore Grigoli, con il metodo della lupara bianca, l’ex agente della polizia Serafino Ogliastro, sospettato dai mafiosi di essere venuto a conoscenza degli autori di un omicidio.

30 ottobre. A Lauro (Avellino) ucciso Nunziante Scibelli, mentre stava attraversando il paese alla guida di un’auto dello stesso modello dei veri bersagli dei killer.

16 dicembre. A Bronte (Catania) uccisa Giuseppa Cozzumbo, titolare di un bar. Probabilmente si era rifiutata di pagare il pizzo.

29 dicembre. A Taranto uccisa Sandra Stranieri, di 14 anni, da una pallottola vagante durante una sparatoria.

31 dicembre. A Palma di Montechiaro (Agrigento), durante una sparatoria all’interno di un bar per uccidere il mafioso Felice Allegro, rimane ucciso il trentenne Giuseppe Aliotto e vengono feriti un bambino e sei persone.

1992

4 gennaio. A Lamezia Terme (Catanzaro) uccisi il sovrintendente di polizia Salvatore Aversa, impegnato da anni in indagini sulla ‘ndrangheta, e la moglie Lucia Precenzano.

22 gennaio. A Randazzo (Catania) uccisi il pastore Antonino Spartà e i figli Vincenzo e Salvatore. Si erano rifiutati di pagare una tangente. Le loro tombe saranno più volte profanate.

11 febbraio. Nei pressi di Rosarno (Reggio Calabria) uccisi gli algerini Abid Abdelgani e Sari Mabini da giovani della ‘ndrangheta che li avevano attirati in un tranello offrendogli un lavoro. Per i rampolli della ‘ndrangheta uccidere gli extracomunitari sarebbe una sorta di rito di iniziazione.

12 febbraio. A Pontecagnano (Salerno), durante un controllo ad un posto di blocco, vengono uccisi i carabinieri Fortunato Arena e Claudio Pezzuto.

22 febbraio. A Bagheria (Palermo) ucciso il commerciante Salvatore Mineo, perché si sarebbe ribellato al racket.

18 marzo. A Catania uccisione del maresciallo dei carabinieri Alfredo Agosta, impegnato in indagini sulla mafia.

21 aprile. A Lucca Sicula (Agrigento) ucciso l’imprenditore Paolo Borsellino. Gestiva un’impresa di movimento terra e con il padre Giuseppe aveva fondato una piccola impresa di calcestruzzi. Si era opposto alla richiesta di mafiosi della zona di cessione di quote aziendali.

23 maggio. Sull’autostrada Palermo-Punta Raisi, nei pressi di Capaci (Palermo), una carica di esplosivo uccide il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli uomini della scorta Rocco Dicillo, Antonino Montinaro e Vito Schifani. Falcone, dopo essere stato giudice a Trapani e giudice istruttore e procuratore aggiunto a Palermo, imponendosi come uno dei magistrati più impegnati e competenti nelle indagini antimafia, impossibilitato a continuare il suo lavoro dopo lo smantellamento del pool antimafia, si era trasferito a Roma con l’incarico di Direttore generale degli Affari penali presso il Ministero di Grazia e Giustizia ed era candidato alla carica di Procuratore nazionale antimafia. Sono stati condannati come mandanti alcuni capimafia facenti parte della cupola. Rimane irrisolto il problema dei mandanti esterni.

12 luglio. A Villa di Briano (Caserta) vengono uccisi in una sparatoria tra la folla in un agguato contro un camorrista, Egidio Campaniello e Luigi Sapio.

19 luglio. A Palermo, in via D’Amelio, un’autobomba uccide il magistrato Paolo Borsellino, gli agenti di scorta Agostino Catalano, Walter Cosina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Borsellino aveva fatto parte del pool antimafia, era stato procuratore presso il Tribunale di Marsala, aveva denunciato lo smantellamento del pool antimafia ed era tornato a lavorare presso il Tribunale di Palermo. Dopo la morte di Falcone era stato fatto il suo nome per la carica di Procuratore nazionale antimafia. Condannati come esecutori e come mandanti uomini e capi di Cosa nostra; resta il problema, comune alle altre stragi, dell’individuazione dei mandanti esterni.

26 luglio. A Roma suicidio di Rita Atria, una ragazza di 17 anni, figlia di un capomafia di Partanna (Trapani). Dopo l’uccisione del padre e del fratello, Rita aveva collaborato con la giustizia, assieme alla cognata Piera Aiello, rompendo con la madre. Si era rivolta a Paolo Borsellino, con cui aveva stabilito un rapporto filiale. L’assassinio del magistrato, nell’isolamento del regime di protezione, la getta nello sconforto che la induce al suicidio.

27 luglio. A Catania uccisione dell’ispettore di polizia Giovanni Lizzio. Responsabili del delitto i mafiosi della famiglia Santapaola.

6 agosto. A Villa Literno (Caserta) uccisi, da killer che hanno sparato dentro un’officina per uccidere il titolare imparentato con un camorrista, il contadino Antonio Di Bona, che attendeva la riparazione del proprio trattore, e il meccanico Nicola Palumbo.

28 settembre. A Castellammare del Golfo (Trapani) ucciso il capitano di marina in pensione Paolo Ficalora. Aveva ospitato nel suo residence, senza conoscerne l’identità, l’ex collaboratore di giustizia Salvatore Contorno.

14 ottobre. Ucciso a Porto Empedocle (Agrigento) il sovrintendente di polizia penitenziaria Pasquale Di Lorenzo. Si è accusato dell’omicidio il collaboratore di giustizia Alfonso Falzone. Mandante sarebbe stato Totò Riina che voleva dare un “segnale” contro il carcere duro e avrebbe ordinato di uccidere un agente di custodia per provincia.

6 novembre. A Foggia ucciso l’imprenditore edile Giovanni Panunzio. Si era opposto al racket e aveva fatto arrestare gli estorsori.

10 novembre. A Gela (Caltanissetta) uccisione del commerciante Gaetano Giordano. Viene ferito il figlio Massimo. Giordano si era opposto alle richieste estorsive.

17 dicembre. A Lucca Sicula (Agrigento) ucciso Giuseppe Borsellino, padre dell’imprenditore Paolo, ucciso il 21 aprile. Aveva rivelato alla magistratura i nomi dei mandanti e degli esecutori dell’assassinio del figlio e aveva ricostruito gli intrecci tra mafia, affari e politica nell’Agrigentino.

1993

8 gennaio. A Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) viene ucciso il corrispondente del quotidiano “La Sicilia” Beppe Alfano. Aveva dedicato vari servizi alle attività della mafia della zona e ultimamente aveva denunziato le speculazioni dell’Aias di Milazzo a danno degli handicappati.

8 febbraio. A Poggioreale ucciso Pasquale Campanello, sovrintendente della polizia penitenziaria.

20 marzo. A Locri (Reggio Calabria) viene ucciso il chirurgo Nicolò Pandolfo, probabilmente su mandato della famiglia Cordì per un intervento non riuscito su una bambina con un tumore al cervello.

21 aprile. Sulla strada da Porto Empedocle (Agrigento) ucciso, assieme al pescivendolo Angelo Carlisi, Calogero Zaffuto, vittima innocente.

14 maggio. A Vibo Valentia uccisione del commerciante Nicola Remondino.

17 maggio. A Napoli ucciso Maurizio Estate, di 22 anni: aveva sventato uno scippo e il rapinatore è tornato indietro per ucciderlo.

27 maggio. A Firenze in via dei Georgofili, nei pressi della Galleria degli Uffizi, un’autobomba provoca la morte di cinque persone: la custode dell’Accademia dei Georgofili Angela Fiume, il marito Fabrizio Nencioni, le figlie Elisabetta di 8 anni e Caterina di un mese e mezzo, lo studente universitario Dino Capolicchio. Danni agli edifici circostanti e alla Galleria. L’inchiesta è stata unificata con quella della successiva strage di Milano. Sono stati condannati i capimafia della cupola. Restano da individuare i mandanti esterni.

5 luglio. A Gela ucciso, da un pregiudicato del clan Madonia, l’elettricista Andrea Castelli, 24 anni, che era intervenuto per difendere alcune ragazze.

22 luglio. A Bovalino viene sequestrato dalla ‘ndrangheta Adolfo Cartisano. Il suo corpo è stato ritrovato nel 2003.

27 luglio. A Milano un’autobomba esplode in via Palestro. 5 vittime: i pompieri Carlo Lacatena, Stefano Picerno e Sergio Pasotto, il vigile urbano Alessandro Ferrari e l’immigrato marocchino Dris Moussafir. Gravi danni al Padiglione d’arte contemporanea. Lo stesso giorno a Roma esplodono due ordigni, uno davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano, l’altro davanti alla chiesa di San Giorgio in Velabro, gravemente danneggiata. Gli attentati di Roma, Firenze e Milano mirano non solo a spostare l’attenzione fuori dalla Sicilia ma soprattutto a imporre alle istituzioni una politica di concessioni all’organizzazione mafiosa Cosa nostra: l’abolizione dell’ergastolo e del carcere duro, l’attenuazione della legislazione antimafia e la revisione dei processi.

15 settembre. A Palermo, nel quartiere Brancaccio, ucciso il parroco Giuseppe Puglisi. Era impegnato in un’opera di educazione dei giovani del quartiere e di miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti. Condannati come mandanti i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e come esecutore Salvatore Grigoli, successivamente collaboratore di giustizia.

7 novembre. A Cittanova (Reggio Calabria) assassinato in un agguato mafioso Giovanni Mileto, caposquadra cantonieri, sacrificatosi per salvare un’altra persona.

23 novembre. Ad Altofonte (Palermo) scompare il bambino Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santo. Verrà tenuto in ostaggio fino al gennaio del 1996, strangolato e il corpo sarà sciolto nell’acido. Responsabili del delitto Giovanni Brusca, reo confesso, e altri mafiosi.

1994

18 gennaio. Sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, nei pressi dello svincolo di Scilla, uccisi in agguato della ‘ndrangheta i carabinieri Vincenzo Garofalo e Antonino Fava.

18 febbraio. Nelle campagne di Rosarno (Reggio Calabria) agguato contro migranti africani che dormono in un casolare. Rimane ucciso l’ivoriano Mourou Kouakau Sinan.

2 marzo. In Australia ucciso George Bowen, detective impegnato in indagini sulla ‘ndrangheta. Doveva testimoniare al processo contro Domenic Perre un boss delle cosche italo-australiane.

19 marzo. A Casal di Principe (Caserta) viene ucciso don Giuseppe Diana, parroco della chiesa di San Nicola. Aveva cominciato il suo impegno contro la camorra nel 1983 quando dopo una strage aveva organizzato assieme a pochi altri una manifestazione. Nel 1989 aveva rifiutato i soldi messi a disposizione dai camorristi per la festa parrocchiale e lavorato con i giovani e gli extracomunitari. Nel dicembre del 1991 aveva preparato il documento “Per amore del mio popolo non tacerò” e in occasione delle elezioni comunali del 1993 aveva invitato gli elettori a fare delle scelte oculate e i camorristi a farsi da parte. Venne ucciso il giorno del suo onomastico, in chiesa, mentre si accingeva a celebrare la messa. Dopo una serie di depistaggi, nel 2003 sono stati condannati i camorristi responsabili del delitto.

20 marzo. A Mogadiscio, in Somalia, uccisione della giornalista della Rai Ilaria Alpi e del cameraman Miran Hrovatin. La Alpi indagava su traffici internazionali di armi e di rifiuti tossici.

24 marzo. A Gravina di Catania ucciso l’agente di polizia penitenziaria Luigi Bodenza.

Lo stesso giorno, a Bronte (Catania) viene ucciso Enrico Incognito, appartenente a un clan mafioso, che aveva deciso di collaborare con la giustizia. L’omicida è il fratello Marcello, con la complicità dei genitori. Una telecamera, che registrava le rivelazioni di Enrico, ha ripreso la scena del delitto. Incognito, in seguito al suo pentimento, era stato abbandonato dalla moglie.

26 marzo. A Secondigliano, quartiere di Napoli, uccisa Anna Dell’Orme, madre di Domenico Amura, morto per overdose. Lei e l’altro figlio, Carmine, avevano denunciato i trafficanti che avevano venduto al figlio Domenico la droga. Ucciso anche Carmine Amura.

27 marzo. A Locri (Reggio Calabria) uccisa Maria Teresa Pugliese, moglie dell’ex sindaco e impegnata nell’associazionismo. Un figlio era stato coinvolto in fatti di droga. Forse era sulle tracce delle compagnie del figlio.

5 aprile. A San Cipirello (Palermo) ucciso, per una questione di gelosia, il giovane Cosimo Fabio Mazzola, dai mafiosi Enzo Brusca e Giuseppe Monticciolo.

8 aprile. Nei pressi di Napoli uccisa Maria Grazia Cuomo, 56 anni, cognata di Francesco Alfieri, lontano parente del boss della camorra Carmine Alfieri, collaboratore di giustizia. I killer forse volevano uccidere il figlio di Carmine, sono entrati nel casolare dove si era rifugiato e non avendolo trovato hanno ucciso la donna.

30 maggio. A Bivona (Agrigento) uccisione dell’imprenditore Ignazio Panepinto. Gestiva una cava e un impianto per la frantumazione delle pietre. Probabilmente si era rifiutato di sottostare alle richieste della mafia che imponeva un monopolio delle forniture per i lavori nella zona.

25 giugno. A Licata (Agrigento) ucciso l’imprenditore edile Salvatore Bennici, che si opponeva alle richieste della mafia della zona in cui operava. Aveva subito due attentati: l’incendio di un escavatore e un tentato incendio a casa sua.

10 luglio. A Catania uccise Liliana Caruso e Agata Zucchero, moglie e madre del collaboratore di giustizia Riccardo Messina.

16 settembre A Pizzo Calabro (Reggio Calabria) scompare il giovane Francesco Aloi, forse perché si era messo con una donna di una famiglia della ‘ndrangheta.

19 settembre. A Bivona (Agrigento) uccisi l’imprenditore Calogero Panepinto, fratello di Ignazio assassinato il 30 maggio dello stesso anno, e l’operaio Francesco Maniscalco. Dopo l’assassinio del fratello, Panepinto aveva ripreso il lavoro nella cava. Un figlio di Ignazio, Luigi, decide di riprendere i lavori per la produzione di calcestruzzi, ma si presentano solo 6 operai su 25. Gli viene assegnata una scorta che sarà revocata poco tempo dopo. Nel luglio 2008 i giornali riportano la notizia dell’arresto dei fratelli Luigi, Maurizio e Marcello Panepinto. Luigi viene indicato come il capomandamento della zona.

Nello stesso giorno, a Carovigno (Brindisi) ucciso Leonardo Santoro, mentre stava aprendo il cancello dell’abitazione per i giudici della Corte d’assise.

29 settembre. A Mileto (Catanzaro) durante una rapina rimane ucciso il bambino americano Nicholas Green. Nel 1998 è stato condannato all’ergastolo Michele Iannello, già affiliato alla ‘ndrangheta.

12 dicembre. A Napoli uccisa per caso Palmina Scamardella, in un agguato di camorra.

1995

19 gennaio. A Teverola (Caserta) ucciso il giovane Genovese Pagliuca che si era ribellato alle violenze subite dalla fidanzata, che aveva rifiutato una relazione lesbica con Angela Barra, amante di Francesco Bidognetti.

4 febbraio. A Milano ucciso il fioraio ambulante Pietro Sanua, “sindacalista dei fioristi” che per primo denunciò il racket degli ambulanti a Milano.

17 febbraio. A Belmonte Mezzagno (Palermo), in un agguato in una macelleria contro uno dei proprietari, Simone Benigno, rimasto illeso, viene ucciso un cliente, Giovanni Salamone, e sono feriti altri due.

26 febbraio. Nelle vicinanze di Terrasini (Palermo) ritrovato il corpo di Francesco Brugnano, titolare di una cantina vinicola di Partinico, confidente del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo. In seguito, il 4 marzo, suicidio del maresciallo Lombardo, che aveva incontrato Gaetano Badalamenti negli Stati Uniti, probabilmente per convincerlo a collaborare con la giustizia.

6 marzo. A Palermo ucciso Domenico Buscetta, nipote di Tommaso. Una vendetta trasversale per colpire Buscetta.

31 marzo. A Foggia ucciso Francesco Marcone, direttore dell’Ufficio del Registro immobiliare. Il delitto è da collegare con la sua attività di pubblico amministratore e con gli interessi legati al Piano regolatore.

20 aprile. Ad Alessandria della Rocca (Agrigento) ucciso, con il pregiudicato Emanuele Seidita, il manovale incensurato Giovanni Carbone.

25 giugno. A Reggio Calabria ucciso dal racket dei parcheggi Peter Iwule Onjedeke, extracomunitario con regolare permesso di soggiorno, che arrotondava lo stipendio di operaio facendo il posteggiatore abusivo.

30 agosto. A Nicolosi (Catania) uccisione del commerciante Antonino Longo.

3 settembre. A Niscemi (Caltanissetta) scompare il giovane Pierantonio Sandri. I resti verranno trovati nel 2009 in seguito a dichiarazioni di collaboratori di giustizia che hanno parlato di omicidio mafioso. Probabilmente aveva assistito al compimento di un delitto.

1 novembre. A Gioiosa Jonica (Reggio Calabria) ucciso il commerciante Luigi Colucci. I suoi familiari avevano ricevuto intimidazioni, tra cui l’incendio di una paninoteca.

9 novembre. A Catania uccisione dell’avvocato Serafino Famà, legale di alcuni mafiosi. Si parla di contrasti con i suoi difesi, ma non si esclude che l’omicidio possa essere un avvertimento rivolto agli avvocati perché assumano un atteggiamento più “attivo” nella difesa degli imputati mafiosi.

15 novembre. A Somma Vesuviana (Napoli) durante una sparatoria rimane ucciso il bambino Gioacchino Costanzo, di 2 anni.

22 novembre. A Locri (Reggio Calabria) ucciso Fortunato Correale, testimone di giustizia. Gli imputati sono stati condannati in primo grado e assolti in appello.

29 novembre. Ad Avola (Siracusa) ucciso l’imprenditore Antonino Buscemi, titolare di un’impresa edile. Probabilmente si era rifiutato di sottostare al racket o era riuscito ad aggiudicarsi lavori voluti da altri.

23 dicembre. Ucciso a Pietretagliate (Trapani) Giuseppe Montalto, agente di custodia in servizio alle carceri del’Ucciardone di Palermo, nell’ala riservata ai detenuti per mafia. Erano con lui nell’auto la moglie e la figlia di sei mesi. Montalto sarebbe stato ucciso perché si sarebbe rifiutato di favorire qualche capomafia o per ritorsione contro i provvedimenti restrittivi introdotti con il 41 bis.

1996.

1 marzo. A Vinosa (Taranto) muore la bracciante Annamaria Torno, di 18 anni, vittima del caporalato, in un incidente stradale mentre era su un pulmino, che avrebbe dovuto trasportare 9 persone, mentre le lavoratrici erano 14. Il caporalato è un fenomeno diffuso soprattutto in Puglia, legato al reclutamento e sfruttamento della manodopera.

27 aprile. A Lucca Sicula (Agrigento), ucciso Calogero Tramuta, ex agente della Guardia di Finanza, commerciante di arance.

17 giugno. A Santa Eufemia D’ Aspromonte (Reggio Calabria), in un agguato della ‘ndrangheta, ucciso il maresciallo Pasquale Azzolina e ferito il brigadiere Salvatore Coltello.

10 luglio. A Potenza, ucciso l’agente Francesco Tammone da un pregiudicato che stava inseguendo.

20 luglio. A Napoli ucciso il giovane Davide Sannino, da due ragazzi che hanno rubato un motorino e sono tornati indietro a sparargli forse perché li aveva visti.

27 agosto. Nel cimitero di Catania uccisi Santa Puglisi, 22 anni, figlia del boss Nino, e Salvatore Botta, di 13 anni, nipote di Santa. La donna si recava ogni giorno al cimitero sulla tomba del marito, Matteo Romeo, ucciso il 23 novembre dell’anno precedente.

30 settembre. A Varapodio (Reggio Calabria) ucciso l’imprenditore edile Antonino Polifroni che si rifiutava di pagare il pizzo e di acquistare i materiali forniti dalla ‘ndrangheta. I figli hanno rilevato l’azienda e hanno istituito un premio biennale per la pace e la legalità destinato ai ragazzi delle scuole.

16 ottobre. Uccisi a Niscemi (Caltanissetta) il gioielliere Salvatore Frazzetto e il figlio Giacomo. La moglie, Agata Azzolina, aveva riconosciuto i killer che in precedenza avevano tentato di estorcere il gioielliere. Il 23 marzo del 1997 Agata Azzolina muore suicida, dopo aver subìto tentativi di estorsione ed essere stata minacciata di morte assieme alla figlia, nonostante la vigilanza di due militari alla porta di casa.

18 novembre. A Trapani in uno scontro con l’auto del magistrato di Sciacca Bernardo Petralia muoiono Maria Antonietta Savona e il figlio di un mese Riccardo Salerno.

23 novembre. A Torre Annunziata (Napoli) ucciso Raffaele Pastore, un piccolo commerciante che aveva denunciato i camorristi.

29 novembre. A Palizzi (Reggio Calabria) uccisi lo studente Celestino Fava e il giovane contadino Antonino Moio, entrambi incensurati.

20 dicembre. A Gela (Caltanissetta) ucciso il commerciante Rosario Ministeri, secondo gli inquirenti senza legami con la mafia.

1997

4 gennaio. A Partinico (Palermo) viene ucciso il bancario in pensione Giuseppe La Franca. I mafiosi volevano impadronirsi di alcuni terreni di sua proprietà.

26 gennaio. A Ercolano (Napoli) ucciso il sedicenne Ciro Zirpoli, figlio del collaboratore di giustizia Leonardo.

12 febbraio. Al villaggio Mosè di Agrigento ferito alla testa con colpi di arma da fuoco Giulio Castellino, dirigente del Servizio d’igiene pubblica presso la Usl di Agrigento e per oltre un decennio ufficiale sanitario a Palma di Montechiaro. Spirerà il 25 febbraio.

10 giugno. A Taranto, in un agguato contro il padre, pregiudicato per spaccio di droga, rimane uccisa Raffaella Lupoli, di 11 anni.

11 giugno. Uccisa a Napoli da killer che hanno sparato tra la folla Silvia Ruotolo, che stava tornando a casa con il figlio di cinque anni. Morto un pregiudicato, ferito uno studente.

19 giugno. A Palermo ucciso il costruttore Angelo Bruno. Si pensa che avesse avuto richieste estorsive. I familiari dicono che è morto come Libero Grassi, ma l’imprenditore non aveva mai parlato di estorsioni neppure con loro.

30 agosto. Ucciso nelle campagne di Napoli Giovanni Arpa, zio di Rosario Privato, il pentito che ha permesso di arrestare i responsabili della sparatoria in cui è rimasta uccisa Silvia Ruotolo, tra cui il capoclan Giovanni Alfano.

12 settembre. Ad Alcamo (Trapani) si suicida il commerciante Gaspare Stellino. Doveva testimoniare contro gli estorsori.

1998

3 gennaio. A Cinquefrondi (Reggio Calabria), all’uscita da una sala giochi, uccisi da killer che sparano da una macchina, Saverio Ieraci, di 13 anni, e Davide Ladini, di 17 anni.

18 febbraio. A Napoli ucciso Giovanni Gargiulo, di 14 anni, per vendetta della camorra per uno sgarro compiuto dal fratello.

10 aprile. Nei pressi di Catania trovato il corpo di Annalisa Isaia, una ragazza figlia del mafioso Paolo, ucciso nel 1993. Ha confessato il delitto lo zio di Annalisa, Luciano Daniele Trovato, che voleva impedirle di frequentare ragazzi di un clan rivale.

24 aprile. A Cerignola (Bari) muoiono per un incidente stradale Incoronata Sollazzo e Maria Incoronata Ramella, braccianti agricole che viaggiavano su un furgone dei “caporali” stipato di lavoratori.

8 maggio. A Oppido Mamertina (Reggio Calabria), uccisi Mariangela Anzalone, di 8 anni, e suo nonno Giuseppe Biccheri, e feriti la madre della bambina, Francesca Biccheri, e un altro figlio di 7 anni, da killer che hanno sparato all’impazzata per coprire la loro fuga dopo che avevano ucciso due ‘ndranghetisti.

23 maggio. A Gela ucciso durante un tentativo di rapina il commerciante Orazia Sciascio.

4 luglio. A Catania muore suicida Enrico Chiarenza di 18 anni. Il giovane era figlio di Clemente ucciso nel 1995 in un agguato mafioso e nipote di un ex collaboratore di giustizia.

5 luglio. Ad Acerra (Napoli) ucciso per sbaglio il giovane Antonio Ferrara.

20 luglio. A Pomigliano D’Arco (Napoli) uccisi gli operai di un pastificio Salvatore Di Falco, Rosario Flaminio e Alberto Vallefuoco. A Vallefuoco nel dicembre del 2007 è stato intitolato la stadio di Mugnano, comune in cui viveva, come vittima innocente della violenza camorristica.

3 settembre. A Scisciano (Napoli) durante una sparatoria rimane uccisa la passante Giuseppina Guerriero.

25 settembre. A Gioia Tauro (Reggio Calabria) ucciso il medico Luigi Ioculano. Presidente di un’associazione e fondatore di un periodico locale, aveva preso posizione contro il nuovo piano regolatore e gli interessi della ‘ndrangheta.

8 ottobre. A Caccamo (Palermo) ucciso il sindacalista dell’Uil ed ex consigliere provinciale Domenico Geraci. Aveva denunciato gli interessi della mafia della zona e sarebbe stato candidato a sindaco per l’Ulivo nelle imminenti elezioni comunali.

17 novembre. A Palma di Montechiaro (Agrigento) ucciso l’agente penitenziario Antonio Condello. Aveva prestato servizio nel padiglione del carcere di Agrigento in cui sono rinchiusi mafiosi sottoposti al regime del carcere duro (41 bis).

24 dicembre. A Orgosolo (Nuoro) ucciso il viceparroco Graziano Muntoni. Prima insegnante e consigliere comunale democristiano, poi sacerdote, era impegnato soprattutto in attività con i giovani.

1999

2 gennaio. Strage mafiosa a Vittoria (Ragusa) con cinque morti. Tra essi gli incensurati Rosario Salerno e Salvatore Ottone. La strage si inserisce in un conflitto tra cosche mafiose per il controllo delle attività economiche, in gran parte legate al mercato ortofrutticolo, uno dei più grandi della Sicilia.

20 marzo. A Castel Volturno (Caserta) ucciso Francesco Salvo, cameriere in un bar, bruciato vivo in un raid punitivo contro il titolare che aveva tolti i videogiochi del clan.

22 aprile. A Favara (Agrigento) ucciso in un agguato mafioso il dodicenne Stefano Pompeo che si trovava su un’auto di proprietà di Carmelo Cusimano, fratello di Giuseppe indicato come vicino alla famiglia mafiosa di Favara, e guidata dall’incensurato Enzo Quaranta.

Estate. Nelle campagne pugliesi ucciso il migrante albanese Hiso Telaray, vittima della violenza dei caporali che ne sfruttavano il lavoro nei campi.

5 luglio. A Palermo ucciso il funzionario regionale Filippo Basile. Reo confesso del delitto l’esecutore Ignazio Giliberti, che accusa come mandante il funzionario Antonino Velio Sprio. Basile, capo del personale dell’Assessorato dell’Agricoltura, aveva istruito la pratica di licenziamento di Sprio, condannato per associazione a delinquere e per tentato omicidio.

21 luglio. A Gela, durante una sparatoria contro un mafioso, all’interno di una sala di barbiere, viene ucciso anche il giovane Salvatore Sultano, estraneo alla malavita.

25 agosto. Sull’autostrada Bari-Napoli uccisi Ennio Petrosino e Rosa Zaza: una macchina di contrabbandieri ha invertito il senso di marcia a fari spenti e ha travolto la loro auto.

21 settembre. A Foggia ucciso il pensionato Matteo Di Candia da killer che sparavano contro un pregiudicato rimasto ferito.

12 ottobre. A Fasano (Brindisi) travolta e uccisa Anna Pace, da un furgone di trafficanti di sigarette mentre viaggiava sull’auto guidata dal marito.

6 dicembre. Sulla provinciale tra San Donato di Lecce e Copertino durante una rapina a un furgone portavalori uccise tre guardie giurate, Luigi Pulli, Rodolfo Patera e Raffaele Arnesano. La rapina sarebbe opera di elementi della Sacra corona unita.

2000

7 gennaio. Sull’autostrada Milano-Venezia durante un inseguimento per un’operazione antidroga rimane ucciso il sovrintendente di polizia Antonio Lippiello.

5 febbraio. A Sant’Angelo Muxaro (Agrigento) ucciso il piccolo imprenditore e consigliere comunale di Alleanza Nazionale Salvatore Vaccaro Notte. Il 3 novembre del ’99 era stato ucciso il fratello Vincenzo. I fratelli tornati dalla Germania avevano aperto un’agenzia di pompe funebri. Secondo gli inquirenti non si sono piegati alla richiesta di chiudere l’attività, da parte di mafiosi interessati alla gestione di un’altra agenzia.

24 febbraio. A Brindisi uccisi i finanzieri Alberto De Falco e Antonio Sottile e feriti gravemente i colleghi Edoardo Roscica e Sandro Marras. I militari erano a bordo di un’auto speronata da una Rover blindata di contrabbandieri.

26 febbraio. A Strongoli (Crotone) in un agguato contro pregiudicati rimane ucciso il pensionato Ferdinando Chiarotti ed è gravemente ferito il pensionato Giuseppe Marasco.

2 marzo. A Isola Capo Rizzuto (Crotone) durante una sparatoria rimane ucciso assieme al pregiudicato Francesco Arena il giovane Francesco Scerbo, impegnato nel volontariato.

5 marzo. A Giugliano (Napoli) ucciso a colpi di pistola il giovane Ferdinando Liguori. A sparare sono stati alcuni giovani del quartiere Secondigliano con cui Liguori e altri amici avevano litigato in una discoteca.

11 marzo. A Bari ucciso per errore, da killer che hanno sparato nei locali di un circolo, l’incensurato Giuseppe Grandolfo.

2 aprile. Ad Anagni (Frosinone) in un incidente provocato da un’auto occupata probabilmente da trafficanti di droga, che sono fuggiti, rimane ucciso il brigadiere della Guardia di finanza Domenico Stanisci e viene ferito un collega.

13 aprile. A Marina di Gioiosa Jonica (Reggio Calabria) ucciso con un esplosivo posto sotto la sua auto l’imprenditore Domenico Gullaci, contitolare di una ditta di materiali per l’edilizia. Nel 1997 era stato ucciso a Siderno un cognato di Gullaci, il commerciante Francesco Marzano. I Gullaci hanno interessi in Sicilia e gli investigatori sospettano che il delitto sia stato eseguito dalla ‘ndrangheta su richiesta della mafia.

7 giugno. A Bari durante una sparatoria tra due gruppi mafiosi, un proiettile vagante uccide la signora Maria Colangiuli.

14 luglio. A Francavilla Fontana (Brindisi) ucciso il maresciallo dei carabinieri Giovanni Di Mitri, colpito alle spalle dai complici di due rapinatori che aveva tentato di bloccare all’uscita da una banca. Il delitto è compiuto in un contesto in cui è diventato sempre più difficile tracciare un confine netto tra criminalità comune e crimine organizzato.

21 luglio. A Bovalino (Reggio Calabria) ucciso a colpi di fucile il commerciante Saverio Cataldo, ferita gravemente la moglie. L’ucciso aveva resistito alle richieste della ‘ndrangheta di cedere il negozio.

24 luglio. Nel canale di Otranto (Lecce) morti i finanzieri Salvatore De Rosa e Daniele Zoccola, sbalzati in acqua nello scontro tra motoscafi provocato da albanesi che poco prima avevano costretto alcuni emigranti clandestini a gettarsi in mare.

28 luglio. A Torre del Greco (Napoli) ucciso l’imprenditore Giuseppe Falanga da due killer entrati a viso scoperto nel suo cantiere. Gli investigatori ritengono che si tratti di un’azione della camorra, anche se non risulta che l’imprenditore avesse ricevuto richieste di estorsione.

10 agosto. A Napoli uccisi i giovani incensurati Pietro Castaldi e Luigi Sequino, scambiati per dei guardaspalla del capocamorra Rosario Marra.

25 agosto. Ucciso a Mesoraca (Crotone), in un agguato il cui bersaglio era il pregiudicato Armando Ferrazzo rimasto leggermente ferito, il giovane Giuseppe Manfreda che stava transitando in macchina assieme alla moglie, rimasta ferita, e due figlioletti di due mesi, di cui uno è stato ferito ad una spalla.

27 ottobre. A San Giovanni in Fiore (Cosenza) ucciso il quindicenne Giovanni Madia, da killer che hanno sparato contro l’auto per uccidere suo nonno.

12 novembre. A Pollena Trocchia (Napoli) uccisa durante una sparatoria la bambina di due anni Valentina Terracciano, figlia di un trafficante di droga.

2001

12 luglio. A Bari ucciso il sedicenne Michele Fazio, venutosi a trovare in mezzo a una sparatoria. Gli inquirenti sospettano che sia stato usato come scudo da un capo della Sacra corona unita bersaglio dell’agguato.

20 luglio. A Genova, durante le manifestazioni contro il vertice G8, viene ucciso dalle forze dell’ordine il giovane Carlo Giuliani.

6 dicembre. A Calatabiano (Catania) ucciso il commerciante in pensione Carmelo Benvegna. Aveva denunciato e fatto arrestare alcuni estorsori ed era scampato a un agguato.

2002

18 febbraio. A Casal di Principe (Caserta) viene ucciso Federico Del Prete, segretario regionale del sindacato autonomo degli ambulanti, da lui fondato, che aveva denunciato casi di intimidazione della camorra. Avrebbe dovuto testimoniare al processo, nato dalle sue denunce, contro Mattia Sorrentino, un vigile urbano di Maddaloni rinviato a giudizio con l’accusa di estorsione nei riguardi di esercenti dei mercatini per conto del clan La Torre. Il delitto è rimasto impunito.

17 maggio. A Francica (Vibo Valentia) scompare il quattordicenne Luca Cristello. Trasferitosi a Torino lavorava in nero come manovale nell’edilizia e aveva minacciato di denunciare l’impresa.

2003

4 gennaio. A Grumo Nevano (Napoli) ucciso Domenico Pacilio, che nei primi anni ’90 aveva denunciato una banda di estorsori provocando l’arresto e la condanna di uno di loro.

10 marzo. A Lamezia Terme (Catanzaro) ucciso l’imprenditore Antonio Perri che non avrebbe pagato il pizzo.

5 aprile. A San Sebastiano al Vesuvio (Napoli) il diciottenne Paolino Avella muore all’uscita dalla scuola per difendere il motorino dai rapinatori.

29 settembre. A Villa Literno (Caserta) ucciso per sbaglio il giovane Giuseppe Rovescio, in una sparatoria contro un camorrista.

2 ottobre. A Bari ucciso il ragazzo di 16 anni Gaetano Marchitelli, colpito durante una sparatoria davanti alla pizzeria in cui lavorava.

23 ottobre. A Caltanissetta ucciso il commerciante Michele Amico. Si pensa che possa avere respinto una richiesta di estorsione.

9 dicembre. A Napoli ucciso durante una rapina il giovane Claudio Taglialatela.

2004

12 febbraio. A Viterbo viene trovato morto il medico urologo Attilio Manca. Si parla di suicidio, ma la sua morte viene messa in relazione con l’assistenza medica che avrebbe prestato a Bernardo Provenzano, ricoverato con falso nome presso una clinica nei pressi di Marsiglia.

15 febbraio. A Napoli ucciso il giovane Francesco Estatico, forse per un’occhiata di troppo a una ragazza.

1 marzo. A Burgos (Sassari) ucciso, con un ordigno posto davanti casa, Bonifacio Tilocca, padre del sindaco di centrosinistra, fatto segno di numerosi attentati.

26 marzo. A Torre Annunziata (Napoli) uccisa Matilde Sorrentino, che aveva denunciato anni prima un’organizzazione di pedofili.

27 marzo. Uccisa a Napoli, nel quartiere Forcella, in un agguato contro Salvatore Giuliano, la quattordicenne Annalisa Durante.

20 aprile. A Reggio Emilia rimane ucciso il poliziotto Stefano Biondi, travolto da un’auto che fuggiva a un controllo di polizia.

17 maggio. Ucciso a Chiaiano, periferia di Napoli, l’ex imprenditore edile Biagio Avolio. Nei primi anni Novanta era stato accusato di associazione camorristica e estorsione e dopo l’arresto aveva fatto i nomi dei camorristi. Gli uccisori sarebbero coinvolti nei processi nati dalle sue rivelazioni.

11 giugno. A San Paolo Belsito (Napoli) uccisi Antonio Graziano e il nipote Francesco, incensurati, che gestivano dei supermercati in provincia di Avellino. Sarebbero estranei al mondo criminale e sarebbero stati uccisi per il loro cognome, all’interno della faida tra i Graziano e i Cava.

21 luglio. A Paola (Cosenza) ucciso l’operaio forestale Antonio Maiorano, incensurato e senza alcun tipo di legame con la criminalità. Gli inquirenti ipotizzano che gli assassini lo abbiano scambiato per qualcun altro.

24 settembre. A Locri (Reggio Calabria) muore il trentenne Massimiliano Carbone, incensurato e titolare di una cooperativa di servizi che dava lavoro anche a giovani disabili. Era stato ferito il 17 settembre.

2 novembre. A Bruzzano Zeffirio, nella Locride, uccisi l’agricoltore Pasquale Rodà, con piccoli precedenti penali, e il figlio Paolo, di 13 anni.

6 novembre. A Napoli, nel quartiere Scampia, ucciso il giovane disabile Antonio Landieri mentre giocava a bigliardino con degli amici. I camorristi hanno scambiato i ragazzi per un gruppo di spacciatori.

20 novembre. A Migliano (Napoli) ucciso l’incensurato Biagio Migliaccio, cugino di un affiliato al clan Di Lauro di Secondigliano.

Qualche ora dopo, a Napoli, viene ucciso Gennaro Emolo, padre di un giovane vicino al clan che si oppone ai Di Lauro.

21 novembre. A Melito (Napoli) uccisi, dentro una tabaccheria, il titolare Domenico Riccio e il pregiudicato Salvatore Gagliardi, probabile obiettivo dei killer.

22 novembre. A Napoli, nel quartiere Secondigliano, torturata, uccisa e bruciata all’interno di un’auto data alle fiamme, Gelsomina Verde, di 22 anni. I killer probabilmente volevano sapere dove si nascondeva il suo amico, Gennaro Notturno, appartenente al clan contrario ai Di Lauro.

6 dicembre. A Bagnoli, rione di Napoli, trovato il cadavere dell’incensurato Dario Scherillo, con nessun legame con la camorra. Probabilmente è stato ucciso per errore.

28 dicembre. A Sant’Anastasia (Napoli) rimane ferito e morirà successivamente il cinquantenne Francesco Rossi, colpito per errore in un agguato contro dei camorristi.

2005

24 gennaio. A Napoli ucciso nel negozio dove lavorava il giovane incensurato Attilio Romanò, forse scambiato per il titolare, parente di un capo del clan rivale dei Di Lauro.

31 gennaio. Ucciso a Napoli Vittorio Bevilacqua, padre di Massimo, appartenente al clan degli “scissionisti”. Sembra che si tratti di una vendetta trasversale.

24 maggio. A Siderno (Reggio Calabria) viene ucciso il giovane imprenditore Gianluca Congiusta. Nel 2007 verrà arrestato Tommaso Costa, indicato come capo dell’omonima cosca di Siderno e accusato dell’omicidio di Congiusta, che sarebbe stato ucciso per aver cercato di impedire un’estorsione.

26 giugno. A Bovalino (Reggio Calabria), durante il mercato domenicale, ucciso l’artigiano Pepe Laykovac Tunevic. I killer sono rimasti ignoti.

13 agosto. A Bovalino (Reggio Calabria) scompare Renato Vettrice, operaio di un’azienda vivaistica.

16 ottobre. Ucciso a Locri (RC) il vice presidente del Consiglio della Regione Calabria, Francesco Fortugno, da un killer che è entrato nel palazzo dove si svolgevano le primarie del centro-sinistra per le elezioni nazionali e poi si è allontanato indisturbato. L’omicidio di Fortugno, un medico eletto nelle liste della Margherita, viene dopo una serie di intimidazioni e minacce della ‘ndrangheta contro esponenti delle istituzioni, come la busta contenente un proiettile e la scritta “condannato a morte” inviata al presidente della Regione, Agazio Loiero, anch’egli esponente della Margherita. Subito dopo l’omicidio i giovani di Locri manifestano con uno striscione bianco. Ai funerali, che si terranno il 19 ottobre, altri striscioni con le scritte: “E adesso ammazzateci tutti” e “La mafia uccide, il silenzio pure” (quest’ultima richiama le manifestazioni dopo il delitto Impastato).

17 dicembre. A Napoli ucciso Giuseppe Riccio, di 26 anni, sposato con un figlio, dipendente in una pizzeria dove sono entrati dei giovani con spranghe e pistole, per una spedizione punitiva contro i titolari.

2006

11 giugno. Trovato sulla spiaggia di Briatico (Vibo Valentia) il corpo carbonizzato dell’imprenditore agricolo Fedele Scarcella, dentro la sua auto data alle fiamme. Scarcella, che prima di essere bruciato è stato ucciso con due colpi di pistola, era conosciuto per le sue battaglie antiracket. Nel ’98 aveva denunciato gli uomini del clan Piromalli-Molè che gli avevano chiesto il pizzo.

22 agosto. A Palermo ucciso per errore il pensionato Giuseppe D’Angelo, scambiato per un capomafia. Responsabili del delitto i capimafia Lo Piccolo.

6 settembre. A Pescopagano (Potenza) ucciso, e bruciato nella macchina di servizio, Michele Landa, metronotte a guardia del ripetitore.

30 novembre. A Giugliano (Napoli) ucciso da rapinatori il tabaccaio Antonio Palumbo.

2007

1 agosto. A Reggio Calabria uccisa la guardia giurata Luigi Rende, in un assalto a un furgome porta valori.

27 novembre. A San Giorgio a Cremano (Napoli) ucciso Umberto Improta durante una sparatoria tra due gruppi di giovani.

29 dicembre. A Orgosolo ucciso l’ottantaduenne poeta, sindacalista e militante di sinistra Peppino Marotto. Si occupava in particolare degli anziani del paese ma anche dei problemi dei giovani. Si pensa che nella sua attività sociale possa avere toccato interessi di cui non doveva sapere o che avrebbe potuto mettere in pericolo.

2008

26 marzo. Sulla strada tra Catanzaro e Lamezia Terme viene ucciso l’imprenditore Antonio Longo, parte lesa in un processo in corso a Cosenza per racket.

16 maggio. Ucciso a Castelvortuno (Caserta) Domenico Noviello, titolare di un’autoscuola. Nel 2001 aveva denunciato un tentativo di estorsione ai suoi danni da parte del clan camorristico capeggiato da Francesco Bidognetti.

1 giugno. A Casal di Principe (Caserta) ucciso l’imprenditore Michele Orsi, coinvolto assieme al fratello Sergio nell’inchiesta sul consorzio Eco 4, attivo nello smaltimento dei rifiuti nei comuni del Casertano e che aveva cominciato a collaborare con la giustizia. Il delitto sarebbe stato compiuto dal gruppo dei Casalesi, legato a Francesco Bidognetti

6 giugno. A Pagani (Salerno), ucciso durante una rapina il sottotenente dei carabinieri Marco Pittoni.

16 giugno. A Marano di Napoli, ferito, in un assalto a un portavalori, la guardia giurata Gennaro Cortumaccio, che morirà due mesi dopo.

11 luglio. A Marina di Varcaturo (Napoli) ucciso, nello stabilimento balneare di cui era gestore, Raffaele Granata che si era rifiutato di pagare il pizzo. Alcuni anni fa aveva denunciato e fatto arrestare i taglieggiatori.

8 settembre. A Pozzuoli (Napoli), ucciso, durante un tentativo di rapina in una pizzeria, la guardia giurata Giuseppe Minopoli.

18 settembre. Uccisi a Castelvolturno (Caserta) 6 extracomunitari: Abada El Hadji, Cristopher Adams, Francis Kwame Antwi Julius, Samuel Kwako, Alex Jeemes, Eric Yeboah Affum, da un commando che ha sparato centinaia di colpi. Gli uccisi sarebbero operai non legati all’ambiente dello spaccio. Il 14 gennaio 2009 verrà arrestato il capocamorra latitante Giuseppe Setola, considerato il mandante della strage e di altri omicidi.

26 settembre. A Casapesenna (Caserta), muoiono gli agenti Francesco Alighieri e Gabriele Rossi, durante l’inseguimento a un auto che non si è fermata al posto di blocco.

2 ottobre. A Giugliano (Napoli) ucciso Lorenzo Riccio, ragioniere di una ditta di pompe funebri, il cui titolare, probabile obiettivo dell’agguato, aveva testimoniato contro il camorrista Francesco Bidognetti.

3 ottobre. Si suicida gettandosi da un viadotto dell’autostrada Messina-Palermo Adolfo Parmaliana. Docente universitario, aveva denunciato le malefatte degli amministratori di Terme Vigliatore e di altri Comuni del Messinese. Le sue denunce erano cadute nel vuoto e ultimamente era stato chiamato in giudizio per calunnia per suoi attacchi ai politici della zona.

5 ottobre. A Casal di Principe (Caserta), all’interno di un circolo ricreativo per anziani, ucciso Stanislao Cantelli, zio del collaboratore di giustizia Luigi Diana.

1 dicembre. A Napoli ucciso durante una rapina il farmacista Raffaele Manna.

2009

10 aprile. A Villaricca, nella periferia di Napoli, si suicida il ragazzo tredicenne Vittorio Maglione, figlio di un boss della camorra. Lascia un biglietto al padre: “Adesso sei contento. Non ti rompo più”. Nel 2005 il fratello era stato ucciso da altri camorristi.

26 maggio. A Napoli, durante una sparatoria tra camorristi, viene colpito il musicista romeno Petru Birlandeanu. Muore dissanguato tra l’indifferenza dei passanti.

25 giugno. A Crotone, durante una partita di calcetto, un killer spara dalla recinzione uccidendo un camorrista e ferendo sei ragazzi, tra cui Domenico Gabriele, di 11 anni, che morirà il 20 settembre dopo tre mesi di coma. Nell’aprile 2010 saranno incriminati i giovani Andrea Tornicchio, come mandante e esecutore, e Vincenzo Dattolo, appartenenti al clan ‘dranghetista Tornicchio e già detenuti assieme ad altri del clan per altri reati.

11 ottobre. A Serra San Bruno (Vibo Valentia) scompare il ragazzo Pasquale Andreacchi. I resti sono stati trovati successivamente.

24 novembre. Scompare la testimone di giustizia di Petilia Policastro (Catanzaro), Lea Garofalo. Verrà torturata, uccisa e sciolta nell’acido.

5 dicembre. A Taurianova (Reggio Calabria) ucciso il diciottenne Francesco Maria Inzitari, figlio di Pasquale esponente dell’Udc e imputato per concorso esterno. Dopo l’omicidio manifestazione dei giovani del territorio.

2010

5 settembre. A Pollica (Salerno) ucciso dalla camorra il sindaco Angelo Vassallo per la sua azione a tutela dell’ambiente e per le sue denunce contro gli spacciatori.

2011

13 gennaio. A Napoli ucciso da un proiettile vagante il meccanico Vincenzo Liguori: stava lavorando nella sua officina dove ha tentato di ripararsi un pregiudicato inseguito e ucciso da due killer.

Paolo Mieli: “La trattativa Stato-mafia comincia con l’Unità d’Italia”, scrive Antonella Sferrazza il 3 novembre 2016 su "I nuovi Vespri". Nel nuovo libro dello storico, nonché ex direttore del Corriere e della Stampa, due capitoli dedicati ai fatti risorgimentali e al Sud Italia. Un tentativo di ripulire la storia da mistificazioni e pregiudizi perché “ad ogni stagione, la politica cerca di tirare la storia dalla sua parte”. “Chi studia il passato e cerca una conferma a quello che pensava prima è una persona intellettualmente disonesta”. “La prima trattativa tra Stato e mafia è di centocinquant’anni fa. Anzi di più. A dicembre del 1861, pochi mesi dopo la morte di Cavour, parlando alla Camera de Deputati, il parlamentare Angelo Brofferio sostiene che «la maggior parte dei disordini che succedono in Italia è da attribuire a forze della pubblica sicurezza in combutta con bande illegali»… “Pezzi di Stato che «non hanno rossore di trattare con i malviventi»”. Comincia così il secondo capitolo del nuovo libro di Paolo Mieli intitolato In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia (Rizzoli, euro20) che in 280 pagine ripercorre eventi storici -non solo italiani -con l’obiettivo di ripulirli da mistificazioni, pregiudizi e strumentalizzazioni. L’ex direttore del Corriere e de la Stampa che ha dedicato gran parte della sua vita allo studio e alla divulgazione della storia, spiega così il senso del suo ultimo lavoro: “Per vincere le guerre del presente e del futuro dobbiamo prima regolare un conto bellico con il passato. Dobbiamo eliminare molte menzogne. Ad ogni stagione la politica cerca di tirare la storia dalla sua parte. Ogni storico deve muoversi a smentire la versione che ha già in testa, non deve cercare conferme. Chi studia il passato e cerca una conferma a quello che pensava prima è una persona intellettualmente disonesta”. Insomma, come sempre, Paolo Mieli (tra i pochissimi intellettuali italiani, ricordiamo, a parlare con onestà dei danni prodotti al Sud dal Risorgimento, sotto un video in proposito), si tiene ben lontano dalla palude degli storici ‘salariati’ senza temere “sorprese e delusioni”. “Se vogliamo essere in pace con il passato – dice Mieli- dobbiamo essere disposti a rivedere qualcosa di importante, anche pezzi della memoria collettiva cui siamo legati”. Nel volume si passano al setaccio eventi quali la Rivoluzione francese, la storia di Israele, personaggi come Stalin e Hitler, ma anche i falsi martiri della fede, Cicerone, Lincoln, D’Annunzio, i primi scandali dell’Unità d’Italia per un totale di 27 piccoli saggi. Tornando al secondo capitolo intitolato “La vera trattativa tra Stato e mafia”, Mieli, oltre alle dichiarazioni del parlamentare Brofferio, cita anche La mala setta di Francesco Benigno che descrive come “Destra e Sinistra storica (e quest’ultima forse ancora di più della prima) intrattennero rapporti con la malavita organizzata fin dalla fondazione del nostro Stato Unitario. Anzi, Destra e Sinistra quasi incoraggiarono mafia e camorra a trasformarsi in quello che sarebbero diventate un secolo dopo”. La storiografia non ha mai voluto approfondire questi nessi, “una reticenza che dai testi dell’epoca è transitata nelle pagine degli storici”. Mieli aggiunge che di camorristi e mafiosi si parlava già prima del 1861, “si trattava però di malavitosi di infimo rango al servizio di più padroni, la cui attività era confinata nelle carceri e nei quartieri più malfamati delle città meridionali. Nella Palermo liberata da Garibaldi qualche contatto improprio venne addebitato a Giuseppe La Farina, emissario di Cavour”. Lo stesso avvenne a Napoli con Silvio Spaventa: “Questi, che pure aveva avviato una campagna di disinfestazione dai camorristi promossi e legittimati da Garibaldi, a un certo punto venne accusato dalla stampa democratica di usare metodi illegali non troppo diversi da quelli usati dalla famigerata polizia borbonica”. Ma l’uomo simbolo di questa stagione resta Liborio Romano che “garantì il passaggio dal regime borbonico a quello garibaldino garantendo l’ordine pubblico grazie ad un esplicito accordo con i principali boss della malavita organizzata”. E, ancora, il fenomeno del brigantaggio e “l’intento propagandistico di inquadrare in quella categoria tutto ciò che accadde nel Sud Italia dal 1861 al 1865”. Particolarmente interessanti le parole di Diego Tajani, Procuratore del re a Palermo, secondo il quale, come si legge nel volume, “la mafia è temibile non tanto perché pericolosa in sé ma in quanto strumento di governo e perciò fonte di una rete invisibile di protezione”. Interessantissimo anche il capitolo dedicato alla corruzione – intesa come latrocini- dei nuovi politici dello Stato unitario e della stampa al loro servizio. Così come i successivi che offrono una lettura della storia come non l’abbiamo mai letta e che non esita a fare scendere dal piedistallo personaggi celebratissimi (lo stesso Cicerone pare abbia un tantino ‘abusato’ della storia del proconsole Verre in Sicilia “che era un politico in fase di declino”). Va da sé che il volume è un raggio di sole tra le nebbie che avvolgono in particolar modo la vera storia del Sud Italia e del Risorgimento.

La trattativa tra Stato e mafia comincia nel 1860, con Garibaldi in combutta con mafia e camorra, scrive Ignazio Coppola il 7 gennaio 2017 su "I Nuovi Vespri". Senza l’appoggio dei picciotti della mafia, Garibaldi e i Mille, una volta sbarcati a Marsala, avrebbero trovato grandi difficoltà. Invece, grazie ai mafiosi, trovano la strada in ‘discesa’. Idem a Napoli, dove i camorristi giravano con la coccarda tricolore. La testimonianza del boss, Joseph Bonanno. Le tesi di Rocco Chinnici. La lunga stagione dei delitti ‘eccellenti’. Fino alle stragi di Capaci e via D’Amelio, dove perdono la vita, rispettivamente, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (e gli uomini e le donne delle rispettive scorte). Con quest’ultimo, ammazzato perché si opponeva alla trattativa tra mafia e Stato. Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia che, sin dai tempi dell’invasione garibaldina in Sicilia, si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. In Sicilia in quel lontano maggio del 1860, infatti, accorsero, con i loro “famosi picciotti”, in soccorso di Garibaldi, i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola di Erice i fratelli Sant’Anna di Alcamo, i Miceli di Monreale, il famigerato Santo Mele, così bene descritto  da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi, addirittura, diverrà generale garibaldino e verrà ucciso tre anni dopo, nell’agosto del 1863, nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose. Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro Storia della mafia, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o n, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e determinante contributo all’unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale. Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo, Joseph Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joe Bananas, che nel suo libro autobiografico Uomo d’onore, a cura di Sergio Lalli, a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina: “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra tradizione (= mafia) si schierarono con le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere. Con l’unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese. Di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto, il giudice Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia presso il Palazzo di Giustizia di Palermo, una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo ed ideatore come anzidetto del pool antimafia – di cui allora fecero parte tra gli altri giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello – fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche. Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata, il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quell’occasione a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima, ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora, in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e successivamente con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”. Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’unità d’Italia hanno insanguinato la nostra terra per iniziare con la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti de ‘I pugnalatori’ di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palizzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che, della lotta alla mafia, ne hanno fatto una ragione di vita e purtroppo anche di estremo sacrificio, sino alla morte. Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quello stesso Paolo Borsellino che, da quanto, in questi ultimi tempi e alla luce di nuove risultanze processuali che hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi, ci è stato dato da apprendere si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia” e per questo ha pagato – per le connivenze tra mafia, servizi segreti deviati e omertà di Stato – con la vita il suo atto di coraggio. Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti, in una sconvolgete continuità storica, un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare – da 156 anni a questa parte, in un percorso caratterizzato, troppo spesso, da una criminale politica eversiva – la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.

Trattativa Stato-Mafia: per sconfiggere il male è giusto trattare. Combattere un Antistato obbliga a infiltrarsi, a promettere e compromettersi. L'Antimafia si basa invece su assurde pretese di purezza. A Palermo i giurati erano indifesi su questo fronte delicatissimo. Ne è uscita una sentenza grillina, scrive Giuliano Ferrara il 2 maggio 2018 su "Panorama". La mafia è un'organizzazione criminale che fa politica, una rete collegata di gruppi territoriali e familiari che combina politica e crimine in mezzo a fumisterie iniziatiche e intimidenti lealtà sostenute dalla violenza. La mafia è grandi reati, piccoli reati, un Antistato medio di insubordinazione e di conformismo ideologico insieme, ruralità e urbanesimo spinti, è annidamento di quartiere, struttura per cosche, cupola dei capi.

Il contrasto è affidato alla legge, la legge è affidata in prima e decisiva battuta agli investigatori specializzati, ai magistrati e all'esecutivo, il governo e gli apparati della forza. Sapevano i giurati di Palermo, che vorrebbero mandare in carcere per sentenza politica i protagonisti del contrasto alla mafia, la consistenza di questi dettagli decisivi? No. Questo è il punto.

L'Italia irriconoscente contro il carabiniere che arrestò Riina. L'Italia unita fece morire Giuseppe Mazzini in clandestinità a Pisa, alla vigilia di un arresto, a Roma già liberata, nel 1872, dopo anni di esilio, elezioni cancellate a norma di legge, galera per il martire e profeta nel carcere militare di Gaeta. E Garibaldi morì nell'esilio autoimposto di Caprera. È un Paese che sa essere irriconoscente, che sa esercitare una sua spavalda ferocia verso i figli maggiori. Non è così strano, per quanto inaudito, che ora voglia tenere in galera per il resto della sua vita il carabiniere che arrestò Riina. Ma per quali ragioni? Purtroppo è tutto molto semplice. Combattere un Antistato vuol dire applicare regole di indagine, a partire dalla raccolta delle informazioni e dalla capacità di infiltrazione e scompaginamento del suo esercito, che discendono dalla cultura politica, gli eterni arcani del machiavellismo. Devi entrare nel male, se necessitato. Per sapere, devi promettere. Per promettere, devi comprometterti. Compromettendoti, in base a un disegno di destabilizzazione e divisione del nemico, sfiori la collusione. Puoi agire quanto vuoi e quanto puoi con i guanti del codice, con le regole della legge e le sue caratteristiche speciali, ma alla fine i risultati importanti si ottengono solo con la decisione politica, delegata al personale militare e della magistratura penale, quelli che poi arrestano il capo dei capi e decapitano la struttura delle cosche.

Per combattere la mafia si deve entrare nel male. Ecco. Il punto è che, se questi sono i termini della lotta titanica tra lo Stato e i suoi nemici, l'Antimafia si basa invece da sempre su un codice moralistico, sulla pretesa che il patto col diavolo, sebbene stipulato entro i confini dello Stato di diritto e del senso comune, sia espressione di purezza, di incorruttibilità di principio, di estraneità reciproca assoluta degli eserciti in guerra. Una pretesa assurda, che apre la via alla calunnia, alla maldicenza, allo spirito critico che tutto nega, e che nel suo travestimento moralistico è una diavoleria, la vera diavoleria. Tutti hanno parlato con i mafiosi, tra coloro che li dovevano combattere per nostro conto, su nostra delega, in nome dello Stato. Lo hanno fatto i Caselli, come i Mori, lo hanno fatto con mafiosi pentiti, con mafiosi interi, dovevano esaminare i margini, che sono sempre un argomento pericoloso, per scompaginare il fronte avversario, dovevano entrare nel male, nei confini di una "trattativa", per far cessare le guerre a suon di bombe, l'assassinio degli alti magistrati, l'eliminazione degli eroi. Avevano alle spalle non già il fantasma evocato per bassa propaganda politica di Berlusconi o Dell'Utri, avevano alle spalle personalità specchiate come Giovanni Conso, Carlo Azeglio Ciampi, e altri investigatori che hanno fatto la storia del contrasto alla mafia, come Gianni De Gennaro, che infatti è in cima alla lista dei calunniati dalla famosa "icona dell'antimafia" e del sistema dei media, quel Massimo Ciancimino alle origini di questo processo e di questa incredibile sentenza. Non potevano fare diversamente, se volevano dare un senso al loro dovere civile. Ma se in una prospettiva moralistica hanno "trattato" con la mafia, in una visione seria, responsabile, giuridica e politica nel senso più alto ed efficace del termine, hanno sconfitto la mafia nella sua stagione culminante, quella delle stragi. E con coraggio, intelligenza, lucidità. Altro che storie.

Una sentenza grillina colpevolista. Al centro di tutto stanno i media, che possono essere la scuola della virtù o il teatro della calunnia, il fomite del venticello che tutto travolge. I giurati di Palermo erano indifesi su questo fronte delicatissimo e decisivo. Dovevano funzionare come imparzialità della legge e del diritto, hanno funzionato come una branca dell'opinione pubblica, e di quella più disinformata, di quella indotta, carezzata e coccolata dalle leggende metropolitane e dai facilismi antimafiosi. Dieci anni di processo e un percorso dibattimentale segnato dalle "lotte", che sono il contrario della azione civile e militare di contrasto alla vera mafia, hanno portato alla formazione di un partito colpevolista che ha interagito con la politica, perfino con le elezioni, con il momentum, il segnacolo o bandiera dei tempi che corrono. Ne è uscita una sentenza grillina, che ha la stessa impronta del mandato d'arresto per Mazzini rifugiato clandestino nella casa di John Brown a Pisa e del bando al generale Garibaldi. Un inaudito pasticcio che solo in anni di dolore repubblicano verrà alfine sanato. Ma tardi. 

(Articolo pubblicato sul n° 19 di Panorama in edicola dal 26 aprile 2018 con il titolo "Se per sconfiggere la mafia devo trattare, trattativa sia")

RITUALI D’INIZIAZIONE. I GIURAMENTI DELLE MAFIE.

IL GIURAMENTO DELLA MAFIA. ‘NDRANGHETA, CAMORRA, SACRA CORONA UNITA, COSA NOSTRA.

Da Wikipedia.

DI COSA NOSTRA

Punciuta. Punciuta è un termine in lingua siciliana che significa puntura e dà il nome al rito di iniziazione per i membri di Cosa nostra. L'iniziato viene condotto in una stanza alla presenza di tutti i componenti della Famiglia locale in riunione. Uno dei momenti chiave, da cui la cerimonia prende il nome, è la puntura dell'indice della mano che l'iniziato utilizza per sparare con una spina di arancio amaro o, a seconda del clan mafioso, con un'apposita spilla d'oro. Il sangue fuoriuscito viene usato per imbrattare un'immaginetta sacra a cui in seguito viene dato fuoco mentre il nuovo affiliato la tiene tra le mani e pronuncia un giuramento solenne: "giuro di essere fedele a cosa nostra. Se dovessi tradire le mie carni devono bruciare come brucia questa immagine". Successivamente, vengono ricordati al nuovo affiliato gli obblighi che dovranno essere rigorosamente rispettati: non desiderare la donna di altri uomini d'onore; non rubare agli altri affiliati; non sfruttare la prostituzione; non uccidere altri uomini d'onore, salvo in caso di assoluta necessità; evitare la delazione alla polizia; mantenere con gli estranei il silenzio assoluto su Cosa Nostra; non presentarsi mai da soli ad un altro uomo d'onore estraneo, poiché è necessaria la presentazione rituale da parte di un terzo uomo d'onore che conosca entrambi e garantisca la rispettiva appartenenza a Cosa Nostra. La descrizione più antica del rituale della "punciuta" si trova in un rapporto giudiziario della questura di Palermo risalente al febbraio 1876. Tuttavia la magistratura ha accertato come alcuni soggetti, pur non affiliati in maniera formale a Cosa Nostra attraverso il rito della punciuta, rivestano ruoli assai importanti all'interno delle Famiglie, con particolare riferimento agli imprenditori che, giustificando la propria vicinanza alla mafia con la necessità di lavorare in un contesto ambientale ostile, con la loro condotta traggono notevoli vantaggi di ordine economico e rafforzano la posizione sociale della Famiglia. Alla fine degli anni novanta alcuni analisti hanno ipotizzato che la mafia abbia scelto di ripensare i propri principi fondanti tendendo a far coincidere la struttura criminale primaria con la famiglia naturale e pertanto, per riconoscere gli affiliati, è sufficiente il solo legame di sangue senza necessità della punciuta. Tuttavia il ritrovamento della formula del giuramento e l'elenco delle regole da rispettare nel covo dei latitanti Salvatore e Sandro Lo Piccolo nel novembre 2007 nonché le indagini degli organi inquirenti e le recenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Gaspare Pulizzi, Manuel Pasta e Sergio Flamia hanno dimostrato che il tradizionale rito della punciuta persiste ancora oggi.

DELLA ‘NDRANGHETA

Riti della 'Ndrangheta. «Davanti alla gran curti non si parra, pochi paroli e cull'occhiuzzi 'nterra, l'omu chi parra assai sempre la sgarra! Culla sua stessa lingua s'assutterra» Antico detto della 'Ndrangheta). I riti della 'ndrangheta sono dei cerimoniali necessari per poter essere ammessi all'organizzazione criminale. Essa, in quanto società segreta, nell'arco della sua storia ha sviluppato molti riti per ogni occasione. Inoltre è l'unica delle organizzazioni criminali di stampo mafioso operanti in Italia ad aver mantenuto i riti che la contraddistinguevano nel passato. Essi tramandati o oralmente o tramite dei codici, i quali sono stati rinvenuti varie volte dalle forze dell'ordine, o anche tramite audiocassette o CD in forma musicale autoprodotta. Prima dei codici l'unica modalità per la comunicazione delle leggi e riti della società era solo la via orale ed era anzi vietato metterle per iscritto per il pericolo che le forze dell'ordine ne potessero entrare in possesso. Già, alla fine dell'Ottocento, però questa regola viene a cadere con il ritrovamento dei primi codici. Essi, il primo supporto nel quale scrivere i riti di affiliazione e promozione e comportamento, nonché di memorizzazione della terminologia in uso. Il primo codice ritrovato è stato quello di Nicastro nel 1888, il secondo quello di Seminara nel 1896 e il terzo, un codice sequestrato a Catanzaro nel 1902. Nel 1926 e nel 1927 vengono sequestrati rispettivamente a Platì e Gioiosa Jonica altri 2 codici. Nel 1963 vengono scoperti il codice di San Giorgio, nell'abitazione del capobastone Angelo Violanti il codice di Sant'Eufemia, e il codice di Gioia Tauro. Nel 1971 si trova il codice di Toronto e nel 1975 il codice di Presinaci. Il 27 ottobre 1980 viene sequestrato a Giralang in Australia, un codice per il rituale di sgarro a Domenico Nirta (nato il 27 novembre 1934). Nel giugno 1987, viene ritrovato a Pellaro a casa dello ndraghetista Giuseppe Chilà il primo codice riguardante i riti della Santa. Nel dicembre del 1987 viene sequestrato a Nailsworth Building un codice per il rituale di camorra di Raffaele Alvaro (nato il 7 dicembre del 1931). Nel 1989 viene preso al capobastone Giuseppe Chilà il codice di Reggio Calabria, in cui sono descritte la società di sgarro, e le doti di santa e vangelo. Nel 1990, i codici di Rosarno, Lamezia Terme e Vallefiorita. Questi codici erano e sono imparati a memoria dagli affiliati. Nel 2013, dopo l'arresto a Roma di Gianni Cretarola accusato dell'omicidio di Vincenzo Femia, gli agenti trovano nella sua abitazione tre fogli scritti a mano in un codice composto da lettere greche, latine e simboli particolari. Una volta decifrato si è scoperto essere un codice di 'ndrangheta, tra cui il rito di battesimo. La leggenda della nascita della 'ndrangheta. Per l'origine mitica della 'ndrangheta viene fatto riferimento a tre cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che in tempi lontani per vendicare l'onore della sorella uccidono un uomo e per questo vengono condannati a 29 anni, 11 mesi e 29 giorni di carcere nell'Isola di Favignana. Al termine del periodo di detenzione maturarono quelle regole di onore e omertà che costituiscono il codice della "società" e contraddistingueranno le future organizzazioni criminali mafiose italiane e si dividono: Osso fonderà Cosa Nostra in Sicilia, Mastrosso la 'ndrangheta in Calabria e Carcagnosso la Camorra a Napoli. L'albero della Scienza e il Giardinetto. "L'albero della scienza è una metafora di come è strutturata la società, da un codice rinvenuto durante un rito di affiliazione rivela che l'albero della Scienza è diviso in 6 parti: « Il fusto rappresenta il capo di società; il rifusto il contabile e il mastro di giornata; i rami i camorristi di sangue e di sgarro; i ramoscelli i picciotti o puntaioli; i fiori rappresentano i giovani d'onore; le foglie rappresentano la carogne e i traditori della 'ndrangheta che finiscono per marcire ai piedi dell'albero della scienza". » (Un codice di 'Ndrangheta).  Alla base dell'albero è rappresentata anche una tomba per simboleggiare la fine delle foglie. La ‘ndrina, afferma Malafarina nel Il codice della 'Ndrangheta viene rappresentata come un giardinetto di rose e fiori con in mezzo una stella dove si battezzano picciotti, camorristi e giovani d’onore. Il picciotto entra nel “giardinetto” a fronte scoperta con i ferri alle braccia ed i piedi alla tomba.

Battesimo del Locale e Formazione della società. Il battesimo del Locale è un rito facoltativo che si fa a discrezione del capo-società, colui che presiede la riunione e consiste nella purificazione del Locale. Precede il rito obbligatorio della formazione della società. Il rito si consuma mediante questa formula:

«Capo-Società: Buon vespero. Saggi compagni

Gli altri: Buon vespero

Capo-Società: State accomodi per battezzare questo locale?

Gli altri: Stiamo accomodi

Capo-Società: A nome dei nostri vecchi antenati, i tre cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, battezzo questo locale se prima lo riconoscevo per un locale che bazzicavano sbirri e infami, da ora in poi lo riconosco per un luogo sacro santo e inviolabile dove può fermare e sformare questo onorato corpo di società.».

Una variante dell'ultima frase del capo-società trovata nella zona di Rosarno è:

«Io battezzo questo locale sacro santo e inviolabile come l'hanno battezzato i tre vecchi cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, se prima lo conoscevo come un locale di transito e passaggio da ora in poi lo riconosco per un locale battesimale dove si battezzano picciotti, giovani d'onore e camorristi.»

Con la formula di Formazione della società incomincia qualsiasi riunione di 'Ndrangheta che riguardi qualsiasi attività del Locale.

«Capo-Società: Buon vespero

Gli altri: Buon vespero

Capo-Società: Siete conformi?

Gli altri: Siamo conformi.

Capo-Società: Su che cosa?

Gli altri: Sulle regole di società

Capo-Società: Nel nome dell'arcangelo Gabriele e di Sant'Elisabetta, circolo di società è formato. Ciò che si dice in questo circolo a forma di ferro di cavallo, qua si dice e qua rimane, chi parla fuori da questo luogo è dichiarato tragediatore a suo carico ed a discarico di questa società.».

Una formula differente di Rosarno è:

«Capo-Società: Buon vespero

Gli altri: Buon vespero

Capo-Società: Siete conformi?

Gli altri: Siamo conformi.

Capo-Società: Calice d'argento, ostia consacrata, parole d'omertà è formata società»

Successivamente i presenti si baciano la mano e poi si siedono a braccia conserte per tutta la durata della riunione ad eccezione del capo-società. Ora la riunione può incominciare.

La riunione al Santuario della Madonna di Polsi. « BUON VESPERO siete conformi !!! sù di chè a batezzare societa conformissimo batezzo e ribatezzo questa società così come la batezzarono i nostri tre fondatori: conte qulino, conte rosa e cavaliere di spagna se loro lo batezzarono con fiori rosa e gelsomini alla mano destra io lo batezzo con fiori rosa e gesolmini ala mano destra se loro lo batezzarono con ferri catene e camicia di forza io lo batezzo con ferri catene e camicia di forza se prima questo locale era transitato da sbiri carogne infami e tragediatori da questo momento lo conosco come un posto sacro santo e inviolabile e con parola d'umiltà e batezzata località»

Rito di iniziazione o Battesimo. L'iniziato nella 'Ndrangheta si chiama contrasto onorato quando diventa Picciotto d'onore deve compiere il rito di battesimo (o anche rito di rimpiazzo o rito di taglio della coda), nome preso dalla tradizione cristiana che lo farà entrare nella onorata società. Un affiliato, il quale garantisce per lui con la vita, lo presenta davanti agli altri componenti della 'ndrina che devono essere almeno 5 più un anziano della famiglia che celebrerà il rito. In carcere può capitare di non essere nel numero prestabilito, e dalla confessione recente di Vincenzo Femia, rivela che per il suo battesimo nella calzoleria del Carcere di Sulmona le persone mancanti furono rappresentate da fazzoletti annodati. Il capobastone dirà: Calice d’argento, ostia consacrata, parole d’omertà è formata la società. Il Contrasto Onorato presentato dal suo garante al Capo-Società che affermerà: «Prima della famiglia, dei genitori, dei fratelli, delle sorelle viene l’interesse e l’onore della società, essa da questo momento è la vostra famiglia e se commetterete infamità, sarete punito con la morte. Come voi sarete fedele alla società, così la società sarà fedele con voi e vi assisterà nel bisogno, questo giuramento può essere infranto solo con la morte. Siete disposto a questo?» (Codice della 'Ndrangheta). Il contrasto onorato è anche chiamato a giurare nel nome di «nostro Signore Gesù Cristo. Dovrà giurare con la figura di San Michele Arcangelo tra le sue mani mentre brucia e dovrà pronunciare: Io giuro dinanzi a questa società di essere fedele con i miei compagni e di rinnegare padre, madre, sorelle e fratelli e se necessario, anche il mio stesso sangue.»

Oppure un'altra variante: «Giuro su questo pugnale e su questa tomba, larga e profonda al livello del mare, dove nessuno la potrà scoprire, di essere fedele coi miei compagni e tutti saggi mastri. Di non trasgredire le regole sociali e di essere sempre pronto ad ogni chiamata dell’Onorata Società».

In casi particolari come il carcere basterà compiere il rito pungendosi il dito per l'"offerta di sangue" e bere il proprio sangue senza bruciatura del santino. Avviene poi lo scioglimento della Società cioè la riunione: «Capo-società: Da questo momento abbiamo un nuovo uomo d'onore, Società ha formato, il circolo è sciolto. Buon vespero. Gli altri: buon vespero.»

Rito per la dote di camorrista:

«D: Che cosa rappresenta un camorrista?

R: Un camorrista rappresenta un leone legato con una catena di 24 maglie e 25 anelli che non si può distaccar senza l'ordine della società.

D: Fatimi grazia saggio compagno, dove risiedono capo e contabile?

R: Alto saggio compagno, capo e contabile risiedono in mezzo ad una isoletta in mezzo al mare con una camicia di forza e ferri e catene che combattono e ricombattono per non essere ribattuti da altri capi società.

D: Che cosa rappresenta la camorra?

R: La camorra rappresenta una palla di sangue che gira in tutto il mondo e per ogni 24 ore compie il suo giro.

D: Quanto vale un camorrista?

R: Un camorrista vale quanto una piuma d'oro esposta al vento.

D: Che cosa rappresenta un camorrista a circolo formato?

R: Un camorrista a circolo formato rappresenta un giudice che in quel momento giudica e da quel momento in avanti può essere giudicato.

D: Da che cosa è formato un camorrista?

R: Un camorrista è formato duro come il ferro, forte come la seta, leggero come una penna lasciata al vento.

D: Quanto pesa un camorrista?

R: Un camorrista pesa quanto una pinna abbandonata al vento e vale quanto l'oro di tutta la Francia.

D: Quanto mangia un camorrista?

R: Un camorrista mangia quanto un cardellino affamato, sta zitto o si piomba come una palla che gira e batte di qua e di là perché che deve essere come una molla spirali che sempre ritorna e non può stare mai ferma.

D: Fatimi grazia saggio compagno, come vi hanno battezzato camorrista?

R: Alto saggio compagno, a me mi hanno battezzato senza cappello e senza camicia a mezzo busto come l'Angelo.

D: Che cosa avete visto?

R: Un tavolo di noce finissima con un damasco d'oro di seta finissima con cinque armature, quattro pari e una dispara che rappresentava il capo della società.

D: Perché rappresentava lui il capo della società? Perché era più grosso e più malandrino degli altri?

R: No, non era né più grosso né più malandrino, poiché in quel momento aveva due cariche speciali e inviolabili che era stata eletta di tutti noi camorristi come un padre in una famiglia.

D: Dove vi hanno battezzato?

R: Sopra un monte dove vi era un giardino di rose e fiori e c'erano i nostri 3 fratelli e cavalieri Osso Mastrosso e Scarcagnosso convenzionati per la mia consacrazione.

D: Come son vestiti i camorristi a società formata?

R: I camorristi a società formata devono essere vestiti di verde di rosso e di bianco.

D: Perché devono essere vestiti di verde di rosso e di bianco?

R: Perché rappresentano il simbolo della società.

D: E in società sformata come sono vestiti?

R: Di bianco, perché rappresentano l'onore.

D: Parlo con voi saggio compagno, di grazia dove risiede la camorra?

R: Sulla più alta montagna della Spagna dove l'ho vista l'ho servita e l'ho lasciata per non essere scoperto dalla sbirraglia.

D: Fatemi grazia saggio compagno, come avete fatto per giungere alla fonte battesimale?

R: Alto saggio compagno, per essere battezzato e reso fedele presso le fonti battesimali ho lottato con due leoni inferociti e così sono entrato.

D: Fatimi grazia saggio compagno, che cosa avete visto?

R: Ho visto un corridoio formato di finissimo marmo una grande stanza illuminata ed un grosso leone incatenato con una catena di 24 maglie e 23 anelli.

D: Fatimi grazia come avete fatto a entrare nella stanza?

R: Per passare mi sono imposto al grosso leone a nome del nostro severissimo San Michele Arcangelo e mi ha fatto passare.

D: Chi era quel grosso leone?

R: Era il nostro vecchio cavaliere venerando che ivi stava per impedire l'ingresso a tutti quelli che non erano battezzati presso le fonti battesimali e così sono passato.

D: Che cosa avete visto dentro la stanza?

R: Ho visto un tavolo rotondo coperto con un damasco di purissima seta e due calici d'oro finissimo ed io sono andato per prendere diritti e disposizioni ma da una voce mi sento chiamare non so perché e non so cosa fare per rispondere per regole sociali. » (Documento ritrovato a Stefanaconi nel 1975.)

Il rito di passaggio a camorrista avviene prima elencando da parte di un affiliato le sue qualità positive e da un altro affiliato le qualità negative, questa operazione è definita Contraddittorio. Dopo avviene la Pungitina cioè il giuramento di sangue. Si punge l'indice della mano destra del picciotto dimodoché delle gocce di sangue cadano sulla figura di santa Annunziata e poi le si dà fuoco. Alla funzione è presente anche il contabile dell'organizzazione (chi gestisce la parte economica di un Locale).

Formula di perquisizione:

«Mastro di Giornata: Buon Vespero state conformi a sequestrare queste armature?

Tutti: Siamo conformi.

Mastro di Giornata: Se prima mi riconoscevo per un mastro di giornata da questo momento mi conoscerete per un poliziotto d'omertà che fa il suo dovere in società formata. Chi ha armature che le tirasse fuori.

Mastro di Giornata: Ora che sono sequestrate qualsiasi armatura, guai a chi trovo specchi, coltelli e rasoi, verrà praticato con due e tre zaccagnate (coltellate) nella schiena, come è prescritto dalla regola sociale, con una mano mi ribasso e con un'altra vi passo le pulci.»

Formazione della società:

«Capo società: Buon Vespero saggi compagni.

Tutti: Buon vespero.

Capo società: Siete accomodi per formare società di sgarro?

Tutti: accomodissimi.

Capo società: Con bastone d'oro e pomello d'argento stella mattutina che forma a ciampa di cavallo società criminale e 'ndrina con parole d'uomo e parole d'omertà è formata società. A nome di Minofrio, Mismizzu e Misgarru è formata la società di sgarro.»

Promozione a sgarrista:

«Capo società: A nome di Minofrio, Mismizzu e Misgarru passo alla prima votazione su <nome camorrista> Se prima lo riconoscevo come camorrista di sangue da questo momento lo riconosco per uno sgarrista fatto a voce appartenente e non appartenente a questo corpo di società sacra santa e inviolabile. »Si procede poi al taglio della testa della figura di San Michele Arcangelo e poi la si brucia e si fa una croce col coltello sul pollice del camorrista.

Formula di battesimo finale:

«A nome di Minofrio, Mismizzu e Misgarru che gli hanno tagliato la testa a San Michele Arcangelo perché è stato molto severo nella sua spartizione e il suo corpo è stato sepolto sotto due pugnali incrociati, la sua testa è stata bruciata e con la sua cenere ti battezzo e ti consacro sgarrista. Se prima lo riconoscevo come sgarrista non consacrato, adesso lo riconosco sgarrista battezzato e consacrato. Io mangerò con lui centesimo, millesimo e soldo della baciletta, gli difenderò carne sangue pelle e ossa fino all'ultima goccia del mio sangue se raggiri porta macchia donerò infamità a carico suo e a scarico della società.»

Santa. I protettori della Santa e dei santisti sono: Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e Alfonso La Marmora. Il santista viene riconosciuto da una croce grande pochi millimetri fatta con una lama su una spalla.

Rito per la dote di Vangelo. Si procede con una prima votazione:

«Capo società: Saggi fratelli siamo pronti per la federizzazione?

Tutti: prontissimi.

Capo società: A nome di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre e di Nostro Signore Gesù Cristo passo la prima votazione sul conto del nostro fratello <nome santista>. Se fino adesso era un uomo riconosciuto alla Santa/sacra corona adesso lo riconosciamo per un nostro fratello non ancora riconosciuto e federizzato.»

C'è poi una seconda votazione con formula conclusiva: «A nome di Gasparre, Melchiorre e Baldassarre e di Nostro Signore Gesù Cristo passo alla seconda votazione. Se fino adesso era riconosciuto fratello non ancora appartenente, adesso lo riconosciamo appartenente e non federizzato.»

Poi gli si incide su una spalla una croce e il neo-vangelista recita quest'altra formula: «Giuro sopra questa arma e di fronte a questi fratelli di non partecipare a nessuna società e a nessuna organizzazione tranne al Sacro Vangelo, giuro di essere fedele dividendo sorte e vita con i miei fratelli.»

Si arriva all'ultima votazione. «A nome di Gasparre, Melchiorre e Baldassarre e di noi tutti saggi fratelli presenti e assenti si passa alla terza e ultima votazione. Al nuovo fratello amato e abbracciato, federizzato e baciato con giuramento già fatto e con la croce sulla spalla sinistra giurando con lui di essere fedele con gioia e sangue.»

Infine si scioglie la società di Vangelo: «A nome di Gasparre, Melchiorre e Baldassarre in questo sacro giorno e con la luce del cielo, noi saggi fratelli cavalieri d'onore sformiamo il sacro vangelo.»

Riti per la dote di Trequartino, Quartino e Padrino. Qui sotto sono elencante le frasi di rito intercettate per l'assegnazione di queste tre doti.

Quartino: «A nome del principe russo, conte leonardo e fiorentino di Spagna, con spada e spadino è formato il Quartino».

Trequartino: «A nome di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, giuro sulla punta dello spadino, hanno formato il Trequartino.»

Variante: «A nome di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre e Carlo Magno, giuro sulla punta dello spadino, hanno formato il Trequartino.»

Padrino: «A nome del principe russo, conte leonardo e fiorentino di Spagna, con spada e spadino è formato il Padrino.»

Riti per la dote di Crociata e Stella. Qui sotto c'è un frammento di intercettazione con una frase del rito per l'assegnazione della dote di Crociata. «A nome di Conte Aquilino che ha camminato tredici anni, tredici mesi e tredici giorni, ha varcato Gerusalemme, si prese la spada … Cavalieri di crociata.»

Qui sotto c'è un frammento di intercettazione con una frase del rito per l'assegnazione della dote di Stella. «Dal cielo e nel mare il nostro Signore Creatore è formata la stella polare.»

Riti di punizione:

Spennellata di escrementi

Zaccagnata del liccasapuni

Cappotto di legno

L’utri ca’ fossa, Omicidio a causa di tradimento.

Segnali e segni di riconoscimento (Il segno di un picciotto):

Berretto alla storta (Come scritto nel codice australiano di Raffaele Alvaro degli anni ottanta.

Dopo dei riti di assegnazione di una dote, il rituante deve dare al capo-società una stretta di mano e un bacio (sulla fronte o sulla guancia)

Terminologia:

Baciletta: metaforicamente è il nome della cassa comune di una Locale.

Carduni: è ogni persona al di fuori dell'organizzazione e che non è neanche contrasto onorato, ovvero persona vicina all'organizzazione ma non affiliata.

Stipatu: messo da parte in attesa di una decisione definitiva; in passato c'era anche lo stipatu cu sfregiu, sospeso con uno sfregio nel volto per far sapere a tutti del suo comportamento deviato.

Colpe. La classificazione delle colpe:

Trascuranza: La trascuranza è una colpa lieve, quando una persona non ha fatto abbastanza attenzione. La trascuranza può determinare un processo, che delibera un'assoluzione.

Sbaglio: la condanna per uno sbaglio è sempre la morte.

Tragedia: succede quando un affiliato dice falsità all'interno dell'organizzazione per trarre profitto personale.

Macchia d'onore: è un comportamento indegno di un affiliato o di un suo parente.

Infamità: è un colpa gravissima dell'affiliato che tradisce.

Svincolo. A nome di San Michele Arcangelo lu fiuri fiuri di li malandrini chi porta spati spatini e bilancini in manu chi taglia e rintaglia in carne pelle e ossa, così vi rintglio io, punti, favella, tragenza e cica in bocca, a nome della Santissima Annunziata la mia favella e libera e la vostra è vincolata. C'è una barchetta in mezzo al mare cu tri valenti marinari chi spartinu e dividinu diritti e reguli sociali ho un frustino di noce fino finissimo che galleggia nel mare; sono un vero camorrista e non mi potete rintagliare.

D: Che cosa rappresenta la camorra a mano vostra?

R: È come l'ostia consacrata a mano del sacerdote che morire si ma abbandonarla mai.

D: Quando vi hanno rimpiazzato che cosa avete visto?

R: Un tavolino in noce fino finissimo con una tovaglia di seta rossa fina finissima quattro armature pari e una dispara.

D: Come avate fatto a scoprire che nel mondo esiste la malavita?

R: Era una bella mattina di sabato, spunta e non spunta il sole quando mi feci una passeggiata in una larga ed aperta campagna dove incontrai una donna vestita di nero che splendeva più del sole; l'ho salutata ed ho domandato come mai signora sola in questi luoghi? Alto giovanotto non sono sola bensì aspetto il nostro severissimo Salvatore. E chi è questo nostro severissimo Salvatore? Avrei l'onore conoscerlo. Attendete fra poc sarà qui, ed è il nostro vecchio cavaliere cammorristiale che per ben 24 anni ha camminato sotto le celle della Favignana. Quando ad un tratto vidi arrivare un cavaliere con una cavallina bianca sellatura d'oro brigliatura d'argento palma nelle dita così ho fatto a scoprire che nel mondo esisteva la malavita.

D: Come siete entrato nella società?

R: a braccia conserte, tallone unito e l'angiolino.

Durante il giuramento per il conferimento della Santa, registrato dai Carabinieri nell’operazione della Dda di Milano in Lombardia che ha portato all’arresto di 40 presunti ‘ndranghetisti, si fa riferimento a Mazzini, Garibaldi e La Marmora. Garibaldi, nella ricostruzione degli investigatori, rappresenta il capo del Locale di ‘ndrangheta (l’organizzazione locale), Mazzini il contabile e La Marmora riveste invece la carica di “236 mastro di giornata”, tra le più alte dell’associazione. Nei video i segreti del giuramento alla ‘ndrangheta, ma anche le soluzioni estreme in caso di “errori” di grande entità. Recitati parte in italiano e parte in dialetto le parole sono comunque raccapriccianti. Nel video, registrato dagli investigatori a Castello di Brianza, in provincia di Lecco, si sente e si vede: “Buon Vespero e Santa sera ai Santisti”, iniziano a recitare, “Giustappunto questa santa sera nel silenzio della notte e sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna, formo lasanta catena! Nel nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora con parole di umiltà formo la santa società. Dite dopo di me: Giuro di rinnegare tutto fino alla settima generazione, tutta la società criminale da me fino ad oggi riconosciuta per salvaguardare l’onore dei miei saggi fratelli. Nel nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora, passo la mia prima, seconda, e terza votazione su … Se prima lo conoscevo come un saggio fratello fatto e non fidelizzato, da questo momento lo conosco per un mio saggio fratello. Sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna sformo la santa catena. Nel nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora con parole di umiltà è sformata la santa società”.

LE REGOLE DI CHI SGARRA. Nel segno del “Noi non possiamo mai cambiare”, quasi a sancire una immutata condizione che dura da sempre, i membri delle ‘ndrine spiegano ai nuovi affiliati, come ognuno sia il giudice di se stesso e come, in caso di “trascuranza grave” ci si debba comportare. “Fino a ieri – spiegano – appartenevi alla società criminale. Per quanto riguarda la ‘ndrangheta fino a ieri eravate completo. Oggi state prendendo un’altra stada. Devi essere armato. Dovete rinnegare tutto quello che conoscevate fino a ieri. Qua ci sono due strade: la montagna … il monte santo …Oggi, da questo momento in avanti, non vi giudicano gli uomini, vi giudicate da solo. Ci sono due alternative: se nella vita commetterete una trascuranza grave, non devono essere i vostri fratelli a giudicarvi. Dovete essere voi a sapere che avete fatto la trascuranza e scegliete voi la strada da seguire. Il giuramento del veleno: una pastiglia, c’è una pastiglia il cianuro. O vi avvelenate o prendete questa che spara. Dei colpi in canna ne dovete riservare sempre uno. Quello è per voi. Se vi chiedono: Scusate di chi siete figlio? Vostro padre chi è? Voi gli rispondete: mio padre è il sole, mia madre è la luna.

DELLA SACRA CORONA UNITA.

«Giuro su questa punta di pugnale bagnata di sangue, di essere fedele sempre a questo corpo di società di uomini liberi, attivi e affermativi appartenenti alla Sacra corona unita e di rappresentarne ovunque il fondatore, Giuseppe Rogoli» (Giuramento)

«Giuro sulla punta di questo pugnale, bagnato di sangue, di essere fedele a questo corpo di società formata, di disconoscere padre, madre, fratelli e sorelle, fino alla settima generazione; giuro di dividere centesimo per centesimo e millesimo per millesimo fino all’ultima stilla di sangue, con un piede nella fossa e uno alla catena per dare un forte abbraccio alla galera.» 2. Giuramento)

«Giuro su questa punta di pugnale bagnata di sangue, di essere fedele sempre a questo corpo di società di uomini liberi, attivi e affermativi appartenenti alla Sacra corona unita e di rappresentarne ovunque il santo, san Michele Arcangelo » « Giuro su questa punta di pugnale bagnata di sangue, di essere fedele sempre a questo corpo di società di uomini liberi, attivi e affermativi appartenenti alla Sacra corona unita e di rappresentarne ovunque il santo, san Michele Arcangelo(3. Giuramento)

DELLA CAMORRA.

Nuova Camorra Organizzata. La Nuova Camorra Organizzata (conosciuta anche con l'acronimo N.C.O.) è l'organizzazione camorristica creata da Raffaele Cutolo, boss dei boss della camorra, negli anni settanta del XX secolo in Campania. Si ingrandì enormemente agli inizi degli anni ottanta coinvolgendo gli altri clan di camorra in sanguinose guerre. Fu soppiantata dalla Nuova Famiglia, una confederazione di clan creata ad hoc da boss quali Michele Zaza, i fratelli Ciro e Lorenzo Nuvoletta ed Antonio Bardellino (affiliati a Cosa Nostra), e da altri capi-banda camorristi (Carmine Alfieri, Luigi Giuliano, Pasquale Galasso). La NCO fu considerata estinta alla fine degli anni ottanta, quando molti dei boss furono uccisi o arrestati.

Storia. I primi anni. Il fondatore di questa organizzazione è Raffaele Cutolo, detto anche "il sommo" o "il professore" (in napoletano: o' prufessòre), nato a Ottaviano, piccolo centro alle porte di Napoli, ai piedi del Vesuvio. Il professore conosce da giovane le sbarre del carcere per un omicidio commesso nel 1963, ma trasforma la carcerazione nel suo trampolino di lancio. L'organizzazione nacque nel padiglione Milano del carcere di Poggioreale a Napoli all'inizio degli anni settanta, per iniziativa di Cutolo e di vari compagni di cella tra cui Raffaele Catapano, Pasquale D'Amico e Michele Iafulli. Cutolo si ispirò, inizialmente, ai rituali della Bella Società Riformata, l'organizzazione camorristica napoletana di inizio Ottocento, e della Confraternita della Guarduna, associazione criminale spagnola del XVII secolo. Uno dei documenti audio ritrovati che testimoniano questi rituali è il cosiddetto "giuramento di Palillo", un giuramento cerimoniale di iniziazione registrato su audiocassetta sequestrato a Giuseppe Palillo, affiliato di Cutolo, al momento del suo arresto. La cassetta conteneva suoni e canzoni e un lungo monologo. La voce non fu riconoscibile in maniera chiara, essendo l'audio di pessima qualità, ma tutto lasciava pensare che fosse quella dello stesso Cutolo. La cerimonia veniva definita, nel gergo camorristico, "battesimo", "fedelizzazione" o "legalizzazione." L'apertura del monologo si soffermava sul valore dell'omertà: Omertà bella come m'insegnasti, pieno di rose e fiori mi copristi, a circolo formato mi portasti dove erano tre veri pugnalisti. La storia che segue racconta dei camorristi spagnoli che, dopo essere stati esiliati dalle loro terre, giunsero in Campania, in Calabria, in Sicilia e in Sardegna dove fondarono una "società divina e sacra". Dopo una nuova dispersione, fu trovato l'accordo per la definitiva riconciliazione nelle stanze del castello di Ottaviano, luogo che per Cutolo aveva da sempre avuto un valore simbolico. Fino a quando sette cavalieri raccolsero il potere della società e lo consegnarono a Cutolo. Seguiva poi la descrizione della cerimonia con il taglio sul braccio e il patto di sangue per rendere effettiva la "fedelizzaizone". Tra i passaggi più significativi del giuramento di Palillo, documento esemplare degli ideali di tutta la controcultura criminale cutoliana, che faceva leva sulla disoccupazione dilagante e sulle ingiustizie sociali, vi era il seguente, che suonava profetico e al tempo stesso cupo e minaccioso nei confronti degli stessi affiliati: «Un camorrista deve sempre ragionare con il cervello, mai con il cuore... Il giorno in cui la gente della Campania capirà che vale più un tozzo di pane libero che una bistecca da schiavo, quel giorno la Campania ha vinto veramente... Noi siamo i cavalieri della camorra, siamo uomini d'onore, d'omertà e di sani princìpi, siamo signori del bene, della pace e dell'umiltà, ma anche padroni della vita e della morte. La legge della camorra a volte è spietata, ma non ti tradisce.» La formula d'apertura era: "Con parole d'omertà è formata società". Il giuramento finale era: "Giuriamo di dividere con lui gioie, dolori, sofferenze... però se sbaglia e risbaglia ed infamità porta è a carico suo ed a discarico di questa società e responsabilizziamo il suo compare di sangue". L'elenco di tutti i "fidelizzati" sarebbe poi stato conservato presso una delle stanze del castello di Ottaviano, nascosto in una nicchia nella parete e tenuto in cura dalla sorella di Cutolo, Rosetta. La ritualità è stata sempre di rilievo nelle organizzazioni criminali. In particolare, nell’ambito della Nuova Camorra Organizzata, Cutolo aveva predisposto un suggestivo “giuramento di sangue”. Il rito cominciava con il “battesimo” del luogo in cui veniva svolto il giuramento, pronunciando le seguenti parole: “Battezzo questo locale come lo battezzarono i nostri tre vecchi antenati. Se loro lo battezzarono con ferri e catene, io lo battezzo con ferri e catene. Alzo gli occhi al cielo, vedo una stella volare, è battezzato il locale”. Dopo il rito continuava: “Tengo cinque damigelle alla mia destra, cinque bei fiori alla mia sinistra, una ciampa di cavallo alla romana che forma società divina e sacra. Cade una stella, scende una belata: con parole d’omertà, è formata società. Quanto pesa un picciotto? Quanto una piuma sparsa al vento. Cosa rappresenta un picciotto? Una sentinella d’omertà che gira e rigira sette cantoni e che quello che vede e che sente lo porta in ballo alla società”. Poi, come ricorda Francesco De Simone, seguono taluni atti simbolici quali un’incisione che il padrino compie col coltello sulla punta del dito indice destro dell’iniziato e sul suo dito indice, toccandosi col sangue. Un abbraccio fra “cumpare” e “cumpariello”, fra padrino e figlioccio, suggella la fine del rito iniziatorio. Al vertice del gruppo c'è ovviamente Cutolo, definito "il Vangelo", che faceva le veci del vecchio capintesta della Bella Società Riformata ma, a differenza di questi che veniva eletto nel corso di riunioni tenute da rappresentanti dei vari quartieri di Napoli, Cutolo è il capo indiscusso per volontà divina, da cui dipende la vita e la morte di tutti. Al livello sottostante vi è la cassiera dell'organizzazione, la sorella Rosetta. Seguono quindi i santisti, ossia i bracci destri di Cutolo, che cambiarono nel corso degli anni. Tra di essi vi furono Corrado Iacolare, Vincenzo Casillo, Pasquale Barra, Antonino Cuomo. Seguono quindi gli sgarristi, i capizona o referenti territoriali che si divisero Napoli e Salerno con le rispettive province. Gli affiliati vennero definiti semplicemente picciotti. Vi erano infine gruppi speciali di affiliati, definiti batterie, ossia la manovalanza di killer pronti ad uccidere chiunque al primo comando. Alla cerimonia di affiliazione dovevano partecipare cinque persone: il Vangelo, un affiliato favorevole ed uno sfavorevole, il contabile e il maestro di giornata. Gli ultimi due avevano il compito di "registrare" la "fedelizzazione" in caso di esito positivo. Per quanto riguarda i rapporti comunicativi con l'esterno, di fondamentale importanza dato che la maggior parte dei principali esponenti della NCO erano ergastolani, Cutolo sviluppò due strutture parallele, una all'interno del sistema penitenziario chiamata "cielo coperto", e l'altra al di fuori chiamata "cielo scoperto". Per mantenere la sua leadership, Cutolo necessitava di trasmettere i suoi ordini ai membri della NCO al di fuori del carcere in modo efficace e affidabile, assicurando al contempo che una parte dei profitti generati fosse consegnata all'interno del carcere in modo da poter espandere la sua campagna di reclutamento. Le particolari condizioni del carcere di Poggioreale, che includevano la sua posizione strategica nel centro di Napoli e il flusso continuo di persone come affiliati liberi sulla parola e parenti dei carcerati, consentirono a Cutolo di coordinare con successo le attività criminali dalla sua postazione centralizzata, da cui inviava direttive agli associati per le operazioni esterne. I parenti venivano utilizzati principalmente come corrieri di informazioni, ma, quando questi non erano disponibili, false parentele venivano certificate attraverso la collaborazione, più o meno forzata, degli impiegati nei comuni in cui gli affiliati erano residenti; ciò avvenne in particolare per il comune nativo di Cutolo, Ottaviano. Il Dipartimento di Giustizia scoprì nel 1983, che Cutolo era stato visitato quasi ogni giorno da luglio 1977 a dicembre 1978 da Giuseppe Puca che utilizzava un documento secondo cui risultava cugino di primo grado di Cutolo. Cutolo aveva anche ricevuto tre visite da un altro suo affiliato che risultò, nell'ordine, cognato, compare e infine cugino di primo grado; tutte relazioni parentali formalmente iscritte nel registro comunale. Cutolo istituì anche il cosiddetto soccorso verde per aiutare la popolazione carceraria, fornendo loro abiti, avvocati, consulenza legale, soldi per sé stessi e per le loro famiglie, e anche regali come articoli di lusso. Fin dalla prima affiliazione, Cutolo aveva istituito un fondo di 500.000 lire per ogni affiliato. I soldi venivano versati ai carcerati, in tutta Italia, tramite il sottogruppo di Rosetta Cutolo, che disponeva di diversi corrieri ed era considerata la cassiera dell'organizzazione. Nel tentativo di controllare l'intera regione, Cutolo superò e andò oltre la struttura familistica tipica della camorra urbana. La NCO aveva una struttura aperta e poteva contare su circa 1.000 nuovi affiliati all'anno. L'affiliazione era aperta a tutti, bastava solo giurare fedeltà a Cutolo e giurare di contribuire alle attività criminali comuni. Tuttavia, non appena il business dell'organizzazione si ampliò a dismisura e c'era bisogno di più manodopera, il reclutamento divenne più aggressivo e, in seguito, anche obbligatorio. In prigione, i carcerati venivano costretti a diventare membri della NCO. In caso contrario, potevano subire una punizione corporale o addirittura una vendetta trasversale. L'organizzazione era una sorta di federazione di diversi clan, ognuno con la sua area territoriale di riferimento, ma gerarchicamente ordinata e strettamente controllata da Raffaele Cutolo. Al di fuori del carcere, veniva indetta una riunione esecutiva, ogni quindici giorni, in cui Rosetta Cutolo, raccoglieva le informazioni da riferire poi al fratello nelle visite in carcere.

Il dopo-terremoto. Servendosi dei ricavati delle tangenti imposte dai suoi fedelissimi fuori dal carcere, Cutolo riesce ad investire attentamente i guadagni all'interno dello stesso carcere di Poggioreale per aiutare le condizioni dei giovani detenuti, soprattutto quelli destinati a uscire presto. Tra le motivazioni addotte dal Cutolo per attrarre sempre più nuovi affiliati vi sono quelle legate a quelle che lui riteneva le ingerenze della mafia siciliana negli affari criminali campani. Solo con un'organizzazione forte ed unita Napoli e la Campania avrebbero potuto contrastare la forte avanzata di Cosa Nostra, soprattutto nel campo del contrabbando e dello smistamento di stupefacenti. Oltre a tentare di costruire un'identità regionale su basi delinquenziali, Cutolo usa anche il suo ascendente per ricomporre liti e dispute all'interno del carcere. I risultati non si fanno attendere: la popolarità tra gli ex-detenuti è altissima i legami di gratitudine sono molto saldi e un mare di soldi comincia ad affluire nelle casse del Professore. Già nel 1980 la NCO poteva contare su circa 7.000 affiliati. Le offerte in danaro sono però il primo passo per creare una falange di fedelissimi. Il passaggio da gruppo di affiliati legati da un patto di sangue ad organizzazione affaristica ramificata come una holding e connessa con la politica e con gli ambienti finanziari, avvenne dopo il terremoto del novembre del 1980, quando le cellule cutoliane cominciarono ad infiltrarsi negli appalti per la ricostruzione o a richiedere tangenti ai grossi cantieri che nascevano come funghi a Napoli e provincia e in buona parte della Campania. Nella relazione sulla camorra, presentata nel 1993 dalla Commissione Parlamentare Antimafia, la veloce diffusione della NCO da semplice banda carceraria ad holding mafiosa viene spiegata come segue: «Ad un ceto delinquenziale sbandato e fatto spesso di giovani disperati, Cutolo offre rituali di adesione, carriere criminali, salario, protezione in carcere e fuori. Si ispira ai rituali della camorra ottocentesca, rivendicando una continuità ed una legittimità che altri non hanno. Istituisce un tribunale interno, invia vaglia di sostentamento ai detenuti più poveri e mantiene le loro famiglie. La corrispondenza in carcere tra i suoi accoliti è fittissima e densa di espressioni di gratitudine per il capo, che si presenta alcune volte come santone e altre come moderno boss criminale. Vive di estorsioni, realizzate anche attraverso la tecnica del porta a porta. Impone una tassa su ogni cassa di sigarette che sbarca. Vuole imporsi ai siciliani, che non si sottomettono. Impera con la violenza più spietata.» (Commissione Parlamentare Antimafia, 1993f, pp. 43-44)

Anche le alleanze con altre realtà delinquenziali extra-regionali diventano numerose: oltre che con la Sacra Corona Unita pugliese (da lui fu creato un ramo nel 1979 capeggiato dai fratelli Spedicato e Guerrieri che gli si ribellò successivamente per la sua indipendenza), Cutolo stringe i rapporti con la 'ndrangheta, in particolare con le cosche Piromalli, De Stefano e Mammoliti. Con la sua breve latitanza tra il 1978 e il 1979, Cutolo stringe anche accordi con le bande lombarde di Renato Vallanzasca (detto "il bel Renè") e Francis Turatello e quelle pugliesi (Nuova Camorra Pugliese e Sacra corona unita). Quando considera la sua organizzazione oramai matura, Cutolo decide di imporre una tassa persino sulle casse di sigarette a tutti gli altri clan camorristici di Napoli. Nel 1978 Michele Zaza (noto contrabbandiere napoletano legato con la mafia siciliana) e i suoi creano una banda denominata Onorata fratellanza, ma Cutolo non se ne preoccupa e si infiltra in nuovi territori. Il contrasto con la Nuova Famiglia. Quando tenta di prendere il controllo della zona del centro di Napoli (Forcella, Duchesca, Mercato, Via del Duomo) nelle mani dei potenti Giuliano, questi si alleano con i clan di San Giovanni a Teduccio e di Portici e con i boss Carmine Alfieri e Pasquale Galasso. Alla fine del 1978 nasce la cosiddetta Nuova Famiglia, formatasi da una precedente alleanza denominata "Onorata Fratellanza", una confederazione di clan creata ad hoc per eliminare i cutoliani. E scoppia la guerra. È una guerra senza quartiere: nel solo napoletano, nel 1979 si registrano 71 omicidi; l'anno successivo sono 134 e salgono a 193 nel 1981, a 237 nel 1982, a 238 nel 1983, per scendere a 114 nel 1984. Anche la NF fece un uso propagandistico dell'affiliazione con relativo cerimoniale per attrarre sempre più giovani sbandati. Il giuramento ufficiale di affiliazione fu trovato nell'auto di Mario Fabbrocino e ricalcava in maniera spudorata quello della NCO, rifacendosi ai valori della fedeltà e dell'omertà. Quando nella Nuova famiglia subentrano anche i Nuvoletta, gli Alfieri, i Galasso, i Misso della Sanità e soprattutto i casalesi, la guerra si conclude con un indebolimento dei cutoliani e con un rafforzamento della presenza camorristica nel napoletano.Alla fine degli anni ottanta una serie di blitz e una catena di omicidi (tra cui quello del figlio di Cutolo, Roberto, e quello del suo avvocato, Enrico Madonna), mettono la parola fine all'ascesa cutoliana.

LA 'NDRANGHETA. LA MAFIA CALABRESE.

Nessuno ha il coraggio di dire a Bindi che è razzista? Scrive Mimmo Gangemi il 22 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Per la presidente dell’Antimafia è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta, stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. Qua e là annota punti di vista di matrice abbastanza lombrosiana, che criminalizzano molto oltre i demeriti reali, aggiungono pregiudizio al pregiudizio, alimentano la fantasia assurda che quaggiù sia il Far West e una terra irredimibile, allontanano l’idea di una patria comune, distruggono i sogni dei nostri giovani su un futuro possibile. Io non sono in grado di escludere la presenza della ’ndrangheta – essa va dove fiuta i soldi o dove c’è, da parte di imprenditori locali, una richiesta sociale di ’ndrangheta, delle prestazioni in cui è altamente specializzata: i subappalti da spremere, il lavoro nero, la fornitura di inerti di dubbia provenienza, lo smaltimento dei rifiuti di cantiere, di quelli tossici o peggio, l’abbattimento violento dei costi, la pace sindacale per sì o per forza, la garanzia di controlli addomesticabili, e non con il sorriso. Ma, dopo aver controllato la cronaca delittuosa, non mi pare che compaia granché o che sia incisiva da dover indurre a tali spietate esternazioni. E non mi piace che tra le righe si colga l’insinuazione che il calabrese è, in diverse misure, colpevole di ’ ndrangheta – o di calabresità, che è l’identica cosa. Alludervi è anche disprezzare il bisogno che ha spinto tanto lontano i passi della speranza e gli immani sacrifici sopportati per tirarsi su. L’emigrazione in Valle d’Aosta è stata tra le più faticose e disperate. I primi giunsero nel 1924. E giunsero per fame. Lavorarono alla Cogne, nelle miniere di magnetite. E quelli di seconda e terza generazione hanno dimenticato le origini, sono ben inseriti e valdostani fino al midollo, pochi quelli che ricompaiono per una visita a San Giorgio Morgeto, nel Reggino, da dove partirono in massa. Più che ai “nostri” tanto discriminati, forse si dovrebbe guardare alle storie di ordinaria corruzione, non calabrese e non ’ ndranghetista, che nelle Procure di lì hanno fascicoli robusti. Detto questo, la on. le Bindi Rosy da Sinalunga – civile Toscana, non l’abbrutita Calabria – dovrebbe mettersi d’accordo con se stessa.

Chiarisco: alle ultime politiche, dopo che la sua candidatura traballò da ottavo grado della scala Richter e non ci fu regione disposta ad accoglierla, per sottrarsi alla rottamazione a costo zero ha dovuto riparare nell’abbrutita Calabria, che sarà tutta mafiosa ma sa essere anche generosa e salvatrice per chi, come lei, non intende rinunciare alla poltrona imbottita, con le molle ormai sbrindellate stante i decenni che le stuzzica poggiando il nobile deretano. È prona come si pretende da una colonia, la Calabria. In quell’occasione elettorale lo fu due volte, con la on. le Bindi e con un altro personaggio di cui l’Italia va fiera, tale Scilipoti Domenico, una bella accoppiata, entrambi eletti. La on. le fu prima con migliaia di voti nelle primarie PD del Reggino e, da capolista, ottenne l’entrata trionfale in Parlamento. Assecondando la sua ipotesi sulla Valle d’Aosta e sulla presenza ’ ndranghetista, diventa legittimo estendere a lei il suo stesso convincimento che, dove ci sono calabresi, per forza ci sono ’ndranghetisti. Quindi, essendo la Calabria piena di calabresi – questa, una perla di saggezza alla Max Catalano, in “Quelli della notte” – logica pretende che tra le sue migliaia di voti ci siano stati quelli degli ’ ndranghetisti, non si scappa.

Ne tragga le conseguenze. Oppure per lei, e per le Santa Maria Goretti in circolazione, l’equazione non vale e i voti ’ndranghetisti non puzzano e non infettano? Eh no, troppo comodo. Qua da noi persino il vago sospetto d’aver preso certi voti conduce a una incriminazione per 416 bis e spesso al carcere duro del 41 bis. Questo è. Forse però si è trattato di parole in libera uscita, di un blackout momentaneo del cervello. Se così, dovrebbe battersi il petto con una mazza ferrata, chiedere scusa ai calabresi onesti, che sono la stragrande maggioranza della popolazione, e fare penitenza magari davanti alla Madonna dagli occhi incerti nel Santuario di Polsi oltraggiato come ritrovo di ’ ndrangheta e invece da decenni diventato solo luogo di preghiera e di devozione. Ora mi aspetto l’indignazione dei calabresi. Temo che non ci sarà, a parte quella di qualche spirito libero – e incosciente, vista l’aria che tira. E stavolta dovrebbero invece, di più i nostri politici che, ahinoi, tacciono sempre, mai una voce che si alzi possente e riesca ad oltrepassare il Pollino. Coraggio, uno scatto d’orgoglio, tirate fuori la rabbia e gli attributi. Se non ci riuscite, almeno il mea culpa per aver miracolato una parlamentare che ripaga con acredine la terra che l’ha eletta e a cui, nell’euforia della rielezione piovuta dal cielo, aveva promesso attenzioni amorevoli.

Toscani shock: «Niente selfie, sei calabrese...», scrive Simona Musco il 21 ottobre 2016, su "Il Dubbio". Antonio Marziale, Garante per l'infanzia e l'adolescenza: «Nel 2007 non ha avuto remore a prendersi i soldi per la campagna pubblicitaria della regione». «Non vedo il motivo per cui dovremmo farci una foto. Per quanto ne so, potresti essere un mafioso». Sono queste le parole con le quali Oliviero Toscani ha negato una fotografia a Vittorio Sibiriu. Lui ha solo 18 anni e una faccia pulita. Un'intelligenza vivida e la passione per l'arte. Quella che lo ha spinto, giovedì, al Valentianum di Vibo Valentia, per assistere alla lectio magistralis del fotografo e alla sua mostra "Razza Umana". Una mostra, ha spiegato lo stesso Toscani, che rappresenta uno studio antropologico sulla morfologia degli esseri umani, «per vedere come siamo fatti, che faccia abbiamo, per capire le differenze». Parole che associate alla storia di Vittorio riportano alla mente il concetto di "razza maledetta" dal sapore lombrosiano. Toscani era «un mito», fino a due giorni fa, quando ha rifiutato l'invito del ragazzo. «Anche Matteo Messina Denaro non ha la faccia da mafioso eppure lo è», avrebbe spiegato, come se quelle parole fossero del tutto normali. A raccontarlo è lo stesso giovane, studente della quinta classe del liceo scientifico di Vibo. «Ho seguito la conferenza stampa e ho aspettato il mio turno per fare una foto - ci racconta -. C'era una degustazione di vini e altra gente che si avvicinava a lui per qualche scatto. Ho aspettato un po' per non disturbarlo, poi gli ho chiesto di poter fare una foto. Al suo no stavo andando via, quando mi ha fermato per spiegarmi, come se fosse del tutto normale, che potrei essere uno 'ndranghetista». Vittorio, figlio di una poliziotta e di un carabiniere, non è riuscito ad avere alcuna reazione. È andato via, portando con sé l'amica rimasta con il cellulare in mano, pronta ad immortalare quel momento. «Lo consideravo uno dei più grandi non solo come artista, ma anche come persona. Beh, ora so che di certo come persona non lo è», aggiunge. Nessuno ha reagito alle parole di Toscani. Nessuno è intervenuto in difesa di Vittorio, che solo il giorno dopo è riuscito a metabolizzare la rabbia e l'indignazione, scrivendo un messaggio indirizzato al famoso fotografo, colui che già nel 2007, ingaggiato dalla Regione Calabria per una campagna promozionale, aveva partorito, alla modica cifra di 3,8 milioni la frase - tra le altre - "Mafiosi? Sì, siamo calabresi". «Vorrei ricordare al signor Toscani che la principale qualità di un artista dovrebbe essere l'umiltà, cosa che a quanto pare non rientra tra i termini del suo vocabolario. E vorrei dire che l'unica cosa che il suo atteggiamento provoca in me è lo sdegno - scrive Vittorio -. Mi dispiace molto di averla conosciuta e di aver perso due ore della mia vita ad ascoltare le sue parole definite "anticonformiste" e usate "per lanciare messaggi contro i pregiudizi", ai miei occhi adesso appaiono solamente come poco coerenti». Commenti al vetriolo sono arrivati da Antonio Marziale, Garante per l'infanzia e l'adolescenza della Regione Calabria. «Se le cose stanno così - ha dichiarato -, Toscani farebbe bene a spiegarci se ha avuto le stesse remore a prendersi i soldi per la campagna pubblicitaria del 2007. Come si fa a fare una battuta del genere ad un ragazzo? La sua è la generazione che più patisce il fatto di aver consentito alla 'ndrangheta di proliferare in questo territorio. Lui senza provocazione sarebbe un fotografo qualunque, la sua arte è opinabile, le sue provocazioni non portano nulla. Anche perché la provocazione deve essere saggia e commisurata al soggetto che la riceve. Questa storia, purtroppo, conferma il masochismo dei calabresi - conclude -. Continuiamo ad acclamare gente che ci insulta, come Vasco Rossi o Antonello Venditti. Dico una cosa a Vittorio: non sentirti offeso, Toscani è il vuoto».

Magalli: “Mai insultato i calabresi”, la replica del conduttore sulla polemica con un video del 18/11/2016 su "La Stampa”. «Mi piacerebbe mettere la parola fine a questa polemica inutile che si sta trascinando sulla Calabria indignata. A me dispiace moltissimo che i calabresi si siano dispiaciuti per qualcosa che in realtà io non ho detto. Lo voglio chiarire: i calabresi sono ottime persone, ho passato anni di vacanze in Calabria, ho amici calabresi e conosco i loro innumerevoli pregi e conosco anche il loro principale difetto che è quello di essere permalosi». Così Giancarlo Magalli si difende dopo le accuse piovutegli addosso per la frase pronunciata il 15 novembre scorso durante I fatti vostri su Rai2, dopo la mancata risposta al telefono del telespettatore estratto, di Casignana, in provincia di Reggio Calabria. «Siete permalosi a torto perché avete giudicato qualcosa senza vederla o sentirla - prosegue -. Tutti quelli che si sono indignati e sono tanti, si sono indignati non per quello che hanno visto, ma per quello che hanno letto. Quando uno legge robaccia tipo l’Huffington Post: Magalli virgolette «I calabresi scippano le vecchiette», hanno ragione ad indignarsi. Solo che io non ho mai detto nulla del genere. Un giornale ha scritto: Magalli offende i meridionali. Io non ho mai parlato dei meridionali. Faccio questo lavoro da trent’anni, se avessi qualcosa contro i meridionali sarebbe già venuto fuori, no?» «Il problema - spiega ancora - è la cosa originaria che non era riferita a Casignana, a niente, era solo una frase detta a cavolo, dicendo: vi lamentate che non vi telefoniamo per il gioco e poi non ci siete quando vi telefoniamo, ma dove andate? A scippare le vecchiette? Una battuta, certamente cretina, ma non riferita né a Casignana, né alla Calabria, né al Meridione. Solo che chi l’ha sentita l’ha capita, tanti non l’hanno sentita e commentano il commento di un altro. Vorrei che questa cosa finisse, anche perché sta raggiungendo toni inconsulti. Speriamo che si raggiunga questa tranquillità perché ci sono cose più serie a cui pensare».

L'antimeridionalismo qualunquista di Vecchioni & company, scrive "Infoaut Palermo" il 6 Dicembre 2015. Siamo chiaramente di parte; è normale: lo siamo sempre stati. E anche meridionali - beh - come è ovvio, lo siamo sempre stati: ci siamo nati al Sud. Ci siamo cresciuti in quest'isola chiamata Sicilia; ci stiamo vivendo; ci stiamo lottando. E onestamente nella merda, a volte, anche tutt'ora, un po' ci siamo sentiti. Nella merda non perché, oggettivamente parlando, la Sicilia sia un'isola di merda; e neanche perché ogni giorno ci troviamo a dover guardare orde barbare di “senzacasco” sfrecciare per le nostre strade; o manipoli di “posteggiatori della sedicesima fila” aggravare lo storico problema del traffico palermitano. Un po' nella merda ci troviamo a sguazzare letteralmente per altri motivi. Ma su questo ritorneremo fra un attimo. “Chi sa fa, chi non sa insegna” - ecco un vecchio detto (a dire il vero forse un po' ingeneroso verso le professioni dell'insegnamento) a cui la mente ci riporta leggendo le ultime dichiarazioni del professor Roberto Vecchioni. Professore intellettuale (o almeno così considerato da molti) che, invitato qualche giorno fa all'università di Palermo a parlare di rapporti figli-genitori, ha brillantemente deciso di lasciarsi andare ad alcuni spiacevoli commenti sulla terra in cui si trovava in visita: la Sicilia. Ecco, il professore intellettuale pare abbia sentito il dovere morale di “provocare” sostenendo la tesi secondo cui la Sicilia “è un'isola di merda” andando poi a chiarire meglio il senso della provocazione: “una forzatura per smuovere le coscienze di siciliani che si accontentano di vivere tra assenza di caschi, macchine mal posteggiate, abusivismo edilizio etc.” Insomma, la Sicilia è secondo il professore “una merda” perché “incivile”. Pare anche che Vecchioni si sia lasciato andare ad un paragone non proprio di buon gusto tra una Palermo che “col cazzo che avrebbe potuto...” ed una Milano che invece ha ospitato l'Expo e i suoi 25 milioni di visitatori: e i soldi, secondo il professore, non c'entrerebbero proprio nulla. Questione di inciviltà!!! La polemica è così scatenata, il dibattito aperto. La rabbia si diffonde, ovviamente, tra la maggioranza dei siciliani; ma non fra tutti. Un altro professore, per esempio, seguito da una folta schiera di istruiti pensatori (spesso “di sinistra”), Leoluca Orlando sindaco di Palermo, si schiera a difesa dell'intellettuale milanese arrivando a sostenere che le parole di Vecchioni sarebbero “un atto di amore verso la Sicilia” perché coraggiose e realistiche. Altri, nello stesso fronte, si limitano ad apprezzare la denuncia della questione sollevata in quel discusso intervento: l'inciviltà! Ecco un primo grosso (grossissimo) problema di cui, forse, i meridionali dovrebbero assolutamente liberarsi: l'accusa di inciviltà. Che poi è quella (anche se cambiano i toni) che ci sentiamo e portiamo dietro dai tempi dell'unità italiana. Cerchiamo di valutare allora, usufruendo dello stesso vocabolario di una certa retorica dominante, cosa sia civile e cosa no. Se a Vecchioni le macchine in doppia fila e i motociclisti senza casco appaiono come grande segno d’inciviltà, un tantino più incivili ci sembrano la devastazione ambientale e umana nei nostri territori tramite petrolchimici o basi militari; d'inciviltà ci parlano le statistiche su disoccupazione giovanile e conseguente emigrazione a cui sono costretti i siciliani, o quello che è uno dei tassi percentuale di morti sul lavoro più alti d’Europa; oppure che i cittadini di Messina, Gela, Agrigento, etc, rimangano senza acqua corrente per settimane. Ospedali che chiudono, cavalcavia autostradali che crollano, collegamenti marittimi con le isole minori interrotti per settimane, decine di migliaia di precari della pubblica amministrazione continuamente a rischio reddito, insomma, “d’inciviltà” su cui il nostro intellettuale dell’ultim’ora poteva concentrarsi ce n’è parecchia in Sicilia; e ricondurre un sistema di estremo sfruttamento delle risorse umane e territoriali (che ci racconta in due parole quella che è la storia dell’imposizione italiana al meridione), a una semplice “questione culturale”, non fa di certo onore alla sua nomea d’intellettuale(?). Quello che invece in maniera tutt’altro che provocatoria, vogliamo e ci sentiamo di rintracciare anche nella citata inciviltà vecchioniana, è un atteggiamento contro le regole e le regolamentazioni che inconsciamente però, esprime un grado di rifiuto: ieri alla costrizione a un determinato sistema economico e a certi modelli di vita e di condotta sociale, oggi all’assenza totale di servizi, tutele, garanzie sociali, e di una precarietà che si fa esistenziale, e di cui la nostra regione detiene sicuramente il primato in Italia. Quindi ci chiediamo ancora: come si misura il grado di civiltà di un popolo? Dal numero di caschi? O dal numero di gente che, pur e soprattutto nei suoi tessuti più indigenti, conosce cooperazione e solidarietà molto più che in tanti luoghi civili!? Dalle auto in doppia fila o dal numero di persone che, senza casa, muoiono per le strade notturne di grandi città del nord!? Cosa c'è poi di civile nell'avere come presidente della Regione un razzista come Maroni!? O cosa ci sarà mai di civile in quel grande partito del nord come la Lega, che fa di razzismo e xenofobia i suoi manifesti politici!? A Vecchioni la parola (per la verità non ci interessa molto la sua risposta…). A questo punto non possono che tornarci alla mente le recenti polemiche televisive su altri due interventi molto discussi: quello di Massimo Giletti sull' “indecenza” di Napoli; e sempre a proposito di Napoli, il recentissimo dibattito scaturito dall'appellativo scelto da Enrico Mentana (direttore del TgLa7) per richiamare in una trasmissione calcistica un collega giornalista napoletano: “Pulcinella”. A occhi attenti, l'antimeridionalismo paternalistico ha ormai pieno titolo su media e main stream, soprattutto se sei considerato un intellettuale. Da quando poi Renzi quest’estate ha nuovamente riportato in auge la “questione meridionale” (con la solita narrazione del sottosviluppo per silenziare l’incapacità governativa di porre rimedio alle problematiche sociali ed economiche dell’Isola), sembra che chiunque (evidentemente confondendo “lo spettacolo” e l’opinionismo da tv con le analisi e le valutazioni storiche e politiche) possa permettersi di dire qualsiasi cretinata, basta che poi le facciano seguire un qualsiasi complimento sulla storia e le grandi tradizioni di un popolo per pulirsi la faccia. Come del resto Vecchioni ha già fatto con una lettera al Corriere della Sera, in cui il professore però - oltre al pulirsi la faccia - si lascia nuovamente andare in stereotipi stigmatizzanti e assai pregiudizievoli sulla “pigrizia dei meridionali” e anche che quanti non lo hanno capito sono “pusillanimi e mafiosi”. Finalmente! Ci chiedevamo come la parola mafiosi non fosse stata pronunziata dal professore nel grande logos intellettuale dei luoghi comuni. Le decine e decine di studenti e non solo che hanno abbandonato l'aula durante il suo intervento... saranno mafiosi?! Cretinate e cretini a parte, quello a cui assistiamo è il diffondersi di nuove (perchè mai abbandonate e tralasciate nelle retoriche del sottosviluppo, o della mancata modernità del sud, etc) forme di razzismo antimeridionale. Razzismo antimeridionale che tanto fa comodo alle governance, locali e nazionali, perché utili a distrarre l’opinione pubblica da quello che è il vero trattamento riservato al sud: un neocolonialismo petrolifero e di estrazione e sfruttamento di risorse e materie prime da far invidia a quello dell’epoca dell’unità d’Italia, a fronte di una continua scarsità di accesso a reddito, servizi e diritti sempre più negatici e sottrattici con commissariamenti e istituzionalizzazione dello stato d’emergenza. Come dire, i siciliani sapranno pure quali sono i problemi della loro quotidianità e della loro terra, in alternativa…possono chiedere a Vecchioni. Sicuramente molti siciliani si sentono offesi dalle parole del caro professore, ma non scriviamo queste righe per unirci al coro dell'indignazione: speriamo soltanto di proporre l'individuazione di vecchie/nuove forme di razzismo che finiscono per diventare anche forme di controllo delle condotte, libertà di manovra capitalistica sui territori, commissariamenti politici e repressione di classe. Perché i problemi veri non sono i “senzacasco” ma i senzacasa; e non il modo di parcheggiare ma l'assenza di servizi sociali e come detto, di accesso al reddito. E persino dell'acqua corrente!!!! e questo, a nostro modo di vedere, è la vera inciviltà. A cui i siciliani dovrebbero ribellarsi senza bisogno di professori che diano lezioni di dignità: non ne abbiamo bisogno. Infoaut Palermo

'Ndrangheta di Enzo Ciconte La Repubblica 22 dicembre 2018. Le pagine di ‘Ndrangheta, edita da Rubbettino, cercano di dare una risposta a una serie di interrogativi partendo dalle origini, da quando i mafiosi calabresi non avevano ancora dato un nome alla loro organizzazione, ma erano già forti, visibili alla popolazione e in rapporti con uomini politici e con le istituzioni locali. ‘Ndrangheta, la grande sconosciuta. Una mafia poco nota, sottovalutata, considerata una criminalità selvaggia e montanara, figlia della povertà e della miseria, erede diretta dei briganti, nata e cresciuta in Calabria, una regione periferica e senza peso politico. “Mi fu sempre difficile spiegare che cos’è la mia regione. La parola Calabria dice alla maggioranza cose assai vaghe, paese e gente difficile”. A pronunciare queste parole fu Corrado Alvaro in una conferenza del 1930 al Lyceum di Firenze. Difficile spiegare la Calabria, ancor più la ‘ndrangheta che alcuni consideravano poco più di un’associazione a delinquere o di una criminalità organizzata o addirittura una società di mutuo soccorso. Altri pensarono fosse la tipica espressione del ribellismo e dell’antico sottosviluppo calabrese, o la immaginarono come l’ultimo prodotto di secolari ingiustizie. Questa era l’idea che si aveva della mafia calabrese. E allora perché è diventata nel corso del tempo la mafia più forte, più radicata sul territorio e più diffusa al Nord Italia e all’estero, dai paesi europei fino al Canada e all’Australia? Come è stato possibile che siano avvenute questa grande diffusione e una sconvolgente mutazione? La forza della ‘ndrangheta risiede nella struttura organizzativa che è formata dalla famiglia naturale del capobastone che ha agevolato una diffusione planetaria basata sui legami familiari e ha consentito alla stessa di evitare l’insorgere del devastante fenomeno dei collaboratori di giustizia. Ciò ha contribuito a creare attorno alle ‘ndrine un alone di affidabilità criminale proprio mentre cosa nostra era flagellata dai cosiddetti pentiti. La ‘ndrangheta utilizza molto i rituali che servono come una sorta di copertura ideologica per i giovani affiliati che hanno bisogno di una motivazione per imboccare la strada criminale che, irta di ostacoli e di pericoli, deve essere o almeno apparire affascinante, accattivante ai loro occhi. I rituali sono molto importanti al Nord, nei luoghi di emigrazione, lontano dalla terra di origine. In queste località, peraltro, i mafiosi erano avvantaggiati dal fatto che nessuno era disposto a dare credibilità a chi proclamava l’esistenza e l’operatività della mafia, anzi delle mafie. Chi faceva queste affermazioni non era creduto perché c’era la convinzione che il fenomeno mafioso fosse un fenomeno delinquenziale e criminale che riguardava solo il Sud come si incaricavano di dimostrare film e resoconti giornalistici che avevano fatto passare l’idea di una mafia arcaica, violenta e sanguinaria. La diffusione nazionale ed internazionale è un altro dei fattori di forza perché la ‘ndrangheta è uscita dall’isolamento regionale e ha organizzato una rete di narcotraffico gestita oramai in Italia in posizione dominante. A partire dagli anni 1992-1993 dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio la mafia siciliana finì nel mirino degli inquirenti e da quel momento in poi tutto cambiò. Le famiglie di Cosa nostra furono disarticolate e il primo obiettivo fu sopravvivere all’ondata repressiva dello Stato. Tutto ciò ebbe conseguenza per i mafiosi siciliani determinando l’interruzione di tutti i canali del traffico degli stupefacenti. Peraltro questi fatti accaddero quando sul mercato internazionale l’eroina lasciava il campo alla cocaina. Da allora in poi nel mercato internazionale degli stupefacenti sparisce la mafia siciliana e rimane, dominatrice incontrastata, la ‘ndrangheta. Negli ultimi anni la ‘ndrangheta ha superato l’antico modello organizzativo e ha dato vita ad una struttura unitaria che supera il modello del passato e che è ben diverso dal modello siciliano basato sulla Commissione provinciale. Questa struttura – crimine o provincia, a seconda delle varie definizioni – è chiamata a governare un aggregato criminale molto complesso ed esteso che dalla Calabria prolunga le sue ramificazioni nelle regioni del Centro-nord dell’Italia e negli stati stranieri. Tutti gli uomini della ‘ndrangheta, ovunque operino, rispondono ai vertici che stanno in provincia di Reggio Calabria. Questa è la peculiarità della ‘ndrangheta che deve preoccuparsi del governo di un vasto impero mafioso. Alcune famiglie della ‘ndrangheta sono enormemente ricche e cominciano ad investire al Nord e soprattutto all’estero perché in questi luoghi è più facile occultare la reale proprietà, passare inosservati e nello stesso tempo sfuggire ai controlli della magistratura. È in questi territori che prevedibilmente avverrà l’emersione nella legalità delle ‘ndrine più ricche e più potenti. Il fenomeno è già in atto e ben visibile. La strada tracciata è questa ed è la logica conseguenza di un lungo percorso storico che non ha mai visto la ‘ndrangheta contrapporsi allo Stato perché tutta la sua politica è stata orientata a far parte delle élite della società legale.

La leggenda della nascita della 'ndrangheta. Per l'origine mitica della 'ndrangheta viene fatto riferimento a tre cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che in tempi lontani per vendicare l'onore della sorella uccidono un uomo e per questo vengono condannati a 29 anni, 11 mesi e 29 giorni di carcere nell'Isola di Favignana. Al termine del periodo di detenzione maturarono quelle regole di onore e omertà che costituiscono il codice della "società" e contraddistingueranno le future organizzazioni criminali mafiose italiane e si dividono: Osso fonderà Cosa Nostra in Sicilia, Mastrosso la 'ndrangheta in Calabria e Carcagnosso la Camorra a Napoli.

Miti e “tradizioni” della mafie di casa nostra, scrive il 25 giugno 2018 su "La Repubblica". Arcangelo Badolati - Giornalista e docente. C’è una donna misteriosa e geniale che aleggia sul mito fondativo delle organizzazioni criminali del meridione d’Italia. È tedesca e nobile, cresciuta in uno splendido palazzo che guarda austero l’Havel scorrere dall’altra parte della strada. Ama Miguel de Cervantes, lo scrittore spagnolo finito per un periodo schiavo dei saraceni e adora, ancor di più, l’Andalusia, la Castiglia e La Camancha. Le guerre contro gli arabi, l’eroismo dei condottieri iberici, la grandezza dei possedimenti situati al di là degli oceani la affascinano fino al punto di voler visitare, travestita da uomo, Madrid, Toledo e Siviglia espressione d’un mondo che l’ha completamente conquistata. Lei, figlia di una contessa legata alle famiglie imperiali germaniche e d’un alto ufficiale di cavalleria prussiano di origini altrettanto antiche e nobili, ha nel sangue il gusto per l’avventura e il fuoco per la conoscenza. La donna, luterana e anticlericale, coltiva anche un desiderio di giustizia e di equità sociale: è stanca delle comodità e dei benefici di cui godono quelli del suo ceto. Inorridisce di fronte ai soprusi subiti dalla povera gente in fila per ottenere un tozzo di pane, costretta a vivere in stanze umide e fredde d’inverno e bollenti d’estate, oppure in baracche o case cadenti sparse in giro per una città resa celebre dalla dissolutezza dei suoi Principi e dalla corruzione delle loro corti. Dalla finestra del suo balcone guarda l’acqua dell’Havel scorrere perpetua e immutabile come quel mondo di ipocrisie e adulazioni che la circonda. Immagina altro e la sua fantasia cresce e spazia man mano che affonda gli occhi e la mente negli scritti di quello straordinario inventore di personaggi come don Chisciotte: Cervantes è stato militare, poeta, romanziere e drammaturgo. È pensando a lui, alle storie che ha costruito, che decide di dar corpo e struttura compiuta ad una setta, come quelle davvero esistite in Spagna dal 1400 in avanti, composta da uomini capaci di andare a braccetto con la morte. Uomini uniti da un comune giuramento, una medesima religiosità, un uguale coraggio ed una sottile astuzia che consentono, a ciascuno di loro, d’essere potere e contropotere. Sono vincolati al silenzio e ossequiosi delle interne gerarchie, tramano nell’ombra e colpiscono duramente i nemici con la stessa ferocia con la quale trafiggono i traditori. Una setta pronta ad intervenire quando si tratta di punire i prepotenti e proteggere gli indigenti, alimentata da un cultura di segretezza e da una cassa comune rifornita dai capitali sottratti attraverso mirate azioni criminose. Una setta con un principio fondativo inviolabile sintetizzato in quattro piccole affermazioni indicative: “Buen ojo, buen oido, buenas piernas y poca lingua” (buon occhio, buon udito, buone gambe e poca lingua)…

Le origini condivise. Le mafie calabrese, napoletana e siciliana hanno un’origine comune che allunga le radici nel dominio esercitato in meridione dagli spagnoli. Un dominio cominciato con gli aragonesi e proseguito, seppur in maniera discontinua, sino all’Unità d’Italia. Non è casuale infatti che la leggenda tramandata oralmente per decenni da boss e picciotti della ’ndrangheta faccia risalire la nascita dell’associazione alle vicende biografiche di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, cavalieri iberici originari di Toledo, che fuggirono dalla Spagna dopo aver ucciso l’uomo che aveva “disonorato” una loro sorella. I tre uomini vissero per ventinove anni nell’isola di Favignana, dopodiché Osso decise di restare in Sicilia e fondò la mafia, Mastrosso andò in Campania e creò la camorra mentre Carcagnosso si trasferì in Calabria dove diede vita alla ’ndrangheta. I cavalieri uniscono nella fantasia popolar-criminale le tre organizzazioni delinquenziali più potenti del sud Italia e le rimandano a una matrice straniera che potrebbe non aver un reale significato oltre quello leggendario e fiabesco, se non si tenesse conto di un inoppugnabile dato: l’area meridionale della nostra penisola è stata per più di due secoli sotto il controllo dei regnanti spagnoli. E allora, legando all’invenzione di Irene de Suberwik ed a Toledo, città della Castiglia, dove la scrittrice collocò la fondazione, nel 1417, della Garduña, si giunge con facilità a comprendere l’origine del mito fondativo delle mafie. La strutturazione interna ed i rituali della setta immaginata dalla berlinese sono stati mutuati dalle organizzazioni criminali meridionali, Non esistono peraltro processi che attestino giudiziariamente l’esistenza della setta di cui si parla invece per la prima volta, con dovizia di particolari, proprio nel vecchio testo del 1844 – Misterios de la Inquisicion Española y otras Sociedades Secretas – pubblicato a Parigi e scritto da Victor de Fereal, nome dietro cui si cela appunto la de Suberwick. Un documentatissimo volume del 2006 di due importanti storici iberici, Leon Arsenal e Hipolito Sanchiz, dal titolo Una historia de las sociedades secretas españolas, confuta in toto e in via definitiva l’esistenza dell’antica consorteria criminale.

Il tema del libro della de Suberwick. L’intuizione letteraria della scrittrice tedesca, che usa un nome maschile iberico e scrive in spagnolo in ossequio all’amore culturale provato per de Cervantes, è legata proprio a Rinconete y Cortadillo, novella del grande autore castigliano in cui è narrata la storia di due ladri apprendisti ammessi alla feroce confraternita di Monopodio attiva a Siviglia. Una confraternita nella quale i componenti si spartivano i profitti, corrompevano la polizia e il clero per guadagnarsi l’impunità e utilizzavano un preciso codice linguistico e gergale per comunicare. Cervantes racconta che i novizi erano chiamati “fratelli minori”, mentre i più attempati e abili compagni di malefatte “fratelli maggiori”. La setta era insomma strutturata in due nuclei, proprio come ieri lo era la Garduña secondo la scrittrice e come lo sono oggi le cosche della ’ndrangheta, i cui “locali” sono costituiti dalla “società minore” e dalla “società maggiore”. Della prima fanno parte picciotti e “sgarristi”, dell’altra i quadri dirigenti dell’associazione mafiosa. Le analogie tra la setta sivigliana, la fantomatica Garduña e la ’ndrangheta sono diventate, dal Novecento in avanti, sempre più evidenti. Se dunque la Garduña non è davvero mai esistita ed è frutto solo di una “invenzione”, essa è stata evidentemente assunta, come abbiamo detto, alla stregua di un lontano ed efficace mito fondativo evocato attraverso l’utilizzo dell’immagine metaforica e suggestiva dei “tre cavalieri”. Ad una nobile e curiosa intellettuale germanica che fingeva d’essere uno scrittore iberico si deve, dunque, la nascita della “tradizione” delle mafie italiane. Un paradosso storico e culturale se consideriamo quanto l’«ominità» abbia caratterizzato e caratterizzi organizzazioni criminali come la ’ndrangheta. Il libro: “Santisti & ’Ndrine. Narcos, massoni deviati e killer a contratto”, Pellegrini Editore

La vera ‘ndrangheta e quei «quattro storti» che ci credono ancora, scrive Felice Manti il 19 luglio 2016 su “Il Giornale”. È stata una settimana horribilis per la ’ndrangheta. Altri 100 arresti tra la provincia di Cosenza e la Liguria, con le famiglie «in trasferta» che facevano affari sulle opere pubbliche grazie a una coop con interessi in settori diversissimi come movimento terra, import-export di prodotti alimentari, sale giochi e piattaforme di scommesse online, lavorazione dei marmi, autotrasporti e rifiuti speciali, produzione e commercializzazione di lampade a led. Due parlamentari come Antonio Caridi di Gal e Pino Galati di Ala considerati al servizio delle famiglie di ’ndrangheta anche a causa di un paio di intercettazioni telefoniche che non lasciano spazio a troppi dubbi. Funzionari delle Agenzie delle Entrate che trescavano con la ’ndrangheta. Il boss del pesce Franco Muto che con il suo clan controllava «ogni respiro» tra Cetraro e Scalea (in provincia di Cosenza) da 30 anni, e prima ancora una Spectre politico-affaristico-massonica guidata dall’ex deputato Psdi Paolo Romeo, già noto alle forze dell’ordine sin dall’operazione Olimpia – che sta alla ’ndrangheta come il cosiddetto maxiprocesso di Falcone e Borsellino sta alla mafia – come referente della mafia calabrese che avrebbe deciso a tavolino tutte le elezioni degli ultimi 15 anni (a volte puntando però su qualche candidato sbagliato ma tant’è) coinvolto anche nelle recentissime inchieste Fata Morgana e Reghion sul condizionamento della criminalità al Comune di Reggio, sciolto per contiguità con la ‘ndrangheta. È la prova dell’esistenza dei cosiddetti Invisibili cui dà la caccia il pm Giuseppe Lombardo, una sorta di ’ndrangheta superiore che comanda sulla fazione criminale ma di cui la stragrande maggioranza degli affiliati non conosce l’esistenza, come dimostrerebbe l’inchiesta Mammasantissima, e che avrebbe agevolato la latitanza di personaggi che fanno comodo alle cosche (vedi l’inchiesta Breakfast), da Amedeo Matacena al capo della mafia Matteo Messina Denaro, con in mezzo un peso decisivo nell’inchiesta Mafia Capitale. Allora c’è qualcosa che non torna. Facciamo un salto di sei anni. Alla fine del 2010, nel libro Madundrina scritto con Antonio Monteleone, scrivevamo: «Forze occulte, servizi deviati, poteri forti e massoneria. Come si combatte un nemico invisibile? Ma, soprattutto, come si dimostra la sua esistenza? Gli inquirenti devono dare una risposta anche a questo quesito». E già allora riportavamo una frase captata durante una delle oltre 500mila intercettazioni, contenuta nelle 52 inchieste passate al setaccio dagli inquirenti, in cui a parlare era un sindacalista, e qui riprendo da Madundrina «che viene descritto dai magistrati come “anello di congiunzione tra esponenti di spicco della locale criminalità organizzata e appartenenti al settore politico-amministrativo della fascia jonico-reggina” e promotore di “una sorta di cupola” (…) perché parte del contesto criminale (…) definito degli “invisibili”. Si chiama Sebastiano Altomonte. Intercettato al telefono con la moglie, a margine di una conversazione su alcuni dissidi locali parla anche della ’ndrangheta invisibile. “Effettivamente gli invisibili siamo cinque (…), lo sanno solo nel provinciale (…)”. Chi sono questi cinque? Che cosa vogliono? Per chi lavorano? Come fanno a sapere tutto? E quanto vale, nell’economia della ’ndrangheta, un’operazione mostruosa come quella congiunta di Milano e Reggio Calabria (parlavamo di Crimine e Infinito, nda), se i boss sapevano tutto (grazie alle rivelazioni di Giovanni Zumbo, legato ai servizi segreti, nda)? Chi comanda veramente?». Chi legge questo blog sa cosa penso delle operazioni di ’ndrangheta del 2010 che hanno ispirato il libro, recentemente definite dalla Cassazione come «sentenze storiche» perché definiscono per la prima volta l’unitarietà della ’ndrangheta. Delle due l’una. Perché o ha ragione il procuratore antimafia Ilda Boccassini quando dice che con Infinito si è smantellata la ’ndrangheta in Calabria, quella comandata dal boss scissionista Carmelo Novella, ammazzato come un cane (ma il mandante è ancora oscuro…) perché voleva sganciarsi dalla Calabria, quella del summit al centro Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano, quella zeppa di gente senza precedenti penali e senza reati fine oggi in carcere con l’accusa di associazione mafiosa che non hanno neanche mai sparato un colpo di pistola per sbaglio. E che la ‘ndrangheta calabrese fosse comandata da Domenico Oppedisano, che prima di diventare famoso come capo della ’ndrangheta vendeva piantine vicino allo svincolo di Rosarno, talmente pericoloso che di recente è uscito dal regime di carcere duro, il famigerato 41bis. Un esperto in affiliazioni, vero, uno che mangiava pane e ’ndrangheta certamente, ma non un capo. E d’altronde anche il procuratore antimafia Nicola Gratteri lo sostiene con forza. D’altronde, dell’esistenza della maxi inchiesta erano al corrente molti boss, come è emerso dalle intercettazioni. Oppure la ’ndrangheta che conta quella vera, è altro. È difficile pensare che i boss arrestati fossero veramente a capo della ’ndrangheta milanese mentre facevano il bello e il cattivo tempo altri boss del calibro di Paolo Martino, killer dormiente imparentato con il potentissimo clan dei De Stefano e considerato il vero tesoriere della ’ndrangheta a Milano (solo per fare un esempio). Oggi sappiamo con certezza che una Spectre aveva in mano i destini della politica e trescava facendo affari con parlamentari e coop, anche alle spalle dei picciotti. E se avesse ragione il boss della ’ndrangheta Pantaleone Mancuso, che intercettato dice testuale: «(Ci sono) quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta… hanno fatto la massoneria… il mondo cambia…»? E se la Boccassini avesse arrestato proprio quei quattro storti, gente che non ha mai tenuto una pistola in mano?

'Ndrangheta. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La 'ndràngheta (pronuncia: [n'draŋgeta] probabilmente adattamento del dialettale ’ndrànghita, nota anche come la Santa e Picciotteria) è un'organizzazione criminale italiana di connotazione mafiosa originaria della Calabria, inserita esplicitamente dal 30 marzo 2010 nell'articolo 416-bis del codice penale e riconosciuta come organizzazione criminale unitaria e con un vertice collegiale nel processo Crimine dalla corte di cassazione il 18 giugno 2016. È l'unica mafia presente in tutti e 5 i continenti del mondo e secondo una indagine di Demoskopika, nel 2013attiva in 30 nazioni con 400 cosche e 60.000 affiliati di cui 40.000 in Calabria. Si è sviluppata a partire da organizzazioni criminali operanti nella provincia di Reggio Calabria, dove è fortemente radicata, anche se il potere mafioso è dominante anche nelle province di Crotone, Catanzaro, Cosenza e Vibo Valentia. La sua attività principale è il narcotraffico, seguita dalla partecipazione in appalti, condizionamento del voto elettorale, estorsione, usura, traffico di armi, gioco d'azzardo, e smaltimento di rifiuti tossici e radioattivi. In Calabria svolge un profondo condizionamento sociale fondato sia sulla forza delle armi che sul ruolo economico raggiunto attraverso il riciclaggio del denaro. Questa attività, che le ha permesso di controllare ampi settori dell'economia dall'impresa al commercio e all'agricoltura, spesso con una forte connivenza di aree della pubblica amministrazione a livello locale e regionale di tutti gli schieramenti politici. La relazione della Commissione parlamentare antimafia del 20 febbraio 2008 afferma che la 'ndrangheta «ha una struttura tentacolare priva di direzione strategica ma caratterizzata da una sorta di intelligenza organica», e la paragona alla struttura del movimento terroristico islamico al-Qaida. Dal 2013, la 'ndrangheta è considerata tra le più pericolose organizzazioni criminali del mondo con un fatturato che si aggira intorno ai 53 miliardi di euro, con numerose ramificazioni all'estero (dal Canada all'Australia e nei paesi europei meta dell'emigrazione calabrese).

Etimologia del termine. Il primo tentativo di una spiegazione etimologica di 'ndrangheta si deve a Ernesto Ferrero nel saggio "I gerghi della malavita dal '500 ad oggi" spiegandola come " una voce scherzosa e imitativa che riproduce la perentorietà dell'azione criminale". Nello stesso anno di uscita del saggio, nel 1972, Tullio De Mauro propone una connessione con le voci "'ndragarsi, 'ndragato" derivanti da "'ndragari": "diventar cattivo, infuriare". L'etimologia che ha riscosso più consenso è quella formulata da Paolo Martino nel saggio "Per la storia della 'ndranghita" che ’ndrangheta o talvolta anche ’ndranghita deriverebbe dal greco classico, da cui i dialetti calabresi sono fortemente influenzati, andragathía traducibile con "valore, prodezza, carattere del galantuomo". La parola sarebbe sopravvissuta nel toponimo Andragathia Regio, ritrovata in età moderna, nel Thesaurus Geographicus (1587) e designava un'ampia zona situata a cavallo tra le odierne Calabria e Basilicata mentre in un documento del geografo olandese Abraham Ortelius, pubblicato ad Anversa nel 1596 designava una regione del Cilento. Anche la parola 'ndrina usata per indicare la famiglia di appartenenza è formata dalla stessa radice, e deriverebbe dal greco e significa uomo valoroso, da cui anche ’ndrinu usato in alcuni dialetti calabresi come sinonimo del corrispettivo napoletano guappu. Secondo l'Accademia della Crusca la spiegazione di Martino è debole: la giustificazione della sopravvivenza della parola greca classica all'età moderna facendo riferimento al lavoro del cartografo olandese; poiché l'area cilentana era priva di riferimenti geografici e facendo riferimento alla sua cultura classica e molto probabilmente denomina l'area come Andragathia regio associando i lucani cilentani alla loro "fama di combattenti fieri e valorosi". Invece tralasciando le scarse fonti lessicografiche calabresi e cercando nel secondo volume del vocabolario siciliano curato da Giovanni Tropea (Messina-Palermo, 1985) sotto la voce 'ndrànghiti‘associazione mafiosa' è registrata con le varianti 'ntràgniti e 'ntrànchiti. Quest'ultima variante coincide con il significato di: "interiora di capretto o di pecora" anch'esso con le sue varianti ('ntragni, 'ntràgnisi, 'ntrànghisi). La parola deriverebbe dal latino interanĕa "interiora", in modo analogo ai corrispondenti francese entraignes, catalano entranyes, spagnolo entrañas ed il portoghese entranhas. L'unico dubbio è che sia stato il siciliano ad acquisire la parola dallo spagnolo o dal catalano e si sia andato a sovrapporre ad un già esistente 'ntrànchiti locale. Il significato di "interiora, intestini" assume un significato nuovo e metaforico per "membri uniti da un legame interno, profondo, esclusivo e riservato". Il passaggio fonetico da 'ntranchiti a 'ndranghiti e viceversa si spiega con l'adattamento dei locutori della sonorità e della sordità consonantica. La terminazione "-ti" è un suffisso dialettale calabrese di origine greca (-ta) per indicare un nome collettivo. Secondo i due etnolinguisti John B. Trumper e Marta Maddalon invece la tesi proposta da Martino non è da rigettare ma piuttosto da rielaborare. In greco antico esiste la parola andragathìa derivata da andreìa che significa "coraggio" dovuto ad azioni militari e àndragàthema derivato di andragatho, "fare prodezze", termini ancora presenti nel mondo bizantino medievale e moderno e valide anche per il mondo calabrese. Sebbene il termine andragathìa sia ancora diffuso come afferma Martino, è anche vero che è diffuso col significato di "fare prodezze" e non di "coraggio". Mancano ancora oggi però dei riscontri su altri periodi storici per poter caratterizzare al meglio la storia linguistica della parola. Nei dizionari calabresi il termine viene sempre tradotto genericamente come associazione malavitosa. Nel dizionario dialettale di Giovanni Malara (1909) le voci ndranali e ndranghiti fanno riferimento alla voce tracandali ovvero: "uomo balordo e stupido". I dizionari dello stesso periodo danno un significato simile. Rohlfs nel suo dizionario lo traduce come malavita. La prima volta che si sente il termine ’ndrangheta è dallo scrittore Corrado Alvaro in un articolo del Corriere della Sera del settembre 1955. Nella confessione di un certo Doldo in un verbale di un certo Nicola Zema del 12 maggio 1932 ricompare il termine sotto forma di dranghita mentre il termine ndranghiti viene ritrovato per la prima volta in un rapporto dei Reali Carabinieri di Bianco il 4 dicembre 1923 in collegamenti ad un'associazione basata sull'onore dei soci e dedite a crimini contro la proprietà. Nel 1948 compare per la prima volta ndranghita nella rivista Crimen in riferimento ad un'associazione della Locride a sua volta ripresa da un numero della Gazzetta delle Calabrie del 1932 che scriveva di ndrangata. All'interno dei codici ritrovati dalle forze dell'ordine con le varie formule di rito, ma anche in molte canzoni dell'organizzazione più volte ci si appella a essa come onorata società. A cavallo tra il XIX e il XX secolo tra le carte giudiziarie erano presenti anche i termini Picciotteria, Famiglia Montalbano e Camorra, l'ultimo in analogia ai fenomeni criminali del napoletano. Picciotteria deriva da Picciotto che a sua volta viene fatto risalire alla forma dell'antico provenzale "pitxot variante francese di "petit".

Storia. La 'ndrangheta è già ben nota sotto la dominazione borbonica. Nella primavera del 1792, viene affidata una missione, in qualità di "Visitatore Reale" ad uno degli ingegni più acuti del Regno, Giuseppe Maria Galanti: questi percorse in lungo ed in largo gran parte della regione Calabria, spesso avvalendosi anche delle relazioni (risposte scritte sulla base di una sorta di questionario a domande fisse, da lui stesso predisposto) di notabili scelti fra i più rispettati, attendibili e degni di fede. Ne scaturì un quadro desolante, oltre che sul versante della situazione economica della regione, soprattutto su quello dell'ordine pubblico. Lo definisce bene Luca Addante, nell'introduzione alla riedizione del resoconto di Giuseppe Maria Galanti ("Giornale di viaggio in Calabria", Rubbettino, 2008): "infiniti erano gli omicidi, i furti, i rapimenti; scandalosa l'ignoranza del clero; spocchiosi i notabili di paese, ossessionati dall'idea di arricchirsi e poi di nobilitarsi, rapaci monopolizzatori delle amministrazioni locali, cresciuti all'ombra di una decadente nobiltà di cui si preparavano a raccogliere le spoglie". Parole forti, certo, ma che corrispondono pienamente a quanto annotato da Giuseppe Maria Galanti: in particolare, nel Giornale colpiscono le descrizioni di inquietanti fenomeni di criminalità urbana in cui non è difficile scorgere il germe di quella che un secolo dopo, mutatis mutandis, si cominciò a configurare come associazione delinquenziale vera e propria, la 'ndrangheta. A fianco delle "solite" scorrerie nelle campagne, dove la povertà diffusa faceva concentrare i disperati che nel brigantaggio vedevano la sola possibilità di sopravvivenza, Giuseppe Maria Galanti annotò acutamente come un'amministrazione della giustizia pesantemente inficiata dall'inefficienza, dalla corruzione e dal monopolio assoluto ed in gran parte incontrollato dei baroni, stesse iniziando a produrre casi, come a Maida, di "una picciola combriccola di giovinastri scapestrati che commettono violenze col fare uso di armi da fuoco. La giustizia è inoperosa perché senza forza e senza sistema. Le persone maligne si fanno miliziotti [una sorta di guardie urbane, ndr]". Nel Distretto di Gerace, "le scorrerie de' malviventi nelle campagne sono generali. Quasi tutti i miliziotti sono i più facinorosi della provincia perché i delinquenti ed i debitori adottano questa professione e vengono garantiti da' comandanti in disprezzo delle leggi. Con ciò restano impuniti i delitti, i quali crescono ogni giorno". A Monteleone, l'odierna Vibo Valentia, "vi è un gran numero di gente oziosa, detti nel paese "spanzati", i quali sono ordinariamente inquisiti. Questi a franca mano commettono assassini, furti, violenze alle donne, con un manifesto disprezzo della giustizia, la quale è inefficace a punirli. Questa turba di briganti [ohibò, anche Galanti, a quanto pare, usava quel termine, e prima della venuta dei Francesi…] pretendono essere incaricati dell'annotazione delle sete, a spese dell'arrendamento [che era una sorta di monopolio autorizzato, ndr]. Quando si nega condiscendere alle loro voglie, si minaccia l'amministrazione di ricorsi, oltre alle minacce alla sicurezza, contro la quale sono sempre disposti ad essere armati ed usi adoprare le armi da fuoco. Gli individui oziosi e truffatori, per non pagare i debiti e per esentarsi dalle pene de' loro delitti, si arruolano nella milizia. Questi anche ricattano la gente ricca, esercitano il contrabbando con baldanza, esercitano l'incarico di perseguitare i malviventi per dare sfogo alle loro private vendette, il che porta a una catena di delitti". La Calabria, dunque, “era in preda a una generale disgregazione dei poteri pubblici e di quelli privati” (A.M. Rao, 1992), ma, in un contesto così grave, Ferdinando IV decise piuttosto che era più importante ed urgente rivolgere la propria attenzione alla costituzione di una coalizione anti-francese. "Non sono tempi per queste cose", replicò bruscamente al ministro Simonetti, che proponeva di mettere in atto il piano di risanamento complessivo per la Calabria predisposto da Galanti), ricordandosi di essa solo per inquadrarne, al servizio del Regno, della patria e della religione, banditi, fuoriusciti, inquisiti, carcerati. Nasceva così la 'ndrangheta. Tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90 del XIX secolo, il fenomeno si rafforza a causa di alcune cellule degenerate del brigantaggio aspromontano che prendono corpo in vari paesi della provincia di Reggio Calabria. Con l'inizio del XX secolo e le prime emigrazioni di italiani, si insedia anche all'estero, soprattutto in Canada e Australia, ma non ha alcuna influenza, difatti molti calabresi preferiscono affiliarsi alla ben più potente mafia siciliana, in primis negli USA. È un'organizzazione criminale di tipo rurale con riti di iniziazione e codici che ne definiscono le regole. Ma è nel primo ventennio del XX secolo che il fenomeno 'ndranghetistico appare crescere in maniera esponenziale. Proprio nella piana di Gioia Tauro verrà celebrato uno dei primi maxi processi alla ndrangheta calabrese risalente al 9 novembre 1929, data in cui venne emessa una sentenza di condanna per associazione a delinquere dal Tribunale di Palmi nei confronti di Santo Corio + 150 affiliati. In questo processo i giudici si avvalsero per l'accertamento penale dell'associazione criminale di tre collaboratori di giustizia, tutti di Gioia Tauro. Santo Corio, originario di Palmi, può essere ritenuto quindi come il primo capo della piana di Gioia Tauro dal 1925 sino alla fine degli anni '40, quando Santo Corio venne confinato e morì poco tempo dopo. Proiezioni di questo clan erano presenti negli Stati Uniti, nello Stato di New York ed in Australia a Sidney. In questo clan operante nelle zone di Palmi, Gioia Tauro, Rosarno, Eranova, San Ferdinando erano coinvolte anche parecchie donne d'onore. Dagli anni cinquanta, in contemporanea all'emigrazione meridionale ha cominciato a operare anche nel nord Italia, ed è con i sequestri di persona che negli anni settanta i media le danno attenzione sotto il nome di "anonima sequestri", tanto che sovente la sua importanza e consistenza viene paragonata a quella dell'Anonima Sarda. A partire dal 1950 infatti si afferma su tutta la regione a causa della scarsa presenza dello Stato, o addirittura del favoreggiamento di personaggi politici che tramite essa ne potevano dirottare i voti. Negli anni sessanta si converte a mafia basata su legami di sangue e crescono in importanza 3 'ndrine o famiglie: i Piromalli nella piana di Gioia Tauro, i Tripodo a Reggio Calabria e i Macrì nella Locride. In questo periodo la 'ndrangheta, allora ribattezzata l'anonima sequestri, comincia a usufruire del sequestro di persona per avere immediate liquidità da reinvestire nel narcotraffico. Secondo Giuseppe Lavorato: La ‘ndrangheta ha spiccato il suo salto negli anni ’70, periodo in cui è diventata una delle organizzazioni criminali più ricche grazie anche ai rapporti che strinse con l’eversione nera fascista e con i numerosi fiancheggiatori dentro l’apparato dello stato.

Il ruolo nell'eversione. Si viene a conoscenza dei rapporti fra 'ndrangheta e destra eversiva in un'inchiesta della procura di Reggio Calabria conclusasi nel 1994. L'inchiesta rivela relazioni tra Junio Valerio Borghese, Stefano Delle Chiaie, i servizi segreti, le logge massoniche, Cosa Nostra e la mafia calabrese. Membri delle 'ndrine sarebbero stati coinvolti nel cosiddetto Golpe Borghese. Un uomo di contatto sarebbe stato Antonio Nirta. Il pentito Giacomo Lauro parla anche di un incontro nell'estate del 1970 tra i capibastone dei De Stefano Paolo e Giorgio e Junio Valerio Borghese. Secondo la testimonianza di Vincenzo Vinciguerra, la 'ndrangheta per il golpe avrebbe messo in azione 4000 uomini. Anche secondo Giuseppe Lavorato: la notte dell’8 dicembre 1970 grandi boss della ‘ndrangheta rimasero svegli e armati per essere chiamati a concorrere al completamento del colpo di stato del principe nero[34]. Riconducibile alla 'ndrangheta e all'estrema destra anche l'attentato al treno Freccia del Sud che deragliò a Gioia Tauro il 22 luglio 1970, uccidendo sei persone e ferendone una sessantina. Tali relazioni però riveleranno il potere marginale della 'ndrangheta, infatti quando il golpe Borghese fu fatto rientrare a seguito del cambiamento di strategia che optava per il mantenimento del regime democristiano, operato da quei poteri che dapprima lo avevano avallato, essa venne scaricata assieme agli aspiranti golpisti di "estrema destra", rimanendo così fuori dal vero potere, a differenza di Cosa Nostra che alla fine mantenne il suo legame con il regime democristiano. Alcune fonti imputano alla criminalità organizzata calabrese l'attività di controllo della zona di via Gradoli in Roma. La stessa Lucia Mokbel – che, al momento della perquisizione mancata all'interno 11, era inquilina dell'appartamento frontale all'interno 9 del civico 96 di quella strada – era sia indicata in diverse inchieste giornalistiche come pregressa informatrice del SISDE o della polizia, sia la sorella di quel Gennaro Mokbel arrestato trentadue anni dopo nell'operazione Phuncards-Broker per essere l'elemento di congiunzione tra le società di telecomunicazione Fastweb e Telecom Sparkle, che fatturavano in modo falso, e gli interessi di esponenti della 'ndrangheta.

Le guerre di 'ndrangheta. Tra gli anni settanta e ottanta avvengono ben due guerre di mafia: la prima dovuta al desiderio delle nuove generazioni di entrare nel traffico di stupefacenti osteggiata dalle famiglie fedeli al vecchio modello di "onorata società", la seconda dovuta all'indipendenza delle 'ndrine fra di loro e sulla modalità di gestire i capitali accumulati dalle nuove attività. Negli anni settanta furono create nuove doti di livello superiore: la Santa e il Vangelo e successivamente altre ancora le quali formano la società maggiore e di cui oggi tutti i capo-locali possiedono. In questo periodo nasce, quindi, la sovrastruttura della Santa per tenere contatti con alcune frange del potere costituito. Analogamente alle altre mafie italiane, all'interno sono presenti rigidi riti di affiliazione, riti di dote, codici comportamentali tra gli affiliati e durante le riunioni che tutti sono tenuti a rispettare; caso unico nel panorama italiano, tali riti sono in uso ancora oggi. Regole e formule non sono cambiate dalla fine dell'Ottocento; al più ne sono state aggiunte di nuove in funzione delle nuove doti create. Già negli anni ottanta furono in grado di mettere in piedi un traffico di droga in tre continenti, il cosiddetto Siderno Group: dal Canada all'Australia, dal Sud Americaall'Italia. Dagli anni novanta, nascono delle sovrastrutture per dirimere questioni tra le 'ndrine per evitare le faide, e per dare cariche di alto livello, prima inesistenti agli affiliati. In Calabria ci sono 3 mandamenti che dividono la provincia di Reggio Calabria in mandamento Ionico, Piana e Città i quali fanno riferimento al Crimine di Polsi. A quest'ultimo fanno riferimento anche le camere di controllo della Lombardia e della Liguria, il Crimine australiano e di Toronto, organismi analoghi ai mandamenti calabresi. Negli anni novanta per sedare il fenomeno criminoso nell'Operazione Riace si utilizza l'intervento dell'esercito, successivamente si esegue una serie di maxiprocessi: "Wall Street", "Count Down", "Hoca Tuca", "Nord - Sud", "Belgio" e "Fine" che coinvolgono molte 'ndrine e la fine del cosiddetto "Siderno Group", un consorzio malavitoso tra il Canada e la Calabria.

Gli anni '90. Nel 1991 terminano la faida di Taurianova e Cittanova, e comincia quella di San Luca. Lo stesso anno viene assassinato il magistrato Antonino Scopelliti che stava lavorando al maxiprocesso di Palermo. Nonostante ciò è proprio in questo periodo che stringe sempre in modo più stretto i contatti con i cartelli colombiani e le organizzazioni paramilitari sudamericane per un "controllo" del traffico di cocaina tra il Sud America e l'Italia, essendo favorita in ciò dal parallelo ridimensionamento di Cosa Nostra, fino a quel momento padrona indiscussa del traffico mondiale della droga ecc., a seguito dello scontro tra questa e lo Stato italiano ecc., dopo la fine della guerra Fredda e le stragi di Capaci contro Giovanni Falcone e via d'Amelio contro Paolo Borsellino del 1992.

Gli anni 2000. Negli anni 2000 l'organizzazione ha continuato a rafforzarsi e ad espandersi in Italia con presenze anche all'estero, replicando la sua struttura; stabilendo contatti permanenti con i narcotrafficanti sud americani[18], instaurando nuovi contatti con i cartelli messicani e contribuendo a creare nuove rotte della droga passando per l'Africa occidentale. Un grandissimo esponente di 'ndrangheta fu Domenico Libri, capobastone della cosca Libri di Cannavò, fu latitante per ben 3 anni e venne arrestato dalla polizia francese nel 1992. Dalla corte Olimpia gli vennero attribuiti 6 ergastoli Di notevole rilievo l'arresto nel 2004 di Giuseppe Morabito, il latitante e ricercato numero uno della 'ndrangheta e l'omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno. Da questo omicidio i ragazzi della città di Locri formarono una nuova organizzazione antimafia: Ammazzateci tutti. Nell'agosto 2007 è ritornata sotto i riflettori la faida di San Luca tra le cosche Nirta-Strangio e Pelle-Vottari dopo la strage di Ferragosto nel ristorante italiano Da Bruno a Duisburg in Germania (6 persone uccise). «La strage di Duisburg è stata come un geyser. Uno zampillo ribollente e micidiale che da una fessura del suolo ha scagliato verso l'alto, finalmente visibile a tutti, il liquido miasmatico e pericolosissimo di una criminalità che partendo dalle profondità più remote della Calabria, si era da tempo diffusa ovunque nel sottosuolo oscuro della globalizzazione.» (Relazione annuale sulla 'ndrangheta, Francesco Forgione, Presidente della commissione parlamentare antimafia, Il 20 febbraio 2008). Nel 2008 viene Pubblicata la Relazione annuale dell'Antimafia per la prima volta principalmente incentrata sul fenomeno della mafia calabrese. Viene presentata da Francesco Forgione presidente della Commissione parlamentare Antimafia[58]. Il 31 maggio 2008 la 'ndrangheta viene inserita dal governo degli Stati Uniti nella lista Foreign Narcotics Kingpins, cioè delle organizzazioni e persone dedite al narcotraffico. La conseguenza sarà la possibilità di congelare i patrimoni in territorio statunitense degli 'ndranghetisti. Con l'arrivo del XXI secolo la 'ndrangheta entra di diritto fra le più potenti organizzazioni criminali al mondo, prima in Italia, con il monopolio del traffico di cocaina nel continente. Nel settembre 2009 scoppia il caso Relitto di Cetraro, l'affondamento di navi contenenti rifiuti tossici in Calabria e per tutto il Mediterraneo fino in Somalia, scaturite dalle confessioni del pentito Francesco Fonti. Il pentito Antonino Lo Giudice ha rivelato che ha fatto regali e favori vari a diversi magistrati. Tra il 2010 e il 2011 si concludono le operazioni Crimine-Infinito e Minotauro che oltre a portare numerosi arresti mettono definitivamente in luce le strutture apicali dell'organizzazione e le loro relazioni: in Calabria con i mandamenti provinciali e il Crimine di Polsi, al di fuori con la Lombardia, le locali liguri, piemontesi, tedesche e le camere di controllo del Canada e dell'Australia. Il 28 gennaio 2015 avviene l'arresto di 117 persone in Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Calabria e Sicilia delle procure di Bologna, Catanzaro e Bresciatra cui affiliati dei Grande Aracri. Le persone sono accusate di associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, porto e detenzione illegali di armitra queste Sebastiano Maranzano capo dei Corona, cosca, società di attività commerciali, reimpiego di capitali di illecita provenienza, emissione di fatture per operazioni inesistenti, e un sequestro di beni per un valore di 330 milioni di euro. L'operazione si chiama Aemilia.

Caratteristiche. Il legame familiare. A differenza delle altre mafie in Italia (fatta eccezione per l'antica Cosa Nostra dove contava anche il legame di sangue e familiare), la struttura interna a ogni cosca della 'ndrangheta poggia sui membri di un nucleo familiare legati tra loro da vincoli di sangue, le 'ndrine. Non sono rari matrimoni tra le varie cosche per saldare i rapporti tra famiglie mafiose. I matrimoni hanno un alto valore simbolico, e possono anche servire a sancire la fine di una faida: un esempio da tale punto di vista fu il matrimonio di Venanzio Tripodo, figlio di Domenico, con Teresa Romeo, di San Luca, figlia di Sebastiano. Esso sancì la ritrovata pace tra i De Stefano e i Tripodo. Inoltre spesso i banchetti nuziali sono stati occasione per veri e propri summit 'ndranghetisti: tale fu ad esempio, il banchetto seguito al matrimonio di Girolamo Mazzaferro. In un paese o quartiere di città più 'ndrine aprono la locale, struttura che organizza la gestione malavitosa del territorio. I locali creati al di fuori della Calabria spesso dipendono dal locale del paese d'origine dei membri.

Lo scarso pentitismo. Proprio a causa del forte legame familiare i casi di pentitismo sono stati fino a qualche anno fa pochi, poiché questi andavano contro i loro stessi parenti e familiari, e al giuramento che hanno fatto all'ingresso nel mondo della malavita. Tuttavia oggi con l'aumento della pressione dello Stato, a differenza di prima dove tale pressione era minima, e del puntamento dei riflettori mediatici, la 'ndrangheta comincia ad avere pentiti in misura sempre più crescente. A tutt'oggi i pentiti di 'ndrangheta dunque non sono moltissimi, ma come detto sono in aumento; tra di essi si ricordano Francesco Albanese (nel 1900), Rocco Varacalli Pino Scriva di Rosarno nel 1983 Antonio Zagari nel 1990, Giacomo Lauro nel 1992, Francesco Fonti nel 1994, Angelo Salvatore Cortese('ndrina Grande Aracri) nel 2008 e dal 2010 il capo del locale di Giussano, Antonio Belnome; Luigi Bonaventura, reggente della 'ndrina originaria di Crotone ma operante anche in Lombardia, Giuseppina Pesce (figlia del boss di Rosarno).

Organizzazione. Il locale e la società con le doti degli affiliati. Le cariche nella gestione di un locale che ha una società maggiore e minore detta anche società. La 'ndrangheta è strutturata sul territorio su più livelli, in Calabria principalmente si suddivide in mandamento tirrenico, mandamento ionico, e mandamento Città mentre all'estero e in altre parte d'Italia esiste il concetto di Camera di controllo con mansioni equivalenti a quelle del mandamento. Fino agli anni ottanta l'organizzazione era strutturata in modo orizzontale, in cui ogni locale aveva la sua zona di competenza, evitando faide tra le 'ndrine per il predominio sulla loro locale, e non hanno impedito ben due guerre di 'ndrangheta tra gli anni settanta e ottanta nate da alleanze a catena tra le 'ndrine che coinvolgevano anche più di una sola locale. 'ndranghetista è il nome generico che viene dato a un affiliato alla 'ndrangheta. È quindi tale una qualsiasi persona che appartiene alle famiglie malavitose, le 'ndrine; picciotto, camorrista, sgarrista, santista, vangelista, quartino, trequartino, padrino e capobastone sono i gradi con cui si identifica uno 'ndranghetista. Una persona diventa 'ndranghetista in due modi: per nascita, quindi essendo già appartenente a una famiglia mafiosa o per "battesimo", cioè tramite il rito di affiliazione che lo lega all'organizzazione fino alla morte. In un'informativa del ROS dell'Arma dei carabinieri risalente al 1995, denominata Galassia firmata dal capitano Angelo Jannone, che permise l'arresto di 187 tra capi e gregari delle 'ndrine e di alcuni esponenti di Cosa nostra, viene chiarito che la 'ndrina è la struttura di base, composta da 7 uomini (d'onore), mentre 7 'ndrine, compongono il locale, detto anche "settandrina". Si spiega anche il concetto di "copiata", ossia il nominativo di altri uomini d'onore di rango superiore, presenti nei cerimoniali di conferimento di un grado superiore a un uomo d'onore, meccanismo che ha garantito l'espansione e la solidità della 'ndrangheta.

Le famiglie. All'interno delle famiglie vi è una struttura gerarchica basata in gradi dette doti, al primo grado stanno i picciotti, poi i camorristie infine gli sgarristi e rappresentano la cosiddetta società minore. Il capo-locale ha la dote di sgarro. Si entra nella 'ndrangheta, o, per dirla nel gergo mafioso, si viene battezzati con un rito tradizionale preciso, che può avvenire automaticamente, poco dopo la nascita se si tratta del figlio di un importante esponente dell'organizzazione (in questo caso, finché il bambino non raggiungerà i quattordici anni, età minima per entrare nella 'ndrangheta, si dirà che il piccolo è "mezzo dentro e mezzo fuori"), oppure con un giuramento, per il quale garantisce con la vita il mafioso che presenta il novizio, simile a una cerimonia esoterica, durante la quale il nuovo affiliato è chiamato a giurare nel nome di nostro Signore Gesù Cristo. Il battesimo dura tutta la vita e a uno sgarro paga spesso la famiglia del nuovo affiliato.

I poteri delle 'ndrine. Ogni famiglia ha pieni poteri oltre che controllo sulla zona e sul territorio che le appartiene, in cui opera con la massima tranquillità e gestisce il monopolio di ogni sua attività lecita o illecita che sia. La posizione di ogni singolo membro all'interno di una famiglia è severamente disciplinata e regolata da un ferreo codice al quale non si può sfuggire. Nel caso ci siano problemi con un adepto, questo viene portato davanti al tribunale della sua cosca. Più 'ndrine nella stessa zona formano un'entità detta "locale". Ogni locale ha un proprio capo, che ha potere di vita e di morte su tutti, un contabile, che gestisce la situazione economica e finanziaria, e un crimine, che governa le modalità di regolamento dei conti con le cosche rivali, organizzando omicidi, estorsioni e agguati.

L'articolazione territoriale. Struttura della 'ndrangheta alla luce dell'operazione Crimine del 2010. Fino alla grande guerra interna scoppiata nel 1985 non esisteva nulla di simile alla cupola di Cosa nostra, mentre successivamente le cosche della provincia di Reggio Calabria iniziano a strutturarsi in modo verticistico attraverso la "Santa" o Società Maggiore che presenta però differenze significative. Chi fa parte della Santa sono esponenti con il grado o dote di santista vangelista, quartino, quintino e associazione. Inoltre dal 1991 è stata introdotta in Calabria la suddivisione territoriale in 3 mandamenti: la Piana o mandamento tirrenico (Piana di Gioia Tauro), la Montagna o mandamento ionico (la Locride) e la Città (Reggio Calabria). Queste, come tutti i locali al di fuori della Calabria e dell'Italia stanno al di sotto di una commissione definita "Provincia" o Crimine, la cui esistenza dal 18 giugno 2016 è considerata vera anche dalla sentenza del processo Crimine della Corte di Cassazione. È probabile che questa sorta di Cupola, detta anche Crimine, si riunisca nel santuario di Polsi, luogo sacro della 'ndrangheta per assumere decisioni o per eleggere il capo-crimine. Il Crimine sarebbe composto dal capo-crimine (a oggi l'unico capo-crimine conosciuto è il rosarnese Domenico Oppedisano arrestato nell'operazione Crimine del 13 luglio 2010), il capo-società e il mastro-generale. Il 13 luglio 2010 viene scoperta una nuova struttura nel Nord Italia chiamata Lombardia sempre alle dipendenze delle commissioni calabresi. Il 13 novembre 2012 l'operazione Saggezza porta alla conoscenza di una nuova struttura al di sopra dei 5 locali aspromontani di Antonimina, Ardore, Canolo, Ciminà e Cirella di Platì: la Corona, di cui il cui capo è detto Capo-Corona. Questa struttura sembra sia nata per dirimere questioni in seno a questi piccoli locali, a concedere doti e a poter competere economicamente alla pari di altre locali di 'ndrangheta più blasonate. Non se ne conosce ancora la relazione col Crimine e il mandamento ionico, in cui rientra.

Attività. Dal XIX secolo, e fino alla prima metà del XX secolo si caratterizzò essenzialmente come mafia agropastorale. A partire dagli anni cinquanta le attività cominciano a diversificarsi, spaziando dal trafficare in droga a livello internazionale (Siderno Group) all'infiltrazione negli appalti per l'autostrada Salerno-Reggio Calabria e l'area industriale di Gioia Tauro negli anni settanta. I proventi del denaro vengono reinvestiti e riciclati all'estero. Nel 2004 la Guardia di Finanza stima che la 'ndrangheta abbia guadagnato solo dal traffico di droga 22 miliardi e 340 milioni di euro (circa 44 000 miliardi di lire) che risulta essere quindi l'affare più redditizio. Ottiene il primato anche per il traffico delle armi con 2 miliardi e 353 milioni di euro (il guadagno delle altre organizzazioni mafiose si aggira attorno agli 800 milioni di euro). 4 100 milioni di euro il giro d'affari nell'usura, 4 600 milioni di euro per il traffico di armi e la prostituzione. Questa è solo una parte dei guadagni. Secondo dati Eurispes la 'ndrangheta nel 2004 ha avuto un giro d'affari stimato di 36 miliardi di euro[99]. Secondo Donato Masciandaro, docente di economia alla Bocconi la cifra sarebbe invece di ben 55 miliardi di euro (pari al 5% del PIL italiano) poiché andrebbero aggiunti anche i guadagni dal riciclaggio di denaro. Nel 2007, il rapporto Svimez, basato su stime Confesercenti, dice che in Calabria circa 150.000 società pagano il pizzo, la metà della totalità delle imprese presenti. Nel rapporto dell'Eurispes per l'anno 2008 si rivela un giro d'affari di 44 miliardi di euro approssimato per difetto. Pari al 2.9% del PIL italiano. Il 62% degli introiti viene dal traffico di droga. Le attività risulterebbero divise per Attività illecite e Valore:

Traffico di droga 27,240 miliardi €

Imprese e appalti pubblici 5,733 miliardi €

Etorsione e usura 5,017 miliardi €

Traffico di armi 2,938 miliardi €

Prostituzione 2,867 miliardi €

Totale 43,795 miliardi €

Secondo lo studio del 2013 condotto da Transcrime, centro di ricerca dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, i ricavi delle mafie italiane vengono ridimensionate e ammonterebbero a circa 25,7 miliardi di euro l'anno. Di questi, il 35% è appannaggio della Camorra, il 33% della 'ndrangheta, il 18% di Cosa Nostra e l'11% della Sacra Corona Unita. Un'indagine di Demoskopika pubblicata il 26 marzo 2013 afferma che la 'ndrangheta abbia nel mondo un giro d'affari di 53 miliardi di euro (73 miliardi di dollari) equivalente al 3,5% del PIL dell'Italia. Di seguito l'elenco delle attività e quanto rendono nel loro complesso.

Attività illecite e Valore:

Traffico di droga 24,2 miliardi €

traffico illegale di rifiuti 19,6 miliardi €

estorsione e usura 2,9 miliardi €

appropriazioni indebite 2,4 miliardi €

Gioco d'azzardo illegale 1,3 miliardi €

traffico di armi, prostituzione, contraffazione di beni e traffico di esseri umani < 1 miliardo €

Totale 53 miliardi €

Secondo l'Agenzia del Demanio dal 1986 al 2006 in Calabria vi sono 1093 immobili (di cui 800 nella provincia di Reggio Calabria) confiscati alla 'ndrangheta, di cui 562 abitazioni, 363 terreni, 122 locali, 18 capannoni e altri 28 beni immobili. Questi guadagni rendono la 'ndrangheta una delle mafie più ricche del mondo; il successo di questa organizzazione può essere spiegato solo con un'abile politica di riciclaggio del denaro (inizialmente fornito dai sequestri di persona) e con un reinvestimento nel campo della droga che ha portato questa mafia a superare economicamente le altre: Cosa nostra, Sacra Corona Unita e Stidda. L'attività principale è il traffico di droga, dal quale raccoglie i maggiori proventi, di cui, la cocaina è il settore più importante. In Calabria l'estorsione nei confronti delle società è asfissiante, ma anche nel nord Italia si è notato un aumento dell'attività estorsiva. Le infiltrazioni in appalti e sub-appalti cominciano negli anni settanta in Calabria e continuano al giorno d'oggi anche nel Nord Italia (Autostrada A4, autostrada Milano-Torino, Treni ad Alta Velocità ma anche la progressiva monopolizzazione del settore edile e movimentazione terra); il territorio calabrese subisce poi l'appropriazione indebita di finanziamenti statali e dell'Unione europea. Il riciclaggio di denaro attraverso banche, l'acquisizione di immobili e società è stata una delle principali attività degli ultimi 15 anni in Italia e all'estero. Alcune operazioni delle forze dell'ordine testimoniano la loro presenza nel settore dei locali notturni in Italia settentrionale. In misura minore sono coinvolti nel traffico di armi e il controllo della prostituzione. Alcune ndrine sono dedite alla contraffazione di denaro (in Germania il locale di Corigliano). In Sud Africa è stato rilevato un traffico di Diamanti e sempre nel continente africano anche scambio di armi per coltan. Dagli anni settanta agli anni novanta furono particolarmente attivi nei sequestri di persone in territorio italiano. Negli anni ottanta e novanta sarebbero stati coinvolti nello smaltimento di rifiuti tossici (nell'operazione Export del luglio 2007 vengono sequestrati 135 container di rifiuti diretti in Cina, India, Russia e Nord Africa e radioattivi per mezzo di affondamento di navi nel mediterraneo e in Africa Orientale.

Il controllo degli appalti. I rapporti con la politica. La collusione tra 'ndrangheta e politica è molto forte e inizia negli anni ottanta con la votazione di politici collusi con le 'ndrine. Sono ormai fatti noti i collegamenti in passato con la destra eversiva, anche se questo non significa uno schieramento politico dell'organizzazione criminale. Ha appoggiato anche la DC, il PSI, il PRI, il PSDI e il PLI ed ebbe rapporti contemporaneamente con diversi partiti. La 'ndrangheta non è né di destra né di sinistra proprio per la sua organizzazione non gerarchica dove alcune 'ndrine possono decidere di appoggiare in un certo momento uno schieramento politico e altre nello stesso tempo l'opposto schieramento, a seconda del ritorno economico. «La 'ndrangheta ha avuto una crescita progressiva e ininterrotta a partire dalla fine degli anni Settanta, a seguito dell'intervento pubblico dello Stato per la realizzazione delle grandi opere nel Mezzogiorno. In quegli anni gli imprenditori del nord vennero in Calabria per avviare grandi progetti infrastrutturali, come il raddoppio ferroviario e l'autostrada, e alcuni di loro usarono i boss della zona come interlocutori privilegiati e con loro si spartirono ciò che avevano guadagnato dai loro investimenti. Gli affiliati delle 'ndrine da guardiani dei campi divennero guardiani dei cantieri: è così che la mafia si è arricchita diventando il mostro che è oggi. Questa politica scellerata dello Stato italiano non ha creato nessun posto di lavoro ma solo scheletri di enormi opere pubbliche e un potere mafioso incontrastato”.» (Giuseppe Lavorato, ex Deputato PCI già sindaco antimafia di Rosarno). Negli anni ottanta avvengono una serie di omicidi verso esponenti del PCI e della DC. L'11 giugno 1980, fu assassinato Giuseppe Valarioti, segretario della Sezione del PCI di Rosarno. Aveva solo 30 anni. Si trattò del primo omicidio politico della 'ndrangheta. Dieci giorni dopo, il 21 giugno 1980 fu assassinato Giovanni Losardo, militante comunista, già Sindaco di Cetraro e - al momento dell'assassinio - Assessore alla pubblica istruzione, Segretario capo presso la Procura della repubblica del Tribunale di Paola. Nel 1983 poi, a Limbadi avvenne un caso eclatante. La presenza mafiosa in politica era così vasta, che le elezioni vennero vinte dal latitante Francesco Mancuso. Infine nel 1989, fu assassinato Lodovico Ligato, ex parlamentare DC ed ex presidente delle Ferrovie dello Stato. Con la legge del 1º maggio 1991 n. 164 (Legge contro le infiltrazioni mafiose negli enti locali) che permette lo scioglimento dei comuni per infiltrazioni mafiose in Calabria vengono sciolti lo stesso anno il comune di Lamezia Terme e di Melito di Porto Salvo. Entrambi verranno sciolti nuovamente, il primo nel 2002, il secondo nel 1996. Nel ‘92 viene sciolto il comune di Rosarno. Nel 1995 venne sciolto anche un comune del nord Italia: Bardonecchia. Nonostante la proposta del prefetto Frattasi, il Governo invece nel 2009 sceglie di non sciogliere il consiglio del comune di Fondi. Dal 2000 al 2004 sono avvenuti 325 atti intimidatori verso amministratori locali della Calabria. Nel 2001 a Rosarno la 'ndrangheta minaccia lo storico sindaco antimafia Giuseppe Lavorato con una sventagliata di colpi di kalashnikov contro la sede del Comune e contro la finestra del suo ufficio. Più volte minacciato di morte dalle cosche della 'ndrangheta, il Sindaco Lavorato portò Rosarno a essere il primo Comune d'Italia a costituirsi parte civile in un processo antimafia (ottenendo risarcimento dei danni patrimoniali, morali e di immagine causati dai mafiosi). Il 26 marzo del 2003 a Maurizio Carbonera, sindaco di Buccinasco, comune del milanese ad alta densità mafiosa, viene incendiata l'auto e il 27 marzo 2005 gli viene spedita una busta con un proiettile da mitragliatore. Il 16 ottobre 2005, alle primarie dell'Unione viene assassinato a Locri, Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio Regionale della Calabria. Il 15 agosto 2007 avviene il caso più eclatante degli ultimi anni in fatto di 'ndrangheta che ha avuto grande risonanza nazionale e mediatica come la strage di Duisburg. Tra il 2007 e il 2008 vengono arrestati i sindaci e i vicesindaci di Seminara, Rosarno e Gioia Tauro. Sempre in quest'ultimo anno è stato sciolto anche il comune di Amantea. Il 23 febbraio 2010 in un'inchiesta su una rete di riciclaggio di denaro attuata dai vertici di Telecom Sparkle e Fastweb, sarebbe coinvolto anche il senatore del Popolo delle libertà Nicola Di Girolamo, eletto a Stoccarda, in Germania con schede elettorali false degli Arena. Nel 2010 in Calabria sono stati rilevati ben 87 casi di intimidazioni verso amministratori locali, di cui 25 nella provincia di Cosenza, 22 nella provincia di Reggio Calabria e 21 nella provincia di Catanzaro, le restanti a Vibo Valentia e Crotone. Il 30 novembre 2011 si conclude un filone dell'operazione Crimine-Infinito, in cui viene arrestato il consigliere regionale della Calabria Francesco Morelli insieme a un avvocato, un medico, appartenenti alle forze dell'ordine e presunti membri dei Valle-Lampada. Il 10 ottobre 2012 viene arrestato, a Milano, insieme ad altre 19 persone, l'assessore regionale della Lombardia Domenico Zambetti del Pdl per voto di scambiopolitico-mafioso (ha comprato, a 50 € a voto, 4000 voti dalla 'ndrangheta per un totale di 200.000 €), concorso esterno in associazione di tipo mafioso e corruzione. L'assessore era in rapporti con Giuseppe D'Agostino (già arrestato anni prima per le operazioni sull'ortomercato) delle famiglie Morabito-Bruzzaniti-Palamara e con il gestore di negozi Costantino Eugenio dei Mancuso. Tra la merce di scambio del patto politico-mafioso, i due criminali Eugenio Costantino e Alessandro Gugliotta chiedevano a Domenico Zambetti appalti per l'Expo 2015 a Milano e zona Rho pero esistente ('ndrina) Oliverio di belvedere spinello kr. Eugenio Costantino, spiega anche come organizzava cene per campagne elettorali per l'assessore regionale Zambetti, che sono costate ai contribuenti più di quattro milioni di euro. Il 15 luglio 2016 si conclude a Reggio Calabria l'operazione Mammasantissima del Ros dei Carabinieri che porta all'arresto di 3 persone: Alberto Sarra ex consigliere regionale della Calabria, Giorgio De Stefano avvocato e Francesco Chirio, anch'esso avvocato; inoltre è indagato anche il già arrestato Paolo Romeo ex deputato del Psdi e viene presentata la richiesta d'arresto del senatore di Grandi autonomie e libertà Antonio Caridi. L'operazione fa emergere contatti con esponenti della massoneria.

Il voto di scambio. Oltre al caso dell'assessore della Lombardia Domenico Zambetti, ci sono stati altri casi di presunto voto di scambio. Il pentito Roberto Moio ha affermato di aver incontrato molti politici e di aver ricevuto 30 000 euro per appoggiare dei candidati. In Calabria alcuni politici sono stati sospettati di voto di scambio.

I rapporti con lo sport. «L'organizzazione criminale più attiva nella ricerca del controllo di società di calcio è la ’ndrangheta» (Franco Gabrielli, capo della Polizia alla Commissione parlamentare antimafia, 2017). Secondo il Procuratore Nicola Gratteri per la 'ndrangheta il calcio è uno strumento di potere, come disse in una intervista nel 2015[138], il calcio "minore" in particolare è uno strumento per acquisire consenso sulla popolazione[139] e difatti poi il 3 maggio 2017 anche il capo della Polizia Franco Gabrielli entra nel merito di fronte alla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e definisce la 'ndrangheta: "l'organizzazione criminale più attiva nella ricerca del controllo di società di calcio è la ’ndrangheta" che ne attesta la presenza nel mondo del calcio, nell'area reggina sin dagli anni '80 del XX secolo. Gabrielli continuerà citando le operazioni Lex e All Inside che attestano il coinvolgimento dei Pesce nella squadra locale di Rosarno e del Sapri Calcio e delle infiltrazioni del Crotone Calcio da parte dei Vrenna a cavallo tra gli anni '90 e 2000.

Diffusione in Italia. «è oggi la più robusta e radicata organizzazione, diffusa nell'intera Calabria e ramificata in tutte le regioni del Centro-Nord, in Europa e in altri Paesi stranieri cruciali per le rotte del narcotraffico» (Relazione 2008 della Commissione parlamentare antimafia del Presidente Francesco Forgione.) In tutte le 20 regioni d'Italia si trovano delle 'ndrine. Oltre alla Calabria forti insediamenti si trovano in tutto il Nord Italia, e centro Italia. In Sicilia e Campania dove già si trovano organizzazioni ben radicate è presente in virtù di alleanze fra le varie famiglie per la gestione e la stipulazione di affari illeciti. Secondo le forze di polizia italiane, al 2007 in Calabria operavano circa 155 famiglie chiamate 'ndrine che affiliano circa 6.000 persone dedite ad attività criminali, legate quasi sempre tra loro da vincoli familiari. Secondo un'indagine demoscopica del 2013 nella regione opererebbero 141 'ndrine di cui 122 anche nel resto d'Italia, in particolare Piemonte, Liguria, Lazio e Lombardia, e 113 nel mondo.

Calabria. Nella sua regione di origine il controllo della 'ndrangheta è amplissimo, estendendosi dal settore della sanità a quello dei trasporti e dei lavori pubblici, grazie a forti infiltrazioni nelle istituzioni, a partire dalla Regione, con complicità nelle forze politiche di ogni colore. In campo sanitario, si può citare il caso delle Asl di Palmi e Locri sciolte per mafia, quest'ultima per due volte, la seconda delle quali dopo l'omicidio del vicepresidente del Consiglio Regionale Francesco Fortugno, omicidio che gli inquirenti ritengono compiuto proprio a causa delle infiltrazioni criminali nella Sanità regionale. La 'ndrangheta ha un completo controllo dei lavori sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria, che le varie 'ndrine si dividono per aggiudicarsi gli appalti. Il porto di Gioia Tauro vede la presenza di numerosi traffici illeciti, in particolare il commercio della droga, ma anche il contrabbando dei tabacchi e il traffico dei rifiuti, ma le 'ndrine gestiscono in gran parte anche le attività lecite. Secondo il Magistrato calabrese Vincenzo Macrì (ex Direzione Nazionale Antimafia) la 'ndrangheta ha da una parte una vocazione mercantile esercitando commerci illeciti a livello internazionale (traffico di droga, armi, rifiuti tossici e via dicendo) dall'altra ha invece una vocazione istituzionale di controllo del territorio d'origine (sotto l'aspetto politico-amministrativo-istituzionale-imprenditoriale.) Secondo il rapporto semestrale 2008 della DIA nella regione vi erano 136 gruppi attivi così distribuiti:

Provincia e Numerosità

Reggio Calabria 73

Catanzaro 21

Crotone 21

Cosenza 14

Vibo Valentia 7

Italia settentrionale. L'insediamento della 'ndrangheta al nord Italia ha tutta una sua peculiarità rispetto alle altre organizzazioni mafiose. Difatti al nord vi sono delle vere e proprie filiali fisse delle cosche-madre della Calabria. Quindi un maggior controllo del territorio. Un esempio eclatante è la 'ndrina dei Mazzaferro: Giuseppe Mazzaferro controllava le "locali" (insieme di più 'ndrine) di Lombardia, Francesco Mazzaferro, con l'appoggio del cugino Rocco Lo Presti, boss di Bardonecchia, ormai potente in Piemonte fin dagli anni sessanta controllava Torino, e Vincenzo Mazzaferro Gioiosa Ionica, il luogo d'origine della 'ndrina. Le altre organizzazioni invece si stabiliscono al nord solo per il periodo dell'affare da stipulare. Questo fenomeno si è comunque esteso all'intero paese. Inizialmente scelgono paesi, anziché grandi città come basi operative per ricreare lo stesso ambiente d'origine e per un controllo migliore del territorio. Si potrebbe datare l'inizio della presenza mafiosa dagli anni cinquanta[152]. Il primo capobastone di rilievo ad arrivare al nord è Giacomo Zagari di San Ferdinando nel 1954, della piana di Gioia Tauro. Vive per un periodo a Gallarate e poi si trasferisce a Buguggiate. Molti 'ndranghetisti vengono mandati anche dallo stato in soggiorno obbligatorio. Questa procedura si rivelò controproducente, poiché i mafiosi ritrovarono lo stesso ambiente che lasciavano, e per il fatto che ormai ci si poteva spostare e comunicare velocemente in tutta Italia e tenere ugualmente i contatti con la Calabria. Negli anni settanta con il caso Teardo venne alla luce la presenza di cosche in Liguria: Asciutto, Grimaldi, Bruzzaniti, De Stefano (esponenti del calibro di Paolo Martino e Vittorio Canale), e altre. Nella regione esiste anche una struttura della 'ndrangheta di enorme rilievo: la "camera di compensazione", che ha il compito di gestire e organizzare le attività mafiose della regione con quelle dei "locali" di Nizza e della Costa Azzurra. A Desio si insediano gli Iamonte-Moscato. Ma è negli anni ottanta che la 'ndrangheta cominciò a investire al nord i proventi illeciti e al controllo dei mercati illegali. I mafiosi acquistarono immobili, alberghi, discoteche, imprese commerciali. Penetrarono nelle imprese che fallirono e successivamente se ne impossessarono. Nel 1985 a Buccinasco (MI) si svolse un incontro fra Sergi e Papalia per il controllo del traffico di eroina. Nel milanese sono gli anni di Giuseppe Flachi e Franco Coco Trovato. Negli anni novanta Cosa nostra lascia il passo alla 'ndrangheta che si insedia in modo ancora più preponderante. Ciò, è dovuto anche alle azioni giudiziarie da cui è stata colpita Cosa nostra, e al numero notevolmente inferiore di pentiti. La 'ndrangheta inoltre ha intrecci con la politica al nord, come dimostrato da alcuni episodi avvenuti in Lombardia, Liguria e Piemonte. Nel 1995 venne arrestato Rocco Lo Presti, storico boss mafioso di Bardonecchia e della Val di Susa e sciolto per mafia il consiglio comunale di Bardonecchia, primo caso al nord. Sempre in questo periodo vi furono le operazioni "Wall Street", "Count Down", "Hoca Tuca", "Nord - Sud", "Belgio" e "Fine" che arrestarono in Lombardia oltre 3 000 persone. Le 'ndrine colpite furono: Flachi, Trovato, Papalia, Sergi e Morabito e Paviglianiti. A seguito delle operazioni nel 1995 si avviò il maxiprocesso conclusosi nel 1997 con condanne pesanti verso numerosi imputati. Oggi le cosche nel sud di Milano (specie quelle dei Barbaro, Papalia e Sergi) monopolizzano appalti e subappalti nel campo edilizio e il traffico di cocaina. Si può affermare che sul territorio milanese sono presenti in modo diretto o rappresentate con alleanze tutte le 'ndrine calabresi. È molto forte anche la presenza delle cosche crotonesi, i Farao e Oliverio e gli Arena specialmente, come è emerso nel 2009 dall'operazione Isola a Monza e dai numerosi arresti di ciò che era la Locale di Lonate Pozzolo. I lavori per l'Expo 2015 di Milano sono tuttora ad altissimo rischio infiltrazioni delle cosche. Il 13 luglio 2010 viene scoperta una nuova struttura nel Nord Italia chiamata Lombardia che federa i locali del settentrione ma sempre alle dipendenze dei mandamenti calabresi. Il capo della Lombardia Carmelo Novella è stato ucciso a San Vittore Olona nel 2008 perché esigeva più indipendenza dalla Calabria, e fu sostituito il 31 ottobre 2009 con il platiota corsichese Pasquale Zappia in una riunione presieduta da Giuseppe Neri a Paderno Dugnano, incaricato anche di costituire una camera di controllo per gestire i vari locali lombardi. La relazione della DIA al Parlamento, riguardo al 1º semestre 2010, rileva "nel Nord, soprattutto in Lombardia, una costante e progressiva evoluzione della 'ndrangheta" che si muove attraverso "consenso" e "assoggettamento"; così determinando "un vero e proprio condizionamento ambientale che si è insinuato a tutti i livelli da quello sociale a quello economico e politico-amministrativo". Il 21 ottobre 2011, il presidente della Commissione antimafia Giuseppe Pisanu afferma che in Liguria la criminalità organizzata calabrese è ben radicata e si interessano del settore edilizio, appalti in genere, traffico di armi e droga, ciclo dei rifiuti, gioco d'azzardo lecito e illecito. A fine 2012 cade la giunta regionale della Lombardia a causa dei ripetuti indagati in consiglio regionale e per ultimo il coinvolgimento dell'assessore PDL Zambetti accusato di aver preso voti da Giuseppe D'Agostino dei Morabito-Bruzzaniti-Palamara alle ultime elezioni. Nella relazione annuale dell'antimafia del 2015 viene confermata l'attuale posizione di predominio nel Nord Italia rispetto ad altre associazioni criminali.

Le infiltrazioni nella Pubblica amministrazione italiana. Amministrazioni comunali. Per mafia sono state sciolte numerose Amministrazioni comunali calabresi. Dal 1991 al 2013 ben 58 consigli comunali: per lo più in provincia di Reggio Calabria (33), ma anche nelle province di Catanzaro (7), Crotone (3), Vibo Valentia (13) e Cosenza (2). Gli scioglimenti hanno avuto luogo in tempi diversi, e per alcune amministrazioni è successo più d'una volta. Limbadi è stato il primo comune d'Italia sciolto per mafia nel 1983: anche se ancora non esisteva la legge contro le infiltrazioni mafiose negli enti locali, a sciogliere l'ente fu l'allora presidente della repubblica Sandro Pertini perché risultò primo degli eletti nella lista civica Ramoscello d' olivo il Capubastuni Francesco Mancusoconosciuto e temuto in tutto il territorio calabrese come "Don Ciccio", latitante durante la campagna elettorale e al momento del voto, sorvegliato speciale di pubblica sicurezza con precedenti penali per vari reati, inoltre all'interno del consiglio comunale risultavano eletti soggetti ritenuti pienamente inseriti nell'organizzazione criminale del Mancuso. Il consiglio venne pertanto sciolto per motivi di ordine pubblico ad appena una settimana di distanza dalle elezioni amministrative. Anche al nord alcuni comuni hanno subito tale sorte. Il primo comune del nord Italia sciolto per presunte infiltrazioni mafiose fu Bardonecchia, in Piemonte nel 1995. Nel novembre 2010, per la prima volta un comune lombardo (Desio, in Brianza) viene sciolto il consiglio comunale per evitare il commissariamento per infiltrazioni mafiose. Nel marzo 2011 Bordighera è il primo comune ligure che viene sciolto per infiltrazioni mafiose della famiglia Pellegrino; e successivamente viene commissariato Ventimiglia per evitarne lo scioglimento. Il 3 febbraio 2012 anche il comune ligure di Ventimiglia viene sciolto per mafia, insieme a quello di Bordighera (Provincia di Imperia) e Leini (Provincia di Torino). Nel maggio 2012 viene sciolto per 'ndrangheta anche il comune piemontese di Rivarolo Canavese. Il 9 ottobre 2012 viene sciolto per la prima volta in Italia un capoluogo di provincia: Reggio Calabria. Il 16 ottobre 2013 viene sciolto il primo comune per mafia in Lombardia: Sedriano. Il 20 aprile 2016 viene sciolto Brescello, il primo comune della regione Emilia Romagna. Il 22 novembre 2017 in Calabria vengono sciolti 5 comuni, tra cui per la terza volta il comune di Lamezia Terme. Nel 2018 Platì viene sciolto per la terza volta e Limbadi per la seconda.

Africo (RC) - (2003), (2014)

Amantea (CS) - (luglio 2008) - DPR annullato

Ardore (RC) - (2013)

Badolato (CZ) - (2014)

Bagaladi (RC) - (2012) DPR annullato dal TAR

Bagnara Calabra - (RC)- (2015)

Bardonecchia (TO) - (1995)

Bordighera (IM) - (marzo 2011) - DPR annullato

Borgia (CZ) - (2010)

Botricello (CZ) - (2003) - DPR annullato

Bova Marina (RC) - (2012, 2017)

Bovalino (RC) - (2015 - 2016)

Brancaleone (RC) - (2017)

Brescello (RE) - (2016)

Briatico (VV) - (2003, gennaio 2012, maggio 2018)

Calanna (RC) - (2004)

Camini (RC) - (1995)

Canolo (RC) - (2017)

Careri (RC) - (2012)

Casignana (RC) - (2013)

Cassano allo Ionio (CS) - (2017)

Cirò (KR) - (2001), (2013) DPR 2013 annullato dal TAR

Cirò Marina (KR) - (2018)

Condofuri (RC) - (2010)

Corigliano Calabro (CS) - (2011)

Cosoleto (RC) - (1997)

Cropani (CZ) - (2017)

Delianuova (RC) - (1991)

Fabrizia (VV) - (2009)

Gioia Tauro (RC) - (1993, 2008, 2017)

Guardavalle (CZ) - (2003)

Isca sullo Ionio (CZ) - (1992)

Isola di Capo Rizzuto (KR) - (2003, 2017)

Joppolo (VV) - (2014) (DPR annullato dal TAR del Lazio e dal Consiglio di Stato)

Lamezia Terme (CZ) - (1991, 2002, 2017)

Laureana di Borrello (RC) - (2017)

Lavagna (GE) - (2017)

Leini (TO) - (2012)]

Limbadi (VV) - (1983- sciolto prima dell'esistenza della legge del 1991 sullo Scioglimento dei consigli comunali e provinciali per infiltrazione mafiosa, 2018)

Marcedusa (CZ) - (2001)

Marina di Gioiosa Ionica (RC) - (2011, 2017)

Melito di Porto Salvo (RC) - (1991, 1996, 2013)

Mileto (VV) - (2012)

Monasterace (RC) - (2003) - DPR annullato

Molochio (RC) - (1993, 1995)

Mongiana (VV) - (luglio 2012)

Montebello Jonico (RC) - (2013)

Nardodipace (VV) - (dicembre 2011, dicembre 2015)

Nettuno (RM) - (novembre 2005)

Nicotera (VV) - (2005, 2010), (2016)

Parghelia (VV) - (2007)

Petronà (CZ) - (2017)

Platì (RC) - (2006, 2012, 2018)

Reggio Calabria - (9 ottobre 2012)

Ricadi (VV) - (2014)

Rivarolo Canavese (TO) - (maggio 2012)

Rizziconi (RC) - (30 giugno 2000), (27 ottobre 2016)

Roccaforte del Greco (RC) - (1996, 2003, 2010)

Roghudi (RC) - (1995)

Rosarno (RC) - (1992, 2008)

Samo (RC) - (gennaio 2012)

San Calogero (VV) - (2013)

San Ferdinando (RC) - (1994, (2010), 2016)

San Gregorio d'Ippona (VV) - (aprile 2007, maggio 2018)

San Luca (RC) - (2000- 2013)

San Procopio (RC) - (2010)

Sant'Andrea Apostolo dello Ionio (CZ) - (1991) - Amministrazione reintegrata

Sant'Ilario dello Ionio (RC) - (2012)

Sant'Onofrio (VV) - (8 gennaio 2009)

Santo Stefano in Aspromonte (RC) - (1998)

Scalea (CS) - (2014)

Scilla (RC - 2018)

Sedriano (MI) - (2013)

Seminara (RC) - (1991, 2007)

Siderno (RC) - (2013, 2018)

Sinopoli (RC) - (1997)

Sorbo San Basile (CZ) - (2017)

Soriano Calabro (VV) - (2007)

Stefanaconi (VV) - (1992)

Strongoli (KR) - (2003, 2018) - DPR 2003 annullato

Taurianova (RC) - (1991, 2009, 2013)

Tropea (VV) - (2016) (DPR annullato dal TAR del Lazio).

Ventimiglia (IM) - (2012) (DPR annullato dal Consiglio di Stato)

ASL. In base all'art. 143 T.U.E.L., dal 1991 sono state sciolte tre aziende sanitarie calabresi per infiltrazioni della 'ndrangheta.

Azienda sanitaria di Locri (RC) - (2006)

Azienda sanitaria di Reggio Calabria (2008)

Azienda sanitaria di Vibo Valentia (2010)

Magistratura. Neanche la magistratura è immune alle infiltrazioni della 'ndrangheta. Diversi sono stati i giudici accusati di collusione mafiosa e condannati come ad esempio: Vincenzo Giglio. Ex giudice presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. È stato arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa in quanto rivelava segreti investigativi ad alcuni esponenti della 'ndrangheta. Giancarlo Giusti. Ex giudice presso il Tribunale di Palmi. Ha assolto alcuni esponenti della 'ndrangheta in cambio di prestazioni sessuali e vacanze. Francesco Forgione (ex presidente della Commissione Parlamentare Antimafia) nel suo saggio di inchiesta Porto franco. Politici, manager e spioni della repubblica della 'ndrangheta ha affermato che alcuni magistrati calabresi sarebbero strettamente imparentati con esponenti di spicco della 'ndrangheta. I magistrati in questione hanno reagito a queste accuse querelando per diffamazione l'autore del saggio, il quale ha replicato dicendo che i fatti narrati sono verificati e che queste querele rendono ancora più note le discutibili frequentazioni dei giudici, che ritenendo assolutamente falso e gravemente diffamatorio il contenuto del saggio che li riguarda, hanno proposto azione giudiziaria nei confronti di Forgione, che è stato riconosciuto colpevole e condannato al risarcimento di 100000 euro. La sentenza ha inoltre dichiarato falso e diffamatorio il contenuto del saggio di Forgione, per l'"assenza del presupposto della verità, anche solo putativa, e per il discorso, evidentemente allusivo". La PM Beatrice Ronchi ha duramente criticato l'operato dei magistrati Franco Mollace (DIA) e Alberto Cisterna per non avere attaccato la cosca Lo Giudice, il pentito Antonino Lo Giudice ha detto di aver fatto regali e favori vari ai due magistrati.

Nel resto del mondo. «Il contagio delle 'ndrine va da Rosarno all'Australia, da San Luca a Duisburg. Molecole criminali che schizzano, si diffondono e si riproducono nel mondo. Una mafia liquida che si infila dappertutto, riproducendo, in luoghi lontanissimi da quelli in cui è nata, il medesimo antico, elementare ed efficace modello organizzativo. Alla maniera delle grandi catene di fast food, offre in tutto il mondo, l'identico, riconoscibile, affidabile marchio e lo stesso prodotto criminale» (Relazione 2008 della Commissione parlamentare antimafia del Presidente Francesco Forgione.) La 'ndrangheta, inizia a stabilirsi all'estero fin dalle emigrazioni di inizio secolo, quando ancora non era chiamata con l'attuale nominativo ma Mano nera o Picciotteria. Si segnalano 19 'ndrine in Australia, 14 in Colombia, 13 in Germania e 10 in Canada ed alcune opererebbero anche in Thailandia, Antille Olandesi e Togo. Molto forte è la presenza in Australia, Canada e Germania. In Australia, dai proventi dei sequestri nella prima metà del Novecento nasce una fervente attività nella coltivazione di campi di marijuana. Negli anni cinquanta proprio in Canada e Australia nasce il cosiddetto Siderno Group, un consorzio di famiglie originarie di Siderno con collegamenti anche con elementi di Cosa nostra statunitense come Frank Costello dediti al traffico di eroina e di armi. L'attività più intensa si svolse tra gli anni ottanta e novanta ed è solo nell'ultimo decennio del 900 appunto che le forze dell'ordine arrestano i componenti del Siderno Group. Quando si inserisce nel traffico di cocaina negli anni ottanta e comincia a controllarne i traffici si sposta in Spagna, Portogallo e Paesi Bassi fino ad arrivare in Colombia e a trattare direttamente con i Narcos e con l'AUC di Salvatore Mancuso Gómez. Viene individuata in tutto il Sud America: Perù, Cile, Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Venezuela e Bolivia. Negli anni novanta si scopre che i proventi illeciti vengono riciclati in tutta Europa, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi e nei paesi dell'Est: Russia, Ungheria, Polonia e Romania nell'acquisto di immobili, esercizi commerciali, imprese. Molte 'ndrine infine in Austria e in Svizzera hanno conservato i loro capitali, e, soprattutto in quest'ultima, ci sono stati anche svariati traffici di armi. Negli ultimi anni, le rotte del narcotraffico si sono spostate in Africa occidentale poiché più controllato il traffico diretto Europa-Sud-America. Sono stati sequestrati nel 2007 250 chili di cocaina provenienti dal Sud America e in transito a Dakar in Senegal che sarebbero dovuti arrivare in Italia per conto dei Morabito e della Locale di Africo, successive operazioni hanno visto le 'ndrine operative in Togo e Costa d'Avorio. Nel continente, la 'ndrangheta sembra anche abbia commerciato in diamanti nel Sudafrica, e smaltito rifiuti tossici principalmente in Somalia, ma anche in Kenya e nella Repubblica Democratica del Congo dove Antonio Nicaso, in un articolo su l'Espresso parla anche di compravendita di Coltan in cambio di armi con le milizie della regione. Ad oggi, secondo il rapporto Europol 2013, ha un ruolo dominante nel mercato europeo della cocaina grazie ai rapporti intessuti in passato con i produttori.

Rapporti con altre organizzazioni. Altre mafie. I rapporti di collaborazione della 'ndrangheta con le altre mafie è sempre stato intenso soprattutto per il traffico di droga ma anche per il contrabbando di sigarette e le altre attività criminose. Ha avuto sempre un rapporto di reciproco rispetto, non intromettendosi mai in guerre fra cosche delle altre organizzazioni. Ha avuto e ha rapporti con tutte le mafie italiane: Cosa nostra, Camorra, Banda della Magliana, Sacra Corona Unita, Basilischi. Dell'organizzazione pugliese è anche responsabile della creazione, dal 1993 difatti, si viene a sapere che fu fondata da Giuseppe Rogoli, per volere di Umberto Bellocco (capobastone dell'omonima 'ndrina di Rosarno), e che inoltre all'interno della Sacra Corona Unita vi fossero altri elementi appartenenti alla cosca calabrese come: Giuseppe Iannelli, Giosuè Rizzi, Cosio Cappellari, Antonio e Riccardo Modeo. Anche la mafia lucana nasce come una 'ndrina e dai calabresi dipende, è protetta e aiutata. Ottenuto difatti il nulla osta dalla 'ndrina dei Pesce di Rosarno, si formò un gruppo di malavitosi operante in tutta la Regione con a capo Giovanni Gino Cosentino. Quella organizzazione ambiva a diventare la quinta mafia del sud Italia. Ha rapporti anche con le organizzazioni criminali straniere. Da quando, negli anni novanta, ha intensificato la sua attività nel narcotraffico ha ormai rapporti diretti con i narcos colombiani, mentre per l'eroina fin dagli anni ottanta sfrutta i canali con la mafia turca. Dal 2008 con l'Operazione solare si è scoperto che alcune 'ndrine hanno stretto rapporti anche con organizzazioni messicane, quali i Los Zetas[248]. Nel traffico di esseri umani si appoggiano a malavitosi nigeriani e alla mafia albanese. In Canada vi sono contatti con la criminalità della famiglia Rizzuto e gli Hells Angels.

Massoneria italiana. «La ‘ndrangheta non esiste più!.... Una volta, a Limbadi, Nicotera, Rosarno c'era la ‘ndrangheta!. Adesso la ‘ndrangheta fa parte della Massoneria, diciamo è sotto la massoneria. Ha però le stesse regole!... La ‘ndrangheta non c'è più è rimasta la massoneria e quei quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta!...» (Pantaleone Mancuso durante un'intercettazione ambientale resa pubblica a marzo 2013). La 'ndrangheta, seppur in modo collaterale, già negli anni sessanta aveva rapporti con la massoneria deviata, nella misura in cui questa faceva da tramite con le istituzioni. Il fine era instaurare rapporti di cointeressenza con la classe politica, attraverso la clientela saldata dal voto di scambio. Il legame fra le due organizzazioni si rafforza negli anni settanta, dopo la prima guerra di 'ndrangheta, quando alcuni capibastone entrano in logge deviate. Così i guadagni ottenuti aumentarono, potendo contattare senza intermediari personaggi del mondo bancario, della magistratura, dell'imprenditoria e delle forze dell'ordine. Questo nuovo modo di agire della mafia calabrese sembra sia stato voluto dal vecchio capobastone Girolamo Piromalli e dalla nuova promessa Paolo De Stefano. Chi era contrario al progetto, come Antonio Macrì e Domenico Tripodo, riteneva che la 'ndrangheta non dovesse affiliarsi ad altre associazioni, nel rispetto delle tradizionali regole del codice mafioso. Questi furono eliminati e per ovviare al problema morale Piromalli fonda la Santa, una sorta di ultimo grado gerarchico dell'organizzazione; in questo modo faceva credere agli affiliati che, una volta avuto accesso a questa posizione, sarebbe stato possibile affiliarsi alla massoneria. Nasce così, attraverso «l'ibridazione tra massoneria deviata e alcune cuspidi della 'ndrangheta, [...] una vera e propria massomafia sovraordinata alla normale 'ndrangheta, dotata di una organizzazione e di un sistema di regole autonome». Tra i capibastone presumibilmente entrati nella massoneria deviata vi sono: Santo Araniti, Paolo De Stefano, Natale Iamonte, Antonio Nirta, Francesco Nirta, Giuseppe Nirta. Nel 1992 con l'operazione Olimpia si ebbero maggiori informazioni; si scoprirono le persone che fecero accedere i santisti nella massoneria calabrese: il notaio Pietro Marrapodi, Pasquale Modafferi e il capo-loggia Cosimo Zaccone. A suggerire l'esistenza, negli ultimi anni, di un livello occulto della 'ndrangheta è stata un'intercettazione telefonica risalente alla fine del 2007. I carabinieri registrano, tramite una microspia, una conversazione tra Sebastiano Altomonte (originario di Bova Marina) e sua moglie. Altomonte in tale frangente sottolinea che «c'è una che si sa e una che non la sa nessuno». E poi, rimarcando il concetto: «c'è la visibile e l'invisibile [...] che non la sa nessuno, solo chi è invisibile». Questa entità non ha mai trovato conferme giudiziarie. Tuttavia, le parole di Sebastiano Altomonte, successivamente condannato per associazione mafiosa, rendono plausibile un attuale accostamento tra potere mafioso e ambienti massonici. Il 7 novembre 2012 da un'inchiesta della DDA di Catanzaro emerge il presunto coinvolgimento della cosca per i lavori di ricostruzione dopo il terremoto in Abruzzo e la messa in opera a Roma della rete di fibre ottiche per internet e del coinvolgimento con Paolo Coraci fondatore di una loggia massonica che avrebbe chiesto il sostegno elettorale per D'Ambrosio in cambio di appalti nel Lazio, Lombardia e Veneto. Nello stesso anno l'inchiesta Saggezza della DDA di Reggio Calabria è emerso che il legame con la massoneria italiana sarebbe molto forte, al punto di costituire una via di infiltrazione ai più lati vertici della politica e dell'economia italiana. Il 17 novembre 2013 il Grande Oriente d'Italia sospende per la prima volta nella sua storia una loggia, nella fattispecie la loggia Rocco Verducci con sede a Gerace, e con il tempio a Siderno per un possibile coinvolgimento di persone affiliate irregolarmente e collegate alla criminalità organizzata calabrese. La scelta della sospensione è stata presa dopo l'ultima inchiesta giudiziaria: l'operazione Saggezza, in cui furono arrestate persone affiliate sia alla 'ndrangheta che alla loggia. Il 4 gennaio 2016 si conclude l'operazione Kyterion 2 diretta dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro che porta all'arresto di 16 presunti affiliati ai Grande Aracri di Cutro, dalle indagini si evince presunti tentativi di collegarsi ad esponenti del Vaticano e della Corte di Cassazione, nonché l'intrusione in ordini massonici e cavalierati da parte del capo-locale Nicolino Grande Aracri. Dall'operazione Mammasantissima del Ros dei Carabinieri conclusa il 15 luglio 2016 emergerebbe il verbale del 2014 dell'ex Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Giuliano Di Bernardo (1990 - 1993), ora Gran Maestro della Gran loggia regolare d'Italia, il quale riferisce al pubblico ministero Giuseppe Lombardo le confidenze di Ettore Loizzo, ai tempi vice del Gran Maestro: «Nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente, che io indissi con urgenza nel '93 dopo l'inizio dell'indagine del dottor Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla 'ndrangheta. Gli dissi subito: "E cosa vuoi fare di fronte a questo disastro?". Lui mi rispose: "Nulla". Io, ancora più sbigottito, chiesi perché. Lui mi rispose che non poteva fare nulla perché altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie... Faccio presente che la questione calabrese era molto più preoccupante in quanto la massoneria calabrese era ben più ramificata di quella siciliana». Da luglio ha iniziato a parlare dei rapporti tra massoneria e 'ndrangheta anche il pentito nonché massone Cosimo Virgiglio. Racconta che la massoneria fortemente politicizzata si serve della criminalità calabrese per il controllo dei flussi elettorali mentre essa per il riciclaggio di denaro. Secondo il pentito la loggia di Reggio Calabria sarebbe suddivisa in due parti: una pulita e una occulta; della seconda farebbero parte gli 'ndranghetisti. Racconta anche della presenza nelle logge di esponenti dei Piromalli e dei De Stefano. La commistione tra elementi criminali, con dote di Santa e massoni in gergo massonico viene definito "varco" (in riferimento alla Breccia di Porta Pia); e tecnicamente sarebbe il mondo massonico ad entrare nelle file della 'ndrangheta.

Le operazioni di polizia. In Italia. Sono state effettuate diverse operazioni di polizia in Italia, soprattutto a partire dalla fine del XX secolo. Nel resto del mondo. Sono state svolte numerose operazioni internazionali di polizia in collaborazione in particolare con forze dell'ordine europee, statunitensi e sudamericane. Le ultime, del 2017 sono state le operazioni Buena ventura e Stammer per traffici internazionali di cocaina della Colombia, l'operazione Provvidenza in cui l'organizzazione aveva appoggi anche in New Jersey. Ricevette grossa eco mediatica l'operazione Solare del 2008 in collaborazione con gli Stati Uniti per sgominare un traffico di droga che gli Aquino-Coluccio avevano con i messicani dei Los Zetas. In collaborazione con le forze spagnole invece è degna di nota l'operazione Overting del 2015. In Australia sin dagli anni '80 le forze dell'ordine in autonomia hanno svolto numerose operazioni contro la malavita calabrese; negli anni '90 da una collaborazione con la National Crime Authority nascerà l'operazione Cerberus. L'ultima grande operazione sul suolo australiano è avvenuta nel 2008 a Melbourne con il sequestro del più grande carico di Ecstasy della nazione. L'operazione internazionale più degna di nota fu però quella nata negli anni '90 in Canada che scoprì il cosiddetto Siderno Group, 'ndrine dell'area della Locride che commerciava in droga dal Canada verso l'Europa e verso l'Australia con stupefacente proveniente da Bolivia, Venezuela, Brasile, Cile e Perù e Colombia. Con le operazioni Nasca, Timpano, Revolution, Acero-Krupy e Apegreen si dimostra quanto siano importanti i porti di Anversa, Rotterdame Amsterdam per il traffico internazionale di droga.

Faide. «Le faide sono incubatrici di violenza e riesplodono quando meno te lo aspetti.» (Nicola Gratteri "Fratelli di sangue"). Nel corso della sua storia, la 'ndrangheta ha visto l'esplodere di varie guerre tra clan, alcune di queste caratterizzate da episodi di estrema violenza; non tutte le guerre hanno visto come luogo di scontro la sola regione Calabria ma talvolta, soprattutto a causa della vasta diffusione della 'ndrangheta, si sono verificate violenze in altre regioni italiane e anche all'estero. Qui sotto c'è un elenco in ordine cronologico delle principali faide.

Faida di Sinopoli: nasce nel 1945 con l'omicidio di Giuseppe Filleti tra gli Alvaro-Violi-Macrì e i Filleti-De Angelis-Orfeo, ma bisogna attendere il 1964 per attendere un nuovo morto: Antonio De Angelis e la faida continuerà fino alla morte di Giovanni Orfeo il 5 settembre 1978.

Faida di Rosarno: inizia nel 1949 con l'omicidio di Giuseppe Scriva per mano di Salvatore Cunsolo; la faida si concluderà senza vincitori né vinti.

faida di Castellace faida nata nel 1954 e durata fino al 1978 tra i Barbaro e i Mammoliti, e vinta da questi ultimi.

Faida di Cittanova: originatasi probabilmente nel 1964 quando venne ucciso un parente della 'ndrina dei Facchineri i quali risposero uccidendo un membro degli Albanese. La faida continuò fino al 1980 e vide la sconfitta dei Facchineri a opera degli Albanese-Raso-Gullace, si contarono, alla fine, 32 omicidi.

Faida di Ciminà: a partire dal 4 giugno 1966 con l'omicidio di Francesco Barillaro, capobastone di Ciminà, scoppia la cosiddetta faida di Ciminà in cui vengono coinvolti anche i Varacalli. Una faida con molti morti che arrivò anche a Torino il 14 novembre 1981 con l'omicidio di Rocco Zucco.

Faida di Locri: ebbe inizio nel 1967 a causa dell'omicidio di Domenico Cordì compiuto per punire uno sgarro verso Antonio Macrì. Da allora le cosche Cataldo e Macrì si sono combattute a più riprese fino agli arresti compiuti nel 1999 che hanno, sembra, calmato la situazione.

Faida di Seminara: scoppiò il 17 settembre 1971 tra i Pellegrino e i Gioffrè.

Faida di Crotone: scoppia nel 1973 tra la famiglia di Luigi Vrenna detto U Zirru e i Feudale.

Prima guerra di 'ndrangheta: scoppiata nel 1974, ebbe l'aspetto di un vero e proprio scontro tra la vecchia generazioni di ndranghetisti e le nuove leve desiderose di mutare attività criminali; provocò circa 300 morti.

Faida di Palmi: scoppiata nel 1977 tra i Condello e i Gallico e durata più di un ventennio.

Faida dei boschi: scoppiata il 22 ottobre 1977 nella zona ionica a cavallo tra le province di Reggio Calabria e Catanzaro ebbe termine negli anni novanta.

Guerra di Cosenza: scontro di grandi dimensioni e di lunga durata che vide protagoniste molte cosche della provincia di Cosenza, tra cui i Pino-Sena e i Perna-Pranno-Vitelli. Scoppiò alla morte del capobastone Luigi Palermo nel 1977 ed ebbe termine alla fine degli anni ottanta dopo decine di morti.

Faida di Gioiosa Jonica fra gli Aquino e i Mazzaferro negli anni '80.

Faida di Motticella: esplode a Motticella, frazione di Bruzzano Zeffirio e Africo in seno alla famiglia Mollica-Morabito-Palamara-Scriva nel 1985 per la gestione del sequestro della farmacista Concettina Infantino. Uno dei due clan si sarebbe intascato dei soldi senza riferire niente all'altro ed inoltre il rifugio in cui fu nascosta era sito in un terreno di una cosca che non fu pagata per aver dato la disponibilità del luogo. Si conclude nel 1990 con 50 morti tra cui per la prima volta per l'area di Africo anche una donna e l'intervento di Giuseppe Morabito e Antonio Pelle[291] per riprendere nel 2005 fino al 2007.

Seconda guerra di 'ndrangheta: combattuta tra il 1985 e il 1991, nacque nella città di Reggio Calabria, provocò più di 500 morti.

Faida di Gioiosa Jonica, stavolta fra gli Ursini e gli Ierinò, alla fine degli anni '80.

Seconda faida di Palmi, esplosa il 25 settembre 1986 tra i Parrello e i Piccolo con l'omicidio del capocosca Gaetano Parrello a causa di un presunto sgarro.

Faida di Rizziconi, esplosa tra gli Ascone e i Crea.

Faida di San Ferdinando tra i Thomas e i De Vita.

Faida di Drosi di Rizziconi tra i Maisano e gli Stillitano.

Faida di Gioia Tauro tra i Gerace e gli Italiano[292].

Faida di Stefanaconi, è una faida scaturita dai Patania e i Piscopisani, e in cui sono coinvolti i Bartolotta-Petrolo alla fine degli anni '80 e riesplosa nel 2011. Il 17 settembre 2011 viene ucciso il capo Fortunato Patania, il giorno dopo di Michele Mario Fiorillo a Francica. Il 20 novembre 2012 si conclude l'operazione Gringiache arresta 13 persone coinvolte nello scontro.

Faida di Siderno: combattuta a partire dal 1987 quando la 'ndrina dei Costa volle rendersi autonoma dalla potente 'ndrina dei Commisso. Ebbe termine nei primi anni novanta dopo più di 50 morti e vide un forte ridimensionamento dei Costa, sconfitti dai Commisso che ebbero l'aiuto di altre cosche reggine come i Molè e i Piromalli. Durante la faida un uomo dei Costa venne ucciso a Toronto e un Carabiniere assoldato come killer dai Costa venne ritrovato bruciato e decapitato in un'auto.

Seconda faida di Cittanova: emerge dal 1987 e termina nel 1991 con la vittoria dei Facchineri sui Raso-Albanese-Gullace.

Faida di Taurianova: scoppiata nel 1989 e terminata nel 1991 dopo 32 omicidi, ha visto scontrarsi la 'ndrina dei Neri con le altre famiglie di Taurianova. Scalpore, per le modalità, fece l'omicidio di Giuseppe Grimaldi, la cui testa venne tagliata e usata come bersaglio, l'episodio si svolse di fronte a diversi testimoni.

Faida di Roghudi, negli anni '90 a Roghudi scoppia una faida tra gli Zavettieri e i Pangallo-Maesano-Favasuli-Verno, in cui finiscono coinvolti anche gli Iamonte per l'omicidio dell'8 aprile 1992 di Giacomo Falcone, imprenditore amico di questi. Dopo 14 morti la Provincia riesce a far concludere la faida. La faida si conclude nel 1998 con 50 morti.

Faida di Laureana di Borrello: scaturisce all'inizio degli anni novanta tra le due fazioni Albanese-Cutellè-Tassone e i Chindamo-Lamari-D'Agostino e si risolve con una pace voluta dai Mancuso di Limbadi dai Pesce-Piromalli e Bellocco per l'inconcludenza del conflitto.

Faida di Sant'Ilario: A Sant'Ilario dello Ionio il 15 agosto 1990 viene ucciso Emanuele Quattrone (mandato dai De Stefano per proteggerlo dalla faida con gli Imerti) e secondo l'operazione Primaluce si apre una nuova faida con i Belcastro-Romeo che vogliono distaccarsi dai D'Agostino.

Faida di Oppido Mamertina: dura sei anni, dal 1992 al 1998 e dopo una tregua riesplode nel 2011, e dovrebbe essersi conclusa nel novembre 2012 con l'operazione Erinni delle forze dell'ordine (novembre 2013). Da una parte sono schierati i Ferraro-Gugliotta e dall'altra i Mazzagatti-Polimeni con il coinvolgimento in corso dei Mammoliti a favore dei primi.

Faida di San Luca: scoppiata nel 1991, ha visto contrapposte le 'ndrine dei Nirta-Strangio e quelle dei Pelle-Vottari. La guerra ha determinato la famosa Strage di Duisburg con l'omicidio di 6 persone e vasto eco internazionale. La faida si è conclusa, ma si teme un suo ripresentarsi.

Faida di Cassano allo Ionio: scontro nato alla fine degli anni novanta e ancora in corso, vede contrapposte la 'ndrina dei Forastefano e i rom di Lauropoli per l'egemonia nella zona di Sibari.

Faida di Cutro: combattuta tra la fine degli anni '90 e i primi del 2000, ha visto scontrarsi i Dragone e i Grande Aracri. La guerra fece diversi morti anche nella zona di Reggio Emilia dove i clan cutresi si sono insediati da diverso tempo.

Faida di Isola: scoppiata nel 2000 tra gli Arena e i Nicoscia. Fece particolarmente scalpore l'omicidio del boss Carmine Arena, ucciso in un agguato, con tre colpi di bazooka.

Faida di Lamezia Terme: prese il via nel 2002 e si protrae a fasi alterne fino al 2011, cosche protagoniste sono i Cerra-Torcasio-Gualtieri e gli Iannazzo-Giampà, la faida ha comportato numerose perdite tra i Torcasio-Cerra-Gualtieri che infatti vengono considerati il clan perdente.

Faida delle Pre serre vibonesi: è una faida scoppiata nel 2002 tra i Loielo e il loro sottogruppo degli Emanuele, di cui questi risultati vincenti, i quali ora controllano i comuni di Dasà, Acquaro, Soriano Calabro, Vazzano e Pizzoni.

Seconda faida dei boschi: scoppiata nel 2008 e conclusa nel 2013 grazie all'operazione Confine, tra i Vallelunga, Novella, Sia, Tripodi, Procopio, Lentini contro Gallace, Ruga, Metastasio.

Faida Paola/Fuscaldo: faida in atto tra il clan Serpa contro i Martello per il controllo del territorio di Paola.

LA COSA NOSTRA. LA PRIMA MAFIA SICILIANA.

Lo Stato c'è ed è più forte della mafia. Il tentativo di ricomporre la Cupola dopo la morte di Totò Riina è stato scoperto e bloccato sul nascere da Carabinieri che hanno arrestato il nuovo capo di Cosa nostra eletto lo scorso 29 maggio. Un segnale forte di controllo del territorio da parte pm, scrive Lirio Abbate il 4 dicembre 2018 su L'Espresso". La mafia voleva ricomporre la commissione di Cosa nostra, e pochi giorni dopo l'anniversario della strage Falcone nominava il 29 maggio scorso il nuovo capo, Settimo Mineo, 80 anni, che succede a Salvatore Riina. Oggi è stato arrestato dai carabinieri su richiesta dei pm della Procura antimafia di Palermo, e con lui i nuovi componenti della cupola. Sono 46 gli arresti. La commissione di Cosa nostra ha il ruolo strategico di indirizzare le mosse della mafia, e decidere anche delitti importanti. Il nuovo tentativo di ricomporre la Cupola è stato subito scoperto e bloccato sul nascere dagli investigatori dell'Arma. Significa che il controllo del territorio da parte dello Stato c'è a Palermo, ed è forte, più forte della mafia. Il nuovo tentativo di ricomporre la Cupola è stato subito scoperto e bloccato sul nascere dagli investigatori dell'Arma. Significa che il controllo del territorio da parte dello Stato c'è a Palermo, ed è forte, più forte della mafia. Il resoconto del vertice della nuova Cupola è stato raccolto dai militari che hanno registrato una conversazione fra il boss di Villabate e il suo autista, parlano mentre sono in auto, poche ore dopo l'importante vertice mafioso. Una rivelazione che ha consentito al procuratore Francesco Lo Voi e ai suoi pm di trovare riscontri per tracciare la mappa del potere mafioso a sei mesi dalla morte di Riina. Settimo Mineo ha una lunga militanza in Cosa nostra, è stato imputato al primo maxi processo, arrestato da Falcone dopo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta. L'ultima volta era stato arrestato nel 2006, insieme al boss Nino Rotolo, quando avevano tentato un "golpe" in Cosa nostra. Mineo è considerato l'uomo degli affari, del controllo degli appalti illeciti e dei contatti con la mafia americana. E in America nelle scorse settimane Mineo era pronto a tornare. Gli era stato pure rilasciato il passaporto. Il suo prossimo viaggio, bloccato da un problema di visto, è uno dei presupposti del fermo eseguito oggi. Cosa nostra si riorganizza con il pizzo, la droga, le scommesse sportive. Tentando d darsi un nuovo governo criminale, subito abbattuto dall'azione giudiziaria.

Giuseppe Pignatone: Cosa nostra ha perso. La mafia dei corleonesi, la più importante e sanguinaria, è stata sconfitta. Il procuratore spiega perché, scrive Lirio Abbate il 26 dicembre 2018 su "L'Espresso".  Chi vive in Sicilia e conosce da quarant’anni gli odori e i sapori di Palermo, chi ha visto i cattivi protagonisti di stagioni devastanti e atroci che hanno modificato la città, e per questo ne riconoscono la puzza del fango che ha imbrattato i siciliani, vede pure come la mafia e il metodo mafioso oggi hanno cambiato pelle e fisionomia, scivolando verso il basso. Per dirla con le parole di un importante magistrato, Giuseppe Pignatone, procuratore di Roma, che per oltre quarant’anni ha coordinato inchieste contro i boss a Palermo e a Reggio Calabria, e i processi che ha istruito hanno portato in carcere centinaia e centinaia di mafiosi e loro favoreggiatori per scontare secoli di carcere, ecco, oggi si può dire che è finita un’epoca criminale, perché «Cosa nostra corleonese è stata sconfitta».

La disfatta dei “militari”. È dunque la fine di un’epoca, quella che ha sconvolto un Paese, dove sono stati rivoluzionati governi, deviati percorsi politici e finanziari, modificato il dna degli abitanti, in particolare dei familiari delle vittime innocenti di una mafia che si è opposta allo Stato, quello con il quale in precedenza è andata a braccetto, e poi gli ha fatto la guerra, nel tentativo di rifare pace. «Sono profondamente convinto», dice il procuratore Giuseppe Pignatone «che Cosa nostra corleonese, quella che ha fatto le stragi, è stata sconfitta dallo Stato». È un’affermazione forte, decisa, e il magistrato spiega questa svolta giudiziaria parlando agli studenti della facoltà di Giurisprudenza dell’università “La Sapienza” durante una Lectio magistralis che si è svolta il 28 novembre scorso. È un resoconto motivato, analitico, in cui Pignatone facendo sempre riferimento a Cosa nostra corleonese tiene a sottolineare che è stata «sconfitta dallo Stato, cioè da tutti noi». «La fine di questa mafia corleonese si può segnare anche con una data che è l’11 aprile 2006 giorno dell’arresto di Bernardo Provenzano, latitante da 43 anni. Tutti ci siamo chiesti come si può restare latitante per così lungo tempo, ma la cosa più importante è che questa latitanza sia finita». Il vecchio padrino corleonese che aveva traghettato la mafia stragista di Riina a quella invisibile durante la reggenza al vertice di Cosa nostra, con il suo arresto effettuato da donne e uomini della Polizia di Stato guidati da Renato Cortese, attuale questore a Palermo, chiude di fatto l’esistenza dei corleonesi e quindi della mafia ad essa legata.

Non c’è un nuovo Capo. Perché è la fine di quella Cosa nostra? «Perché è finita la direzione strategica unitaria, monopolizzata per oltre trent’anni dai corleonesi di Riina e Provenzano. Non è un risultato da sottovalutare. Quando i media danno notizia dell’arresto di decine di persone e si dice che tentavano di ricostituire la commissione di Cosa nostra, e quindi c’era l’idea di ricreare la cupola, ma ancora non è stata ricostituita, significa che non è più quella Cosa nostra, né quella mafia che ha messo in crisi lo Stato. Quella che ha provocato le stragi e le morti eccellenti». L’intervento del procuratore è antesignano, arriva una settimana prima del blitz dei carabinieri a Palermo che hanno fermato l’uomo indicato come il nuovo capo della Commissione: è il vecchio Settimo Mineo, nominato al vertice dell’organizzazione da pochi mesi e subito scoperto dai carabinieri del colonnello Antonio Di Stasio, coordinati dai pm dell’antimafia palermitana e quindi bloccato sul nascere. Per Pignatone «è giusto riconoscere che la mafia corleonese, quella che ha avuto capi come Luciano Liggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, quella che ha dominato la scena dagli anni Settanta, è stata sconfitta».

Politica “morbida”. «La chiave del successo di Cosa nostra corleonese e la ragione della sua forza erano nella sua struttura unitaria e verticistica, nella capacità di seguire una guida autorevole e capace, sia pure con modi e stili diversi, dalla ferocia più spietata a una capacità di mediazione apparentemente inesauribile, di controllare le inevitabili tensioni interne all’organizzazione ponendosi, allo stesso tempo, come interlocutore forte e affidabile verso l’esterno. La cattura di Provenzano ha significato la fine di tutto ciò. Ce lo dicono le cronache e le indagini di questi anni, durante i quali la repressione non ha dato tregua all’organizzazione. Con i capi quasi tutti già detenuti, spesso condannati all’ergastolo, le ondate di arresti hanno riguardato nuovi boss dallo spessore criminale con ogni evidenza inferiore a quello dei predecessori. Così possiamo affermare che finora il tentativo di ricostruire una direzione unitaria è fallito. Un risultato da non sottovalutare, anche perché la lunga “stagione corleonese” non trova paragoni con le tante altre fasi della storia pluridecennale di Cosa nostra, nell’inevitabile alternarsi di alti e bassi, con momenti di maggiore o minor fortuna, tanto che lo storico Salvatore Lupo ha affermato che “l’era dei Corleonesi” deve essere considerata “come una parentesi nella storia della mafia”». La mafia esiste da due secoli, ma prima dell’avvento di Riina non si era mai posta contro lo Stato, come hanno fatto i corleonesi, il traguardo di tutte le mafie è la convivenza con lo Stato, e c’è una forma di convivenza più o meno pacifica, più o meno contrastata, «in cui la mafia riconosce il ruolo primario dello Stato», dice Pignatone, per il quale: «Lo Stato non adopera tutte le sue risorse e tutta la sua forza per sconfiggere Cosa nostra. Questo è l’ideale di tutte le mafie. Perché in un contesto di questo genere si fanno affari. E si accumula ricchezza. Quella Cosa nostra degli anni ’ 70, ’ 80 e fino al 2006 è stata diversa, ha preteso di avere un ruolo di primazia rispetto allo Stato, di comandare sullo Stato, per questo ha ucciso il presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, il prefetto Dalla Chiesa e decine di poliziotti, carabinieri, magistrati, medici, sacerdoti e giornalisti, e poi le stragi del ’ 92 e quelle del ’ 93 a Roma, Milano e Firenze. Ha tentato di eliminare quelli che in qualche modo si opponevano a questo disegno, in primo luogo, naturalmente, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino».

Non era follia ma strategia. Le sentenze definiscono questo periodo terrorismo politico-mafioso. «Mafioso perché era la mafia siciliana, politico perché dietro c’era un disegno politico e di connivenze anche politiche, e terrorismo per i metodi usati. È stato un disegno lucido, non era folle e infatti è durato quarant’anni», spiega il capo dei pm romani. I corleonesi non erano dunque dei folli, seguivano invece una strategia, dettata da chi? «Non si può liquidare questa strategia di Cosa nostra con il ricorso semplicistico al termine “follia” se si pensa che la leadership corleonese ha retto per un periodo di almeno trent’anni durante i quali, e fino all’ultimo, ha potuto godere di complicità e collusioni a ogni livello, ancora oggi solo in parte svelate, e che anzi ha visto la sua potenza, la sua ricchezza e, quindi, la sua pericolosità crescere fino al culmine delle stragi siciliane e di quelle in continente e alla reazione repressiva, ma anche politica, sociale e civile da esse determinata. È vero invece che in Sicilia, sia pure con insufficienze e ritardi, lo Stato ha saputo reagire a questa sfida mortale». Il rafforzamento della mafia di Riina passa anche dal terrorismo. «Dobbiamo riportarci a quegli anni alla sfida mortale del terrorismo rosso o nero tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, quando tutte le risorse dello Stato vengono finalizzate e focalizzate per resistere alla sfida del terrorismo, e le mafie passano in seconda fila, e di questa distrazione i boss ne approfittano per rafforzarsi. Il punto più alto della sfida terroristica è il 16 marzo 1978, con il sequestro di Aldo Moro, ed è anche il punto in cui la mafia comincia la serie di omicidi eccellenti in Sicilia. È emblematico che Piersanti Mattarella venga ucciso il 6 gennaio 1980, lui che era uno degli allievi prediletti e un erede di Aldo Moro».

La legge ha vinto. «Dobbiamo essere consapevoli ed orgogliosi che lo Stato abbia vinto con il diritto, con i processi e con le leggi ordinarie sconfiggendo prima il terrorismo e poi Cosa nostra corleonese», sottolinea Pignatone. «Le indagini ci dicono che la mafia siciliana continua a consumare estorsioni, omicidi, molto meno per fortuna, a cercare di trafficare in stupefacenti per quello che gli viene lasciato dalla ’ndrangheta». «Poi magari», aggiunge il procuratore, «può darsi che un giorno ci diranno che ha recuperato posizioni, che magari sa sfruttare la finanziarizzazione e la globalizzazione dell’economia, comunque non sarà più quella Cosa nostra». E ripete: «Cosa nostra è stata sconfitta, i collaboratori di giustizia hanno minato la sua credibilità, il patrimonio più importante per un’associazione mafiosa, che di fatto è segreta, e la sua affidabilità verso l’esterno che è costituita dall’omertà, che è la sicurezza di non avere traditori in casa. Centinaia di collaboratori di giustizia dimostrano al mondo, sia quello legale sia quello criminale, che questa affidabilità non c’è più». Si è creato un vuoto, e in natura il vuoto non è consentito, nemmeno nel mondo criminale, e il vuoto lasciato da Cosa nostra, soprattutto sul traffico mondiale degli stupefacenti, è stato coperto dalla ’ndrangheta, che ha offerto quelle garanzie e quelle caratteristiche che prima erano della mafia siciliana, e dopo la guerra che lo Stato ha fatto a Cosa nostra, i siciliani non potevano più garantire: «Innanzitutto l’affidabilità economica, il pagamento cash di qualunque somma, e poi la sicurezza, la mancanza di collaboratori di giustizia per i calabresi che ti porta a concludere affari senza problemi di tradimenti».

Potevano prenderli tutti. La mattina del 15 gennaio 1993 la commissione di Cosa nostra si riunisce a Palermo nell’abitazione di Salvatore Biondino. Sono presenti Giuseppe Graviano ed altri boss corleonesi. Quel giorno però Riina non arriverà all’incontro perché viene arrestato dai carabinieri del Capitano Ultimo e con il capo dei capi viene fermato anche Biondino, che era alla guida dell’auto del boss, e all’epoca non era per nulla conosciuto come un capomafia. Biondino per la giustizia era un semplice cittadino, tanto che andava in giro con i suoi veri documenti di identità. Come racconta ai pm l’ex autista di Graviano, Fabio Tranchina (verbali del 16 e 22 aprile 2011), tutti i capimafia compreso il boss di Brancaccio quella mattina aspettavano Riina a casa Biondino. E sono rimasti ad attenderlo per diverse ore, fino a quando la notizia dell’arresto è stata divulgata dai notiziari straordinari di radio e tv. Quella è stata l’ultima volta che si è radunata la commissione. Come in “Sliding Doors”, se in quella occasione gli investigatori avessero eseguito subito dopo l’arresto la perquisizione a casa di Biondino - come avviene di solito - avrebbero trovato e sorpreso tutti i boss corleonesi, latitanti compresi, e in questo modo si sarebbe decapitata completamente Cosa nostra evitando, quindi, anche le stragi del ‘93. Ma è un’ipotesi. Resta però che a casa Biondino la perquisizione è tardata ad arrivare. Alcuni anni dopo, quando i collaboratori di giustizia svelarono la vera identità mafiosa di Biondino, gli investigatori della Dia trovarono sotterrati nel giardino della casa del boss diversi contenitori di plastica contenenti banconote per decine di milioni di lire.

Cos’è oggi la mafia. Di molti delitti eccellenti e stragi sono stati accertati esecutori e mandanti appartenenti a Cosa nostra. È stato riconosciuto dai giudici con una storica sentenza come la mafia di Riina ha trattato con pezzi delle istituzioni nel 1992. Ma nonostante lunghe e approfondite indagini su omicidi e attentati, non sono state finora accertate responsabilità di soggetti esterni a Cosa nostra. Ci sono molti complici e favoreggiatori, fuori dalla mafia, ancora da individuare e processare. Il silenzio in carcere dei corleonesi, come i Graviano, potrebbe essere capitalizzato al momento giusto. E in tanti tremano. I corleonesi in questi ultimi decenni sono stati colpiti con arresti, condanne e confische di patrimoni, mentre i loro avversari palermitani - che facevano riferimento al boss Stefano Bontate - sono stati decimati da agguati e stragi, ma sono rimasti ricchi ed economicamente potenti perché fino a pochi anni fa non si poteva più aggredire il patrimonio dei boss deceduti, rendendo ricchi eredi e prestanome, ormai intoccabili. Ed è sempre un “palermitano”, il boss Giovannello Greco ad aver ottenuto - l’unico fino adesso - la revisione del primo maxi processo a Cosa nostra ottenendo pochi anni fa per la sua posizione un parziale annullamento della sentenza. Oggi Greco è in libertà. Ed è sempre lui, secondo Giovanni Brusca, ad aver riavuto - minacciando un corleonese al quale aveva sequestrato moglie e figli - la grossa somma di denaro che negli anni Ottanta aveva investito tramite Bontate, in alcune imprese a Milano. I tanti collaboratori di giustizia degli ultimi anni, spesso giovani, svelano ai pm i rimasugli di una organizzazione che pare a tratti persino stracciona. Le “famiglie” però non sono ancora ridotte a criminalità di strada, «momento che secondo Giovanni Falcone segnerebbe la fine della mafia», e molto - come ha sostenuto Pignatone - resta ancora da fare perché nella vita sociale, politica, economica si possa riscontrare il rifiuto di nuovi patti e accordi basati sulla reciproca convenienza e la rottura di quelli già stipulati, magari da molti anni. Per acquisire pienamente questa consapevolezza «è necessario conoscere a fondo la mentalità dei mafiosi, la loro doppiezza, la loro spietatezza, ma anche la loro intelligenza».

I terribili 26 anni di Matteo Messina Denaro. Dalla strage di Capaci all'uccisione del piccolo Di Matteo, dalla nascita della figlia agli arresti di parenti e fiancheggiatori, le tappe della vita criminale del boss trapanese, latitante dal 1993, scrivono Lirio Abbate e Giovanni Tizian il 23 marzo 2018 su "L'Espresso".

MAGGIO/LUGLIO 1992. È una delle “menti” delle stragi di Falcone e Borsellino. Matteo Messina Denaro «partecipava e ideava un programma criminale teso a destabilizzare le istituzioni e concorreva a deliberare l’esecuzione del piano di uccisione del dottor Falcone». Non solo. «Entrava a far parte di un gruppo riservato creato da Riina e alle sue dirette dipendenze» per organizzare a Roma un attentato che aveva come obiettivi Falcone, l’allora ministro Claudio Martelli e il conduttore televisivo Maurizio Costanzo. Il boss partecipa alla “missione” del commando che doveva assassinare Falcone a Roma, azione che la mafia voleva mettere a segno alla fine di febbraio del 1992, ma che fallì.

LUGLIO 1992. Uccide nel trapanese una ragazza incinta, Antonella Bonomo, fidanzata del mafioso Vincenzo Milazzo di Alcamo, assassinato durante la guerra di mafia. La ragazza «era incinta ma Matteo non l’ha risparmiata» ha detto il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera.

14 SETTEMBRE 1992. Sul litorale di Mazara del Vallo il boss tenta di uccidere il vice questore della polizia Rino Germanà con la complicità di due corleonesi: Giuseppe Graviano, di cui è molto amico, e Leoluca Bagarella. Aprono il fuoco alle 14,15 mentre Germanà è alla guida della sua Panda. Affiancato da una Fiat Ritmo, il poliziotto è raggiunto di striscio da una scarica di lupara. Il funzionario frena e scende dall’auto: apre il fuoco contro i killer e scappa verso la spiaggia, mentre i killer continuano a sparargli con i kalashnikov. Gemanà riesce a mettersi a riparo e il commando fugge.

2 GIUGNO 1993. Inizia ufficialmente la latitanza del boss. La procura di Palermo chiede ed ottiene l’ordine di arresto di Messina Denaro, accusato di associazione mafiosa e di diversi omicidi. Lo accusa il collaboratore di giustizia Balduccio Di Maggio. Il boss trapanese però è già irreperibile.

MAGGIO/LUGLIO 1993. Matteo Messina Denaro è fra i mandanti e gli esecutori di diversi attentati organizzati da Cosa nostra. A Roma in via Fauro, il 14 maggio, Cosa nostra tenta di uccidere Maurizio Costanzo. Seguiranno sette attentati nell’arco di 11 mesi, dieci morti, 95 feriti, danni al patrimonio artistico e religioso. A Firenze (27 maggio), viene fatto esplodere un furgoncino Fiat Fiorino pieno di tritolo: cinque vittime in via dei Georgofili, dietro gli Uffizi, decine i feriti. Alle 23.14 del 27 luglio, in via Palestro a Milano, una Fiat Punto esplode davanti al Padiglione d’arte contemporanea: cinque vittime e dodici i feriti. Poco più tardi due autobombe esplodono a Roma: davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano e davanti all’antica chiesa di San Giorgio al Velabro: 22 i feriti e gravi lesioni alle due chiese.

23 NOVEMBRE 1993. Viene sequestrato da un commando di mafiosi il tredicenne Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso Santino, per tentare di bloccare la collaborazione dell’uomo con la giustizia. Matteo Messina Denaro oltre ad organizzare e deliberare il sequestro mette a disposizione, nel trapanese, i covi in cui il ragazzo viene tenuto segregato. Dopo quasi tre anni di stenti, legato sempre alla catena, l’11 gennaio 1996 Giuseppe Di Matteo viene strangolato e poi sciolto nell’acido dai corleonesi.

23 NOVEMBRE 1993. Uccide a Trapani l’agente di polizia penitenziaria Giuseppe Montalto. Il poliziotto prestava servizio nel carcere Ucciardone a Palermo, nella sezione in cui erano rinchiusi i mafiosi sottoposti al 41 bis, e in quel periodo c’erano anche i boss Filippo e Giuseppe Graviano.

17 DICEMBRE 1996. Diventa padre, nasce Lorenza Alagna, avuta dalla relazione con Franca Alagna. La donna e la bimba vengono accolte a casa della madre del boss, con la quale convivono fino a quando la ragazza non è diventa maggiorenne.

30 NOVEMBRE 1998. Muore durante la latitanza, per cause naturali, il boss Francesco Messina Denaro, 78 anni, padre di Matteo. Il suo corpo viene fatto trovare nelle campagne di Castelvetrano.

GIUGNO 1999. Gli investigatori sono ad un passo dal catturare Matteo Messina Denaro, ma il boss si accorge - o riceve una soffiata - che davanti al suo covo a Santa Flavia, a due passi da Bagheria, è stata piazzata una telecamera e quindi riesce a fuggire indossando una parrucca bionda da donna. Arrestato Salvatore Messina Denaro, fratello del latitante. Finisce in carcere dopo la condanna in appello per varie accuse legate al boss ricercato.

20 FEBBRAIO 2004. Arrestato Salvatore Messina Denaro, fratello del latitante. Finisce in carcere dopo la condanna in appello per varie accuse legate al boss ricercato.

18 LUGLIO 2006. Vengono trovate numerose lettere di Maria Mesi, amante del latitante, durante una perquisizione a casa di Filippo Guttadauro, arrestato per associazione mafiosa e considerato il “portavoce” di Matteo Messina Denaro.

DICEMBRE 2006. Decine di poliziotti circondano una casa di campagna a Castelvetrano nel tentativo di arrestare Messina Denaro. Il blitz viene effettuato da agenti del Servizio centrale operativo della polizia, in collaborazione con i servizi segreti. L’irruzione viene effettuata nella casa di campagna di un pregiudicato di Castelvetrano mentre si trovava riunito a pranzo con i propri familiari. Del latitante, però, nessuna traccia. Gli investigatori avevano puntato all’abitazione del pregiudicato dopo aver ricevuto la segnalazione dai servizi segreti.

20 DICEMBRE 2007. Viene arrestato Giuseppe Grigoli, prestanome di Matteo Messina Denaro, considerato il re dei supermercati in Sicilia, ma anche uno dei più facoltosi imprenditori dell’isola. I suoi beni vengono confiscati. Le catene di grande distribuzione alimentare messe in piedi in Sicilia dal boss sono state una forma di finanziamento per Cosa nostra, ma anche un modo per offrire lavoro. In questo modo la mafia ha continuato a sostituirsi all’imprenditoria sana e a guadagnarsi il consenso della popolazione.

15 MARZO 2010. Vengono arrestate 19 persone accusate di essere fiancheggiatori del latitante, fra loro Salvatore Messina Denaro, fratello del boss e il cognato, Vincenzo Panicola.

GIUGNO 2010. I servizi segreti mettono una taglia da un milione e mezzo di euro per chi riesce a dare notizie sul latitante.

13 DICEMBRE 2013. Viene arrestata Patrizia Messina Denaro, sorella del latitante. Con lei il nipote Francesco Guttadauro, e altre 28 persone, fra cui sei donne, che fanno parte della cerchia mafiosa del boss. Lei condannata a 13 anni, lui a 16.

19 DICEMBRE 2014. La leadership del clan passa a un altro parente del latitante, si chiama Girolamo Bellomo, detto Luca, che viene arrestato. È il marito dell’avvocato Lorenza Guttadauro, nipote di Matteo Messina Denaro. La penalista è figlia di Rosalia Messina Denaro e di Filippo Guttadauro, fratello dell’ex capomafia di Brancaccio Giuseppe Guttadauro.

La lezione fascista: battere la mafia si può, basta appoggiare chi la combatte, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo D’Italia”. Su Cesare Mori, di cui ricorre l’anniversario della morte (5 luglio 1942), quel prefetto di ferro che sconfisse la mafia durante il fascismo, è stato detto e scritto praticamente tutto: su di lui sono disponibili una ventina di libri, vari film, alcuni sceneggiati, tra cui l’ultimo, una miniserie tv in due puntate, Cesare Mori – Il prefetto di ferro, è stato trasmesso nel 2012, a riprova della grande attualità dell’opera di questo servitore dello Stato che dimostrò che se una cosa si vuole fare, la si fa. Lui riuscì dove in seguito fallì l’Italia repubblicana, con gli assassinii di Carlo Alberto Dalla Chiesa, altro prefetto di ferro, dei giudici Falcone e Borsellino e di altre centinaia di uomini assassinati dalla criminalità organizzata siciliana. Su Mori oramai si sa tutto. Quello che è interessante oggi è capire come fece a debellare la mafia, come mai in seguito la mafia tornò, e quale debba essere il ruolo e il limite dello Stato nell’affrontare un’emergenza di questo tipo, emergenza che oggi, nel mondo occidentale, è presente solo nel nostro Paese, almeno a questo livello di organizzazione e di aggressività. Una delle linee-guida del fascismo era che nessun potere dovesse esserci al di fuori dello Stato, e certamente non un potere criminale. Il caso del Mezzogiorno d’Italia, dove il potere delle cosche strozzava l’economia delle regioni e dove pertanto la rivoluzione fascista non poteva convenientemente realizzarsi, convinse Benito Mussolini e i suoi collaboratori ad affrontare il problema. Sappiamo che nei primi mesi del 1924 Mussolini aveva compiuto un viaggio in Sicilia, dove alcuni fedelissimi lo avevano messo al corrente della situazione, situazione che sembrava veramente non risolvibile, in quanto il sistema mafioso era incancrenito e cristallizzato. Probabilmente Mussolini si rese conto che la credibilità del fascismo avrebbe subito un dito colpo se non avesse risolto il problema della mafia, e prese il toro per le corna. In quello stesso anno, nel corso di pochi mesi, inviò in Sicilia Cesare Mori – che prima del fascismo aveva già prestato servizio nell’isola e che quindi la conosceva bene – e il giudice Luigi Giampietro come procuratore generale e il delegato calabrese Francesco Spanò. Ecco il testo del telegramma di Mussolini al Mori: «Vostra Eccellenza ha carta bianca, l’autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente, ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non costituirà problema, noi faremo nuove leggi». La mafia per alcuni anni fu costretta a chinare il capo di fronte al governo italiano. Il fascismo voleva veramente risolvere una volta per tutte il problema della mafia in Sicilia, e lo fece, non esitando a coinvolgere e ad arrestare anche esponenti, grandi e piccoli, del fascismo locale. Mussolini in quella circostanza non guardò in faccia a nessuno. Dapprima Mori fu mandato come prefetto a Trapani, dove aveva dato già buona prova di sé qualche anno prima, e iniziò revocando tutti i porto d’armi, e istituendo una commissione per il controllo dei nullaosta relativi ai permessi di campieraggio e guardiania, attività legate a cosa nostra. L’anno successivo Mori fu nominato prefetto di Palermo, con competenza su tutto il territorio regionale e con ampi poteri, dove iniziò sul serio la battaglia. Battaglia che fu durissima, a tutti ii livelli: sradicò abitudini, consuetudini, arrestò signori e signorotti locali, latifondisti, impiegati pubblici, banditi, briganti, fascisti. I risultati furono straordinari già nei primi anni: nella sola provincia di Palermo gli omicidi scesero da 268 nel 1925 a 77 nel 1926, le rapine da 298 a 46, e anche altri crimini diminuirono drasticamente. Intraprese varie iniziative, ma lui andava particolarmente fiero dell’aver arrestato e fatto condannare Vito Cascio Ferro, pezzo da novanta della mafia italo-americana, che nel 1909 aveva assassinato sulla Marina di Palermo Joe Petrosino. La sua azione più famosa, perché spettacolare, fu il celebre assedio di Gangi, considerata allora una delle roccheforti dei mafiosi. Con un ingente numero di militi delle forze dell’ordine, Mori rastrellò il paese casa per casa, prendendo in ostaggio familiari di mafiosi per costringerli ad arrendersi, e riuscendo a catturare decine di mafiosi, banditi, criminali e latitanti. Probabilmente allora, per la durezza dei metodi, si guadagnò il soprannome col quale è ricordato. Oggi a Gangi c’è una targa che la popolazione grata gli ha dedicato per la sua opera meritoria. Per colpire la mafia Mori non esitò a indagare negli ambienti fascisti. Contemporaneamente Mori colpì i circoli politico-affaristici e perseguì Alfredo Cucco, il numero uno del fascismo siciliano, nonché membro del Gran Consiglio del fascismo, il quale venne rinviato a processo e addirittura espulso dal Pnf. Cucco però fu assolto, e ci sono sospetti che per lui, medico stimatissimo, si fosse trattato di una trappola, in quanto molti vicino a Roberto Farinacci, che come è noto non era molto amato da Mussolini. Tuttavia la mafia era stata decapitata, ridotta all’impotenza, al silenzio: i suoi esponenti che non vennero arrestati dovettero fuggire negli ospitali Stati Uniti, da dove poi nel 1945 ritorneranno a cavallo dei cannoni dei carri armati americani, che riportarono la mafia in auge un Sicilia, dando anche ai capi mafiosi locali incarichi amministrativi importanti, come dimostra la storiografia del dopoguerra. Va anche sottolineato che dopo gli arresti e le incriminazioni, i processi si facevano, le condanne arrivavano. Insomma, la magistratura collaborava con lo Stato nella lotta senza quartiere alla criminalità organizzata. Il metodo di Mori era semplicissimo nella sua efficienza: innanzitutto riaffermò in modo vigoroso l’autorità e la presenza dello Stato; coinvolse e convinse la popolazione a ribellarsi ai soprusi della mafia; d’accordo con le istituzioni, avviò una battaglia culturale contro l’omertà, il crimine, la mentalità mafiosa, soprattutto nei confronti dei giovani; colpì cosa nostra nei suoi interessi economici; fece tramontare la leggenda dell’impunità, facendo condannare a pene durissime i capomafia; fece un uso disinvolto del confino, dove mandò i maggiori capicosche. Nel 1929 Mori fu messo a riposo (era del 1871) e per molti anni la mafia dovette chinare il capo di fronte a questa Italia nuova e moderna, che frattanto aveva anche cercato di riavviare sotto il controllo militare le attività agricole e produttive della regione. In definitiva, perché Mori sconfisse la mafia? Perché il governo italiano lo appoggiò lealmente, al contrario di quanto accadde ad altri servitori dell’Italia repubblicana.

Questo è quel che si vorrebbe far credere. Ma esiste un'altra verità.

Libri: La mafia alla sbarra, I processi fascisti a Palermo, scrive “L’Ansa”. Il Volume attinge da documentazione conservata all'Archivio Stato. Indaga sulle radici della mafia, da quelle geografiche dell'hinterland palermitano, uno dei luoghi di genesi del fenomeno, a quelle storiche: è il libro "La mafia alla sbarra - I processi fascisti a Palermo" (260 pagine, 15 euro) scritto da Manoela Patti e pubblicato dalla casa editrice Istituto Poligrafico Europeo, con una prefazione dello storico Salvatore Lupo. Il lavoro si basa sull'immensa documentazione conservata all'Archivio di Stato di Palermo e scava all'interno della retorica della repressione fascista degli anni Venti, facendo anche piazza pulita della legittimazione storica basata su paradigmi e stereotipi che nella percezione comune hanno portato a credere, negli anni, a una mafia "buona" e non sanguinaria. "Il versante giudiziario dell'antimafia fascista - scrive l'autrice - ebbe esiti di gran lunga inferiori alle forze messe in campo. La portata effettiva dell'operazione Mori si rivelò meno incisiva di quanto propagandato dal regime. Eppure, l'imponente opera di propaganda fascista sfruttò l'intera popolazione per ottenere in Sicilia quel consenso che ancora nell'Isola mancava al regime". Dal "L'Inchiesta in Sicilia" del 1876 di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino alle difese che hanno smentito l'esistenza della mafia come associazione, puntando piuttosto a definirla come "un modo di essere e di sentire". Come quella di Giuseppe Pitrè, che diede dignità scientifica al concetto di una "mafia originaria benigna, sinonimo di spavalderia e coraggio degenerata solo in alcuni individui in delinquenza". Tesi adoperata per difendere l'Isola dagli "attacchi del governo centrale ogni volta che la questione mafiosa tornava all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale". La tesi di Pitrè verrà codificata ufficialmente nel 1901 durante il processo al l'onorevole Raffaele Palizzolo, accusato di essere il mandante dell'assassinio dell'ex sindaco di Palermo e direttore del banco di Sicilia, Emanuele Notarbartolo. "Accade spesso che le dinamiche sociali si incarichino di smentire gli scienziati sociali e la storia di smentire gli storici - scrive lo storico Lupo nella prefazione - La smentita fu particolarmente bruciante nella Sicilia dell'assaggio tra gli anni 70 e 80. La mafia si palesò in tutta la sua nuova pericolosità mentre era impegnata in modernissime forme di business. Quella mafia lì non somigliava per niente a una vaga metafora". Il libro sarà presentato all'Istituto Gramsci di Palermo. A discuterne con l'autrice saranno Salvatore Lupo, professore di Storia contemporanea all'Università di Palermo, Francesco Forgione, presidente della Fondazione Federico II e Matteo Di Figlia, ricercatore di Storia contemporanea all'Università di Palermo.

I maxiprocessi ai boss al tempo del fascismo molto rumore per nulla. Il libro di Manoela Patti ricostruisce la vicenda giudiziaria del Ventennio A fronte di migliaia di arresti e indagini le condanne furono minime, scrive Amelia Crisantino su “La Repubblica”. La campagna antimafia voluta dal fascismo, inaugurata nell'ottobre 1925 con l'invio del prefetto Cesare Mori a Palermo, è ancora ben presente nella memoria collettiva. L'inedito spiegamento di forze e i modi spesso teatrali con cui il prefetto Mori condusse le operazioni comprendevano assedi di borgate e paesi, arresti di massa, processi a centinaia di imputati, l'arresto per i familiari dei latitanti, brutalità varie anche a carico dei testimoni. Il fascismo accompagnò l'aspetto militare con un'imponente opera di propaganda, mentre da più parti si tentavano analisi: per molti mesi si continuò a dibattere se la mafia fosse un fenomeno delinquenziale, una variabile etnico-antropologica o l'indesiderato prodotto di una società arretrata. Si cercava cioè di definire la natura del fenomeno mafioso, con argomenti destinati a ciclicamente ripresentarsi nei decenni a venire. Il versante più in ombra rimase quello giudiziario. Che fu spesso deludente. Le pene inflitte nei numerosi maxiprocessi che si susseguirono sino al 1932 furono minime, di gran lunga inferiori alle forze in campo. La documentazione allora prodotta permette però di osservare la storia dell'organizzazione mafiosa in una prospettiva di lungo periodo, e adesso uno studio di Manoela Patti, "La mafia alla sbarra. I processi fascisti a Palermo" (Istituto poligrafico europeo, 260 pagine, 15 euro), analizza uno spaccato territoriale e temporale seguendo le vicende di molteplici personaggi che riservano non poche sorprese. La prima impressione, a leggere queste pagine così fitte di nomi ed episodi, è di trovarsi di fronte a un reticolo i cui molteplici intrecci richiedono molta cautela. Subito dopo, mentre l'attenzione del lettore è assorbita dalla ricchezza delle fonti, arriva una sorta di sgomento di fronte ai numeri. Leggiamo che dal 1913 al 1919 a Bagheria avvengono 55 omicidi, che nel 1928 gli arrestati nella provincia di Palermo sono cinquemila, che dal 1926 al 1932 vengono giudicati settemila imputati distribuiti in 105 processi organizzati su base territoriale, che il 25 novembre 1930 si apre il processo all'associazione della borgata Santa Maria di Gesù: sono 228 detenuti presenti nella chiesa di Santa Cita usata come tribunale, con gli stucchi del Serpotta che osservano muti le grandi gabbie affollate di imputati, i 62 avvocati, i 200 testimoni a discolpa. Nella sola provincia di Palermo vengono celebrati 56 processi e la vasta documentazione su cui si sorreggono permette di ricostruire comportamenti, struttura e attività delle cosche mafiose: non solo i rapporti interni all'organizzazione, ma anche i legami con il vasto universo "non criminale" con cui interagivano. La linea scelta nei processi fu quella di condannare gli imputati per la semplice "associazione a delinquere", anche senza valutare la responsabilità per i singoli reati; ma non di rado la magistratura giudicante si mantenne su posizioni garantiste, accogliendo le richieste della difesa. E – al di là delle accuse e della posizione dei magistrati – viene in primo piano un dato di fatto, sintetizzato dal capitano dei carabinieri al giudice che stava istruendo il processo di Bagheria: "quello era un tempo in cui tutti avevano relazioni con la mafia". Il fascismo ebbe gioco facile nel puntare il dito contro l'odiosa commistione fra cosa pubblica e violenza mafiosa, che specie nei paesi era stata favorita dall'allargamento del suffragio. I processi dimostrarono gli stretti legami fra le associazioni delle borgate palermitane e i comuni dell'hinterland, con alcuni casi esemplari come Villabate a testimoniare la capacità della mafia di infiltrarsi nell'amministrazione. Fra gli affiliati alla cosca di Villabate c'erano anche i venti componenti del consiglio comunale, e molti dei nomi ritornano negli atti della Commissione antimafia del 1972, del Maxiprocesso del 1986, nell'operazione Perseo del 2008 e Senza Frontiere del 2009. La continuità sembra essere la principale caratteristica delle cosche che dominano la Conca d'oro, i casi più emblematici li ritroviamo nella borgata di Santa Maria di Gesù dove si collocano alcune delle più antiche e potenti dinastie mafiose palermitane come i Bontate e i Greco, che attraversano età liberale, fascismo ed età repubblicana mantenendo l'egemonia. I metodi con cui viene conservato il potere, le connivenze e le strategie molto ci raccontano della storia della mafia. Che per tanti versi coincide con la storia della Sicilia.

Cosa nostra. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La locuzione «Cosa nostra» (nel linguaggio comune genericamente detta mafia siciliana o semplicemente mafia) viene utilizzata per indicare un'organizzazione criminale di tipo mafioso-terroristico presente in Sicilia (specialmente nelle province di Palermo, Catania, Messina, Trapani, Agrigento e Caltanissetta), in tutta Italia e in più parti del mondo. Questo termine viene oggi utilizzato per riferirsi esclusivamente alla mafia di origine siciliana (anche per indicare le sue ramificazioni internazionali, specie negli Stati Uniti d'America, dove viene identificata come Cosa nostra statunitense, sebbene oggi entrambe abbiano diffusione a carattere internazionale), per distinguerla dalle altre associazioni ed organizzazioni mafiose. Gli interventi di contrasto da parte dello Stato italiano si sono fatti più decisi a partire dagli anni ottanta del XX secolo, attraverso le indagini del cosiddetto "pool antimafia", creato dal giudice Rocco Chinnici, in seguito diretto da Antonino Caponnetto. Facevano parte del pool anche i magistrati Giuseppe Di Lello,Leonardo Guarnotta, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Storia. Le origini. Nel significato criminale conosciuto oggi «Cosa nostra» nacque probabilmente nei primi anni del XIX secolo dal ceto sociale dei massari, dei fattori e dei gabellotti, che gestivano i terreni della nobiltà siciliana, avvalendosi dei braccianti che vi lavoravano, anche se in verità potrebbe essere molto più antica, dato che il feudo con tutto ciò che ne consegue, esiste in Sicilia fin dall'epoca normanna. Cosa nostra, nacque perché fu da sempre sistema di potere e integrato con il potere politico-economico ufficiale vigente, iniziando così ad assumerne per suo conto le funzioni e le veci. «Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di fare esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, orfatto moltiplicare il numero dei reati. [...] Così come accadono i furti escono i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito» (Rapporto giudiziario del procuratore generale Pietro Calà Ulloa)

L'unità d'Italia. Nel 1863 Giuseppe Rizzotto scrive, con la collaborazione del maestro elementare Gaspare Mosca, I mafiusi de la Vicaria, un'opera teatrale in siciliano ambientata nelle Grandi Prigioni di Palermo che aveva come protagonisti un gruppo di detenuti che godevano «di uno speciale rispetto da parte dei compagni di prigione perché mafiosi, membri come tali di un'associazione a delinquere, con gerarchie e con specifiche usanze, tra le quali veri e propri riti di iniziazione». È a partire da questo dramma, che ebbe grande successo e venne tradotto in italiano, napoletano e meneghino, che il termine mafia si diffonde su tutto il territorio nazionale. Lo sviluppo della criminalità organizzata in Sicilia è sostanzialmente attribuibile agli eventi contemporanei e successivi all'Unità d'Italia, in particolare a quella che fu l'acuta crisi economica da questa indotta in Sicilia e nel Meridione d'Italia. Infatti lo Stato italiano, non riuscendo a garantire un controllo diretto e stabile del governo dell'isola (la cui organizzazione sociale era molto diversa da quella settentrionale), cominciò a fare affidamento sulle cosche mafiose che, ben conoscendo i meccanismi locali, facilmente presero le veci del governo centrale. Tuttavia, con il pretesto di proteggere gli agricoltori e contadini dal malgoverno feudale e dalla nobiltà, i mafiosi costrinsero gli agricoltori a pagare gli interessi per il contratto di locazione e a mantenere l'omertà[2]. La prima analisi esaustiva in cui venne espressamente usato il termine mafia fu compiuta nel 1876 da Leopoldo Franchetti, dopo la celebre inchiesta compiuta insieme a Sidney Sonnino, che venne pubblicata con il titolo Condizioni politiche e amministrative della Sicilia. Uno dei più clamorosi processi di quegli anni fu quello tenutosi nel 1885 contro gli affiliati alla "Fratellanza di Favara", una cosca mafiosa operante nella provincia di Agrigento che aveva un rituale di iniziazione, il quale avveniva pungendo l'indice dei nuovi membri per poi tingere con il sangue un'immagine sacra, che veniva bruciata mentre l'iniziato recitava una formula di giuramento[5]: tale cerimonia di affiliazione era tipica delle cosche mafiose di Palermo, a cui numerosi membri della "Fratellanza" erano stati affiliati nel 1879, durante la prigionia con mafiosi palermitani nel carcere di Ustica. Nel 1893, in seguito al delitto Notarbartolo, l'esistenza di Cosa nostra (e dei suoi rapporti con la politica) divenne nota in tutta Italia.

Le rivendicazioni agricole. Cartina della Sicilia dei primi anni del Novecento che mostra la densità mafiosa dei comuni siciliani. Anche se non più con un regime feudale, nelle campagne siciliane gli agricoltori erano ancora sfruttati. I grandi proprietari terrieri risiedevano a Palermo o in altre grandi città e affittavano i loro terreni a gabellotti con contratti a breve termine, che, per essere redditizi, costringevano il gabellotto a sfruttare i contadini. Per evitare rivolte e lavorare meglio, al gabellotto conveniva allearsi con i mafiosi, che da un lato offrivano il loro potere coercitivo contro i contadini, dall'altro le loro conoscenze a Palermo, dove si siglavano la maggioranza dei contratti agricoli. A partire dal 1891 in tutta la Sicilia gli agricoltori si unirono in fasci, sorta di sindacati agricoli guidati dai socialisti locali, chiedendo contratti più equi e una distribuzione più adeguata della ricchezza. Non si trattava di movimenti rivoluzionari in senso stretto ma essi furono comunque condannati dal governo di Roma che, nella persona di Crispi, nel 1893 inviò l'esercito per scioglierli con l'uso della forza. Giuseppe de Felice Giuffrida, considerato il fondatore dei fasci siciliani, venne processato e imprigionato. Poco prima che fossero sciolti, la mafia aveva cercato di infilare alcuni suoi uomini in queste organizzazioni in modo che, se mai avessero avuto successo, essa non avrebbe perso i suoi privilegi; continuò però anche ad aiutare i gabellotti cosicché, chiunque fosse uscito vincitore, essa ci avrebbe guadagnato fungendo da mediatrice tra le parti. Quando fu chiaro che lo Stato sarebbe intervenuto con la legge marziale, la "Fratellanza", detta anche "Onorata Società" (due dei termini usati all'epoca per identificare Cosa nostra), si distaccò dai fasci (che avevano tentato in tutti i modi di evitare la penetrazione di mafiosi nelle loro file, spesso riuscendoci) e anzi aiutò il governo nella sua repressione. Come "vendetta" per l'azione dei Fasci, che voleva mettere in discussione il potere dei latifondisti, nel 1915 a Corleone i mafiosi uccisero Bernardino Verro, che era stato tra i più accesi animatori del movimento dei Fasci siciliani negli anni novanta del XIX secolo. Durante la presidenza di Giovanni Giolitti si permise alle cooperative di chiedere prestiti alle banche e di intraprendere da sole, senza gabellotti, contratti diretti coi proprietari terrieri. Questo, insieme alla nuova legge elettorale del suffragio universale maschile, portò non solo alla vittoria di diversi sindaci socialisti in varie città siciliane, ma anche all'eliminazione del ruolo mafioso nella mediazione per i contratti. Tuttavia "con Giolitti la mafia, assieme ai poteri forti (massoneria deviata, vecchia aristocrazia, borghesia eroica), monopolizzò tutta la vita economica e politica dell'isola, infatti gli appalti ed i finanziamenti alle imprese industriali e agrarie erano pilotati, così come le elezioni politiche ed amministrative". Per stroncare il pericolo "rosso", la mafia dovette allearsi con la Chiesa cattolica siciliana, anch'essa preoccupata per gli sviluppi dell'ideologia marxista materialista nelle campagne. Le cooperative cattoliche quindi non si chiusero ad infiltrazioni mafiose, a patto che questi ultimi scoraggiassero in tutti i modi i socialisti. Nel primo quindicennio del Novecento si iniziarono a contare le prime vittime socialiste ad opera della mafia, che assassinava sindaci, sindacalisti, preti, attivisti e agricoltori indisturbatamente. Il tema delle terre negate ai contadini resterà uno dei principali motivi di scontro sociale in Sicilia fino al secondo dopoguerra.

Il rapporto Sangiorgi. Al fine di contrastare il fenomeno, venne inviato in Sicilia Ermanno Sangiorgi, in veste di questore a Palermo nel 1898 mentre era in corso una guerra di mafia, iniziata due anni prima, nel 1896. Indagando sui delitti commessi dalle cosche della Conca d'Oro, Sangiorgi capì che gli omicidi non erano il prodotto di iniziative individuali, ma implicavano leggi, decisioni collegiali, e un sistema di controllo territoriale. Sangiorgi scoprì inoltre che le due famiglie più ricche di Palermo, i Florio e i Whitaker, vivevano fianco a fianco con i mafiosi della Conca d'Oro, che venivano assunti come guardiani e fattori nelle loro tenute e pagati per ricevere "protezione". Nell'ottobre 1899 Francesco Siino, capo della cosca di Malaspina sfuggito miracolosamente ad una sparatoria tesagli dagli uomini di Antonino Giammona, capo della cosca dell'Uditore, nel contesto dalla guerra di mafia, venne messo alle strette da Sangiorgi e confessò che il suo avversario Giammona gli contendeva i racket del commercio di limoni, delle rapine, delle estorsioni e della falsificazione delle banconote. Inoltre dichiarò che la Conca d'Oro era divisa in otto cosche mafiose: Piana dei Colli, Acquasanta, Falde, Malaspina, Uditore, Passo di Rigano, Perpignano, Olivuzza. Sangiorgi, in base a queste dichiarazioni, firmò molti mandati di cattura. La notte tra il 27 e il 28 aprile 1900 la Questura fece arrestare diversi mafiosi, tra cui Antonino Giammona. Alla procura di Palermo, Sangiorgi inviò un rapporto di 485 pagine che conteneva una mappa dell'organizzazione della mafia palermitana con un totale di 280 "uomini d'onore". Il processo cominciò nel maggio 1901 ma Siino ritrattò completamente le sue dichiarazioni. Dopo solo un mese, giunsero le condanne di primo grado: soltanto 32 imputati furono giudicati colpevoli di aver dato vita a un'associazione criminale e, tenuto conto del tempo già trascorso in carcere, molti furono rilasciati il giorno dopo.

La prima guerra mondiale e le sue conseguenze. Nel 1915 l'Italia entrò nella prima guerra mondiale; vennero chiamati alle armi centinaia di migliaia di giovani da tutto il paese. In Sicilia i disertori furono numerosi: essi abbandonarono le città e si dettero alla macchia all'interno dell'isola, vivendo per lo più di rapine. A causa della mancanza di braccia per l'agricoltura e della sempre maggiore richiesta di soldati dal fronte, moltissimi terreni vennero adibiti al pascolo. Queste due condizioni fecero aumentare enormemente l'influenza di Cosa nostra in tutta l'isola[2]. Aumentati i furti di bestiame, i proprietari terrieri si rivolsero sempre più spesso ai mafiosi, piuttosto che alle impotenti autorità statali, per farsi restituire almeno in parte le mandrie. I boss, nei loro abituali panni, si prestavano a mediare tra i banditi e le vittime, prendendo una percentuale per il loro lavoro. Alla fine della prima guerra mondiale, l'Italia dovette affrontare un momento di crisi, che rischiò di sfociare in una vera e propria rivolta popolare, ad imitazione della recente rivoluzione russa. Al nord gli operai scioperarono chiedendo migliori condizioni di lavoro, al sud sono i giovani appena tornati a casa a lamentarsi per le promesse non mantenute dal governo (in particolar modo quelle relative alla terra). Moltissimi quindi andarono ad ingrossare le file dei banditi, altri entrarono direttamente nella mafia e altri ancora cercarono di riformare i fasci o comunque parteciparono ai consigli socialisti siciliani. Fu in questo clima di tensione che il fascismo fece la sua comparsa.

Il ventennio fascista. Il fascismo iniziò una campagna contro i mafiosi siciliani, subito dopo la prima visita di Mussolini in Sicilia nel maggio del 1924. Il 2 giugno dello stesso anno venne inviato in Sicilia Cesare Mori, prima come prefetto di Trapani, poi a Palermo dal 22 ottobre 1925, soprannominato il Prefetto di ferro, con l'incarico di sradicare la mafia con qualsiasi mezzo. L'azione del Mori fu dura. Centinaia e centinaia furono gli uomini arrestati e finalmente condannati. Celebre è l'assedio di Gangi in cui Mori assediò per quattro mesi il centro cittadino, in quanto esso era considerato una delle roccaforti mafiose. In questo periodo venne arrestato il boss Vito Cascio Ferro. Dopo alcuni arresti eclatanti di capimafia, anche i vertici di Cosa nostra non si sentivano più al sicuro e scelsero due vie per salvarsi: una parte emigrò negli USA, andando ad ingrossare le file di Cosa nostra statunitense, mentre un'altra restò in disparte. Il "prefetto di ferro" scoprì anche collegamenti con personalità di spicco del fascismo come Alfredo Cucco, che fu espulso dal PNF. Nel 1929 Mori fu nominato senatore e collocato a riposo. I limiti della sua azione fu lui stesso a riconoscerli in tempi successivi: l'accusa di mafia veniva spesso avanzata per compiere vendette o colpire individui che nulla c'entravano con la mafia stessa, come fu con Cucco e con il generale Antonino Di Giorgio. Il carabiniere Francesco Cardenti così riferisce: "Il barone Li Destri al tempo della maffia era appoggiato forte ai briganti che adesso si trovano carcerati a Portolongone (Elba) se qualcuno passava dalla sua proprietà che è gelosissimo diceva: Non passare più dal mio terreno altrimenti ti faccio levare dalla circolazione, adesso che i tempi sono cambiati e che è amico della autorità [...] Non passare più dal mio terreno altrimenti ti mando al confino." I mezzi usati dalla Polizia nelle numerose azioni condotte per sgominare il fenomeno mafioso portarono ad un aumento della sfiducia della popolazione nei confronti dello Stato. Mori fu comunque il primo investigatore italiano a dimostrare che la mafia può essere sconfitta con una lotta senza quartiere, come sosterrà successivamente anche Giovanni Falcone. La mafia non appare tuttavia sconfitta dall’azione di Mori. Nel 1932, nel centro di Canicattì, vengono consumati tre omicidi (le cui modalità di esecuzione ed il mistero profondo in cui rimangono tuttora avvolti rimandano a delitti tipici di organizzazioni mafiose); intorno a Partinico, alla metà degli anni trenta, si verificarono incendi, danneggiamenti, omicidi [...] a sfondo eminentemente associativo; ma si potrebbero citare molti altri episodi dei quali la stampa non parla, cui il regime risponde con qualche condanna alla fucilazione e con una nuova ondata di invii al confino. Alcuni mafiosi erano membri del PNF, a conoscenza e con il favore di Benito Mussolini. Il principe Lanza di Scalea fu uno dei candidati nelle liste del PNF per le amministrative di Palermo mentre a Gangi il barone Antonio Li Destri[16], pure candidato del PNF, era protettore di banditi e delinquenti. Mori non ha sconfitto la mafia. Altri mafiosi iscritti al PNF erano Sgadari e Mocciano. Enzo Ciconte, Storia criminale. La resistibile ascesa di mafia, 'ndrangheta e camorra, dall'Ottocento ai giorni nostri, Rubbettino Editore, 2008.

La seconda guerra mondiale, il separatismo e i moti contadini. Esistono teorie che affermano che il mafioso statunitense Lucky Luciano venne arruolato per facilitare lo sbarco alleato in Sicilia (luglio 1943) e su questo indagò pure la Commissione d'inchiesta statunitense sul crimine organizzato presieduta dal senatore Estes Kefauver (1951), la quale giunse a queste conclusioni: «Durante la seconda guerra mondiale si fece molto rumore intorno a certi preziosi servigi che Luciano, a quel tempo in carcere, avrebbe reso alle autorità militari in relazione a piani per l'invasione della sua nativa Sicilia. Secondo Moses Polakoff, avvocato difensore di Meyer Lansky, la Naval Intelligence aveva richiesto l'aiuto di Luciano, chiedendo a Polakoff di fare da intermediario. Polakoff, il quale aveva difeso Luciano quando questi venne condannato, disse di essersi allora rivolto a Meyer Lansky, antico compagno di Luciano; vennero combinati quindici o venti incontri, durante i quali Luciano fornì certe informazioni». Infatti la Commissione Kefauver accertò che nel 1942 Luciano (all'epoca detenuto) offrì il suo aiuto al Naval Intelligence per indagare sul sabotaggio di diverse navi nel porto di Manhattan, di cui furono sospettate alcune spie naziste infiltrate tra i portuali; in cambio della sua collaborazione, Luciano venne trasferito in un altro carcere, dove venne interrogato dagli agenti del Naval Intelligence e si offrì anche di recarsi in Sicilia per prendere contatti in vista dello sbarco, progetto comunque non andato in porto. È quasi certo che la collaborazione di Luciano con il governo statunitense sia finita qui, anche se lo storico Michele Pantaleone sostenne di oscuri accordi con il boss mafioso Calogero Vizzini per il tramite di Luciano al fine di facilitare l'avanzata americana, smentito però da altre testimonianze: infatti numerosi storici liquidano l'aiuto della mafia allo sbarco alleato come un mito perché avvenne in zone dove la presenza mafiosa era tradizionalmente assente ed inoltre gli angloamericani avevano mezzi militari superiori agli italo-tedeschi da non aver bisogno dell'aiuto della mafia per sconfiggerli. In un rapporto del 29 ottobre 1943, firmato dal capitano americano W.E. Scotten, si legge che in quel periodo l'organizzazione mafiosa «è più orizzontale [...] che verticale [...] in una certa misura disaggregata e ridotta a una dimensione locale» in seguito alla repressione del periodo fascista. Tuttavia, dopo la liberazione della Sicilia, l'AMGOT, il governo militare alleato dei territori occupati, era alla ricerca di antifascisti da sostituire alle autorità locali fasciste e decise di privilegiare i grandi proprietari terrieri e i loro gabellotti mafiosi, che si presentavano come vittime della repressione fascista: ad esempio il barone Lucio Tasca Bordonaro venne nominato sindaco di Palermo, il mafioso Calogero Vizzini sindaco di Villalba, Giuseppe Genco Russo sovrintendente all'assistenza pubblica di Mussomeli e Vincenzo Di Carlo (capo della cosca di Raffadali) responsabile dell'ufficio locale per la requisizione dei cereali. Nello stesso periodo emergeva il Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, la prima organizzazione politica a mobilitarsi attivamente durante l'AMGOT, i cui leader furono soprattutto i grandi proprietari terrieri, tra cui spiccò il barone Lucio Tasca Bordonaro (in seguito indicato come un capomafia in un rapporto dei Carabinieri). Infatti numerosi boss mafiosi, fra cui Calogero Vizzini, Giuseppe Genco Russo, Michele Navarra e Francesco Paolo Bontate, confluirono nel MIS come esponenti agrari e da questa posizione ottennero numerosi incarichi pubblici e vantaggi, da cui poterono esercitare con facilità le attività illecite del furto di bestiame, delle rapine e del contrabbando di generi alimentari. Nell'autunno 1944 il decreto del ministro dell'agricoltura Fausto Gullo (che faceva parte del provvisorio governo italiano subentrato all'AMGOT) stabiliva che i contadini avrebbero ottenuto una quota più grande dei prodotti della terra che coltivavano come affittuari e venivano autorizzati a costituire cooperative e a rilevare la terra lasciata improduttiva. L'applicazione di tale normativa produsse uno scontro sociale tra i proprietari terrieri conservatori (spalleggiati dai loro gabellotti mafiosi) e i movimenti contadini guidati dai leader sindacali, tra i quali spiccarono Accursio Miraglia, Placido Rizzotto e Calogero Cangelosi, che vennero barbaramente assassinati dai mafiosi insieme a molti altri capi del movimento contadino che in quegli anni lottarono per la terra negata. Intanto nella primavera 1945 l'EVIS, il progettato braccio armato del MIS, assoldò il bandito Salvatore Giuliano (capo di una banda di banditi associata al boss mafioso Ignazio Miceli, capomafia di Monreale), che compì imboscate e assalti alle caserme dei carabinieri di Bellolampo, Pioppo, Montelepre e Borgetto per dare inizio all'insurrezione separatista; anche il boss Calogero Vizzini (che all'epoca era il rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta) assoldò la banda dei "Niscemesi", guidata dal bandito Rosario Avila, che iniziò azioni di guerriglia compiendo imboscate contro le locali pattuglie dei Carabinieri. Nel 1946 il MIS decise di entrare nella legalità ma ciò non fermò il bandito Giuliano e la sua banda, che continuarono gli attacchi contro le caserme dei Carabinieri e le leghe dei movimenti contadini, che culminarono nella strage di Portella della Ginestra (1º maggio 1947), contro i manifestanti socialisti e comunisti a Piana degli Albanesi (provincia di Palermo), in cui moriranno 11 persone e altre 27 rimarranno ferite. Infine la banda Giuliano sarà smantellata dagli arresti operati dal Comando forze repressione banditismo, guidato dal colonnello Ugo Luca, che si servì delle soffiate di elementi mafiosi per catturare i banditi: lo stesso Giuliano verrà ucciso nel 1950 dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, il quale era segretamente diventato anch'egli un informatore del colonnello Luca. In seguito Pisciotta venne arrestato ed accusò apertamente i deputati Bernardo Mattarella, Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Mario Scelba di essere i mandanti della strage di Portella della Ginestra ma morì avvelenato nel carcere dell'Ucciardone nel 1954.

Il dopoguerra e la speculazione edilizia. Nel 1950 venne varata la legge per la riforma agraria, che limitava il diritto alla proprietà terriera a soli 200 ettari ed obbligava i proprietari terrieri ad effettuare opere di bonifica e trasformazione: vennero istituiti l'ERAS (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia) e numerosi consorzi di bonifica, la cui direzione venne affidata a noti mafiosi come Calogero Vizzini, Giuseppe Genco Russo e Vanni Sacco, i quali realizzarono enormi profitti incassando gli indennizzi degli appezzamenti ceduti all'ERAS e poi rivenduti ai singoli contadini. La riforma agraria comportò lo smembramento della grande proprietà terriera (importante per gli interessi dei mafiosi, che dopo la riforma riuscirono a rivendere i feudi a prezzo maggiorato all'ERAS) e la riduzione del peso economico dell'agricoltura a favore di altri settori come il commercio o il terziario del settore pubblico. In questo periodo l'amministrazione pubblica in Sicilia divenne l'ente più importante in fatto di economia: dal 1950 al 1953 i dipendenti regionali passarono da circa 800 ad oltre 1350 a Palermo (sede del nuovo governo regionale), la quale era devastata dai bombardamenti del 1943 e 40.000 suoi abitanti, che avevano avuto la casa distrutta, richiedevano nuove abitazioni. Il nuovo piano di ricostruzione edilizia però si rivelò un fallimento e sfociò in quello che venne chiamato «sacco di Palermo»: infatti quegli anni vedevano l'ascesa dei cosiddetti “Giovani Turchi” democristiani Giovanni Gioia, Salvo Lima e Vito Ciancimino, i quali erano strettamente legati ad esponenti mafiosi ed andarono ad occupare le principali cariche dell'amministrazione locale; durante il periodo in cui prima Lima e poi Ciancimino furono assessori ai lavori pubblici di Palermo, il nuovo piano regolatore cittadino sembrò andare in porto nel 1956 e nel 1959 ma furono apportati centinaia di emendamenti, in accoglimento di istanze di privati cittadini (molti dei quali in realtà erano uomini politici e mafiosi, a cui si aggiungevano parenti e associati)[29], che permisero l'abbattimento di numerose residenze private in stile Libertycostruite alla fine dell'Ottocento nel centro di Palermo. In particolare, nel periodo in cui Ciancimino fu assessore (1959-64), delle 4.000 licenze edilizie rilasciate, 1600 figurarono intestate a tre prestanome, che non avevano nulla a che fare con l'edilizia, e furono anche favoriti noti costruttori mafiosi (Francesco Vassallo e i fratelli Girolamo e Salvatore Moncada), che riuscirono a costruire edifici che violavano le clausole dei progetti e delle licenze edilizie. Inoltre nell'immediato dopoguerra numerosi mafiosi americani (Lucky Luciano, Joe Adonis, Frank Coppola, Nick Gentile, Frank Garofalo) si trasferirono in Italia e divennero attivi soprattutto nel traffico di stupefacenti verso il Nordamerica, stabilendo collegamenti con i gruppi mafiosi palermitani (Angelo La Barbera, Salvatore Greco, Antonino Sorci, Tommaso Buscetta, Pietro Davì, Rosario Mancino e Gaetano Badalamenti) e trapanesi (Salvatore Zizzo, Giuseppe Palmeri, Vincenzo Di Trapani e Serafino Mancuso), i quali incettavano sigarette estere ed eroina presso i contrabbandieri corsi e tangerini. Nell'ottobre 1957 si tennero una serie di incontri presso il Grand Hotel et des Palmes di Palermo tra mafiosi americani e siciliani (Gaspare Magaddino, Cesare Manzella, Giuseppe Genco Russo ed altri): gli inquirenti dell'epoca sospettarono che si incontrarono per concordare l'organizzazione del traffico degli stupefacenti, dopo che la rivoluzione castrista a Cuba (1956-57) aveva privato i mafiosi siciliani ed americani di quell'importante base di smistamento per l'eroina. Secondo il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, nel 1957 il mafioso siculo-americano Joseph Bonanno (che si trovava in visita a Palermo) prospettò l'idea di creare una «Commissione» sul modello di quella dei mafiosi americani, di cui dovevano fare parte tutti i capi dei "mandamenti" della provincia di Palermo e doveva avere il compito di dirimere le dispute tra le singole Famiglie della provincia.

La "prima guerra di mafia" e la Commissione parlamentare antimafia. Le tensioni latenti riguardo agli affari illeciti e al territorio sfociarono nell'uccisione del boss Calcedonio Di Pisa (26 dicembre 1962), che ruppe una fragile tregua raggiunta tra i principali mafiosi palermitani del tempo[35]; l'omicidio venne compiuto da Michele Cavataio (capo della Famiglia dell'Acquasanta), che voleva fare ricadere la responsabilità sui fratelli Angelo e Salvatore La Barbera (temibili mafiosi di Palermo Centro): infatti, dopo l'assassinio di Di Pisa, Salvatore La Barberarimase vittima della «lupara bianca» su ordine della "Commissione" e ciò scatenò una serie di omicidi, sparatorie ed autobombe; Cavataio approfittò della situazione di conflitto per sbarazzarsi dei suoi avversari e per queste ragioni si associò ai boss Pietro Torretta ed Antonino Matranga (rispettivamente capi delle Famiglie dell'Uditoree di Resuttana): gli omicidi compiuti da Cavataio e dai suoi associati culminarono nella strage di Ciaculli (30 giugno 1963), in cui morirono sette uomini delle forze dell'ordine dilaniati dall'esplosione di un'autobomba che stavano disinnescando e che era destinata al mafioso rivale Salvatore "Cicchiteddu" Greco (capo del "mandamento" di Brancaccio-Ciaculli. La strage di Ciaculli provocò molto scalpore nell'opinione pubblica italiana e nei mesi successivi vi furono circa duemila arresti di sospetti mafiosi nella provincia di Palermo: per queste ragioni, secondo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Antonino Calderone, la "Commissione" di Cosa nostra venne sciolta e molte cosche mafiose decisero di sospendere le proprie attività illecite. Nello stesso periodo la Commissione Parlamentare Antimafia iniziava i suoi lavori, raccogliendo notizie e dati necessari alla valutazione del fenomeno mafioso, proponendo misure di prevenzione e svolgendo indagini su casi particolari, e concluderà queste indagini soltanto nel 1976, dopo numerosi dibattiti e polemiche. Intanto si svolsero alcuni processi contro i protagonisti dei conflitti mafiosi di quegli anni arrestati in seguito alla strage di Ciaculli: numerosi mafiosi vennero giudicati in un processo svoltosi a Catanzaro per legittima suspicione nel 1968 (il famoso "processo dei 117"); in dicembre venne pronunciata la sentenza ma solo alcuni ebbero condanne pesanti e il resto degli imputati furono assolti per insufficienza di prove o condannati a pene brevi per il reato di associazione a delinquere e, siccome avevano aspettato il processo in stato di detenzione, furono rilasciati immediatamente[38]; un altro processo si svolse a Bari nel 1969 contro i protagonisti di una faida mafiosa avvenuta a Corleone alla fine degli anni cinquanta: gli imputati vennero tutti assolti per insufficienza di prove e un rapporto della Commissione Parlamentare Antimafia criticò aspramente il verdetto. Nel marzo 1973 Leonardo Vitale, membro della cosca di Altarello di Baida, si presentò spontaneamente alla questura di Palermo e dichiarò agli inquirenti che stava attraversando una crisi religiosa e intendeva cominciare una nuova vita; infatti si autoaccusò di numerosi reati, rivelando per primo l'esistenza di una "Commissione" e descrivendo anche il rito di iniziazione di Cosa nostra e l'organizzazione di una cosca mafiosa: si trattava del primo mafioso del dopoguerra che decideva di collaborare apertamente con le autorità e il caso venne citato nella relazione di minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia (redatta nel 1976). Tuttavia Vitale non venne ritenuto credibile e la sua pena commutata in detenzione in un manicomio criminale perché dichiarato "seminfermo di mente"; scontata la pena e dimesso, Vitale verrà ucciso nel 1984.

La «strage di viale Lazio» (10 dicembre 1969). Dopo la fine dei grandi processi, venne decisa l'eliminazione di Michele Cavataio poiché era il principale responsabile di molti delitti della "prima guerra di mafia", compresa la strage di Ciaculli, che avevano provocato la dura repressione delle autorità contro i mafiosi: per queste ragioni, il 10 dicembre 1969 un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Santa Maria di Gesù, Corleone e Riesi (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella, Emanuele D'Agostino, Gaetano Grado, Damiano Caruso) trucidò Cavataio nella cosiddetta «strage di viale Lazio». Dopo l'uccisione di Cavataio, nel 1970 si tennero una serie di incontri a Zurigo, Milano e Catania, a cui parteciparono mafiosi della provincia di Palermo (Salvatore Greco, Gaetano Badalamenti, Stefano Bontate, Tommaso Buscetta, Luciano Liggio) e di altre province (Giuseppe Calderone, capo della Famiglia di Catania, e Giuseppe Di Cristina, rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta subentrato al boss Giuseppe Genco Russo), i quali discussero sulla ricostruzione della "Commissione" e sull'implicazione dei mafiosi siciliani nel Golpe Borghese in cambio della revisione dei processi a loro carico; Calderone e Di Cristina stessi andarono a Roma per incontrare il principe Junio Valerio Borghese per ascoltare le sue proposte ma in seguito il progetto fallì. Durante gli incontri, venne costituito una specie di "triumvirato" provvisorio per dirimere le dispute tra le varie cosche della provincia di Palermo, che era composto da Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Luciano Leggio (capo della cosca di Corleone), benché si facesse spesso rappresentare dal suo vice Salvatore Riina. Infatti nello stesso periodo il "triumvirato" provvisorio ordinò la sparizione del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre 1970), che rimase vittima della «lupara bianca» forse per aver scoperto un coinvolgimento dei mafiosi nell'uccisione di Enrico Mattei o nel Golpe Borghese[46]. Le indagini per la scomparsa del giornalista furono coordinate dal procuratore Pietro Scaglione, che il 5 maggio 1971 rimase vittima di un agguato a Palermo insieme al suo autista Antonino Lo Russo: si trattava del primo "omicidio eccellente" commesso dall'organizzazione mafiosa nel dopoguerra. Nel 1974 una nuova "Commissione" divenne operativa e il boss Gaetano Badalamenti venne incaricato di dirigerla; l'anno successivo il boss Giuseppe Calderone propose la creazione di una "Commissione regionale", che venne chiamata la «Regione», un comitato composto dai rappresentanti mafiosi delle province di Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanissetta, Enna e Catania (escluse quelle di Messina, Siracusa e Ragusa dove la presenza di Famiglie era tradizionalmente assente o non avevano un'importante influenza), che doveva decidere su questioni e affari illeciti riguardanti gli interessi mafiosi di più province; Calderone venne anche incaricato di dirigere la «Regione» e fece approvare dagli altri rappresentanti il divieto assoluto di compiere sequestri di persona in Sicilia per porre fine ai rapimenti a scopo di estorsione compiuti dal boss Luciano Leggio e dal suo vice Salvatore Riina: infatti Leggio e Riina compivano sequestri contro imprenditori e costruttori vicini ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti per danneggiarne il prestigio, e si erano avvicinati numerosi mafiosi della provincia di Palermo(tra cui Michele Greco, Bernardo Brusca, Antonino Geraci, Raffaele Ganci) e di altre province (Mariano Agate e Francesco Messina Denaro nella provincia di Trapani, Carmelo Colletti e Antonio Ferro nella provincia di Agrigento, Francesco Madonia nella provincia di Caltanissetta, Benedetto Santapaola a Catania), costituendo la cosiddetta fazione dei "Corleonesi" avversa al gruppo Bontate-Badalamenti. Inoltre gli anni 1973-74 videro un boom del contrabbando di sigarette estere, che aveva il suo centro di smistamento a Napoli: infatti i mafiosi palermitani e catanesi acquistavano carichi di sigarette attraverso Michele Zaza ed altri camorristi napoletani[48]; addirittura nel 1974 si provvide ad affiliare nell'organizzazione mafiosa Zaza, i fratelli Nuvoletta e Antonio Bardellino, al fine di tenerli sotto controllo e di lusingarne le vanità, autorizzandoli anche a formare una propria Famiglia a Napoli. Tuttavia nella seconda metà degli anni settanta numerose cosche divennero attive soprattutto nel traffico di stupefacenti: infatti facevano acquistare morfina base dai trafficanti turchi e thailandesi attraverso contrabbandieri già attivi nel traffico di sigarette e la facevano raffinare in eroina in laboratori clandestini comuni a tutte le Famiglie, che erano attivi a Palermo e nelle vicinanze; l'esportazione dell'eroina in Nordamerica faceva capo ai mafiosi palermitani Gaetano Badalamenti, Salvatore Inzerillo, Stefano Bontate, Giuseppe Bono ma anche ai Cuntrera-Caruana della Famiglia di Siculiana, in provincia di Agrigento: secondo dati ufficiali, in quel periodo i mafiosi siciliani avevano il controllo della raffinazione, spedizione e distribuzione di circa il 30% dell'eroinaconsumata negli Stati Uniti. Nel 1977 Riina e il suo sodale Bernardo Provenzano (che avevano preso il posto di Leggio, arrestato nel 1974) ordinarono l'uccisione del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, senza però il consenso della "Commissione regionale": infatti Giuseppe Di Cristina si era opposto all'omicidio perché avverso alla fazione corleonese e quindi legato a Bontate e Badalamenti[54]. Nel 1978 Francesco Madonia (capo del "mandamento" di Vallelunga Pratameno, in provincia di Caltanissetta) venne assassinato nei pressi di Butera, su mandato di Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone poiché era legato a Riina e Provenzano, i quali, in risposta all'omicidio Madonia, assassinarono Di Cristina a Palermo mentre qualche tempo dopo anche Giuseppe Calderone finì ucciso dal suo sodale Benedetto Santapaola, che era passato alla fazione corleonese[43]. Nello stesso periodo Riina fece espellere dalla "Commissione" anche Badalamenti (che fuggì in Brasile per timore di essere eliminato) e venne incaricato di sostituirlo Michele Greco (capo del "mandamento" di Brancaccio-Ciaculli, che era strettamente legato alla fazione corleonese). Nel 1979, la "Commissione", ormai composta in maggioranza dai Corleonesi, scatenò una serie di "omicidi eccellenti": in quei mesi vennero trucidati il giornalista Mario Francese (26 gennaio), il segretario democristiano Michele Reina (9 marzo), il commissario Boris Giuliano (21 luglio) e il giudice Cesare Terranova (25 settembre); nell'anno successivo vi furono altri tre "cadaveri eccellenti": il presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio), il capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio) e il procuratore Gaetano Costa (6 agosto), che venne fatto assassinare dal boss Salvatore Inzerillo per mandare un segnale ai Corleonesi, dimostrando che anche lui era capace di ordinare un omicidio "eccellente".

La "seconda guerra di mafia".

L'omicidio di Stefano Bontate (23 aprile 1981). Nel marzo 1981 Giuseppe Panno, capo della cosca di Casteldaccia e strettamente legato a Bontate, rimase vittima della «lupara bianca» per ordine dei Corleonesi[41]; Bontate organizzò allora l'uccisione di Riina, il quale reagì facendo assassinare prima Bontate (23 aprile) e poi anche il suo associato Salvatore Inzerillo (11 maggio). Nel periodo successivo a questi omicidi, numerosi mafiosi appartenenti alle cosche di Bontate e Inzerillo vennero attirati in imboscate dai loro stessi associati e fatti sparire; il gruppo di fuoco corleonese eliminò anche numerosi rivali nella zona tra Bagheria, Casteldaccia ed Altavilla Milicia, che venne soprannominata «triangolo della morte» dalla stampa dell'epoca: in quell'anno (1981) si contarono circa 200 omicidi a Palermo e nella provincia, a cui si aggiunsero numerose «lupare bianche»; nel novembre 1982 furono ammazzati una dozzina di mafiosi di Partanna-Mondello, della Noce e dell'Acquasanta nel corso di una grigliata all'aperto nella tenuta di Michele Greco e i loro corpi spogliati e buttati in bidoni pieni di acido: nella stessa giornata, in ore e luoghi diversi di Palermo, furono anche uccisi numerosi loro associati per evitarne la reazione. Il massacro si estese perfino negli Stati Uniti: Paul Castellano, capo della Famiglia Gambino di New York, inviò i mafiosi Rosario Naimo e John Gambino (imparentato con gli Inzerillo) a Palermo per accordarsi con la "Commissione", la quale stabilì che i parenti superstiti di Inzerillo fuggiti negli Stati Uniti avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più in Sicilia ma, in cambio della loro fuga, Naimo e Gambino dovevano trovare ed uccidere Antonino e Pietro Inzerillo, rispettivamente zio e fratello del defunto Salvatore, fuggiti anch'essi negli Stati Uniti[58]: Antonino Inzerillo rimase vittima della «lupara bianca» a Brooklyn mentre il cadavere di Pietro venne ritrovato nel bagagliaio di un'auto a Mount Laurel, nel New Jersey, con una mazzetta di dollari in bocca e tra i genitali (14 gennaio 1982). Tra il 1981 e il 1983 vennero commessi efferati omicidi contro 35 tra parenti e amici di Salvatore Contorno, un ex uomo di Bontate che era sfuggito ad agguato per le strade di Brancaccio (15 giugno 1981); si attuarono vendette trasversali pure contro i familiari di Gaetano Badalamenti e del suo associato Tommaso Buscetta, i quali risiedevano in Brasile ed erano sospettati di fornire aiuto al mafioso Giovannello Greco, che apparteneva alla fazione corleonese ma era considerato un "traditore" perché era stato amico di Salvatore Inzerillo ed aveva tentato di uccidere Michele Greco: il padre, lo zio, il suocero e il cognato di Giovannello Greco furono assassinati ma anche i due figli di Buscetta rimasero vittime della «lupara bianca» e gli vennero uccisi un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti. Nello stesso periodo, nelle altre province Riina e Provenzano imposero i propri uomini di fiducia, che eliminarono i mafiosi locali che erano stati legati al gruppo Bontate-Badalamenti: infatti Francesco Messina Denaro (capo del "mandamento" di Castelvetrano) divenne il rappresentante mafioso della provincia di Trapani, Carmelo Colletti della provincia di Agrigento, Giuseppe "Piddu" Madonia (figlio di Francesco e capo del "mandamento" di Vallelunga Pratameno) di quella di Caltanissetta mentre Benedetto Santapaola divenne capo della Famiglia di Catania dopo l'omicidio del suo rivale Alfio Ferlito (ex vice di Giuseppe Calderone), trucidato insieme a tre carabinieri che lo stavano scortando in un altro carcere nella cosiddetta «strage della circonvallazione» (16 giugno 1982).

L'omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro (3 settembre 1982). In queste circostanze, la "Commissione" (ormai composta soltanto da capimandamento fedeli a Riina e Provenzano) ordinò l'omicidio dell'onorevole Pio La Torre, che era giunto da pochi mesi in Sicilia per prendere la direzione regionale del PCI ed aveva proposto un disegno di legge che prevedeva per la prima volta il reato di "associazione mafiosa" e la confisca dei patrimoni mafiosi di provenienza illecita: il 30 aprile 1982 La Torre venne trucidato insieme al suo autista Rosario Di Salvo in una strada di Palermo. In seguito al delitto La Torre, il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e il ministro dell'Interno Virginio Rognoni chiesero al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa di insediarsi come prefetto di Palermo con sei giorni di anticipo: infatti il ministro Rognoni aveva promesso a Dalla Chiesa poteri di coordinamento fuori dall'ordinario per contrastare l'emergenza mafiosa ma tali poteri non gli furono mai concessi. Per queste ragioni Dalla Chiesa denunciò il suo stato di isolamento con una famosa intervista al giornalista Giorgio Bocca, in cui parlò anche dei legami tra le cosche ed alcune famose imprese catanesi; infine il 3 settembre 1982, dopo circa cento giorni dal suo insediamento a Palermo, Dalla Chiesa venne brutalmente assassinato da un gruppo di fuoco mafioso insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro e all'agente di scorta Domenico Russo.

Gli anni ottanta, i primi pentiti e i processi. L'omicidio del generale Dalla Chiesa provocò molto scalpore nell'opinione pubblica italiana e nei giorni successivi il governo Spadolini II varò la legge 13 settembre 1982 n. 646 (detta "Rognoni-La Torre" dal nome dei promotori del disegno di legge) che introdusse nel codice penale italiano l'art. 416-bis, il quale prevedeva per la prima volta nell'ordinamento italiano il reato di "associazione di tipo mafioso" e la confisca dei patrimoni di provenienza illecita. Tutto ciò indusse i mafiosi a scatenare ritorsioni contro i magistrati che applicavano questa nuova norma: il 26 gennaio 1983venne ucciso il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, il quale era impegnato in importanti inchieste sui mafiosi della provincia di Trapani e preparava il suo trasferimento alla Procura di Firenze, da dove avrebbe potuto disturbare gli interessi mafiosi in Toscana; il 29 luglio un'autobomba parcheggiata sotto casa uccise Rocco Chinnici, capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, insieme a due agenti di scorta e al portiere del condominio. Dopo l'assassinio di Chinnici, il giudice Antonino Caponnetto, che lo sostituì a capo dell'Ufficio Istruzione, decise di istituire un "pool antimafia", ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso, di cui chiamò a far parte i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta;[70] essi, basandosi soprattutto su indagini bancarie e patrimoniali, vecchi rapporti di polizia e procedimenti odierni, raccolsero un abbondante materiale probatorio che andò a confermare le dichiarazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, che avevano deciso di collaborare con la giustizia poiché erano stati vittime di vendette trasversali contro i loro parenti e amici durante la «seconda guerra di mafia»: il 29 settembre 1984 le dichiarazioni di Buscetta produssero 366 ordini di cattura mentre quelle di Contorno altri 127 mandati di cattura, nonché arresti eseguiti tra Palermo, Roma, Bari e Bologna. Per queste ragioni, la "Commissione" incaricò il boss Pippo Calò di organizzare insieme ad alcuni terroristi neri e camorristi la strage del Rapido 904 (23 dicembre 1984), che provocò 17 morti e 267 feriti, al fine di distogliere l'attenzione delle autorità dalle indagini del pool antimafia e dalle dichiarazioni di Buscetta e Contorno. L'8 novembre 1985 il giudice Falcone depositò l'ordinanza-sentenza di 8000 pagine che rinviava a giudizio 476 indagati in base alle indagini del pool antimafia supportate dalle dichiarazioni di Buscetta, Contorno e altri ventitré collaboratori giustizia: il cosiddetto "maxiprocesso" che ne scaturì iniziò in primo grado il 10 febbraio 1986, presso un'aula-bunker appositamente costruita all'interno del carcere dell'Ucciardone a Palermo per accogliere i numerosi imputati e avvocati, concludendosi il 16 dicembre 1987 con 342 condanne, tra cui 19 ergastoli che vennero commutati tra gli altri a Nitto Santapaola, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina, giudicati in contumacia. In seguito alla sentenza di primo grado, il 25 settembre 1988 il giudice Antonino Saetta venne ucciso insieme al figlio Stefano lungo la strada statale Caltanissetta-Agrigento da alcuni mafiosi di Palma di Montechiaro per fare un favore a Riina e ai suoi associati palermitani[77]: infatti Saetta avrebbe dovuto presiedere il grado di Appello del Maxiprocesso ed aveva già condannato all'ergastolo i responsabili dell'omicidio del capitano Emanuele Basile[78]. Infatti il 10 dicembre 1990 la Corte d'assise d'appello ridusse drasticamente le condanne di primo grado del Maxiprocesso, accettando soltanto parte delle dichiarazioni di Buscetta e Contorno.

Gli anni novanta: le stragi e la trattativa con lo Stato italiano.  

La strage di Capaci (23 maggio 1992). L'avvio della stagione degli attentati venne deciso nel corso di alcune riunioni ristrette della "Commissione interprovinciale" del settembre-ottobre 1991 e subito dopo in una riunione della "Commissione provinciale" presieduta da Salvatore Riina, svoltasi nel dicembre 1991: specialmente durante questo incontro, venne deciso ed elaborato un piano stragista "ristretto", che prevedeva l'assassinio di nemici storici di Cosa nostra (i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e di personaggi rivelatisi inaffidabili, primo fra tutti l'onorevole Salvo Lima.

La strage di Via D'Amelio (19 luglio 1992). Il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò tutte le condanne del Maxiprocesso, compresi i numerosi ergastoli a Riina e agli altri boss, avallando le dichiarazioni di Buscetta e Contorno[81]. In seguito alla sentenza della Cassazione, nel febbraio-marzo 1992 si tennero riunioni ristrette della "Commissione", sempre presiedute da Riina, che decisero di dare inizio agli attentati e stabilirono nuovi obiettivi da colpire[80]: il 12 marzo Salvo Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche; il 23 maggio avvenne la strage di Capaci, in cui persero la vita Falcone, la moglie ed alcuni agenti di scorta; il 19 luglio avvenne la strage di via d'Amelio, in cui rimasero uccisi il giudice Borsellino e gli agenti di scorta: in seguito a questa ennesima strage, il governo reagì dando il via all'"Operazione Vespri siciliani", con cui vennero inviati 7000 uomini dell'esercito in Sicilia per presidiare gli obiettivi sensibili e oltre cento detenuti mafiosi particolarmente pericolosi vennero trasferiti in blocco nelle carceri dell'Asinara e di Pianosa per isolarli dal mondo esterno; il 19 settembre venne ucciso Ignazio Salvo (imprenditore e mafioso di Salemi), anche lui rivelatosi inaffidabile perché era stato legato a Salvo Lima. Il 15 gennaio 1993 Riina venne arrestato dagli uomini del ROS dell'Arma dei Carabinieri. In seguito all'arresto di Riina, si creò un gruppo mafioso favorevole alla continuazione degli attentati contro lo Stato (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano) ed un altro contrario (Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi) mentre il boss Bernardo Provenzano era il paciere tra le due fazioni e riuscì a porre la condizione che gli attentati avvenissero fuori dalla Sicilia, in "continente": il 14 maggio avvenne un attentato dinamitardo in via Ruggiero Fauro a Roma ai danni del giornalista Maurizio Costanzo, il quale però ne uscì illeso; il 27 maggio un altro attentato dinamitardo in via dei Georgofili a Firenze devastò la Galleria degli Uffizi e distrusse la Torre dei Pulci (cinque morti e una quarantina di feriti).

La strage di via Palestro (27 luglio 1993). La notte del 27 luglio esplosero quasi contemporaneamente tre autobombe a Roma e Milano, devastando le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro nonché il Padiglione d'Arte Contemporanea di Milano (cinque morti e una trentina di feriti in tutto); (27 luglio 1993) il 23 gennaio 1994 era programmato un altro attentato dinamitardo contro il presidio dell'Arma dei Carabinieri in servizio allo Stadio Olimpico di Roma durante le partite di calcio ma un malfunzionamento del telecomando che doveva provocare l'esplosione fece fallire il piano omicida[84][85] (episodio ricordato come il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma). Inoltre nel novembre 1993 i bossLeoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Giovanni Brusca e Matteo Messina Denaro avevano organizzato il sequestro di Giuseppe Di Matteo per costringere il padre Santino (che stava collaborando con la giustizia) a ritrattare le sue dichiarazioni, nel quadro di una strategia di ritorsioni verso i collaboratori di giustizia; infine, dopo 779 giorni di prigionia, Di Matteo venne brutalmente strangolato e il cadavere buttato in un bidone pieno di acido nitrico. A partire dal 1993 si svolse un importante processo per mafia, intentato dalla Procura di Palermo nei confronti dell'ex Presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti. Alla fine di un lungo iter giudiziario la Corte di Appello di Palermo nel 2003 accerterà una «...autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980», sentenza confermata nel 2004 dalla Cassazione. Il 27 gennaio 1994 vennero arrestati i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, che si erano occupati dell'organizzazione degli attentati e per questo la strategia delle bombe si fermò. In quel periodo numerosi mafiosi iniziarono a collaborare con la giustizia per via delle dure condizioni d'isolamento in carcere previste dalla nuova norma del 41-bis e dalle nuove leggi in materia di collaborazione: nel 1996 il numero dei collaboratori di giustizia raggiunse il livello record di 424 unità[89]; contemporaneamente le indagini della neonata Direzione Investigativa Antimafia portarono all'arresto di numerosi latitanti (Leoluca Bagarella, Pietro Aglieri, Giovanni Brusca ed altre decine di mafiosi).

Gli anni duemila e l'arresto di Provenzano. A partire dagli anni novanta, Bernardo Provenzano, con l'arresto di Totò Riina e Leoluca Bagarella, diviene il capo di Cosa nostra (era l'alter-ego di Riina fin dagli anni cinquanta), circondandosi solo di uomini di fiducia, come Benedetto Spera, cambia radicalmente la politica e il modus operandi negli affari della mafia siciliana; i mandamenti (divisioni mafiose delle zone di influenza in Sicilia) più ricchi cedono i loro guadagni a quelli meno redditizi in modo da accontentare tutti (una sorta di stato sociale), evitando ulteriori conflitti. Benché Bernardo Provenzano si trovi ad essere l'ultimo dei vecchi boss, Cosa nostra non gode più di massiccio consenso, come sino a prima degli anni novanta. Nel 2002 viene arrestato il boss Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano che diviene collaboratore di giustizia. L'11 aprile del 2006, dopo 43 anni di latitanza (dal 1963), Provenzano viene catturato in un casolare a Montagna dei Cavalli, frazione a 2 km da Corleone. Il 5 novembre del 2007, dopo 25 anni di latitanza, viene arrestato, in una villetta di Giardinello, anche il presunto successore di Provenzano, il boss Salvatore Lo Piccolo assieme al figlio Sandro. Attualmente si ritiene che al vertice dell'organizzazione criminale ci sia Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano (Trapani), latitante dal 1993.

Gli anni duemiladieci e l'arresto di Settimo Mineo. Nonostante la ricerca dei superlatitanti Matteo Messina Denaro e Giovanni Motisi da parte delle forze dell'ordine prosegue, il 4 dicembre 2018 il comando dei Carabinieri del capoluogo siciliano effettuano una importante operazione chiamata "Cupola 2.0" che ha portato all'arresto di 46 persone per associazione mafiosa. Tra loro il gioielliere ottantenne Settimo Mineo, ritenuto il nuovo capo dei capi di Cosa Nostra tramite elezione unanime in un summit organizzato da tutti i capi regionali il 29 maggio. Secondo gli inquirenti tale incontro ha posto le basi per la costituzione di una nuova commissione provinciale dopo 25 anni dall'ultima formazione da parte dei corleonesi ponendo Mineo come l'erede assoluto di Salvatore Riina. L'arresto di quest'ultimo come dichiarato dal Procuratore aggiunto Salvatore De Luca e dal pm Antonio Ingroia mette in dubbio per la prima volta la posizione di potere di Matteo Messina Denaro nell'organizzazione visto che anche per tradizione il capo assoluto di Cosa Nostra non è mai stato un membro situato al di fuori della provincia di Palermo.

Organizzazione e struttura. Secondo le dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia, l'aggregato principale di Cosa Nostra è la Famiglia (detta anche cosca), composta da elementi criminali che hanno tra loro vincoli o rapporti di affinità i quali si aggregano per controllare tutti gli affari leciti e illeciti della zona dove operano; i componenti di una Famiglia collaborano con uno o più aspiranti mafiosi non ancora affiliati solitamente chiamati "avvicinati", i quali sono possibili candidati all'affiliazione e quindi vengono messi alla prova per saggiare la loro affidabilità, facendogli compiere numerose "commissioni", come il contrabbando, la riscossione del denaro delle estorsioni, il trasporto di armi da un covo all'altro, l'esecuzione di omicidi e il furto di automobili e moto per compiere atti delittuosi[41]. Per essere affiliati nella Famiglia, esiste un rituale particolare (la cosiddetta "punciuta") che consiste nella presentazione dell'avvicinato ai componenti della Famiglia locale in riunione e, alla presenza di tutti, pronuncia un giuramento di fedeltà. I membri di una Famiglia eleggono per alzata di mano un proprio capo, che è solo un rappresentante, il quale nomina un sottocapo, un consigliere e uno o più capidecina, i quali hanno l'incarico di avvisare tutti gli affiliati della Famiglia quando si svolgono le riunioni. I rappresentanti di tre o quattro Famiglie contigue eleggono un capomandamento; tutti i mandamenti di una provincia eleggono il rappresentante provinciale, che poi nomina un sottocapo provinciale e un consigliere. Il collaboratore di giustizia Antonino Calderone dichiarò che «[...] originariamente a Palermo, come in tutte le altre province siciliane, vi erano le cariche di "rappresentante provinciale", "vice-rappresentante" e "consigliere provinciale". Le cose mutarono con Greco Salvatore "Cicchiteddu" [nel 1957] poiché venne creato un organismo collegiale, denominato "Commissione", e composto dai capi-mandamento»; anche il collaboratore Francesco Marino Mannoia dichiarò che «[...] soltanto a Palermo l'organismo di vertice di Cosa nostra è la "Commissione"; nelle altre province, vi è un organismo singolo costituito dal rappresentante provinciale». I rappresentanti della provincia sono, a loro volta, componenti della cosiddetta "Commissione interprovinciale", soprannominata anche la "Regione", che nomina un rappresentante regionale e si riuniva solitamente per deliberare su importanti decisioni riguardanti gli interessi mafiosi di più province che esulavano dall'ambito provinciale e che interessano i territori di altre Famiglie.

I rapporti con lo Stato italiano. «Cosa nostra è da un lato contro lo Stato e dall'altro è dentro e con lo Stato, attraverso i rapporti esterni con suoi rappresentanti nella società e nelle istituzioni.» (Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia). Come si rivela dalle numerose presenze nel Parlamento e nel governo di elementi non estranei a frequentazioni mafiose[99], si fa strada negli anni novanta la tesi secondo cui lo Stato italiano nei suoi componenti politici abbia un certo rapporto di "convivenza" con questo fenomeno mai definitivamente soppresso. Lo stesso comportamento del CSM durante il lavoro di Giovanni Falcone che inizialmente non ricandidò il giudice come presidente della commissione antimafia da lui creata fa intendere una certa tendenza a voler ostacolare un lavoro diventato troppo scomodo per certi poteri deviati all'interno dello Stato. Uno dei momenti più critici è stata la trattativa stato - mafia: fu contattato Vito Ciancimino, per mezzo di rappresentanti del Ministro dell'Interno Nicola Mancino fra cui il capitano del ROS Giuseppe De Donno, per far smettere la stagione delle stragi del 1992, 1993, in cambio dell'annullamento del decreto legge 41 bis e altri benefici per i detenuti mafiosi. A proposito dei rapporti tra mafia e stato, si parlerebbe di rito peloritano per riferirsi ad una situazione di particolare contiguità (per non dire addirittura coincidenza) tra uomini di mafia e presunti esponenti delle istituzioni italiane. Esiste inoltre una Commissione regionale che decide l'andamento delle cose anche dal punto di vista politico, ovvero decide per chi, le persone di una famiglia e i loro affiliati dovessero votare. Per esempio Salvo Lima e Vito Ciancimino furono eletti da voti mafiosi di cittadini legati alla mafia della città di Palermo, Salvo Lima non mantenne le sue promesse elettorali e fu ucciso, invece Vito Ciancimino fu condannato per essere stato un mafioso conclamato.

Rapporti con le altre organizzazioni criminali. Cosa nostra, per via del suo carisma criminale e della sua potenza delinquenziale, ha intrattenuto, e intrattiene tuttora, rapporti con le più importanti organizzazioni criminali sia italiane sia estere. Il processo di globalizzazione interessa anche il fenomeno criminale mafioso, la mafia di tutti i paesi del mondo si unisce e collabora, portando avanti le sue attività criminali caratteristiche, come il narcotraffico, l'esportazione illegale di armi, la prostituzione, l'estorsione e il gioco d'azzardo, rappresentando un problema per l'umanità, per l'ordine civile della società e il quieto vivere.

Via D'Amelio, la relazione dell'Antimafia regionale: "Dietro il depistaggio i complici di Cosa nostra". La commissione denuncia "omissioni e reticenze" di magistrati, esponenti dei servizi segreti e vertici della polizia. Fiammetta Borsellino: Inaccettabile che alcuni pm si siano sottratti alle audizioni". Di Matteo: "Altri dovrebbero vergognarsi, non io", scrive Salvo Palazzolo il 19 dicembre 2018 su "La Repubblica". "Mai una sola investigazione giudiziaria e processuale ha raccolto tante anomalie, irritualità e forzature, sul piano procedurale e sostanziale, come l'indagine sulla morte di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta". È pesante l'atto d'accusa della commissione regionale Antimafia, presieduta da Claudio Fava. "Mai alla realizzazione di un depistaggio concorsero tante volontà, tante azioni, tante omissioni come in questo caso. Mai gli indizi seminati, in corso di depistaggio, furono così numerosi e così ignorati al tempo stesso come nell'indagine su via D'Amelio". Per l'Antimafia, "la stessa mano non mafiosa che accompagnò Cosa nostra nell'organizzazione della strage potrebbe essersi mossa, subito dopo, per determinare il depistaggio". Nel presentare la relazione, il presidente Fava parla di "concorso di responsabilità che va oltre l'ex procuratore di Caltanissetta Tinebra e l'ex capo della squadra mobile La Barbera e chiama in causa magistrati, vertici dei servizi segreti e della polizia di Stato". La relazione parte dalle domande di Fiammetta Borsellino, che era presente alla conferenza stampa di Fava. "Non è accettabile che magistrati come Ilda Boccassini, Nino Di Matteo e la signora Palma, si siano sottratti alle audizioni della commissione regionale antimafia. E' una vergogna". Così dice la figlia del giudice Paolo: "Lo trovo moralmente inaccettabile e non giustificabile". Di Matteo aveva chiesto di essere sentito dalla commissione nazionale antimafia. E oggi dice: "Gran parte della mia vita è stata ed è dedicata alla ricerca della verità. Dovrebbero vergognarsi altri, non io". Poi spiega: "Non ho ritenuto di accettare l’invito per l’audizione innanzi a una commissione regionale antimafia che non ha i poteri e le competenze per potersi occupare di un argomento così delicato e complesso". Interviene Fava: "Vorrei tranquillizzare il pm Di Matteo. Le competenze ci sono". Per il presidente Fava, "è certo il ruolo che il Sisde ebbe nell'immediata manomissione del luogo dell'esplosione e nell'altrettanto immediata incursione nelle indagini della Procura di Caltanissetta, procurando le prime note investigative che contribuiranno a orientare le ricerche della verità in una direzione sbagliata. E' certa la consapevolezza (ma anche l'inerzia) che si ebbe nell'intera procura di Caltanissetta (il procuratore capo, il suo aggiunto, i suoi sostituti) sull'irritualità di quella collaborazione fra inquirenti e servizi segreti, assolutamente vietata dalla legge". "Certa è anche l'irritualità dei modi ("predatori", ci ha detto efficacemente un pm audito in Commissione) attraverso cui il cosiddetto gruppo Falcone-Borsellino condizionò le indagini, omise atti e informazioni, fabbricò e gestì la presunta collaborazione di Vincenzo Scarantino e degli altri cosiddetti pentiti. Certo, infine, ripetiamo - prosegue Fava - il contributo di reticenza che offrirono a garanzia del depistaggio - consapevolmente o inconsapevolmente - non pochi soggetti tra i ranghi della magistratura, delle forze di polizia e delle istituzioni nelle loro funzioni apicali. Ben oltre i nomi noti dei tre poliziotti, imputati nel processo in corso a Caltanissetta, e dei due domini dell'indagine (oggi scomparsi), e cioè il procuratore capo Tinebra e il capo del gruppo d'indagine Falcone-Borsellino, Arnaldo La Barbera".

Fava: “Depistaggio Borsellino opera anche dei magistrati”. La relazione choc sulla strage di via D’Amelio, scrive Damiano Aliprandi il 20 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". «La sensazione è che il depistaggio sulla strage di via D’Amelio sia il concerto di contributi di reticenza offerti – consapevolmente o inconsapevolmente – a tutti i livelli istituzionali, che hanno attraversato la magistratura e le forze dell’ordine». A dirlo è il Presidente della Commissione Regionale Antimafia Claudio Fava, che ha presentato in conferenza stampa i risultati della commissione d’inchiesta sulla strage di via D’Amelio. All’incontro con la stampa era presente, seduta nell’ultima fila, anche Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso in via D’Amelio. Claudio Fava ha quindi presentato il rapporto che trasmetterà per conoscenza alle Procure di Caltanissetta e Messina, quest’ultima competente per quanto riguarda possibili indagini nei confronti dei magistrati, protagonisti dei primi due processi ai quali – secondo le motivazioni del Borsellino Quater – «le numerose oscillazioni e ritrattazioni» di Scarantino avrebbero dovuto consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle sue dichiarazioni, e una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienza maturate nel contrasto alla criminalità organizzata, e incentrate su quello che veniva giustamente definito il metodo Falcone». Claudio Fava, durante la conferenza, non solo ha ricalcato le motivazioni del Borsellino Quater, ma è entrato nei dettagli. «Si decise di credere in modo quasi apodittico – ha affermato il Presidente della Commissione Antimafia Fava – che fosse la mafia a costringere Scarantino a ritrattare. Per cui si sceglie di credere alla ritrattazione della ritrattazione». Due sono le conclusioni raggiunte. «La prima – ha spiegato Fava è il dubbio forte che la stessa mano che ha lavorato per condurre questo depistaggio possa avere accompagnato anche gli esecutori della strage del 19 luglio 1992. Se vi è stata una continuità, non è riferibile solo alla costruzione e all’esecuzione della strage ma anche nel depistaggio». Poi c’è la seconda conclusione. «Questo depistaggio – prosegue Fava – è stato possibile per un concorso di responsabilità che va oltre i tre imputati al dibattimento di Caltanissetta e i due ‘ domini’ dell’inchiesta il procuratore di Caltanissetta, Gianni Tinebra e il capo della Mobile, Arnaldo La Barbera, che non ci sono più. La sensazione è che oggettivamente alcune forzature processuali e investigative hanno favorito il depistaggio. Una luce su questo avviene soltanto nel 2008, con le dichiarazioni del pentito Spatuzza». Claudio Fava, però, non si ferma qui. In sostanza afferma che il depistaggio proviene da lontano. Afferma che Paolo Borsellino, nonostante lo chiedesse in più occasioni, non fu convocato dalla Procura di Caltanissetta, in merito a ciò che aveva scoperto sulla motivazione dell’uccisione di Giovanni Falcone. Quindi “menti raffinatissime” che hanno adoperato fin da subito. Va da sé pensare, dunque, che tali menti avrebbero operato ben prima della presunta trattativa Stato – mafia, che secondo la Procura di Palermo sarebbe avvenuta a cavallo tra la strage di Capaci e Via D’Amelio. Fava ricorda, riferendo dettagli dell’audizione del maresciallo Canale, che non sia affatto vero che Borsellino fu convocato da Caltanissetta per il 20 luglio 1992. Sappiamo che Borsellino aveva molto a cuore l’indagine su mafia- appalti e – come ha anche ricordato recentemente Antonio Di Pietro – riteneva che fosse una probabile causa che portò alla strage di Capaci. «Se non ci fossero state alcune di queste sottovalutazioni, omissioni, forzature – un giudice ha definito l’attività di La Barbera predatoria -, la conclusione è che di questo depistaggio si sarebbe potuto sapere ben prima che parlasse Spatuzza», ha detto Fava. «Forse per la prima volta ha concluso – alcune domande sono state formulate a chi non le aveva mai ricevute. A questi magistrati per esempio è stato chiesto com’è che nessuno si sia stupito della pervasività dei servizi segreti nelle prime ore delle indagini, sapendo che erano contrarie alla legge». Nelle conclusioni della relazione si parla espressamente del ‘ contributo di reticenza’ offerto – consapevolmente o inconsapevolmente – da magistrati e figure apicali delle istituzioni e delle forze dell’ordine. L’inchiesta svolta dalla commissione presieduta da Fava scaturisce dalle domande di Fiammetta Borsellino. Troveranno finalmente risposta?

La Strategia dell'Inganno - 1992-93. Le bombe. I tentati golpe. La guerra psicologica in Italia. Libro di Stefania Limiti. Un racconto appassionante e documentato sui tre aspetti chiave che hanno contraddistinto la stagione delle bombe e delle stragi in Italia:

Un inquietante pericolo golpista: il golpe Nardi, una vicenda solo in apparenza boccaccesca – ne parlò la moglie e amante di due stimati ufficiali, ma non si trattò solo di un gioco a sfondo erotico; l’assalto alla Rai di un gruppo di mercenari su ordine della Cia, alcuni dei quali per la prima volta hanno dato all’autrice testimonianze inedite sui fatti.

Gli scandali del Sismi e del Sisde che resero le strutture dei servizi segreti in Italia più instabili di quanto lo fossero ai tempi della P2: uomini che entravano in stanze riservate senza nessuna documentazione, personaggi che si muovevano nell’ombra come Gianmario Ferramonti.

Lo stragismo, ovvero la manipolazione di gruppi criminali mafiosi come metodo utile alla destabilizzazione del potere.

Documentazione e testimonianze inedite su fatti meno conosciuti degli anni delle bombe in Italia: l’assalto alla sede Rai di Saxa Rubra, il Golpe Nardi e altre vicende dimenticate che lasciarono con il fiato sospeso l’Italia. Una nuova lettura delle stragi in Italia (via Fauro a Roma, Palestro a Milano, Georgofili a Firenze) che nella ricorrenza dei 25 anni solleverà curiosità e interesse. Una nuova e originale lettura del potere in Italia, orchestrato attraverso una costante opera di destabilizzazione, una successione di inganni, una vera guerra psicologica. 

L'AUTRICE – Stefania Limiti è nata a Roma ed è laureata in Scienze politiche. Giornalista professionista, ha collaborato con varie testate, in particolare con il settimanale «Gente», su temi di attualità e di politica internazionale. Inoltre ha lavorato per «l'Espresso», «Left», «La Rinascita della Sinistra» e «Aprile». Si è dedicata negli ultimi due anni alla ricostruzione di pezzi ancora oscuri della nostra storia attraverso la lettura delle sentenze giudiziarie e interviste ai protagonisti: il risultato di questo lavoro giornalistico viene presentato nelle pagine seguenti. Segue con molta attenzione la questione palestinese e ha scritto "I fantasmi di Sharon" (Sinnos, 2002), nel quale ricostruisce la strage nei campi profughi di Sabra e Shatila e le responsabilità libanesi e israeliane, e «Mi hanno rapito a Roma» (Edizioni L'Unità, 2006) sulla vicenda del sequestro da parte del Mossad di Mordechai Vanunu, che mise l'Italia sotto i riflettori del mondo intero nel 1986. Inoltre ha realizzato un'inchiesta sul dossier di Bob Kennedy sull'assassinio del presidente degli Stati Uniti dal titolo "Il complotto. La controinchiesta segreta dei Kennedy sull'omicidio di JFK" (Nutrimenti, 2012). Con Chiarelettere ha pubblicato "L'Anello della Repubblica" (2009), più volte ristampato.

«La strategia dell'inganno», storia della guerra non convenzionale in Italia, scrive Ciro Manzolillo Martedì 16 Maggio 2017 su “Il Mattino”. Il periodo più nero della nostra Repubblica. La grande crisi di sistema che colpì l'Italia tra il 1992 e il 1993 e che trovò soluzione nella nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, è segnata da eventi tragici dai risvolti ancora non chiari e chiariti.

Il cosiddetto golpe Nardi, l'assalto alla sede Rai di Saxa Rubra, le stragi di Milano, Firenze, Roma quelle mafiose di Palermo, il blackout a Palazzo Chigi e, in mezzo, Tangentopoli, gli scandali del Sismi e del Sisde, la fine dei partiti storici, la crisi economica.

La sequenza degli avvenimenti di questo biennio viene ricostruita su documenti e con dovizia di dettagli nel volume appena uscito per Chiarelettere «La strategia dell'inganno» della giornalista Stefania Limiti. Secondo l’autrice: «Tutti questi fatti portano il segno di una grande opera di destabilizzazione messa in pratica anche con la collaborazione delle mafie e con l'intento di causare un effetto shock sulla popolazione, creando un clima di incertezza e di paura e disgregando le nostre strutture di intelligence».

Stefania Limiti dalle sue pagine cerca di dimostrare come centinaia di testimonianze, processi hanno offerto le prove che in Italia è stata combattuta una guerra non convenzionale a tutto campo e sotterranea. Furono azioni coordinate? E se sì da chi? Non lo sappiamo. Di certo tutte insieme, in un contesto di destabilizzazione permanente, provocarono un ribaltamento politico generale. Un golpe ideologico a tutti gli effetti.

DAL TESTO – "Le stragi sul continente, quindi, sono concepite e realizzate per diffondere una campagna di terrore. Cosa nostra deve aver ritenuto che la capitolazione dello Stato sarebbe stata più facile colpendo indistintamente la popolazione e le opere d'arte. Gli attentati sono programmati fuori dalla Sicilia e non prendono di mira uomini rappresentativi dello Stato: l'Italia era fin troppo abituata a quello schema, s'indignava, è vero, ma non ne era più spaventata. Il nuovo piano punta a seminare il panico, gli obiettivi sono anonimi e hanno un messaggio eloquente per chi possiede la giusta chiave di lettura."

La strategia dell’inganno – Stefania Limiti. Scrive il 6 luglio 2017 Giuseppe Licandro su Excursus.org". Tra il marzo 1992 e l’aprile 1994, l’Italia fu sconvolta da una lunga serie di attentati di matrice mafiosa che, terrorizzando la gente, accentuò la crisi dei partiti della Prima Repubblica iniziata con Tangentopoli. La stagione terroristica cominciò con l’assassinio di Salvo Lima (12 marzo ’92) e continuò col tentato omicidio di Maurizio Costanzo (14 maggio ’92) e gli attentati che uccisero Giovanni Falcone (23 maggio ’92) e Paolo Borsellino (19 luglio ’92). Seguirono poi la strage di Firenze (27 maggio ’93), l’esplosione di varie bombe a Milano e a Roma (27-28 luglio ’93), l’omicidio di Don Pino Puglisi a Palermo (15 settembre ’93) e due falliti attentati, uno allo stadio Olimpico di Roma (31 ottobre ’93), l’altro a Formello contro Salvatore Contorno, mafioso pentito (14 aprile ’94). Gli attacchi cessarono a metà del 1994, poiché ­ Cosa Nostra trovò nuovi referenti politici, ma fu anche indebolita dall’arresto dei boss più violenti (Leoluca Bagarella, Filippo e Giuseppe Graviano, Salvatore Riina). Nello stesso periodo si svolse la controversa trattativa tra Stato e mafia, con i Corleonesi che pretesero la revisione del maxiprocesso, l’abolizione dell’ergastolo e del II comma dell’articolo 41-bis del Codice Penale (che ha introdotto il carcere duro per i capimafia), ma alla fine ottennero solo concessioni minori (nel novembre 1993 il governo Ciampi revocò il 41-bis a 143 mafiosi). Dietro le quinte operarono probabilmente “menti raffinatissime” che, sfruttando scandali e stragi, affrettarono il passaggio alla Seconda Repubblica, come sostiene la giornalista Stefania Limiti nell’interessante saggio La strategia dell’inganno. 1992-93. Le bombe, i tentati golpe, la guerra psicologica in Italia (Chiarelettere, pp. 256, € 16,90).

Nella prima parte del libro l’autrice parla della deception, la tecnica usata per ingannare l’opinione pubblica e influenzare le classi dirigenti, raccontando due strane storie avvenute proprio nel tragico 1993: il colpo di stato organizzato dal pilota aeronautico calabrese Giovanni Marra; le trame eversive denunciate da Donatella Di Rosa. Su input forse di “amici americani”, Marra cercò di allestire un piccolo esercito per occupare la sede romana Rai di Saxa Rubra, ma il golpe abortì sul nascere, poiché il Servizio di Informazione per la Sicurezza Democratica (Sisde) sventò il complotto e ne arrestò l’ideatore, che patteggiò una pena minima, dichiarando di aver orchestrato un bluff come «strategia di conquista amorosa» della fidanzata, mentre gli altri complici furono scagionati. La Limiti, però, ritiene che il finto golpe di Saxa Rubra servisse «a far credere all’imminenza di colpo di Stato e alla sua concreta possibilità di realizzarsi», per screditare le istituzioni. L’altra grottesca vicenda riguardò un ipotetico golpe «programmato per la fine del 1993 e gli inizi del 1994», nel quale sarebbero stati coinvolti – tra gli altri − i generali Goffredo Canino, Luigi Cantone e Franco Monticone, il tenente colonnello Aldo Michittu, il terrorista tedesco Friedrich Schaudinn, il neofascista Gianni Nardi: quest’ultimo, tuttavia, risultava morto in un incidente stradale avvenuto in Spagna nel 1976. A denunciare la trama eversiva, nell’ottobre 1992, fu Donatella Di Rosa – moglie di Michittu, che confermò le accuse – la quale, secondo l’autrice, era «un agente destabilizzatore […] invischiata negli ambienti eversivi». La donna confessò (ma poi smentì) di essere stata l’amante di Monticone e parlò di un grosso giro di denaro servito per comprare armi e addestrare i mercenari. Nell’ottobre 1993, la Procura di Firenze fece riesumare il corpo di Nardi, sepolto nel cimitero di Palma di Majorca, ma la perizia stabilì che si trattava proprio del cadavere del neofascista. La bizzarra vicenda si sgonfiò e i due coniugi furono arrestati e condannati con l’accusa di calunnia e autocalunnia con finalità eversive. L’autrice è convinta che «le denunce dei Michittu erano fatte ad arte», perché le rivelazioni contenevano insieme «fatti veri, informazioni poco credibili e notizie totalmente false». Lo scandalo servì forse per impaurire e distrarre l’opinione pubblica, mentre «altri ambienti erano molto impegnati a ricostituire un tessuto politico adatto all’Italia nel nuovo ordine mondiale».

La seconda parte de La strategia dell’inganno è dedicata alle pratiche poco ortodosse messe in atto dai cosiddetti “servizi segreti deviati” per depistare le indagini, spiare, intimidire o sopprimere personaggi scomodi. Viene, innanzi tutto, tracciata una breve cronistoria dell’intelligence nostrana a partire dal 1949, quando fu costituito il Servizio Informazioni Forze Armate (Sifar). Nello stesso periodo fu creato anche l’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, che in seguito divenne Servizio di Sicurezza. Dopo il colpo di stato minacciato nel 1964 dal comandante dell’Arma dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo (il “Piano Solo” che coinvolse anche il presidente della Repubblica Antonio Segni, costretto a dimettersi), il Sifar fu sciolto e nel 1966 nacque il Servizio Informazioni Difesa (Sid), operativo fino al 1977, che fu implicato nella “strategia della tensione”. Proprio nel 1977 ci fu la prima riforma dei servizi segreti italiani, con la costituzione del Servizio Informazioni e Sicurezza Militare (Sismi) e del già citato Sisde. Le due agenzie investigative furono subito infiltrate dalla loggia massonica Propaganda 2, diretta da Licio Gelli: s’iscrissero, infatti, alla P2 sia il primo direttore del Sismi Giuseppe Santovito, sia quello del Sisde Giulio Grassini. Forse non fu casuale il fatto che, nel marzo 1978, le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e lo tennero in ostaggio per 55 giorni prima di ucciderlo, senza che l’intelligence nostrana riuscisse a liberarlo, nonostante fosse stata probabilmente individuata la prigione di via Montalcini a Roma. Agli inizi degli anni Novanta, sebbene fosse stato costituito il Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis) per vigilare su Sismi e Sisde, l’intelligence italiana si trovò impreparata di fronte alle stragi mafiose. Si prospettò, dunque, una nuova riforma dei servizi, che però fu completata solo nel 2007, con la creazione dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna (Aisi) e dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna (Aise). Nel 1990, Giulio Andreotti − presidente del Consiglio − iniziò la ristrutturazione dei servizi di sicurezza, cercando di «buttare giù i vecchi apparati», che furono poi coinvolti anche nello scandalo dei fondi neri, grazie ai quali vari funzionari del Sisde erano riusciti a «procurarsi cospicui e improvvisi arricchimenti». La parte più retriva dell’intelligence reagì e fece trapelare notizie riservate in merito all’esistenza di un grande quantità di denaro, accumulata «attraverso accantonamenti di somme erogate al servizio». Antonio Galati, funzionario del Sisde, dichiarò che «dal 1982 al 1992 ogni ministro dell’Interno (con l’eccezione di Amintore Fanfani) aveva ricevuto 100 milioni al mese, soldi presi tra quelli accantonati dal servizio». Nell’inchiesta giudiziaria furono coinvolti noti esponenti della Democrazia Cristiana come Antonio Gava, Nicola Mancino, Oscar Luigi Scalfaro e Vincenzo Scotti. Il 3 novembre 1993, Scalfaro − presidente della Repubblica − tenne un discorso televisivo nel quale denunciò un complotto contro le istituzioni democratiche. In seguito, la Procura di Roma archiviò le accuse «ipotizzando la liceità delle donazioni di denaro». Nei servizi di sicurezza erano allora attivi molti “agenti di influenza”, esperti in “operazioni coperte” che erano finalizzate «ad “aggredire” il paese d’interesse, carpendone i segreti […] o influenzandone il processo decisionale». In questa tipologia di persone la Limiti fa rientrare, oltre a Gelli, due nomi di minore importanza: Aldo Anghessa e Gianmario Ferramonti. Il primo, funzionario del Cesis, divenne celebre per il mancato arresto e la successiva fuga dall’Italia del terrorista Schauddin nel 1992. Il secondo, imprenditore informatico, nel 1991 affiancò Umberto Bossi alla guida della Lega Nord (di cui fu anche tesoriere), pilotando la conversione a destra del movimento leghista che determinò nel 1994 la nascita del Polo delle Libertà.

La terza parte del saggio è dedicata alla “strategia della tensione” che ancora una volta sconvolse l’Italia tra il 1992 e il 1994 e che, secondo l’autrice, rientrava nelle tecniche di “guerra non convenzionale” largamente usate durante la Guerra Fredda «per contrastare l’avanzata delle forze comuniste e progressiste». Stefania Limiti denuncia, in particolare, le cosiddette covert actions, cioè le operazioni coperte della Cia, consentite dal National Security Act, un documento del 1947 che riconosce agli Usa il diritto «di influenzare politicamente, economicamente e militarmente Stati esteri». Un esempio di “operazione coperta” si ebbe negli anni Sessanta in Laos, dove fu combattuta una guerra segreta contro i comunisti locali, attraverso l’«uso dei mercenari, omicidi mirati e, soprattutto, addestramento di eserciti locali». Le covert actions sono continuate anche dopo la caduta del Muro di Berlino, come dimostra l’omicidio, avvenuto a Bad Homburg nel novembre 1990, del banchiere tedesco Alfred Herrhausen, che intendeva costruire un’Europa unita senza interferenze da parte della Banca Mondiale. L’attentato fu rivendicato dalla Rote Armee Fraktion (Raf), ma in seguito le dichiarazioni di un terrorista pentito – Siegfrid Nonne – e di un ex agente della Cia – Fletcher Prouty – misero in dubbio l’autenticità della rivendicazione, lasciando trasparire l’ennesima covert action.

Nel 1987, cambiandole proprie simpatie politiche, Cosa Nostra decise «di abbandonare la Dc e dirottare i consensi verso il Psi». I Corleonesi divennero sempre più aggressivi, attaccando apertamente le istituzioni, soprattutto dopo la costituzione della Direzione Investigativa e della Procura Nazionale Antimafia. Dietro gli attentati dei primi anni Novanta, tuttavia, non ci furono solo gli uomini di Riina: nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio, infatti, emersero «anomalie rispetto agli schemi comportamentali tradizionali di Cosa Nostra». Proprio questi attentati determinarono l’approvazione da parte del Parlamento del II comma dell’articolo 41-bis del Codice Penale, che andava contro gli interessi dei mafiosi. Secondo le dichiarazioni fornite da vari pentiti e collaboratori (Filippo Barreca, Giovanni Brusca, Salvatore Cangemi, Pietro Carra, Francesco Di Carlo, Antonino Giuffrè, Luigi Ilardo, Nino Lo Giudice, Gaspare Spatuzza), nelle stragi mafiose ci sarebbero state numerose interferenze da parte dei servizi segreti deviati. Alcuni testimoni hanno parlato della partecipazione a vari delitti di mafia di Giovanni Aiello, un ex poliziotto (noto anche come “Faccia di mostro” a causa di una grossa cicatrice che gli deturpava il volto), indicato da Lo Giudice come colui che avrebbe «fatto saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta». Un ruolo importante lo avrebbe svolto anche Paolo Bellini, «un estremista di destra che ha passato la vita a fare l’agente provocatore», il cui apporto fu determinante nell’attentato contro la Galleria degli Uffizi a Firenze. Alla strategia terroristica fornì il proprio contributo anche la ‘ndrangheta, coinvolta «nel progetto politico che puntava alla separazione delle regioni meridionali dal resto del Paese». Non mancarono, del resto, i misteri e le stranezze: alcune della azioni criminali furono rivendicate da una fantomatica organizzazione, la Falange Armata; nel luogo dal quale i killer avevano fatto saltare in aria la macchina di Falcone, fu ritrovato il biglietto da visita dell’agente del Sisde Lorenzo Narracci; l’autobomba esplosa contro l’automobile di Costanzo in via Fauro fu parcheggiata davanti a una sede del Sisde; vari testimoni indicarono la presenza di una enigmatica donna negli attentati di via Fauro, Firenze e Milano. Riguardo alla mancata esplosione dell’autobomba allo stadio Olimpico di Roma, il procuratore antimafia Pietro Grasso ritenne plausibile «l’ipotesi che la strage dell’Olimpico fosse stata fatta fallire di proposito da qualcuno all’interno di Cosa Nostra», perché stavano emergendo nuove forze politiche (come Forza Italia) che avevano stabilito «un rapporto privilegiato con l’ala moderata di Cosa Nostra». 

La Procura di Firenze, in verità, indagò sui possibili mandanti politici delle stragi, in particolare su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, considerati come i nuovi interlocutori di Cosa Nostra, ma l’inchiesta si chiuse nel 1998 con l’archiviazione perché non c’erano elementi sufficienti per suffragare le ipotesi investigative. Stefania Limiti, concludendo la sua attenta disamina del traumatico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, ritiene che a trarre vantaggio dal terrorismo mafioso furono proprio le forze più conservatrici: «Le stragi intimidiscono le istituzioni, disorientano le forze politiche, generano uno spazio pubblico di caos. E creano gli uomini d’ordine ai quali la massa si affida, invocando la ghigliottina».

La strage di Milano, Firenze, Roma, 27 luglio 1993: tre bombe, dieci morti e il dubbio che non sia stata solo mafia. Un anno dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino e due mesi dopo la strage di via dei Georgofili, quello del 27 luglio è il momento più buio della Repubblica. E dalle nuove carte emergono molti nuovi dettagli, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2018 su "L'Espresso". Una ragazza bionda e un uomo scendono da una Fiat Uno parcheggiata vicino al Padiglione d’arte contemporanea a Milano. È il 27 luglio del 1993. Manca meno di un’ora a mezzanotte. Dall’automobile da cui si stanno allontanando a piedi esce del fumo. I due non hanno paura per quello che si lasciano alle spalle, ma di una pattuglia di vigili urbani che va loro incontro in via Palestro. Temono di essere scoperti. E così giocano d’anticipo: richiamano l’attenzione di uno dei due vigili, Alessandro Ferrari, a cui danno l’allarme per il pennacchio di fumo. Poi la bionda e il suo compagno si allontanano in fretta, facendo cadere in trappola l’agente della polizia municipale e mandandolo così a morire. Il fumo arriva infatti da una miccia accesa che innesca quasi cento chili di tritolo sistemati sul sedile posteriore della Uno. Che esplode, provocando una strage. Sono cinque i morti. È il primo botto della serata. Sì, perché in quella sera di venticinque anni fa, pochi minuti dopo una notte in cui esplodono altre due bombe, quasi in contemporanea, non solo a Milano ma anche a Roma, in punti diversi: a piazza San Giovanni in Laterano (danneggiando la Basilica e il Palazzo Lateranense) e pochi minuti dopo all’esterno della chiesa di San Giorgio al Velabro. Si pensò anche a un tentativo di golpe. Fu questa almeno la sensazione dell’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi, a capo di un governo tecnico di transizione. Ciampi temeva che stesse per accadere qualcosa di oscuro per la tenuta democratica del Paese. Per Ciampi si poteva concretizzare il pericolo di un colpo di Stato che nasceva dall’eccezionalità di quegli avvenimenti, compresa l’interruzione delle linee telefoniche di Palazzo Chigi nella notte tra il 27 ed il 28 luglio 1993: un evento che mai prima di allora si era verificato, tanto che l’allora presidente del Consiglio non riuscì a comunicare con i suoi collaboratori o con gli apparati di sicurezza. Un black-out che ancora oggi nessuno ha spiegato. Fu una notte convulsa. Ciampi, parlando poi con i magistrati che hanno indagato sulle stragi, spiegò di «ricordare perfettamente che convocai, in via straordinaria, il Consiglio Supremo di Difesa. Di questa convocazione venne informato anche il Presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro, ndr). Ricordo che, in un clima di smarrimento generale, nel corso di quella riunione qualcuno avanzò l’ipotesi dell’attentato terroristico di origine islamica. Altri, tra cui certamente il Capo della Polizia Vincenzo Parisi, escludevano la fondatezza di quella pista avanzando l’ipotesi della matrice mafiosa». Sì, era stata la mafia. I boss di Cosa nostra dell’area corleonese continuavano ad alzare il tiro contro lo Stato, piazzando bombe davanti ai simboli dell’arte, del patrimonio culturale e della Chiesa, nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale del Paese. E uccidendo chi si trovava nei paraggi. Le testimonianze raccolte all’epoca dagli investigatori e le indagini avviate anche con il contributo di collaboratori di giustizia, alcuni dei quali si sono autoaccusati di quelle stragi, portano però a considerare l’ipotesi che non sia stata solo la mafia. Che in quegli attacchi di Cosa nostra vi fossero anche elementi esterni all’organizzazione. Uno dei misteri riguarda proprio la donna bionda uscita dall’auto piena di esplosivo in via Palestro, il 27 luglio. Anche i testimoni di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio dello stesso anno) parlano della presenza di una donna bionda; e lo stesso è riferito dai testimoni dell’attentato di via Fauro a Roma, quello contro Maurizio Costanzo (14 maggio). Questa signora bionda all’epoca ha meno di trent’anni e di lei esiste un identikit. Tra i numerosi testimoni di via Palestro ce n’è uno che ricorda molto bene la donna, vestita di scuro, accanto alla pattuglia di vigili. L’ha vista parlare con loro. I collaboratori di giustizia invece non hanno mai confermato il coinvolgimento di donne in queste stragi. L’attacco allo Stato aveva una doppia finalità. La prima era orientare la politica in Sicilia verso una prospettiva indipendentista, coltivata come una forma di ricatto nei confronti dei partiti a Roma, che avevano tradito le aspettative della Cupola, prima la Dc e poi il Psi. Il quasi analfabeta Leoluca Bagarella si era dato da fare per formare un nuovo partito politico, “Sicilia Libera”, che avrebbe dovuto far eleggere candidati appartenenti a Cosa nostra. Il secondo obiettivo era una dimostrazione di forza attraverso azioni eclatanti che avrebbero avuto risalto internazionale. In un Paese già scosso, sul piano politico e istituzionale, dalle indagini su Tangentopoli, quelle bombe erano un tentativo di destabilizzare ulteriormente le strutture democratiche. Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, a conferma del messaggio terroristico che si doveva diffondere con le bombe, ha detto ai pm di essere stato incaricato di imbucare a Roma, subito prima degli attentati del 27 luglio, alcune buste indirizzate al Corriere della Sera e al Messaggero contenenti una lettera anonima, in cui era scritto: «Tutto quello che è accaduto è soltanto il prologo, dopo queste ultime bombe, informiamo la Nazione che le prossime a venire verranno collocate soltanto di giorno ed in luoghi pubblici, poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite umane. P.S. Garantiamo che saranno a centinaia». Restano quindi, anche 25 anni dopo, molte domande. Ci fu un contributo di soggetti esterni a Cosa nostra, ci furono mandanti esterni alla mafia? I clan, attraverso quel programma di azioni criminali dirette a sconvolgere dalle fondamenta l’ordine pubblico, hanno voluto in qualche modo intervenire in un vuoto della politica nazionale per agevolare l’ascesa o la permanenza al potere di soggetti con cui poter interagire in modo proficuo, ristabilendo un rapporto a difesa e protezione degli interessi mafiosi? E quel rapporto era riconducibile a uno scambio che avrebbe dovuto prevedere da una parte un appoggio elettorale e dall’altra qualche intervento abrogativo delle norme contro la criminalità organizzata, come il 41bis per i boss in carcere? Sì, guardando a venticinque anni fa restano ancora tanti gli interrogativi. E tra questi c’è il mistero della mancata strage dello stadio Olimpico a Roma nel gennaio 1994, quando i fratelli Graviano volevano massacrare centinaia di carabinieri impegnati nel servizio d’ordine di una partita di calcio. Il telecomando non funzionò e l’attentato per fortuna fallì. L’episodio può essere letto come l’atto conclusivo di una campagna stragista, che, per le modalità e gli obiettivi avrebbe raggiunto un effetto terroristico-eversivo eccezionale. La decisione di non mettere più bombe dopo quel fallimento era forse una conseguenza dell’evoluzione della politica nazionale? Oppure è legato all’arresto dei fratelli Graviano avvenuto a Milano poche settimane dopo il fallito attentato? Che rapporto c’era tra l’originaria pianificazione di questa strage e il progetto politico, in qualche modo concretamente attuato alla fine del 1993, di dar vita al partito di Cosa nostra, “Sicilia Libera”, con caratteristiche autonomiste e indipendentiste? E perché poi si abbandonò questo progetto per concentrare i voti su vecchie conoscenze, magari transitate verso nuove formazioni politiche come Forza Italia? Il giudice per le indagini preliminari di Firenze che aveva archiviato l’indagine sui mandanti esterni alle stragi in cui erano indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (riaperta nei mesi scorsi dalla procura) ha scritto: «Le indagini svolte hanno consentito l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere Cosa nostra agito a seguito di input esterni». Chi diede questi input? E perché? Le sentenze, fondate sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, hanno suggerito una parola chiave: “trattativa”. Questa “trattativa” emerge per la prima volta in una sentenza della corte d’assise di Firenze che ha condannato nel giugno del 1998 i boss, mettendo un punto fermo sull’interpretazione da dare a quella tragica stagione di bombe. I 10 morti e 95 feriti complessivi (e i danni al patrimonio artistico) costituiscono l’altissimo prezzo che il Paese ha dovuto pagare ad una strategia messa in atto dagli “specialisti” di Cosa nostra, ma forse pianificata in ambienti collocati al di sopra del sottoscala dove si riuniva la “cupola” composta da Provenzano, Riina, Bagarella e soci. Certo è che dopo il 1994 la campagna terrorista di Cosa nostra finisce. Una campagna che la mafia aveva portato avanti nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale del Paese, come ha detto il pubblico ministero Gabriele Chelazzi nel processo ai responsabili di quegli attentati del ’93. Resta ancora il dubbio sui veri fini delle azioni, sui veri mandanti. Purtroppo, in molti casi le rivelazioni dei collaboratori di giustizia, le inchieste e i processi hanno chiarito solo in parte i fatti. Un quarto di secolo non è ancora bastato per riempire le caselle ancora vuote e ricostruire la verità che non può essere solo giudiziaria ma anche politica.

Il mistero mai risolto della Falange Armata dietro le bombe del '93. 25 anni fa, con la strage di via dei Georgofili, e gli attentati a Roma e Milano, iniziava la seconda fase terroristica di Cosa Nostra. La storia mai chiarita della sigla oscura che la rivendicava, scrive Federico Marconi il 25 maggio 2018 su "L'Espresso". Sono passati 25 anni da quando duecento chili di esplosivo devastarono il centro di Firenze. Era da poco passata l’una di notte del 27 maggio 1993 quando esplose la bomba posizionata all’interno di un Fiorino bianco parcheggiato in una piccola e stretta stradina chiusa al traffico, via dei Georgofili. L’esplosione costò la vita a cinque persone, 48 rimasero ferite. Crollò la Torre dei Pulci, la Galleria degli Uffizi e il Corridoio Vasariano furono gravemente danneggiati insieme a decine di opere d’arte. Nei concitati minuti successivi all’esplosione, mentre i soccorritori cercavano di salvare le persone residenti nella via, si pensò che la tragedia fosse dovuta ad una fuga di gas. Ma bastò poco per capire che si trattava di un attentato, simile a quello di due settimane prima nel centro di Roma, a via Fauro, dove un’autobomba era scoppiata al passaggio della macchina di Maurizio Costanzo. «Qui a Firenze vedo gli stessi segni. La deformazione delle lamiere, le condizioni delle pareti, tutto uguale» affermava ai cronisti presenti il direttore della Protezione Civile Elveno Pastorelli. «È terrorismo indiscriminato» tuonavano i procuratori fiorentini Pier Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Poco dopo mezzogiorno la prima rivendicazione con una telefonata alle redazioni Ansa di Firenze e Cagliari: «Qui Falange Armata. Gravissimo errore continuare a negare, confondere e mistificare da parte degli organi investigativi e inquirenti le nostre potenzialità politiche e militari. Eccovene un’altra testimonianza». Oggi sappiamo chi sono i responsabili delle bombe sul continente. Da Totò Riina in poi, tutta la cupola mafiosa è stata condannata come responsabile di quella strategia della tensione che sconvolse l’Italia all’inizio degli anni ’90. Stava finendo un’epoca, il potere di Cosa Nostra era fiaccato non solo dalle inchieste giudiziarie della procura di Palermo, ma anche dalla fine del mondo della Guerra Fredda e dalla scomparsa dei referenti politici che avevano permesso e protetto l’ascesa criminale della mafia siciliana. E mentre i boss trattavano con pezzi dello Stato, com’è stato appurato dalla sentenza del tribunale di Palermo del 20 aprile, seminavano sangue, paura, terrore, per alzare la posta in gioco. Sono ancora molti i misteri che avvolgono quella drammatica stagione della storia del nostro Paese. E uno di questi riguarda la Falange Armata: una sigla terroristica che ha rivendicato tutte le bombe mafiose del ’92-’93, ma anche omicidi, rapine, attentati in tutto il Paese. Di tutto e di più. Tanto che, contando le sole rivendicazioni, avremmo di fronte una tra le più temibili organizzazioni terroristiche della storia italiana.

25 ANNI DI RIVENDICAZIONI. La prima rivendicazione della Falange Armata è datata 27 ottobre 1990. Alle 12.20 la redazione bolognese dell’Ansa riceve la telefonata di un uomo con un forte accento straniero: intesta alla “Falange Armata Carceraria” la responsabilità dell’omicidio di Umberto Mormile. L’educatore carcerario del carcere di Opera era stato ucciso l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, freddato da sei colpi di pistola sparati da due sicari della ndrangheta. La sua condanna a morte era stata firmata dai boss della potente cosca calabro-lombarda Domenico e Rocco Papalia. Mormile fu ucciso per aver negato un permesso al boss, che all’epoca era solito tenere colloqui con uomini dei servizi segreti. E furono proprio questi a indicare a Papalia la sigla con cui rivendicare l’attentato: «Antonio Papalia, parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione “Falange Armata” dell’omicidio Mormile» ha dichiarato il collaboratore di giustizia Vittorio Foschini il 26 aprile 2015. Dopo la prima telefonata ne seguirono decine e decine. Il 5 novembre 1990, la Falange rivendica l’omicidio a Catania degli industriali Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta. Nel corso della chiamata all’Ansa di Torino, il telefonista anonimo fa riferimento anche all’operazione del 10 ottobre a via Monte Nevoso a Milano, in cui furono ritrovate – 11 anni dopo la prima perquisizione – nuove pagine del memoriale e delle lettere di Aldo Moro: «Moretti e Gallinari sanno molto di più e così pure i servizi segreti». All’inizio del 1991 viene rivendicata la strage del Pilastro, a Bologna, in cui persero la vita tre carabinieri. L’attentato fu uno dei tanti per cui furono condannati i membri della banda della Uno bianca e che insanguinarono l’Emilia a cavallo tra anni ’80 e ’90. Vengono minacciati poi nuovi attentati al presidente della Repubblica Francesco Cossiga, al direttore generale degli Istituti di pena Nicolò Amato, al giornalista Giuseppe D’Avanzo, alle redazioni de la Repubblica e l’Espresso. Sono annunciate nuove scottanti rivelazioni sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980: ma non verranno mai diffuse. Il 14 agosto viene rivendicato l’omicidio del giudice Scopelliti, il 6 ottobre quello dell’avvocato Fabrizio Fabrizi a Pescara, il 22 l’uccisione del maresciallo dei vigili urbani di Nuoro Francesco Garau. Il 3 novembre Falange Armata si intesta anche la responsabilità dell’attentato alla villa di Pippo Baudo: ««Il significato politico che abbiamo inteso conferire all’azione condotta ai danni della villa del signor Baudo a Santa Tecla, ritenevamo che almeno lui, uomo di spettacolo, ma anche di politica, non sarebbe dovuto risultare del tutto incomprensibile, così com’è apparso» afferma all’Ansa il solito telefonista anonimo. Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 Falange Armata fa propri gli attentati dinamitardi presso il commissario di Polizia di Bitonto, in Puglia, presso la sede del Comune di Taranto e una bomba sulle ferrovie salentine. La sigla rivendica poi tutti gli attentati eccellenti del ’92 - l’omicidio di Salvo Lima e del maresciallo Giuliano Guazzelli, le bombe di Capaci e via D’Amelio - e le stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993. Tra gennaio e dicembre del 1994 viene rivendicato il duplice omicidio vicino Reggio Calabria degli appuntati dei carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo, e altri due attentati a pattuglie di militari che riescono fortunatamente a salvarsi. Aumentano nel tempo le minacce: al neo presidente della Repubblica Scalfaro a quello del Senato Spadolini, al capo della Polizia Parisi e ai giudici Di Pietro e Casson. E poi tanti politici: Mario Segni, Claudio Martelli, Achille Occhetto e Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi, Alessandra Mussolini e Umberto Bossi, definito nelle telefonate «utilissimo buffone [...] pagliaccio finto, ma provvidenziale». Il 20 dicembre del 1994 il segretario del Carroccio riceve anche una lettera minatoria: «Se il governo che tutti noi – tu compreso – abbiamo voluto salterà, la nostra rappresaglia non avrà limiti». Il governo è quello eletto in primavera, con premier Silvio Berlusconi. Le telefonate continuano anche nella seconda metà degli anni ’90, dopo la fine della strategia stragista di Cosa Nostra. Sempre minacce e rivendicazioni: come il furto di due Van Gogh e un Cezanne dalla Galleria di Arte Moderna di Roma o il ritrovamento di un’autobomba davanti al Palazzo di Giustizia di Milano nel 1998. O ancora l’omicidio di Massimo D’Antona nel 1999. Con il nuovo millennio le chiamate si diradano fino a terminare: nemmeno una tra il 2003 e il 2014. L’ultima minaccia è del 24 febbraio di quell’anno in una lettera arrivata al carcere milanese di Opera e indirizzata al capo dei capi, Totò Riina: «Chiudi quella maledetta bocca. Ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto stai tranquillo, ci pensiamo noi».

LE DUE MAPPE CHE COINCIDONO. Ma chi erano i falangisti? Il fascicolo aperto dalla Procura di Roma dopo le prime telefonate, seguito dal pm Pietro Saviotti, è stato archiviato, mentre l’unica persona accusata di essere uno dei telefonisti anonimi, l’operatore carcerario Carmelo Scalone, è stato protagonista di una controversa vicenda giudiziaria. Dopo l’arresto del 1993, Scalone fu condannato nel 1999 in primo grado a tre anni di reclusione, prima di essere scagionato da tutte le accuse in Appello e Cassazione: ricevette anche un indennizzo di 35 mila euro dallo Stato per ingiusta detenzione. Calò poi il silenzio sulla Falange Armata. Fino al 2015, quando è stato chiamato a testimoniare al processo sulla trattativa Stato-Mafia Francesco Paolo Fulci. Diplomatico di lunga data, Fulci è stato il capo del Cesis, l’organismo di coordinamento tra il servizio segreto civile e militare, dal maggio 1991 all’aprile 1993. L’ambasciatore era stato fortemente voluto dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti per gestire una fase delicata della vita dei Servizi, travolti dagli scandali dei fondi neri del Sisde e dalla comunicazione dell’esistenza di Gladio. Fulci stesso finì nel mirino della Falange Armata, da cui fu ripetutamente minacciato. Per questo fece condurre alcuni accertamenti: «Chiesi a Davide De Luca (analista del Cesis, ndr) di verificare da dove partivano questi messaggi della Falange Armata» ha dichiarato Fulci di fronte ai giudici di Palermo, «lui venne da me con l’aria preoccupata portando due mappe: da dove partivano le telefonate e dove erano le sedi periferiche del Sismi. Le due mappe erano sovrapponibili». Subito dopo la strage di via Palestro del 27 luglio 1993, Fulci consegnò al comandante generale dei Carabinieri Federici, una lista di quindici ufficiali e sottoufficiali del servizio segreto militare, «per scagionare i servizi da ogni accusa». I quindici nomi erano di alcuni appartenenti alla VII divisione del Sismi, quella incaricata di gestire i rapporti con quella Gladio di cui a inizio degli anni ’90 era stata svelata l’esistenza. La VII divisione era composta da un gruppo di super agenti, gli Ossi (Operatori Speciali Servizio Italiano), addestrati ad operazioni di guerra non ortodossa e all’uso di esplosivi. Per questo, sempre ai giudici di Palermo, Fulci dirà: «Mi sono convinto che tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di “Stay Behind” (nome di Gladio, ndr)» Gladio però era stata smantellata nel 1990, come è possibile che fosse dietro la Falange Armata? «Sarà stato qualche nostalgico», l’opinione dell’ex ambasciatore.

COSA NOSTRA, NDRANGHETA E SERVIZI SEGRETI. La scorsa estate si sono di nuovo accesi i riflettori su questa organizzazione misteriosa grazie alla Procura di Reggio Calabria e all’inchiesta “Ndrangheta stragista”, con la quale sono stati individuati come mandanti degli attentati contro i carabinieri del 1994 i boss calabresi Antonio e Rocco Santo Filippone e il siciliano Giuseppe Graviano. La vicenda era stata riportata al centro delle investigazioni da un atto di impulso della procura nazionale antimafia firmato dal magistrato Gianfranco Donadio. Sono proprio i Graviano, legati alle ndrine tirreniche, a chiedere ai Filippone di partecipare alla strategia stragista voluta da Totò Riina per garantire gli interessi mafiosi in quel periodo di passaggio della vita politica italiana che si sarebbe concluso con le elezioni del 28 marzo 1994. I tre attentati, che costeranno la vita a due carabinieri, furono rivendicati dalla Falange Armata. E nelle pagine dell’ordinanza di custodia, firmata dai procuratori Federico Cafiero De Raho e Roberto Lombardo, è scritto che dietro alla sigla si celava «un gruppo – o forse più di un gruppo – di soggetti che aveva pianificato, fin dagli albori, in modo attento e meticoloso, una utilizzazione strumentale ai propri fini della sigla terroristica in esame che aveva inventato e dato (anche, ma per nulla esclusivamente) in “sub-appalto” ad entità criminali e mafiose»: «La Falange Armata utilizzava le stragi e i gravissimi delitti commessi da altri per rivendicarli (o farli rivendicare con tale sigla), per circonfondersi di un alone di misterioso terrorismo, in grado di atterrire, intimidire, condizionare e perseguire, per questa via, proprie finalità». Finalità che non erano né economiche, né ideologiche, ma politiche, «espressione di una sordida lotta per il potere». E i soggetti che stavano dietro Falange Armata erano «inseriti in delicati apparati dei gangli statali». Cosa Nostra decise di utilizzare la sigla Falange Armata nell’estate del 1991, durante le riunioni di Enna, in cui si pianificò la strategia del terrore per dare uno scossone allo Stato. Uno dei testimoni, Filippo Malvagna, ricorda: «Furono i corleonesi – ed in particolare Totò Riina – a dire, ad Enna, che tutti gli attacchi allo Stato dovessero essere rivendicati “Falange Armata”». Ma come nel caso dell’omicidio Mormile, anche in questo caso fu un entità esterna a suggerire a Cosa Nostra di utilizzare la Falange Armata per rivendicare le stragi. «L’idea di rivendicare minacce, attentati, delitti contro figure istituzionali con la sigla Falange Armata» scrivono i magistrati reggini «è stata il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dello Stato». Le stesse strutture già citate dall’ambasciatore Fulci: «Il loro nucleo era costituito da una frangia del Sismi e segnatamente, da alcuni esponenti del VII reparto [...] che avevano operato per anni agli ordini di Licio Gelli». Lo stesso Gelli che in quegli anni tramava con mafiosi ed estremisti di destra al progetto delle leghe meridionali, sul modello del Carroccio padano, per chiedere l’indipendenza del Sud dal resto del Paese. Mafiosi, ndranghetisti, agenti speciali dei servizi segreti: il mistero ancora avvolge la Falange Armata, l’organizzazione senza appartenenti che rivendicava gli attentati di tutti.

Lo Stato “contro natura”. L’indagine della Dda di Reggio Calabria (ri)svela il matrimonio tra apparati statali marci e mafie, scrive il 31 luglio 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". La natura del genere umano è progredire, sperimentare e inventare ciò che può migliorare la vita stessa, aiutato in ciò, oltre che dall’intelligenza, il dialogo ed il confronto, anche dalla scienza e, per chi crede, dalla fede. E’ così da sempre in tutti i campi e in ogni settore della vita. A volte lo Stato si comporta contro natura. A volte la magistratura si comporta contro natura. E, contro natura, si comporta anche la libera informazione il cui compito dovrebbe (lo è sempre meno) condire la crescita della società, inseguendone i difetti ed esaltandone i pregi. Inutile girarci attorno: mi riferisco – da ultimo ma solo da ultimo – all’indagine della Procura di Reggio Calabria che ha ripreso, ampliandola e dandole rinnovata forza la precedente indagine Mammasantissima (ma sarebbe più corretto dire tutto ciò che è confluito nel procedimento Gotha) e Sistemi criminali del 1998 in quel di Palermo avviata da Roberto Scarpinato e proseguita da Antonio Ingroia che il 21 marzo 2001 dovette chiederne l’archiviazione giocoforza. Ebbene, cosa ci dicono in estrema sintesi queste indagini: che le mafie non sono più (per quel che mi riguarda non sono mai state) coppola e lupara ma evoluti sistemi criminali che trovano ed offrono una sponda alle parti spurie e marcie dello Stato. Un matrimonio di interessi – non certo di amore – che può essere sublimato e far raggiungere un intenso orgasmo ai copulatori, quando le mafie diventano un sol corpo ed una sola anima con lo Stato deviato. Ora, senza allontanarci tanto da questo esempio terra-terra, le indagini a cui ho fatto riferimento ci raccontano in maniera plastica che lo Stato va contro natura quando, anziché progredire, migliorare, evolvere, ha delle componenti marce che lo ancorano allo status quo.

Volete un esempio? Ve lo faccio subito. A pagina 19 dell’ordinanza firmata dal Gip Adriana Trapani, che ha accolto e valorizzato la tesi della Dda reggina – capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio, che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato – si legge una cosa molto ma molto interessante. «Così come per Cosa Nostra il procedere del maxi processo verso le condanne definitive era stato il preoccupante annuncio dell’inizio di un declino inarrestabile – si legge testualmente nel provvedimento – così per alcuni settori di tali apparati, lo smantellamento di Gladio (autunno 1990) era stato, per alcuni esponenti degli apparati di sicurezza e i loro sodali, ma sarebbe meglio parlare dei manovratori di costoro (vedremo come si giungerà ad individuare in non identificati appartenenti della 7 Divisione del Sismi e nel residuo, ma pervicace, piduismo gelliano il nucleo di tali forze), il segnale di un intollerabile ridimensionamento del proprio potere. Insomma, le mafie e le descritte schegge infedeli di apparati statali, sembravano accomunati, in quegli anni, ad uno stesso destino: i nuovi equilibri geo-politici stavano mutando i meccanismi di un sistema in cui erano prosperate. La loro sopravvivenza era quindi legata alla necessità di impedire che quei cambiamenti travolgessero quel sistema. Insomma, entrambe, cercavano il mantenimento dello status quo. Inteso, però, non attraverso la conservazione, al posto di comando, degli stessi uomini e delle stesse formazioni politiche (che, anzi si intendeva liquidare perché non più utili e spendibili), ma al contrario, attraverso l’ennesima applicazione dell’eterno adagio gattopardesco, “per cui si deve cambiare tutto affinché nulla cambi”. Si dovevano rinnovare del tutto le rappresentanze politiche, affinché, quelle oramai logore della prima Repubblica, fossero sostituite da nuovi partiti e nuovi uomini che continuassero a garantire l’egemonia mafiosa nelle regioni meridionali. E mentre le stragi e la strategia della tensione sarebbero stati un perfetto acceleratore di questo finto ricambio, le mafie, non senza il contributo di altre e diverse forze occulte (come si vedrà in dettaglio, sia paramassoniche piduiste che della destra eversiva) preparavano, attraverso il leghismo meridionale (che si saldava a quello settentrionale) la finta-nuova classe politica etero diretta, che aveva la precipua mission di garantire ‘ndrangheta, Cosa Nostra e le altre mafie». Che le mafie abbiamo come solo e unico obiettivo “sociale” quello di cristallizzare e conservare lo status quo è ovvio quanto lo è la genialità del calcio dipinto per 25 anni da Francesco Totti. Le mafie vivono e prosperano in un perimetro di regole che non cambiano o, se cambiano, è solo per agevolarne il cammino di corruzione e sopraffazione. Che una parte dello Stato, invece, ancori le proprie radici a quelle delle mafie per mantenere quello status quo che legittima gli uni e gli altri in un nodo mortale per la democrazia, lo trovo contro natura. Chi la pensa diversamente alzi la mano ma sappia che domani (e per tutta la settimana) aggiungerò nuovi elementi e riflessioni.

Stato “contro natura”. La Dda di Reggio Calabria svela la piaga purulenta all’interno dei servizi segreti: la Falange Armata, scrive l'1 agosto 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Cari lettori di questo umile e umido blog, da ieri vi sto raccontando quando e come lo Stato, la magistratura e l’informazione vanno contro la propria natura che è quella di far evolvere una società, garantirne la giustizia e assicurare la conoscenza dei fatti. Lo faccio prendendo spunto dall’ultima e fondamentale indagine della Procura di Reggio Calabria (capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio), che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato. Tutto deve cambiare affinché nulla cambi, scrive testualmente la Gip Adriana Trapani che ha firmato l’ordinanza contro Rocco Santo Filippone (‘ndrangheta) e Giuseppe Graviano (Cosa nostra). Ieri ci siamo fermati al matrimonio tra mafie e apparati dello Stato marcio per garantire lo status quo. Nulla di più logico per le mafie. Nulla di più aberrante e contro natura per lo Stato. Ci siamo (sof)fermati sulla 7ma Divisione del Sismi che, secondo le indagini reggine, era avvinto come l’edera ai residui del piduismo “gelliano”. Ma cos’era ‘sta 7ma Divisione del Sismi? Si trattava della Divisione dell’ex servizio di sicurezza che manteneva i collegamenti operativi con Gladio, il gruppo che aveva creato la sedicente Falange Armata. Breve inciso: Gladio era un’organizzazione paramilitare clandestina italiana di tipo stay-behind (“stare dietro”, “stare in retroscena”) promossa dalla Nato e organizzata dalla Cia per contrastare un’ipotetica invasione dell’Europa da parte della ex Unione Sovietica e dei paesi aderenti al Patto di Varsavia. Venne svelata bel ’90 ufficialmente da Giulio Andreotti che parlò di una struttura di informazione, risposta e salvaguardia. La Falange Armata, invece, ve la descrivo con le conclusioni alle quali giunge il Gip Trapani: «… la Procura condensa le proprie conclusioni in merito alla ideazione e all’utilizzo della sigla Falange Armata, inizialmente adottata da Cosa Nostra per nascondere la sua presenza dietro le azioni stragiste. Le ragioni dell’utilizzo di tale sigla miravano ad impedire che gli attentati fossero immediatamente ricondotti alle mafie. Se così fosse stato, le condizioni per ricattare lo Stato non ci sarebbero più state, in quanto si sarebbe trattato di un ricatto palesemente firmato. Attraverso un mirato approfondimento e richiamando i dati sopra esposti, la Procura conclude collegando tale sigla ai servizi deviati, in quanto ideata ed utilizzata da appartenenti infedeli ai Servizi di Sicurezza, sia per regolare conti interni ai servizi stessi, sia per essere messa a disposizione, inizialmente in funzione di depistaggio, delle azioni criminali eseguite delle organizzazioni mafiose. Significativa, in tal senso, è la vicenda sopra esaminata di Paolo Fulci. Filoni d’indagine — autonomi e distinti — su Cosa Nostra, sulla ‘ndrangheta e sul Sismi consentono, pertanto, di giungere a tale conclusione».  Quindi qui abbiamo già uno Stato “contro natura” sviscerato da alcuni magistrati e avallato da un giudice terzo ma torniamo alla 7ma Divisione del Sismi, dalla quale eravamo partiti. Per farlo torniamo a quel nome appena accennato sopra, quello di Paolo Fulci, ex ambasciatore che era stato, dopo una lunga e brillante carriera in diplomazia, Segretario generale del Cesis – organismo di controllo e coordinamento dei due servizi d’informazione “operativi” dell’epoca (il Sisde ed il Sismi) – fra il maggio 1991 e aprile 1993 e poi, della Dna. La Procura di Reggio Calabria ha dapprima acquisito la lunga deposizione, che aveva ad oggetto proprio la Falange Armata, resa da Fulci alla Dda di Palermo il 4 aprile 2014 e poi ha acquisito un articolato carteggio, composto da informative della Digos e documenti forniti all’aurorità giudiziaria dai servizi d’informazione e dal Cesis sul medesimo oggetto. La deposizione di Fulci alla Dda di Palermo fu particolarmente lunga. Fulci, poco dopo avere informato (in modo non dettagliato) il Comandante dell’Arma dei carabinieri dell’epoca e, ben più sommariamente, i suoi referenti politici – vale a dire i Presidenti del Consiglio in carica e quelli che gli avevano dato il mandato (il Presidente Giulio Andreotti con l’avallo dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga) – dopo che nell’aprile 1993 lasciò l’incarico si recò a svolgere funzioni diplomatiche oltreoceano. Vennero poi sentiti, il suo capo-gabinetto – generale Nicola Russo – e altri collaboratori, dalla Digos di Roma su delega della locale Procura. In buona sostanza, emerse che Fulci, dopo accertamenti interni fatti svolgere da personale di sua fiducia, avesse richiesto, al comandante generale dei Carabinieri di dare impulso ad attività d’indagine su circa 15 funzionari del Sismi, che prestavano servizio presso il nucleo Ossi, una sorta di gruppo di elite della Divisione del Sismi, in quanto a suo giudizio probabili o possibili appartenenti alla sedicente Falange armata (che pure aveva minacciato Fulci), una sorta di struttura occulta dei servizi deviati che svolgeva una campagna di “intossicazione”, disinformazione e aggressione ad esponenti istituzionali, che si poneva in continuità con la politica piduista dei vecchi apparati Sid/Sifar. Il generale Russo, in particolare — che non aveva partecipato alle attività di accertamento in questione, promosse da Fulci, si legge testualmente nel provvedimento firmato dal Gip Trapani — in via generale, nel corso della escussione del 3 luglio 1993 alla Digos di Roma, ribadì che Fulci legava le attività di minaccia, rivendicazione ed intimidazione della Falange, al tentativo di infangare e intimorire tutti i soggetti di rilievo istituzionale o pubblico che avevano evidenziato perplessità sulla cd Operazione Gladio individuando, anche legami fra, questa e la P2. Nel corso delle successive indagini, venivano approfonditi ulteriori aspetti e profili dei collegamenti Falange/7ma Divisione derivanti da quelle che erano state le dichiarazioni di Fulci. Ma questo lo leggeremo domani.

Stato “contro natura”. Nella stagione stragista Licio Gelli aveva in mano le mafie e i servizi deviati. Potevano vivere Falcone e Borsellino?  Scrive il 2 agosto 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Cari lettori di questo umile e umido blog, da ieri vi sto raccontando quando e come lo Stato, la magistratura e l’informazione vanno contro la propria natura che è quella di far evolvere una società, garantirne la giustizia e assicurare la conoscenza dei fatti. Lo faccio prendendo spunto dall’ultima e fondamentale indagine della Procura di Reggio Calabria (capo della Procura Federico Cafiero De Raho, procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e, dalla Dna, il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio), che hanno ricostruito la “Cosa unica”, che entra in azione quando lo Stato deve essere prima destabilizzato e poi stabilizzato. Tutto deve cambiare affinché nulla cambi, scrive testualmente la Gip Adriana Trapani che ha firmato l’ordinanza contro Rocco Santo Filippone (‘ndrangheta) e Giuseppe Graviano (Cosa nostra). Abbiamo fin qui analizzato il matrimonio tra mafie e apparati dello Stato marcio per garantire lo status quo. Va ora segnalato un dato di eccezionale rilievo che va ben al di là delle stesse coraggiose dichiarazioni dell’ex ambasciatore Fulci in quanto acquisito in epoca successiva alla cessazione dalla carica al Cesis dello stesso. Come evidenziato in una informativa del Servizio Antiterrorismo, non solo – e non tanto – vi era coincidenza fra le sedi periferiche del Sismi e le celle da cui provenivano le telefonate della Falange Armata ma addirittura da una attenta e scrupolosa ricognizione dei pernottamenti in albergo dei soggetti segnalati da Fulci stesso (appartenenti, come detto, alla 7ma Divisione – Ossi -) risultava che anche da un punto di vista temporale vi era coincidenza fra i soggiorni di molti di costoro e il giorno in cui dalla cella della località ove si trovavano, erano partite le minacce falangiste. Lo stesso servizio Antiterrorismo, infine, nella nota segnalava come fosse evidente, con riferimento alle minacce subite da Fulci della Falange Armata, ancora prima che prendesse servizio al Cesis e ancora prima che fosse nota la sua nomina, la riconducibilità delle minacce in questione ad appartenenti ai servizi. Secondo la Procura di Reggio Calabria e il giudice Trapani che ha firmato l’ordinanza, c’è un altissimo grado di probabilità che la Falange Armata fosse una sigla riconducibile ai cosiddetti servizi deviati. Tre filoni d’indagine – autonomi e distinti – su Cosa Nostra, sulla ‘ndrangheta e sul Sismi consentono di giungere alla stessa conclusione. Il filone investigativo sul Sismi consente di precisare che la struttura deviata si annidava all’interno della 7ma Divisione (scolta nel 1993) del Sismi. Si trattava della Divisione che si occupava di Gladio e che, non diversamente dalle mafie, vedeva messa in discussione la sua mission nel nuovo periodo storico che si andava ad aprine nei primi anni Novanta. «Non sappiamo chi, all’interno di tale divisione abbia in concreto operato a tale fine, ma le tracce processuali che si aveva il dovere di seguire portano fino a quella porta», si legge nel provvedimento. Questi soggetti, legati alle vecchie strutture dei servizi in mano a Licio Gelli, che non a caso tutelavano, concordarono – fra il 1990 ed il 1991 – con le principali mafie, Cosa Nostra, ‘ndrangheta, l’utilizzo della sigla Falange Armata nella rivendicazione di efferati delitti e stragi. Come sappiamo, negli anni successivi, ci sarebbero state sia le stragi che le rivendicazioni. Il contatto e l’accordo in questione era parallelo a quello storico che vedeva, ancora una volta, protagonisti Gelli e le mafie, nel lancio delle cosiddette liste autonomiste e andava oltre. Gli elementi indiziari convergenti consentano infatti di tracciare un legame fra Gelli e la strategia stragista nel suo complesso. Per ora mi fermo ma domani si prosegue.

Parla l’avvocato dei boss: «Ecco i misteri di via D’Amelio che non conoscete». La guerra intestina tra Riina e Provenzano, il depistaggio di Vincenzo Scarantino, le lacune delle inchieste. E la domanda più inquietante: fu davvero una 126 ad esplodere in via D’Amelio? Il racconto dell’avvocato Rosalba Di Gregorio a Manuel Montero su “Fronte del Blog” il 30 agosto 2014. Dal suo ufficio i boss sono passati in massa. Il primo fu Giovanni Bontate, fratello di Stefano, alias il Principe di Villagrazia e gran capo di Cosa Nostra prima che i Corleonesi lo ammazzassero dando vita alla seconda guerra di mafia. Poi ci furono i Vernengo e Francesco Marino Mannoia. E ancora Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, Michele Greco detto il Papa della mafia. E ora Bernardo Provenzano, Binnu u tratturi. Dallo speciale osservatorio che si è costruita, l’avvocato Rosalba Di Gregorio ha potuto raccontare così l’ “altra faccia” delle stragi. E lo ha fatto con Dina Lauricella nel libro non a caso intitolato “Dalla parte sbagliata” (Castelvecchi), un volume che rappresenta un pugno nello stomaco per chi (quasi tutti, in verità) ritiene il 41bis un regime di detenzione degno di una società civile: ne narra gli orrori da Guantanamo, le inutili crudeltà, le indescrivibili pressioni fisiche e psicologiche. Fatte anche su chi, come abbiamo scoperto di recente, ci è finito dentro per quasi vent’anni da innocente: i sette malcapitati trascinati al 41bis dal falso pentito di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino. Ma il libro fa molto di più: mette a nudo le pecche dei pentiti, chi tra loro confessa a rate lunghissime, chi di volta in volta aggiunge, sottrae e corregge le versioni senza mai pagarne il conto. Col rischio che raccontino storie molto lontane dalla realtà. Ma è proprio sulla vicenda di Scarantino che il legale può illuminarci, dato che, alcuni di quei malcapitati innocenti, li difendeva lei.

Lei dice che si vedeva subito che le dichiarazioni di Scarantino erano una farsa.

«L’unico riscontro che esisteva alle sue parole era la 126 esplosiva che uccise Paolo Borsellino e la sua scorta. Tutto il resto erano cose surreali. Spiegò che la decisione di uccidere il magistrato era avvenuta in casa di un uomo, tale Giuseppe Calascibetta, intorno al 25 giugno 1992, a cui parteciparono capi di Cosa Nostra di qualsiasi grado, cosa già di per sé impossibile. Ma incredibile è il fatto che fu creduto quando disse di averlo sentito perché lui, che doveva aspettare fuori, ad un certo punto, avendo sete, entrò a prendere in frigorifero una bottiglia d’acqua. Anziché fermarsi o cacciarlo o qualsiasi altra iniziativa, proprio allora tutti avrebbero parlato dell’attentato da fare in via D’Amelio. Ci sarebbe da ridere se non fosse una tragedia. E il guaio è che è il meno».

Cioè?

«Scarantino raccontò le modalità con cui era stato affiliato, una specie di rimpatriata tra amici, finita al ristorante. Non era incredibile solo la narrazione, ma proprio lui, che aveva rapporti con una transessuale, cosa che un uomo d’onore non avrebbe fatto mai. Non riuscivo a credere che i magistrati lo ritenessero attendibile. E infatti non lo era. Ma quando raccontò delle torture subite per farlo confessare nessuno gli diede retta, anzi…»

Lei scrive che voi avvocati foste accusati dai giudici di cambiare le carte in tavola, per usare un eufemismo…

«Fosse solo questo. I pm Anna Palma e Nino Di Matteo ci denunciarono due volte per il caso Scarantino. La prima volta quando scoprimmo l’esistenza di tre confronti che altri pentiti avevano avuto con lui, confronti a lungo negati dai pm. Quando ne chiedemmo l’acquisizione da un altro procedimento, dissero che non servivano. Noi li denunciammo per falso, loro per calunnia. Tutto archiviato. La seconda volta accadde, quando Scarantino ritrattò la sua confessione in aula: due legali furono accusati di essere le menti occulte a disposizione di Cosa Nostra che lo avevano convinto a cambiare idea. Un’altra fesseria, archiviata per buona sorte. Oggi sappiamo che Scarantino davvero era un poveraccio, uno che di mafia non sapeva nulla, neurolabile riformato dal servizio di leva, le cui confessioni erano studiate a tavolino e per arrivare alle quali subì un trattamento orrendo nel carcere di Pianosa».

Cosa sappiamo della strage di via D’Amelio?

«Praticamente dopo tre processi non sappiamo granchè. Non si sa quando avvenne, se avvenne, una riunione deliberativa per deciderne la morte. Non sappiamo il movente. Non sappiamo da dove fu azionato il telecomando esplosivo. Non sappiamo quanti parteciparono, perché ognuno conosceva un segmento delle azioni. Non sappiamo neppure come faceva Cosa Nostra a sapere dell’arrivo di Borsellino proprio quella domenica. Le nuove indagini stanno cercando di far luce, ma sono penalizzate di ventidue anni. E da vari elementi che agli atti non si trovano».

E quelli che hanno partecipato?

«Dicono tutti di aver preso ordini da Salvatore Biondino, di solito definito l’autista di Riina, in realtà il reggente del mandamento di S.Lorenzo, il cui capomandamento Giuseppe Giacomo Gambino, era stato arrestato».

La 126 esplosiva. Nel libro lei esprime dubbi sul fatto che sia stata davvero quella l’arma usata in via D’Amelio.

«Guardi, sulla copertina del libro c’è una foto un po’ ridotta rispetto a quella che ho qui nel mio ufficio, scattata dal palazzo di fronte a quello della sorella del giudice Borsellino. È stata fatta la mattina del 20 luglio 1992. La strada è deserta. Eppure dopo le 13,30 venne recuperato lì, di fianco alla Croma che c’è sulla foto senza nulla intorno, il motore della 126, una cosa da 80 kg, non roba piccola, mi spiego? Ho chiesto di acquisire tutti i filmati e le foto del 19 luglio, il blocco motore non appare da nessuna parte. Nessuno lo vede questo motore, 80 kg che regge in tre processi. Noi sappiamo però quattro cose. La prima è che un pentito, Giovan Battista Ferrante, disse che loro l’esplosivo l’avevano piazzato in un fusto ricoperto da 200 litri di calce e non nella 126. La seconda è che il consulente di parte Ugolini chiese in aula come mai non fosse stato repertato un grosso frammento “stampato” sul cratere dell’esplosione. La terza è che la scientifica di Palermo riempì 60 sacchi della pattumiera con tutto ciò che era stato trovato a terra, ma senza mettere a verbale reperto per reperto inviandole a Roma, a disposizione solo dell’Fbi. La quarta la raccontò Scarantino in aula al momento di ritrattare la confessione. Disse che, quando era sotto protezione, godeva della compagnia sostanziale e inspiegabile dei poliziotti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino. E ricordò che uno di loro gli aveva spiegato come in realtà la 126 fosse stata fatta esplodere in una discarica e i pezzi poi portati lì per incolpare gli imputati. Naturalmente fu giudicata “ridicola” la sua affermazione. Però…».

Però?

«Ci sarebbe una quinta cosa, un’agenzia Ansa scomparsa».

Prego?

«Un’ora dopo la strage uscì un’agenzia nella quale si diceva che grazie ad una felice intuizione investigativa si era scoperto che la causa dell’esplosione era stata un’autobomba 126. Un’ora dopo! Ne feci copia, una per me e una da depositare. La mattina successiva entrai in ufficio ed entrambe erano sparite. L’agenzia sull’archivio Ansa oggi non c’è. D’altra parte c’era confusione. Il pm di turno fu avvisato della strage alle 18,40, quando sulla scena del crimine era entrato l’universo mondo. Solo un quarto d’ora dopo l’area fu recintata. Nel frattempo, mentre in via D’Amelio si addensavano centinaia e centinaia di persone, la polizia aveva capito che l’autobomba era una 126. Non me lo spiegherò mai».

Lei non crede dunque alla ricostruzione di Spatuzza?

«Certo, ma Spatuzza racconta solo del furto della 126. Ciò che accadde una volta consegnata l’auto non può saperlo e infatti non lo dice, perché fu fatto allontanare da Palermo».

Non ritiene valido neppure il teorema Buscetta sull’unitarietà e l’aspetto verticistico di Cosa Nostra.

«Con queste ultime sentenze su via D’Amelio sappiamo che il mandamento della Guadagna, quello di Pietro Aglieri, con le stragi del ’92 e ‘93 non c’entrava nulla. E non poteva che essere così, perché ad Aglieri Riina aveva chiesto di ammazzare uno dei parenti di Totuccio Contorno, condannato a morte dai Corleonesi. Ma Aglieri, quando aveva visto la vittima con il bimbo in braccio si era rifiutato di ucciderlo. Lo riferì a Provenzano e lui fu d’accordo. Ma Aglieri non entrò più nelle grazie di Riina. Fu Borsellino a dire che Riina e Provenzano erano due pugili che si guardavano in cagnesco. Si trattava di un gruppo non più unitario nelle idee e nel metodo. Io l’ho constatato in diverse sentenze, con assoluzioni del gruppo di Provenzano rispetto a fatti in cui quelli di Riina erano stati condannati. Con Riina c’erano Brusca, Graviano e Spatuzza, non Provenzano. D’altra parte il pentito Giuffrè disse che già nel 1989 Riina gli aveva chiesto a che ora Binnu uscisse di casa. Evidentemente perché lo voleva ammazzare».

L’agenda rossa di Borsellino che fine può aver fatto?

«Guardi, intanto Arnaldo La Barbera, il capo della mobile di Palermo e poi del gruppo Falcone-Borsellino, qualche giorno dopo la strage disse che l’ “agenda telefonica” di Borsellino molto probabilmente era andata distrutta nell’esplosione e che non era stata ritrovata. Un’agenda che il sostituto procuratore Ignazio De Francisci diceva essere importantissima. Poi sappiamo che l’agenda marrone era stata ritrovata e, dalla testimonianza del pm dell’epoca Fausto Cardella al Borsellino quater sappiamo che anche l’ “agenda telefonica” è stata infine trovata. Ed era nella borsa di Borsellino apparsa, non si sa come, proprio nell’ufficio di La Barbera. Ecco, intanto sappiamo questo, che La Barbera fosse o meno il collaboratore dei servizi segreti col nome di Rutilius. Ma se per via D’Amelio i misteri sono ancora moltissimi, non è che per la strage di Capaci noi si sappia poi moltissimo».

Cioè?

«Neppure lì sappiamo molto sulla riunione deliberativa per ammazzarlo. Nel senso che una sentenza di Catania che riuniva stralci delle stragi di Capaci e di via D’Amelio colloca la riunione tra il novembre e il dicembre del 1991, basandosi sulle dichiarazioni del pentito Nino Giuffrè. Giuffrè raccontò che nell’occasione si erano ritrovati tutti i capi. E Riina, avendo avuto notizie che il maxiprocesso non sarebbe stato cassato, disse che era arrivata l’ora della resa dei conti. E che era venuto il tempo di ammazzare Lima, Falcone e Borsellino. A marzo, aveva dunque mandato a Roma Gaspare Spatuzza e altri per pedinare Falcone e poi ammazzarlo per vendetta. Senonchè, alla fine, il gruppo era stato chiamato indietro da Biondino perché bisognava fare la strage di Capaci. Come si passa dalla vendetta con un colpo di pistola alla strage di Capaci? Chi, quando, dove, come e perché lo ha deciso? Non si sa».

Riina: mi fece arrestare Provenzano. Avrebbe confidato queste parole al poliziotto Bonafede nel 2013. E sul bacio di Andreotti: «Lei mi vede a baciare quell’uomo? Però sono sempre stato andreottiano», scrive “Il Corriere del Mezzogiorno” il 30 giugno 2016. La cattura, la presunta trattativa e il leggendario bacio ad Andreotti. Al processo Stato-Mafia piombano, e sono sempre macigni, le parole di Totò Riina. Utili per una serie di riscontri. In particolare, vengono riportate le confidenze che Riina avrebbe fatto al poliziotto Michele Bonafede nel carcere milanese di Opera. «A me mi hanno fatto arrestare Bernardo Provenzano e Ciancimino e non come dicono i carabinieri» avrebbe detto l’ex Capo dei capi all’agente il 21 maggio 2013. L’episodio, ricordato oggi dal poliziotto durante il processo Stato-mafia, confermerebbe quanto detto dal figlio di Ciancimino, Massimo, che per primo ha parlato del ruolo del padre e del capomafia di Corleone nella cattura di Riina. Al boss i carabinieri sarebbero arrivati grazie all’indicazione del covo segnata da Provenzano nelle mappe catastali fattegli avere dal Ros attraverso Vito Ciancimino. L’udienza si sta svolgendo nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. «Ma è vera la storia del bacio ad Andreotti?» gli chiese poi l’agente. «Appuntato, lei mi vede a baciare Andreotti? - rispose il boss - Le posso solo dire che era un galantuomo e che io sono stato dell’area andreottiana da sempre». Su un’altra frase del boss, raccolta da Bonafede e da un altro agente, Francesco Milano, il 31 maggio 2013 mentre si recavano nell’aula per le videoconferenze del carcere («Io non ho cercato nessuno, erano loro che cercavano me»), in aula sono emerse due versioni discordanti. Bonafede ricorda che il boss avrebbe aggiunto «per trattare», mentre Milano ha riferito che il capomafia disse in siciliano stretto: «Il non cercai a nuddu (nessuno,ndr), furono iddi (loro, ndr) a cercare a mia (a me, ndr)». Senza aggiungere altro, né spiegare il contesto. «Io sono stato 25 anni latitante in campagna - avrebbe riferito a Bonafede, come scritto dall’agente nella relazione di servizio - senza che nessuno mi cercasse, come è che sono responsabile di tutte queste cose? Nella strage di Capaci mi hanno condannato con la motivazione che essendo il capo di Cosa Nostra non potevo non sapere. Lei mi ci vede a confezionare la bomba di Falcone?». Poi il padrino avrebbe aggiunto: «Brusca non ha fatto tutto da solo. Lì c’era la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l’agenda del giudice Paolo Borsellino. Perché non vanno da quello che aveva in mano la borsa e non si fanno dire a chi ha consegnato l’agenda? In via D’Amelio c’entrano i servizi che si trovano a Castello Utveggio e che dopo cinque minuti dall’attentato sono scomparsi, ma subito si sono andati a prendere la borsa».

Massacri e pizzini, muore Provenzano il padrino dei misteri. Latitante per 43 anni, guidò i corleonesi e trattò con la politica, scrive Francesco La Licata il 13/07/2016 su "La Stampa". Con Bernardo Provenzano scompare l’ultimo padrino «Old style»: il capo, cioè, che preferisce comandare più con la persuasione che col pugno di ferro. Non che non fosse in grado di fare male a chi «deviava», anzi. Solo che lui amava accreditarsi come persona ragionevole. E allora potrebbe trovare una spiegazione la sfilza di nomignoli, anche contraddittori, che il boss si è meritato durante la sua lunga carriera.  Il nome che gli rimarrà per sempre è Binnu, diminutivo di Bernardo usato nel Corleonese. Gli amici, i familiari lo hanno sempre chiamato così. Per i sudditi era obbligatorio il don e perciò «don Binnu». Da giovane aveva un temperamento forte e, dunque, non era famoso per le doti di saggezza che gli verranno riconosciute nella maturità. No, lui era famoso come «Binnu ‘u tratturi», per la straordinaria determinazione con cui spianava gli avversari. Nel 1958 aveva 25 anni e, ricordano alcuni pentiti, «sparava come un Dio». Allora, appena tornato dal servizio militare con una lettera di esenzione per inadeguatezza fisica, preferì imbracciare le armi per combattere la guerra privata contro l’esercito del vecchio Michele Navarra, medico, segretario politico della dc e capomafia. Il suo comandante era Luciano Liggio, l’amico del cuore Totò Riina. Il sangue scorreva tra i vicoli di Corleone, Binnu compì veri «atti di valore» e durante un’azione pericolosa rimase ferito alla testa. In ospedale disse che non capiva: «Stavo camminando e ho sentito qualcosa che mi ha colpito al capo». Finì sotto processo con tutti gli altri, Riina compreso, ma al dibattimento di Bari arrivò il «liberi tutti». Ci furono altri morti, ma Binnu si era fatto ancora più furbo e quando lo cercarono era già uccel di bosco. Primavera 1963: ebbe inizio in quella data la lunga latitanza di Provenzano, conclusa a Montagna dei cavalli (Corleone, naturalmente) l’11 aprile del 2006, 43 anni dopo. Clandestinità dorata, attenzione. Perché Binnu si è sempre mosso a suo piacimento: andava a Cinisi, regno di don Tano Badalamenti, perché lì «filava» con Saveria, l’amore della sua vita e la madre dei suoi due figli, Angelo e Francesco. In clandestinità si sono sposati, Binnu e Saveria: rito religioso celebrato da preti compiacenti, matrimonio non registrato, situazione regolarizzata dopo la sua cattura. Una volta preso, gli venne chiesto se fosse coniugato e lui rispose: «Col cuore sì, per la legge no. Ma presto regolarizzerò questa situazione». E così fu: la «messa a posto» avvenne in carcere. Binnu è un maestro della clandestinità: ha abitato a Palermo, a Bagheria, a Corleone; ha girato la Sicilia in lungo e largo, è riuscito a farsi operare alla prostata in una clinica specializzata di Marsiglia, ottenendo persino il rimborso delle spese mediche dalla Asl. Ha viaggiato in barca, dentro un’auto nascosta all’interno di un furgone e nessuno lo ha mai scoperto. Teneva riunioni della cupola nei casolari di campagna e selezionava attentamente gli amici che chiedevano udienza. Con la maturità è cambiato il carattere. L’ultima volta che viene visto in azione come «’u tratturi» era il dicembre del 1969, anno della strage di viale Lazio. Lui, Totò Riina e un gruppo di «corleonesi» massacrano l’odiato Michele Cavataio e i suoi amici: quattro morti, ma muore anche Calogero Bagarella, fratello di Leoluca, luogotenente e cognato di Totò Riina. Quella volta Provenzano finisce Cavataio colpendolo alla testa col calcio della pistola che gli si era inceppata e poi tenta di dargli fuoco. Eccesso di ferocia? Anche di calcolo, visto che si sapeva che Cavataio teneva una lista scritta delle famiglie di Cosa nostra e i relativi adepti. Ecco, quel biglietto andava distrutto. Un lungo periodo di anonimato, poi si saprà agevolato, in qualche modo, dai carabinieri, precede la comparsa dell’«altro» Binnu: l’uomo riflessivo, il principe della mediazione, l’esecutore della «volontà di Dio». Il freddo calcolatore, l’uomo d’affari e, quindi, «’u ragiuniere», affidabile anche per certe istituzioni tolleranti. Il dispensatore di appalti e affari che - al chiuso degli uffici della Icre di Bagheria, un’impresa di proprietà del boss Nardo Greco - pianificava la spartizione dei lavori pubblici ottenuti tramite le sue amicizie politiche. Già, la politica. A differenza di Riina (che non vantava grandi amici), Provenzano un buon protettore, e addirittura complice, lo aveva. Era Vito Ciancimino, democristiano, sindaco e assessore al Comune di Palermo. Erano amici d’infanzia, i due. Racconterà poi Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso, che Binnu aveva una vera e propria adorazione per Vito. Si erano conosciuti da piccoli, a Corleone, quando Provenzano (terzo di sette figli) pativa la fame e Vito non gli negava biscotti e una tazza di latte. Da grandi erano rimasti amici: Binnu gli dava del lei e lo chiamava «ingegnere» anche se era soltanto geometra, l’altro gli dava del tu, imponeva la via politica e garantiva l’arricchimento dell’intera consorteria mafiosa attraverso i soldi pubblici. Ma quando Binnu e Vito «correvano» insieme, già una rete di complicità girava intorno a loro. Racconterà Massimo che il padre finì per diventare una specie di anello di congiunzione fra rappresentanti delle Istituzioni (che ambivano di stare a contatto con mafiosi e affaristi) e il vertice di Cosa nostra. Siamo nel periodo delle stragi e della svolta terroristica imposta da Totò Riina. Binnu non l’ha mai condivisa perché convinto, saggiamente, che «non si può fare la guerra allo Stato». Ma poteva esprimere soltanto pareri, visto che il momento delle decisioni spettava al capo, a Totò Riina. Raccontava il pentito Nino Giuffrè che «Provenzano a Riina spesso discutevano e non erano d’accordo, ma non si alzavano dal tavolo se non avevano raggiunto un accomodo». Chissà, forse alla vigilia delle stragi di Falcone e Borsellino, nel 1992, Binnu era riuscito ad ottenere dal capo la possibilità di tirar fuori i familiari. Sarà per questo che donna Saveria, nella primavera di quell’anno, improvvisamente torna a Corleone, riapre la casa degli avi ed esce ufficialmente dalla clandestinità, insieme coi figli che, così, assumono una vera forma. Finiscono di essere dei fantasmi per entrare nell’anagrafe del comune di Corleone, seppure offrendo pochi scampoli di verità sulla loro trascorsa latitanza. È il momento più difficile di Cosa nostra. Riina deve affrontare il suo popolo e convincerlo che non tutto è perduto con quella maledetta sentenza del maxiprocesso voluto da Falcone e Borsellino. Promette che sarà posto rimedio a quella batosta e che i «traditori politici» avranno quello che si meritano. Scatta la rappresaglia: la mafia uccide Ignazio Salvo, il deputato dc Salvo Lima, uccide Giovanni Falcone in quel modo eclatante e, soltanto 57 giorni dopo, mette in scena il bis con l’attentato a Paolo Borsellino. Questo, a sentire i collaboratori di giustizia e le risultanze di importanti indagini, è quanto imposto dalla «linea Riina», con la prudente astensione di Provenzano. Anzi, con l’opposizione sotterranea di Binnu. Così raccontano primattori e comparse dell’indagine che è già sfociata nel processo sulla «trattativa Stato-mafia». Una sceneggiatura che consegna addirittura l’immagine di un Binnu collaboratore dei carabinieri (e quindi risparmiato e tenuto libero), nel tentativo di garantire una pax mafiosa e fermare la follia stragista di Totò Riina, che avrebbe portato anche all’eliminazione fisica di alcuni politici considerati «traditori» rispetto alle promesse fatte e non mantenute. Ma questo è un capitolo ancora aperto e foriero di grandi attriti politico-istituzionali. Ha già provocato feroci discussioni e divisioni un dibattimento che annovera tra gli imputati mafiosi del calibro di Provenzano e Riina, politici come Mannino, poi assolto, Dell’Utri e gli alti ufficiali dei carabinieri Mori e Subranni. Tutti accusati di aver condotto una vera e propria trattativa sulla base anche di richieste ufficiali della mafia, ufficializzate nel cosiddetto «papello», cioè un elenco di benefici (tra l’altro l’alleggerimento del carcere duro, l’abolizione dell’ergastolo, della legge sui pentiti e sul sequestro dei beni ai mafiosi) consegnato allo Stato italiano (attraverso i carabinieri) da Vito Ciancimino, con la «benedizione» di don Binnu. Tutto ciò, ovviamente, ha appannato il prestigio di Provenzano. I suoi amici (in particolare il boss Matteo Messina Denaro) gli hanno addirittura rimproverato poca cautela nella gestione della comunicazione attraverso i suoi famigerati «pizzini». E non si può negare che qualche problema l’ha creato la scoperta dei duecento e più bigliettini trovati nel suo covo di Montagna dei cavalli. Ma quando è stato preso, don Binnu, era già votato alla «pensione». Non era più «u tratturi» e neppure «u ragiunieri»: forse si ritrovava ancora nei panni del vecchio mediatore, nell’intento di poterla sfangare e tramontare senza l’onta e il marchio del collaboratore. I pizzini, infatti, ci lasciano l’immagine che gli è più congeniale. L’eterno «moderato» che proprio se deve ordinare l’esecuzione di qualcuno lo fa congiungendo le mani sul petto e sussurrando: «Sia fatta la volontà di Dio».

Le Iene Show. Puntata del 22 novembre 2016. Matteo Viviani ha intervistato l’ex agente dei servizi segreti noto come Agente Kasper. L’uomo ha ripercorso con la Iena la sua carriera nell’intelligence, le sue esperienze da infiltrato e le operazioni internazionali a cui ha preso parte nel corso della sua vita.

La vera fine di Salvatore Giuliano, scrive il 22/03/2018 Paola Carella su “Il Giornale". “Io così sacciu la storia e accussì la racconto”. Così inizia il racconto di Giacomo Bommarito, la vedetta di Salvatore Giuliano, u picciutteddu, nel libro intervista “Io c’ero”, di Valentina Gebbia e Nunzio Giangrande, edito da Dario Flaccovio editore. Una lunghissima intervista, fatta a più riprese, in cui l’ultraottantenne racconta, dopo un silenzio durato settanta anni, la Sua storia su una delle figure più note e controverse della storia italiana e internazionale, quella del bandito Salvatore Giuliano. Qual è la verità sul suo conto e sulla sua morte? Attraverso questo libro si ridisegna il profilo di un personaggio raccontato in oltre quaranta libri, film e personaggio di primo piano nei testi storici e nei saggi dal secondo dopoguerra in poi. Eppure la vicenda di Salvatore Giuliano si svolse in un arco temporale di soli sette anni, dal 1943 al 1950, anno della sua presunta morte. Tanti i misteri che ruotano attorno alla sua figura: Turiddu, come lo chiamavano i suoi, era al tempo stesso uomo amato dalla sua terra e bandito terribile di cui persino i servizi segreti internazionali si occuparono. Nel secondo dopoguerra la Sicilia deteneva il deprimente primato nazionale di uccisioni, rapine, sequestri ed estorsioni e le Forze dell’Ordine, anche per i tristi trascorsi siciliani, spesso erano “strumento di oppressione e soprusi ai servizi del signore più forte”. Montelepre era un piccolo paesino su un colle nella Sicilia occidentale e aveva sempre covato il seme della ribellione e dell’insofferenza al potere, imposto con la forza, sin dai tempi della carboneria mazziniana. La seconda guerra mondiale aveva lasciato tanta miseria e le elezioni italiane del giugno 1946 avevano messo la DC con il governo De Gasperi alla guida del paese: ovunque in Sicilia serpeggiava il malcontento della popolazione, affamata e senza lavoro, che si fece sentire da più parti, il contrabbando diviene un’alternativa di sopravvivenza, così inizia la storia di Salvatore Giuliano. Giacomo Bommarito nella sua testimonianza ripercorre passo dopo passo la vita di un uomo fuorilegge, protetto da tutti, restituendo una verità scomoda con dovizia di particolari e dettagli. Nei capitoli che si susseguono vengono riportati numerosi momenti di quei sette anni di latitanza: dall’intervista di Mike Stern, che intervistò Giuliano nel suo rifugio sui monti di Montelepre, immortalati in una fotografia riportata nel libro fino all’incontro con la giornalista/spia svedese Maria Cyliakus con la quale era nata una relazione. E ancora gli incontri con il colonnello americano Charles Poletti insieme al Principe Raimondo Lanza di Trabia: una narrazione fitta e intrinseca, dal linguaggio semplice, in cui si vuole fare luce su molti angoli bui, compreso quello del famoso diario in cui il bandito annotava qualunque cosa e che fu la sua condanna a morte. Un racconto, quello riportato dai due autori, che mostra una versione molto diversa da quella ufficiale, ma che trova affinità con i ricordi degli anziani: tanti i dettagli che trovano riscontro con la storia e che destano numerosi interrogativi ai quali ancora nessuno sa o vuole rispondere, come quello sulla strage di Portella della Ginestra: -“ Ero la vedetta di Salvatore Giuliano, andavo a prendere il pane, gli portavo le sigarette e Giuliano non ha mai sparato a Portella della Ginestra. L’ho visto Giuliano a Portella, l’ho visto quando è andato e l’ho visto quando è tornato, lui era un bandito, non era cattivo, se aveva un pezzo di pane lo dava a chi aveva più fame di lui”. Secondo quanto dice l’uomo la strage venne ordinata dalla mafia e dalla politica di allora – “per mettere il popolo siciliano contro Giuliano, la mafia doveva consegnare alla giustizia Giuliano morto perché sapeva troppe cose”. Come è possibile che Salvatore Giuliano avesse ordinato la strage di Portella della Ginestra? Come avrebbe potuto sparare contro amici, parenti, quegli stessi che lui aiutava? Nel 2016 si sarebbe dovuta attuare la desecretazione degli atti relativi alla strage di Portella ma ad oggi siamo ancora in attesa.  Accanto a Salvatore Giuliano gravitavano pezzi della mafia, dello Stato e dei servizi segreti: qual è la verità sul suo conto e sulla sua morte? Tanti gli interrogativi che non trovano risposta come quello che ruota attorno alla morte del bandito ed ecco che il testimone racconta di un appuntamento a Borgetto al quale Turiddu si presentò vestito in abiti eleganti il 6 luglio del 1950 ma la morte di Giuliano risalirebbe al 5 luglio 1950 e le foto mostrano una scena che è molto lontana simile a una scenografia. Il corpo ritrovato era davvero il suo? L’Europeo, nel 1950 titolava “Di sicuro, c’è solo che è morto”, eppure neanche questa è mai stata una certezza.

SCADUTO IL SEGRETO DI STATO SU PORTELLA E SULLA MORTE DI GIULIANO. Scrive Pino Sciumé il 5 luglio 2016 su “Siciliaonpress”. Mattina del 5 luglio 1950. A Castelvetrano, in provincia di Trapani, in un cortile ubicato nella via Mannone, un corpo senza vita, riverso bocconi e circondato da carabinieri, magistrati, giornalisti, abitanti del posto, fu mostrato all’opinione pubblica come un trofeo di guerra, la vittoria dello Stato contro il ricercato più pericoloso che per sette anni lo aveva tenuto in pugno. Quel corpo era del “bandito” Salvatore Giuliano. Autori della brillante operazione furono il Colonnello Ugo Luca e il Capitano Antonio Perenze, quest’ultimo dichiaratosi autore materiale dell’eliminazione fisica dell’imprendibile “re di Montelepre”. L’operazione militare, ordinata direttamente dall’allora ministro degli Interni Mario Scelba, siciliano di Caltagirone e inventore del famoso corpo di polizia denominato “La Celere”, sembrò mettere a tacere per sempre la questione del banditismo siciliano che, secondo le fonti governative, aveva provocato centinaia di morti nei sette anni precedenti, culminati con la strage di Portella delle Ginestre in cui la banda Giuliano provocò la morte di undici contadini e il ferimento di altre trenta persone. Poco prima della morte di Giuliano era cominciato a Viterbo il processo per la strage di Portella, definita da Scelba, opera di criminali comuni che nulla avevano a che fare con i politici, gli agrari e la mafia. La Corte non si preoccupò pertanto di ricercare eventuali mandanti, ma di accertare la responsabilità personale degli esecutori comminando loro la giusta condanna. Due anni dopo, dodici componenti della c.d. banda Giuliano furono condannati alla pena dell’ergastolo, dodici e non undici, quanti erano effettivamente presenti sul monte Pizzuta assieme a Giuliano. Ma uno in più, uno in meno… Le cronache di quei tempi riferiscono che nessun siciliano credeva alla colpevolezza di Giuliano perché quello di Portella era il suo popolo, la gente per cui aveva lottato contro uno Stato da lui considerato nemico e da cui voleva che la Sicilia si distaccasse. Umberto Santino, giornalista e attento osservatore, come lo fu il coraggioso Tommaso Besozzi (autore dell’articolo: “Di sicuro c’è solo che è morto” scritto all’indomani del 5 luglio 1950) così scrive in uno dei suoi pezzi “La verità giudiziaria sulla strage si è limitata agli esecutori individuati nei banditi della banda Giuliano. Nell’ottobre del 1951 Giuseppe Montalbano, ex sottosegretario, deputato regionale e dirigente comunista, presentava al Procuratore generale di Palermo una denuncia contro i monarchici Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Giacomo Cusumano Geloso come mandanti della strage e contro l’ispettore Messana come correo. Il Procuratore e la sezione istruttoria del Tribunale di Palermo decidevano l’archiviazione. Successivamente i nomi dei mandanti circoleranno solo sulla stampa e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia che comincia i suoi lavori nel 1963”. Ancora Umberto Santino, nei suoi articoli che fanno parte dell’Archivio del compianto Professor Giuseppe Casarrubea, scrive: “Nel novembre del 1969 il figlio dell’appena defunto deputato Antonio Ramirez si presenta nello studio di Giuseppe Montalbano per recapitargli una lettera riservata del padre, datata 9 dicembre 1951. Nella lettera si dice che l’esponente monarchico Leone Marchesano aveva dato mandato a Giuliano di sparare a Portella, ma solo a scopo intimidatorio, che erano costantemente in contatto con Giuliano i monarchici Alliata e Cusumano Geloso, che quanto aveva detto, nel corso degli interrogatori, il bandito Pisciotta su di loro e su Bernardo Mattarella era vero, che Giuliano aveva avuto l’assicurazione che sarebbe stato amnistiato”. E ancora: “Montalbano presenta il documento alla Commissione antimafia nel marzo del 1970, la Commissione raccoglierà altre testimonianze e nel febbraio del 1972 approverà all’unanimità una relazione sui rapporti tra mafia e banditismo, accompagnata da 25 allegati, ma verranno secretati parecchi documenti raccolti durante il suo lavoro. La relazione a proposito della strage scriveva: “Le ragioni per le quali Giuliano ordinò la strage di Portella della Ginestra rimarranno a lungo, forse per sempre, avvolte nel mistero”. La Commissione Parlamentare Antimafia istituì nel 1971 una sotto commissione sui fatti Portella presieduta da Marzio Berardinetti che tra l’altro affermò: “Il lavoro, cui il comitato di indagine sui rapporti fra mafia e banditismo si è sobbarcato in così difficili condizioni, avrebbe approdato a ben altri risultati di certezza e di giudizio se tutte le autorità, che assolsero allora a quelli che ritennero essere i propri compiti, avessero fornito documentate informazioni e giustificazioni del proprio comportamento nonché un responsabile contributo all’approfondimento delle cause che resero così lungo e travagliato il fenomeno del banditismo”. Per tali motivi, nell’intento di non andare oltre in interrogatori che potevano portare a verità scomode fu apposto il Segreto di Stato fino al 2016, fino a questo 5 luglio 2016, 66° anniversario della messinscena della morte di Salvatore Giuliano. Abbiamo sentito il nipote Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio di Mariannina e sorella di Salvatore. “Noi della famiglia siamo sicuri dell’estraneità di mio zio sui fatti di Portella. Quella fu una Strage di Stato addossata ad arte a Giuliano. Le Autorizzo a scrivere che noi conosciamo la verità fin dal 1965. Ora se lo Stato vuole aprire quegli archivi che ben venga, anche se non credo ci possa essere ormai qualcosa che non conosciamo. Ma dalla fine del prossimo settembre sarà in distribuzione in tutta Italia prima e successivamente negli Stati Uniti, un Docufilm di circa tre ore in formato DVD che farà conoscere al mondo intero la verità su mio zio Salvatore Giuliano, eroe siciliano, colonnello dell’Evis, punto fermo dell’ottenimento del mai attuato Statuto Siciliano, anche se lui ha sempre lottato per l’Indipendenza della Sicilia”. Una pagina dell’Unità del 7 luglio 1950 mostra la cronaca della morte di Salvatore Giuliano. Potrà essere risolto nel 2016, allorché cadrà il segreto di stato sulle carte conservate negli archivi dei ministeri dell’interno e della difesa, il giallo sulla morte del bandito Giuliano, uno dei tanti misteri della storia italiana sui quali recentemente la magistratura è tornata ad indagare. Ne è convinto Giuseppe Sciortino Giuliano, nipote di Salatore Giuliano, che ha appena pubblicato un libro (“Vita d’inferno. Cause ed affetti”) che si chiude con una ricostruzione secondo la quale il cadavere mostrato all’epoca alla stampa non sarebbe stato quello del celebre bandito, bensì di un sosia.

Montelepre: una “Vita D’inferno”. Ricordato Salvatore Giuliano, nel 60° anniversario della morte, con una pubblicazione del nipote Pino Sciortino Giuliano. La vicenda di Salvatore Giuliano ci riporta ad anni particolarmente “inquieti”, complessi, della storia della Sicilia e, nonostante gli innumerevoli fiumi d’inchiostro versati, su quei fatti permangono ancora molte zone d’ombra. Sono gli anni dello sbarco degli Alleati, del separatismo, della ribellione civile frettolosamente etichettata come bieco “banditismo”. Un groviglio di rapporti nebulosi – tra americani e mafia, tra patiti politici e mafia, tra Giuliano e politici senza scrupoli –, pose le basi della nascente Repubblica Italiana. Allora tutti si incontrarono, dialogarono e si accordarono: aristocratici, politici, intellettuali, operai, contadini, servizi segreti internazionali, forze di polizia e banditi. Il “caso” Giuliano servì a ognuno fino a quando considerarono conveniente l’accordo, poi… la mattina fatidica del 5 Luglio del 1950, in un cortile di Castelvetrano, il “presunto” corpo di Turiddu venne trovato crivellato di colpi, in seguito, ad un falso conflitto a fuoco sostenuto dagli agenti del Cfrb, e nell’arco di appena un decennio tanti possibili testimoni uscirono di scena con morti alquanto misteriose. In pochi si salvarono affrontando il carcere duro e solo pochissimi resistettero e tornarono a casa a fine pena. Seguì l’inevitabile volontario silenzio degli esigui superstiti. A 60 anni dalla morte del leggendario colonnello dell’Evis, il nipote di Salvatore Giuliano, Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio della sorella del bandito, Mariannina, ha presentato lo scorso 5 luglio (data ufficiale della morte di Turiddu), ad un folto pubblico proveniente da tutta la Sicilia ed anche dall’estero, l’ultimo suo libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”. Un’opera che racconta la vita degli abitanti di Montelepre, paese natale di Giuliano, dal 1943 al 1950, periodo di forti tensioni politiche e civili, caratterizzato da arresti ingiustificati, false accuse e vessazioni da parte dello Stato nei confronti della popolazione contadina dell’area monteleprina, posta in continuo stato d’assedio ed ingiustamente colpevolizzata. «Un pregevole recupero della verità storica, troppo spesso mistificata dalla storiografia ufficiale (figlia faziosa dei poteri imperanti) – ha evidenziato il relatore, prof. Salvatore Musumeci, giornalista ed esperto di storia della Sicilia, tra l’altro presidente nazionale del Mis –, che malgrado tutto si è mantenuta, pur rimanendo per parecchio tempo in uno stato di oblio. Su Salvatore Giuliano molto è stato scritto con lo scopo di intorpidire le acque. Oggi più che mai, mentre si celebrano i falsi miti dei 150 di Stato unitario, Montelepre, e non tanto la sola figura di Turiddu, ha bisogno di conoscere e di riappropriarsi della verità storica, perché per quegli eventi è stata colpevolizzata un’intera cittadina che nulla aveva a che fare con gli accadimenti che travolsero Giuliano. Ai monteleprini è successo ciò che accadde ai meridionali all’indomani della forzata annessione piemontese e per spiegarlo cito un pensiero di Pino Aprile (dal suo recente Terroni): “È accaduto che i (monteleprini) abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è più tollerabile del male subìto. Così, la resistenza all’oppressore, agli stupri, alla perdita dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è divenuta vergogna”». Fatti analoghi sono stati vissuti da Ciccu Peppi, il protagonista del libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”, e da tre quarti della popolazione monteleprina continuamente vessata dal famigerato “don Pasquale”, il brigadiere Nicola Sganga, e dallo “Sceriffo”, il maresciallo Giovanni Lo Bianco (ambedue appartenenti alla Benemerita). Sciortino, inoltre, descrive le ipotesi più attendibili sull’uccisione di Giuliano e una ricostruzione delle circostanze in cui morì Gaspare Pisciotta, braccio destro del bandito, avvelenato in cella il 9 febbraio 1954. Parla anche della strage di Portella della Ginestra e di come la banda Giuliano sarebbe stata oculatamente coinvolta al fine di giustificare il massacro. In appendice, il volume contiene una poesia scritta da un componente della Banda Giuliano, Giuseppe Cucinella che ha ispirato l’opera di Giuseppe Sciortino Giuliano. «La poesia – ha sottolineato l’autore –, è stata in qualche modo ispiratrice della stesura del libro. Devo molta riconoscenza alla figlia di Giuseppe Cucinella (la signora Giusi Cucinella, ndr), che me l’ha messa a disposizione ed io ho voluto farle il regalo di inserirla all’interno del libro. Proprio, perché dalla lettura di questa poesia si vede il patriottismo di quest’uomo, che era comune anche a tutti gli altri, e ciò per dimostrare che gli uomini di mio zio non erano volgari delinquenti ma gente che aveva un ideale e combatteva per questo ideale. All’interno della mia famiglia mi sono dovuto caricare di una responsabilità enorme, perché dovevo in qualche modo rimuovere la macchia nera di Portella delle Ginestre che aveva colpevolizzato un’intera comunità. Per cui io stesso sono diventato ricercatore della verità e man mano che gli uomini di mio zio uscivano dal carcere li avvicinavo, chiedevo, li intervistavo perché volevo capire, io per primo, quello che veramente era successo in quegli anni. Questo mi ha permesso di avere una cognizione di causa sull’argomento e sulla vita in generale di mio zio e di tutto il periodo storico e, quindi, ho potuto scrivere diversi volumi (Mio fratello Salvatore Giuliano, scritto assieme alla madre Mariannina, e Ai Siciliani non fatelo sapere, ndr)». Allo storico monteleprino, prof. Pippo Mazzola, abbiamo chiesto: quali nuove verità apprenderemo nel 2016 quando verranno desecretati i faldoni del fondo Giuliano? «Sicuramente nessuna – sorride ironico il Mazzola –. Sappiamo da fonti attendibilissime che nel corso degli anni, via via, sono spariti tutti i documenti compromettenti, tra cui il fascicolo 29 C contenente il memoriale di Gaspare Pisciotta e i suoi quattordici quaderni. Pare che siano scomparsi durante il governo D’Alema. Oggi non possiamo provarlo, ma chi vivrà vedrà». Prima di lasciare Montelepre ci fermiamo per qualche attimo al Cimitero. Incontriamo una comitiva ed una graziosa ragazza ci chiede: «Excuse me, here is the tomb of Salvatore Giuliano?». Rispondiamo: «Yes, in the chapel on the left most». Ci ringrazia e l’ascoltiamo spiegare: «Giuliano was a hero who fought for the Sicily against the abuses of the Italian State. For the Sicily’s independence. Too bad that Sicilians like him there are not more!». Lasciamo ai lettori il piacere della traduzione. Giuseppe Musumeci. Pubblicato su “Gazzettino”, settimanale regionale, Anno XXX, n. 25, Giarre sabato 10 luglio 2010 

LA STIDDA. LA SECONDA MAFIA SICILIANA.

La Stidda. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La Stidda è un'organizzazione criminale italiana di tipo mafioso, che opera in prevalenza nella Sicilia. In particolare, è diffusa nelle province di Agrigento, Caltanissetta, Enna e Ragusa.

Storia. Secondo il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, nella metà degli anni ottanta numerosi mafiosi della provincia di Caltanissetta, che erano stati legati al bossGiuseppe Di Cristina ed anche "messi fuori confidenza", cioè espulsi dalle loro cosche, organizzarono dei propri gruppi criminali, assoldando specialmente bande di microcriminalità minorile e malavitosi comuni: «Le "stidde" sono un'espressione di Cosa Nostra. Un uomo messo fuori confidenza che punge altri uomini diventa "stidda" [...] C'è stata una rottura perché in alcuni paesi si sono create due Famiglie. Uno di questi paesi è Riesi, centro storico per Cosa Nostra. Si è creato un gruppo dietro Di Cristina ed un gruppo dietro ai Corleonesi. Quelli di Di Cristina hanno creato il congiungimento di tutte le "stidde". Prima la "stidda" non aveva agganci con tutti mentre i riesani sapevano cosa vuol dire e quanti uomini d'onore nei paesi erano messi fuori confidenza. A questo punto hanno aggregato a loro Ravanusa, Palma di Montechiaro, Racalmuto, Enna ed altri paesi creando una corrente. Si conoscono tra di loro, sono gli uomini d'onore, buttati fuori, che combattono Cosa Nostra; è la stessa mafia e non un'altra organizzazione che viene da fuori» Nel 1987 a Gela iniziò un violento conflitto tra la banda stiddara capeggiata dall'ex pastore Salvatore Iocolano e i gruppi mafiosi appoggiati al boss latitante Giuseppe "Piddu" Madonia (rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta): sempre il collaboratore Leonardo Messina dichiarò che «prima Niscemi e Gela erano un'unica Famiglia perché c'erano pochi uomini d'onore. [...] A Gela [Giuseppe Madonia] aveva affiliato a Cosa Nostra Salvatore Polara [...]; man mano qualcuno se lo sono affiliato, a qualcuno hanno fatto la guerra»; la faida iniziò con l'uccisione degli stiddari Salvatore Lauretta e Orazio Coccomini, uomini di Iocolano, ed in seguito i clan stiddari e mafiosi assoldarono numerosi minorenni come killer: tra il 1987 e il 1990 avvennero oltre cento omicidi nella sola Gela, che culminarono nella cosiddetta «strage di Gela» (27 novembre 1990), in cui tre agguati scattati simultaneamente in diversi punti della città provocarono otto morti e undici feriti. Il conflitto si estese anche a Niscemi e Mazzarino e si allargò nella provincia di Agrigento (specialmente a Racalmuto, Palma di Montechiaro, Canicattì e Porto Empedocle), dove bande di fuoriusciti si armarono contro le cosche locali per il controllo degli affari illeciti e, nel giro di tre anni, vi furono più di trecento omicidi nella zona, che culminarono nella cosiddetta «strage di Porto Empedocle» (4 luglio 1990), in cui vennero trucidati tre mafiosi e feriti altri tre dal clan stiddaro dei Grassonelli. Il 21 settembre 1990 il giudice Rosario Livatino venne ucciso lungo la strada statale Caltanissetta-Agrigento da alcuni stiddari di Canicattì e Palma di Montechiaro: il delitto venne compiuto per vendicare la severità delle sentenze del giudice e per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa Nostra. Nel 1999 un gruppo di fuoco mafioso eseguì a Vittoria, in provincia di Ragusa, la cosiddetta «strage di San Basilio», avvenuta nel bar di un'area di servizio, in cui furono uccisi tre esponenti della Stidda di Vittoria, su ordine della cosca Emmanuello di Gela, che voleva eliminare i temibili alleati degli stiddari gelesi ed intendeva estendere attività criminali in quel territorio, dove la presenza di Cosa Nostra è tradizionalmente assente. Attualmente, fatta eccezione per Palermo, esiste una cellula della Stidda nelle province della Sicilia centrale e orientale e anche in alcune regioni del nord. Le indagini nell'Italia settentrionale hanno confermato che oltre alle attività tradizionali, la Stidda si occupa anche di organizzare bande di rapinatori e di altre attività. Questo la porta a essere una mafia che cerca di mettere le mani in ogni attività illegale, al fine di trarne i maggiori guadagni possibili. Cellule della Stidda sono rintracciabili anche all'estero, come in Germania, segnale di come questa organizzazione criminale si stia evolvendo e rafforzando.

Etimologia del termine. Il termine stidda in lingua siciliana significa "stella". Son tre le spiegazioni possibili:

Nel gergo di Cosa Nostra il termine stidda assumerebbe il senso di una costellazione di gruppi malavitosi che gravitano attorno all'organizzazione principale.

Stidda però potrebbe essere anche il nome di un tatuaggio fatto in carcere che gli stiddari porterebbero come segno di riconoscimento (cinque segni verdognoli disposti a cerchio fra il pollice e l'indice della mano destra, a formare una stella). Pratiche simili non sono nuove nell'ambiente mafioso e carcerario.

Un'altra tesi vede l'origine del termine Stidda nella "Madonna della stella", santa patrona del comune di Barrafranca, in provincia di Enna. La tesi nacque dalle rivelazioni di Antonino Calderone, il quale dichiarò per primo che in quel paese «a parte la Famiglia appartenente a Cosa Nostra, vi è un'altra Famiglia, composta in gran parte da espulsi da Cosa Nostra, detta la Famiglia degli "Stiddari"»

Caratteristiche. Aspetti peculiari. L'organizzazione ha la capacità di evolversi e di cambiare le regole, la struttura interna e i rapporti tra le varie cosche. Oggi, la Stidda e tutti i gruppi che la compongono si strutturano secondo uno schema ben definito al cui apice c'è la figura del capo. Si è affermato un principio di mutua assistenza tra i membri della stessa cellula criminale e tra clan alleati o amici, non più singole cosche prive di collegamento, ma gruppi saldamente legati e consorziati. Con un elemento in più, quello della spietatezza delle azioni, che diventa decisivo nello sviluppo rapido delle carriere e nell'affermazione di giovani emergenti.

Il rapporto con cosa nostra. Rispetto a Cosa Nostra la Stidda è molto più debole, meno strutturata, alquanto frammentaria ma radicata specie in alcune zone come Vittoria e Lentini, dove Cosa Nostra è tradizionalmente assente. Ciò comporta una più scarsa efficacia d'azione rispetto a Cosa nostra, minore interesse all'infiltrazione, maggiore facilità di controllo da parte dello Stato e maggiore circoscrizione del territorio oggetto di attività. Tuttavia, se la frammentarietà di tale organizzazione da un lato previene la comparsa di zone off-limits per lo stato, dall'altro permette una certa diffusione a macchia di leopardo nel territorio. Inoltre la Stidda s'interessa in primo luogo di attività commerciali come lo spaccio di droga (nisseno, agrigentino), anche se non mancano tentativi (spesso riusciti) d'infiltrazione nella classe dirigente locale. Altra attività tipica è il tradizionale pizzo mafioso che inibisce gravemente lo sviluppo economico e sociale del territorio, diffuso nelle zone dove opera l'attività criminale della Stidda, specialmente nel nisseno (Gela) e nel ragusano (Vittoria).

Area geografica di attività. Benché le sue origini siano da localizzare nella zona del nisseno e dell'agrigentino, negli ultimi decenni ha avuto un rapido sviluppo che ha interessato numerosi comuni della Sicilia meridionale. Essi sono:

nella provincia di Agrigento: Agrigento, Favara, Porto Empedocle, Palma di Montechiaro, Ribera, Licata, Canicattì, Ravanusa;

nella provincia di Caltanissetta, Butera, Gela, Mazzarino, Niscemi, Riesi, San Cataldo, Sommatino, Villalba;

nella provincia di Enna: Enna, Villarosa, Piazza Armerina, Calascibetta, Agira, Catenanuova, Leonforte, Nicosia, Barrafranca, Pietraperzia;

nella provincia di Ragusa: Acate, Vittoria, Comiso.

LA SACRA CORONA UNITA. LA PRIMA MAFIA PUGLIESE.

Sacra corona unita. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La Sacra Corona Unita (SCU) è un'organizzazione criminale italiana di connotazione mafiosa che ha il suo centro in Puglia e che ha trovato negli accordi criminali con organizzazioni dell'est europeo la sua specificità per emergere e distaccarsi dalle altre mafie italiane. Ha raggiunto il suo apice tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta del XX secolo. Successivamente all'intervento dello Stato, e a un gran numero di arresti, è stata indebolita e marginalizzata, per poi perseguire a partire agli anni dieci del XXI secolo, una strategia di mimetizzazione e di infiltrazione nel tessuto imprenditoriale, alla ricerca del massimo consenso in tutti gli strati della società, come denunciato più volte da Cataldo Motta, procuratore capo della Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di Lecce.

La Sacra corona unita è un'organizzazione criminale italiana di connotazione mafiosa che ha il suo centro in Puglia e che ha trovato negli accordi criminali con organizzazioni dell'est europeo la sua specificità per emergere e distaccarsi dalle altre mafie italiane. Ha raggiunto il suo apice tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta del XX secolo; successivamente all'intervento dello Stato, e a un gran numero di arresti, è stata notevolmente indebolita e marginalizzata tanto che numerosi analisti la considerano sconfitta.

Etimologia. Il nome di questa organizzazione è formato da 3 parole:

sacra: poiché quando si affilia un nuovo membro all'organizzazione questo viene "battezzato" o "consacrato", come un sacramento religioso;

corona: poiché nelle processioni si usa il rosario (o "corona");

unita: come sono uniti e forti "gli anelli di una catena".

Storia. Origini. Nel 1981 il boss camorrista Raffaele Cutolo, affidò a Pino Iannelli e Alessandro Fusco il compito di fondare in Puglia un'organizzazione diretta emanazione della Nuova camorra organizzata che prese il nome di Nuova camorra pugliese (Società foggiana). Questa associazione prese piede soprattutto nel foggiano a causa della vicinanza territoriale e dei contatti preesistenti tra esponenti della malavita locale e i camorristi campani. Tuttavia questa iniziativa venne vista con sospetto dai malavitosi di altre zone della Puglia. Come risposta al tentativo di Cutolo di espandersi in Puglia, si tentò di dar vita ad un'associazione malavitosa di stampo mafioso formata da esponenti locali. Si ritiene che la Sacra corona unita sia stata fondata da Giuseppe Rogoli nel carcere di Trani la notte di Natale dell'anno 1981. Giuseppe Rogoli era già affiliato alla 'Ndrangheta (nella 'ndrina dei Bellocco di Rosarno) e chiese il permesso al capobastone Umberto Bellocco di formare una 'Ndrangheta pugliese. Nel 1987 Rogoli affidò a Oronzo Romano e Giovanni Dalena la costituzione di un'altra 'ndrina nel sud barese chiamata La Rosa, sempre con il consenso della 'Ndrangheta. L'attività di gestione degli enormi flussi di denaro derivanti dalle attività illecite fu affidata a Nicola Murgia che fu per questo motivo soprannominato "il cassiere" dalla Direzione Investigativa Antimafia. Il braccio destro di Rogoli fu Antonio Antonica, primo affiliato di Rogoli a causa dell'antica amicizia nonché personaggio di spicco della malavita mesagnese. A causa dello stato di detenzione di Rogoli, Antonio Antonica era stato nominato responsabile unico delle attività illecite che si svolgevano nell'area brindisina. Antonica ebbe il compito anche di nominare alcuni capi zona della provincia di Brindisi. Con le prime scarcerazioni il numero degli affiliati aumentò e ognuno pretendeva la sua parte di guadagno. Antonica sentiva il peso dell'organizzazione tutto sulle sue spalle ed ebbe una discussione con Rogoli che gli negò il permesso di trafficare droga. Antonica, così, preferì abbandonare Rogoli e creare un clan contrapposto. Questo comportò l'inizio di una guerra lunga tre anni di conflitti e sgarri che portò alla sua uccisione. Iniziò la rifondazione della Sacra corona unita partendo dalle modalità di affiliazione, con regole più rigide e severe. Così nel carcere di Trani nacque la Nuova sacra corona unita il cui statuto sarebbe stato firmato oltre che da Rogoli, da Vincenzo Stranieri di Manduria da Alberto Lorusso e da Mario Papalia legato a Cosa nostra. Nel 1987 la Sacra corona unita era composta dalle famiglie più rappresentative del brindisino guidate da Salvatore Buccarella, Alberto Lorusso, Giovanni Donatiello, Giuseppe Gagliardi e Ciro Bruno e da qualche propaggine nella provincia di Taranto. Alla lunga proprio il gran numero di cosche contribuirà ad un altro periodo di tensione all'interno dell'organizzazione tra brindisini e leccesi. Lo schieramento brindisino della Sacra corona unita, con Salvatore Buccarella e Giovanni Donatiello, è stato quello che dimostrò nel corso degli anni una maggiore compattezza, finché non è stato colpito da una pesante offensiva giudiziaria.

Il contrasto. L'operazione "Salento" inizia il 10 maggio 1995 e termina il 3 novembre 1995, prendono parte 1.713 soldati dell'esercito italiano. L'operazione, nata principalmente per fronteggiare l'immigrazione clandestina, ebbe risultati molto positivi anche nella lotta alla SCU. Queste sono state le attività svolte:

1.650 posti di osservazione;

10 pattugliamenti in profondità;

767 controlli di autoveicoli;

2.604 identificazioni di persone;

3.029 fermi di clandestini;

10 fermi di persone sospette.

Le pene inflitte agli affiliati furono numerose e severe tanto da decapitare l'organizzazione. A luglio del 2000 si è conclusa l'operazione Centurione, durata un paio di anni, in cui, fra l'altro, sono stati individuati traffici di droga con l'Albania.

Gli anni 2000. Negli ultimi anni sono emersi numerosi nuovi personaggi, dai soprannomi coloriti, che hanno concentrato sul racket, sul contrabbando di sigarette e sulla droga, le principali attività criminali. Alcuni di loro hanno fondato la Sacra corona libera. Ultimamente qualche membro di rilievo della SCU ha deciso di collaborare con le forze di polizia italiane, determinando così l'arresto di alcuni esponenti dell'organizzazione. Secondo la Direzione investigativa antimafia, oggi la criminalità organizzata pugliese "si presenta disomogenea, anche in ragione della persistente pluralità di consorterie attive, molto diversificate nell'intrinseca caratura criminale e non correlate da architetture organizzative unificanti". Nel 2008 viene assassinato Peppino Basile, consigliere provinciale dell'Italia dei Valori, impegnato in costanti denunce sulle infiltrazioni mafiose a Ugento (Le). Secondo il rapporto della Direzione investigativa antimafia, analizzando l'andamento delle segnalazioni sul sistema SDI di fatti -reato ex art. 416 bis codice penale- si nota una notevole diminuzione nella regione delle denunce di tali fattispecie delittuose, che si attestano al numero di 3. L'interpretazione di questo trend, da leggere sinergicamente con gli andamenti dei dati delle associazioni a delinquere non connotate da profili mafiosi (47), deve tenere in adeguato conto il positivo risultato storico di una incisiva attività delle Forze di polizia nel corso degli anni, il cui risultato giudiziario ha conseguito la detenzione di molti elementi apicali dei maggiori gruppi criminali. Il 23 aprile 2011 è stato arrestato ad Oria (BR) colui che aveva preso le redini dell'organizzazione dai capi storici (Giuseppe Rogoli e Salvatore Buccarella), il latitante Francesco Campana. Con l'arresto di Campana, che segue a poca distanza l'operazione Last Minute del 28 dicembre 2010, con la quale furono arrestati 18 tra capi e promotori della Sacra corona unita, si ritiene di aver inflitto un durissimo colpo alla criminalità organizzata locale.

Struttura.

«Giuro su questa punta di pugnale bagnata di sangue, di essere fedele sempre a questo corpo di società di uomini liberi, attivi e affermativi appartenenti alla Sacra corona unita e di rappresentarne ovunque il fondatore, Giuseppe Rogoli» (Giuramento).

«Giuro sulla punta di questo pugnale, bagnato di sangue, di essere fedele a questo corpo di società formata, di disconoscere padre, madre, fratelli e sorelle, fino alla settima generazione; giuro di dividere centesimo per centesimo e millesimo per millesimo fino all'ultima stilla di sangue, con un piede nella fossa e uno alla catena per dare un forte abbraccio alla galera.» (2. Giuramento).

«Giuro su questa punta di pugnale bagnata di sangue, di essere fedele sempre a questo corpo di società di uomini liberi, attivi e affermativi appartenenti alla Sacra corona unita e di rappresentarne ovunque il santo, san Michele Arcangelo» (3. Giuramento)

La SCU è divisa in 47 clan, autonomi nella propria zona ma tenuti a rispettare interessi comuni a tutti i circa 1.561 affiliati della Sacra corona unita. Si tratta quindi di un'organizzazione orizzontale per molti versi simile a quella della 'Ndrangheta.

Gerarchia. Il primo grado è la "picciotteria", il successivo il "camorrista", cui seguono "sgarrista", "santista", "evangelista", "trequartista", "medaglione" e "medaglione con catena della società maggiore". Sono gradi di chiara matrice 'ndranghetista. Il 16 giugno 2018 si conclude una operazione contro i clan Mercante-Diomede e Capriati di Bari in cui viene confermato l'uso di questi riti. Otto medaglioni con catena compongono la "Società segretissima" che comanda un corpo speciale chiamato la "Squadra della morte". Bisogna specificare che questa piramide di ruoli ha un valore soprattutto simbolico: spesso il potere detenuto dal singolo affiliato non corrisponde in realtà alla sua posizione nella gerarchia formale.

Faide. «Le faide sono incubatrici di violenza e riesplodono quando meno te lo aspetti.» (Nicola Gratteri "Fratelli di sangue").

Faida del Gargano. In data 23 giugno del 2004 il blitz «Iscaro-Saburo» portò all'arresto di altre cento persone, presunte affiliate ai clan della faida del Gargano. In data 21 aprile 2009, il presunto boss Franco Romito e il suo autista Giuseppe Trotta vengono crivellati nella loro auto in località Siponto. Sono tre le armi utilizzate per compiere il duplice omicidio; recuperati sull'asfalto 4 bossoli di un fucile calibro 12 caricato a pallettoni, numerosissimi bossoli calibro 7.62 di una mitraglietta e 4-5 di una pistola calibro 9per21. I due sono stati raggiunti da una pioggia di proiettili in più parti del corpo. Franco Romito aveva il volto completamente sfigurato e non aveva più la mano sinistra. Franco Romito potrebbe essere stato ucciso per essere stato per anni, con i suoi familiari, confidente dei Carabinieri e in molte indagini sulla famiglia mafiosa del clan opposto, Libergolis di Monte Sant'Angelo.

Faida del Brindisino. Negli anni dal 1989 al 1991 si scatena nel Brindisino una faida, della quale saranno vittime i maggiori esponenti della società maggiore; sarà calcolata una media di più di cento morti ammazzati, definita come una delle maggiori cause dell'idebolimento dei clan in tutta l'area del brindisino, capeggiata allora dal clan Buccarella (Tuturano)

Faida di Taranto. Nel periodo dal 1988 fino al 1993 i fratelli Modeo diedero inizio ad una delle più sanguinose guerre di mala in Puglia. Caratterizzata da una guerra fratricida (si vedevano contrapposti i tre fratelli Modeo contro il maggiore detto "il Messicano"), questa faida coinvolse i clan più importanti del Tarantino con uno spaventoso tasso di omicidi e attentati. La guerra si concluse con l'agguato mortale a "il Messicano", fondatore del clan, e con l'arresto dei tre fratelli minori, trovati in una masseria bunker. I morti furono ben oltre i cento (circa 170), con coinvolgimenti di innocenti non collegati ai clan (es. strage della Barberia), questo dovuto al clima di tensione in città e soprattutto nel rione Tamburi, con affiliati che avevano il dovere di "sparare a vista" anche in pieno giorno e in presenza di passanti.

Faida del sud Salento. A partire dal 2010 la scu del sud Salento si arricchisce con lo spaccio di cocaina nelle numerose località balneari in periodo estivo. Il fiume di denaro derivante dallo spaccio, genera una serie di tradimenti interni ai clan. A farne le spese lo storico boss di Gallipoli Rosario Padovano, ucciso dal fratello, e Augustino Potenza, boss di Casarano.

Economia. Secondo recenti dati forniti dall'Eurispes, sembra che la Sacra corona unita guadagni 878 milioni di euro l'anno dal traffico di stupefacenti, 775 milioni dalla prostituzione, 516 milioni dal traffico di armi e 351 milioni dall'estorsione e dall'usura. Un giro d'affari di circa 2 miliardi e mezzo di euro.

Sacristi principali.

Capriati Antonio, detto tonino (Capo)

Vincenzo Stranieri (Manduria, capo fondatore)

Savinuccio Parisi (capo)

Andrea Gaeta (capo)

Francesco Gaeta

Angelo Notarangelo (capo), Ucciso

Giosuè Rizzi (capo), Ucciso[1]

Giuseppe De Palma "Boss di origine Calabrese" (capo)

Raffaele De Palma (capo)

Matteo De Palma, cognato di Mario Luciano Romito (Boss di Manfredonia) - Uccisi a San Marco in Lamis

Vito Di Emidio (Leader ship)

Salvatore Rizzo (capo)

Samuele Cardone, detto Pippo (capo)

Timo Luigi Davide (Monteroni clan Tornese)

Francesco Locorotondo (capo, catena con medaglione) Crispiano, Lizzano (TA)

Cataldo e Giuliano Cagnazzo, (capi del clan Cagnazzo) Lizzano (TA).

Giovanni Dalena, detto veleno (capo)

I capi di Monte Sant'Angelo ("clan Libergolis")

Giuseppe Pacilli (capo)

Franco Libergolis (capo)

Ciccillo Libergolis (ex-capo)

Enzo Miucci (capo)

Clan "Famiglie" principali:

Provincia di Foggia

Presenza della 'Ndrangheta a San Severo e Lucera

Clan Libergolis

Clan Sabatino

Clan Moretti-Pellegrino

Clan Francavilla

Clan Piarulli-Ferraro

Clan Palumbo

Clan Gaeta

Clan Rizzi

Clan Laviano

Clan Romito-De Palma

Clan Li Bergolis

Clan Crisetti

Clan Di Claudia

Clan Caputo

Clan Ferraro

Città metropolitana di Bari

Clan Capriati

'Ndrina La Rosa

Clan Depalma

Clan Strisciuglio

Clan Parisi

Clan Conte

Clan Cipriano

Clan Panarelli

Clan Montani-Telegrafo

Clan Mercante

Clan Cassano

Clan Muolo

Clan Svezia-Laneve

Clan Valentini

Provincia di Brindisi

Clan Rogoli-'Ndrina Bellocco

Clan Buccarella

Clan Sabatelli

Clan Brandi

Clan Vitale

Clan Donatiello

Clan Soleti

Clan Cigliola

Clan Leo

Clan Bleve

Clan Emidio

Clan Bruno

Clan D'Onofrio

Provincia di Lecce

Clan Rizzo

Clan Tornese

Clan De Tommasi

Clan Cerfeda - I Briganti

Clan Coluccia

Clan Padovano

Clan Margiotta

Clan Scarcella-Albertini

Clan Donatiello

Clan Buccarella

Clan Rogoli

Clan Conte

Provincia di Taranto

Presenza delle 'Ndrine del Cosentino

Clan Locorotondo

Clan Cicala

Clan Stranieri

Provincia di Bari

Clan Dalena

Divisioni interne.

Società foggiana. La Società foggiana è un cartello criminale di stampo mafioso, legato alla Sacra corona unita, che ha il suo centro nella città di Foggia e che ha trovato accordi con organizzazioni criminali come la mafia siciliana, la camorra e la ndrangheta[27]. Il foggiano, a causa della vicinanza con la Campania, ha risentito dell'influenza della camorra e della defunta Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. La criminalità, organizzata in "batterie" (Sinesi-Francavilla, Mansueto-Trisciuoglio-Prencipe, Moretti-Pellegrino-Piscopia), è risultata in costante evoluzione ed ha aggregato in una società tutte le espressioni emergenti del territorio, riuscendo ad infiltrarsi nelle aree costiere limitrofe, nelle quali ha progressivamente imposto i propri interessi illeciti nel terziario e nelle costruzioni, in particolare assumendo il controllo del settore delle onoranze funebri.

Camorra barese. È un'organizzazione mafiosa operante a Bari e nella provincia, da non confondere con la camorra napoletana. In prevalenza confederazioni tra clan, che come attività primarie continuano ad essere dediti ai reati in materia di stupefacenti, contrabbando ed estorsioni. Fra i clan spiccano gli Strisciuglio e i Telegrafo del quartiere San Paolo, il clan Parisi del quartiere Japigia di Bari (scissosi nel 1990 dalla Sacra corona unita) con a capo il noto boss Savinuccio Parisi e Tonino Capriati (clan sgominato), operante a Bari Vecchia. Diomede (Quartiere Libertà), gli emergenti Lorusso e Di Cosola (Carbonara). Il clan Strisciuglio è egemone a Bari e dintorni; è un'associazione delinquenziale facente capo a Domenico ‘La Luna' Strisciuglio, operante a partire dal 1997, con finalità di conquista territoriale per l'imposizione di un potere su spazi economici sempre più estesi e con una dilagante attività di violenta sopraffazione collettiva. L'organizzaizione nacque nel 1997, con la disgregazione delle famiglie mafiose dei Di Cosola e Laraspata a seguito rispettivamente dei blitz ‘Conte Ugolino' e ‘Mayer' e del conflitto insorto col clan Capriati. Una guerra all'ultimo sangue tra gli Strisciuglio e i Capriati, che “ha avuto la propria epifania con l'omicidio di Giuseppe Capriati ad opera degli Strisciuglio. Da lì un'escalation di violenza per le vie di Bari, nella quale hanno perso la vita innocenti come Michele Fazio, con la definitiva vittoria degli Capriati.

Clan attuali.

Bari vecchia: Strisciuglio (ex Laraspata), Capriati, Rizzo, Martiradonna

Madonnella: Di Cosimo-Rafaschieri

Libertà:Rizzo, Diomede, Coletta, Strisciuglio-Caldarola, Lorusso, Ridente

San Pasquale-Carrassi: Caracciolese, Diomede

Japigia: Parisi, Palermiti 

Carbonara-Ceglie: Di Cosola-Strisciuglio

San Paolo: Telegrafo, Montani, Fiore-Risoli

San Pio: Strisciuglio

Clan scomparsi.

Torre a Mare-Noicattaro: clan Poggioallegro

Libertà: Biancoli, Mercante, Velluto

Centro e Bari Vecchia: Laraspata, Lazzarotto, Annacondia, Manzari, De Felice

San Pio/Enziteto: Piperis, Scaglioso-Vispo

Sacra corona libera. La Sacra corona libera, formata da esponenti già appartenuti alla Sacra corona unita. Nasce a causa di contrasti con i vertici della SCU e propone alcune differenze: l'uso di minorenni e l'abolizione dei riti d'iniziazione.

Sangue, bossoli e mare, scrive Tiziana Magrì su “Narco Mafie” il 22 set 2015. La mafia tarantina e la sua storia si articolano su un territorio complesso, strettamente legato al mare e a tutto quello che dal mare può venire. Ripercorriamone la storia recente allo scopo di ritrarre un territorio dove, al novero dei traffici illeciti, si è aggiunto il business portato dai migranti e dall’accoglienza a loro destinata sul suolo italiano. Il 3 luglio scorso, il governo, ha deciso per l’ennesima volta il futuro della città di Taranto, firmando l’ottavo decreto salva-Ilva. Un decreto che, se da un lato dovrebbe garantire 15 mila posti di lavoro, dall’altro salva ancora una volta un colosso aziendale che negli anni, dentro e fuori dalla fabbrica, è stato causa di malattie e morti. Ancora un volta, quindi, scoppia la bolla di sapone di quello che, ciclicamente, media e opinionisti chiamano “caso Taranto”; che d’altronde, suona ormai quasi “città criminale”. La morte di Taranto non è solo una questione del presente: la città sullo Jonio ha alle spalle un passato difficile (abbastanza recente), quello che va dalla fine degli anni Ottanta agli anni Novanta. È il tempo delle pistole fumanti, il periodo di piombo della criminalità tarantina. Una guerra cruenta che ha lasciato sull’asfalto, tra boss, affiliati e vittime innocenti 169 persone. Erano gli anni dei fratelli Modeo (fratellastri, in verità, stesso padre ma madri diverse): Antonio, il Messicano; e poi Riccardo, Giancarlo e Claudio. Sono stati loro a regnare sulla città. Soprattutto Antonio Modeo, in prima fila in Lotta Continua durante gli anni Settanta, ideatore prima e creatore poi della mala tarantina. Una mafia moderna, che vuole uscire dal provincialismo per diventare borghese. Modeo, faccia da duro, si presentava come un uomo ambizioso e intelligente. Soprannominato il Messicano per quella sua somiglianza con Charles Bronson, attore protagonista del film Il Giustiziere della Notte. Correva l’anno 1986 e il clan governava incontrastato sul tarantino. Al Messicano, affiliato alla Nuova camorra pugliese da Raffaele Cutolo in persona e Aldo Vuto, non manca la vena imprenditoriale: con la ditta Italferro Sud monopolizza il mercato della rottamazione e quello della mitilicoltura grazie alla Cooperativa Praia a Mare, estendendo la propria influenza anche fuori dai confini della Puglia. Antonio Modeo, con i suoi fratelli, viene arrestato e processato dal Tribunale di Bari. Ma tra loro i rapporti non sono facili. Sono in guerra per contendersi il monopolio del mercato della droga. Una frattura insanabile, che determina presto cambiamenti di alleanze e strategie tra i due clan neonati: da un lato Antonio, sostenuto dai boss Salvatore De Vitis, Matteo La Gioia, Orlando D’Oronzo, Cataldo Ricciardi e Gregorio Cicale; dall’altro i fratelli Riccardo, Gianfranco e Claudio, appoggiati dal boss dell’alto barese Salvatore Annacondia. È da qui che prende avvio la lunga e sanguinosa faida che trasformerà Taranto. Il 21 agosto 1989, su consenso di Cutolo, viene ammazzato Paolo De Vitis, vecchio capo della mala tarantina. Il giorno dopo, sei colpi di pistola colpiscono a morte Cosima Ceci, madre dei Modeo, nella sua casa al quartiere Tamburi. In questa trama, nell’incapacità di spezzare il filo, si delinea, chiaro, il legame grazie al quale politica e mafia si intrecciano. La Commissione Antimafia porta l’attenzione su Taranto e le sue vicende. Amministratori come Alfonso Sansone, Giancarlo Cito e l’assessore A. F., politico di scuola democristiana, finiscono sotto osservazione. Il malaffare politico è trasversale. Nel 1995, Giancarlo Cito viene rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa e indagato per concorso in omicidio (poi assolto) per l’uccisione del boss Matteo La Gioia (rivale del clan Modeo). Cito, futuro sindaco di Taranto e parlamentare, venne condannato nel 1997 in concorso esterno in associazione mafiosa per i suoi rapporti con la Sacra Corona Unita. Sarà Salvatore Annacondia, boss della malavita della zona nord del barese (e le cui rivelazioni hanno raccontato molto della mafia pugliese), affiliato al clan dei fratelli Modeo, a rivelare la complicità fra Cito e i Modeo. Il 16 agosto 1990, a Bisceglie, mentre rincasava da una giornata in spiaggia, viene freddato Antonio Modeo, all’epoca latitante. Il quadro della violenta malavita tarantina dell’era Modeo conoscerà l’inizio della sua fine proprio con la morte del Messicano, voluta da Annacondia, con la complicità, non certo di secondo piano, degli stessi Gianfranco e Riccardo Modeo. Da questo momento comandano loro, e dal carcere dirigono la guerra contro il nuovo boss Orlando D’Oronzo e Nicola De Vitis (subentrato al padre Salvatore). La città è in mano ai killer. Tutta l’Italia ha gli occhi puntati su Taranto. Inizia così la caccia ai nuovi mandanti ed esecutori. Inizierà la grande stagione dei blitz e del maxi-processo Ellesponto. I fratelli Modeo (Riccardo, Gianfranco e Claudio), Vincenzo Stranieri, braccio destro di Rogoli, Salvatore Annancondia, e altri esponenti criminali vengono condannati al 41bis, al carcere duro, capo d’accusa: associazione di stampo mafioso. Durante la trattativa Stato-mafia anche i fratelli Modeo parlano. Dal declino dei Modeo emergono cellule indipendenti. Da allora, in molti sono stati scarcerati o ammessi a misure alternative e per la maggior parte rientrati nel vecchio ruolo di gestori di attività illecite. Rispetto agli anni Novanta è la logica criminale a essere cambiata: non più contrasto, ma collaborazione. Identica è invece la vocazione autonoma della criminalità tarantina. Oggi come allora non ha instaurato veri e propri sodalizi con altri soggetti criminali. Non c’è la recrudescenza degli anni Ottanta e Novanta. Piuttosto un esercizio costante di potere sul territorio: l’estorsione, l’usura e il contrabbando sono fenomeni diffusi e più o meno equamente ripartiti tra i diversi clan. La nuova dimensione della mafia tarantina sono gli investimenti nell’economia legale di denaro illecitamente accumulato. Bar, supermercati e, su tutto, sale da gioco e centri scommesse. L’aspirazione è di entrare nei luoghi decisionali. Nell’ultima maxi-operazione degli agenti della squadra mobile di Taranto, condotta in collaborazione con la Dda di Lecce e denominata Alias, sono emersi chiari i rapporti tra mafia e politica. Il clan che tira le fila è quello capeggiato da Orlando D’Oronzo e Nicola De Vitis, entrambi già condannati nel processo Ellesponto per il reato di cui all’art. 416 bis, ed entrambi in libertà dopo oltre vent’anni. I due avevano costruito un’associazione dedita a rapine, estorsioni e traffico di stupefacenti ed erano pronti a scatenare una nuova guerra, anche per vendicarsi di chi negli anni della reclusione gli ha voltato le spalle. Tra i 52 arresti scattati con l’operazione Alias, si fa notare quello di Fabrizio Pomes, ex-gestore del Centro sportivo Magna Grecia ed ex segretario provinciale del Nuovo Psi. Pomes, secondo gli inquirenti, era un fiancheggiatore dell’organizzazione dei boss D’Oronzo-De Vitis per conto dei quali creava cooperative per la gestione della struttura sportiva di proprietà comunale. Nel prosieguo dell’inchiesta, Alias 2, è emerso il nome della neo consigliera provinciale Giuseppina Castellaneta, moglie del fratello di Nicola De Vitis e accusato di estorsione ai danni di Gino Pucci, ex presidente dell’Amiu, l’azienda municipalizzata di gestione dei rifiuti. I clan del vecchio ordine con al seguito nuove leve vogliono, ora come ora, giocare pulito e mettere le mani sull’imprenditoria locale che resiste alla crisi. L’ingerenza della criminalità nel comparto dei lavori pubblici si presenta sotto molteplici aspetti. Un esempio illuminante: i mezzi per la movimentazione terra, che vengono presi a nolo da un’azienda esecutrice dei lavori, sarebbero messi a disposizione da imprese direttamente riconducibili ai clan. In provincia (vero epicentro del potere mafioso è la zona Manduria/Sava), dove i capi indiscussi del litorale jonico fanno ancora riferimento a Vincenzo Stranieri, sottoposto al carcere duro, capo assoluto dello spaccio di stupefacenti su quasi tutto il territorio tarantino. Il tristemente noto pluri-omicidio del 17 marzo dello scorso anno, in cui furono uccisi Domenico Orlando, pregiudicato in semilibertà, la sua compagna Carla Fornari e il suo figlioletto di tre anni, Domenico Petruzzelli, ha dato prova di come la contesa del mercato della droga sia in fase di riassestamento con l’uscita dalla galera dei vecchi leader e la smania dei nuovi intraprendenti boss. Sono proprio le nuove leve ad andare alla ricerca di nuovi accordi e alleanze. I D’Oronzo/De Vitis, ad esempio, sono in relazione con i Mollica di Africo, con cui stanno stringendo accordi per l’approvvigionamento di sostanze stupefacenti dai canali del Sud America, Africa e Sud-est asiatico.

“Dentro una vita” è il racconto di 18 anni “carcere duro”. Privazioni, violenze, abusi, torture psicologiche e fisiche inflitte in base alle regole del «41 bis» (la legge che regolamenta il regime carcerario riservato a chi è accusato di reati di criminalità organizzata), raccontate dal “numero due” della Sacra corona unita pugliese, Vincenzo Stranieri. La storia di un bullo di paese che diviene un boss: furti, rapine, sequestri di persona, attentati, rituali di affiliazione. Poi, nel 1984, l’arresto. Vincenzo Stranieri, detto «Stellina», non sta scontando ergastoli né condanne per omicidio. Nonostante tutto nessuno è in grado di dire quando tornerà libero. Dopo 25 anni di prigionia l’ex boss, quarantanovenne, è stanco. Non è un pentito, ma è certamente un uomo che sa di aver sbagliato: «Se mi si vuole dare una possibilità d’inserimento, dimostrerò che sono cambiato». Ma in Italia le cose vanno diversamente. “Al di là della costituzionalità o meno, e della necessità o meno di prevedere nel nostro ordinamento un regime carcerario differenziato, la sua applicazione in concreto è comunque inaccettabile. Costringere una persona per diciassette anni di fila in una gabbia di vetro e cemento, con poca luce e poca aria, senza cure e senza affetti, senza diritti e senza speranza, e prevedere che da questo regime si possa uscire solo tramite il pentimento o la morte, è indegno in un Paese civile. Ed è incredibile che – eccetto i Radicali – tutti, a destra e a sinistra, siano allineati e coperti con questo regime di 41 bis, e che nessuno veda nell’applicazione di condizioni così inumane e degradanti di detenzione, innanzitutto, il degrado del nostro senso di umanità e la fine del nostro stato di Diritto” (dalla prefazione al volume di Sergio D’Elia, segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino). L’autore è Nazareno Dinoi, Giornalista, scrive di cronaca giudiziaria e nera per il ‘Corriere del Mezzogiorno’ della Puglia. Ha scoperto, portandola alla ribalta nazionale, un’oscura storia di violenze e abusi sui giovani detenuti del carcere minorile di Lecce da parte delle guardie carcerarie. Per quei fatti il Tribunale di Lecce non è riuscito a raggiungere una sentenza prosciogliendo tutti per prescrizione dei reati. Vive a Manduria (Taranto) e collabora con diverse testate, anche nazionali. Ha scritto ‘Anime senza nome’ (1999) e ‘Kompagno di sogni’ (2003). LE PRIME PAGINE DEL LIBRO….

Prologo

Quando ha varcato per la prima volta le porte di un carcere, l’11 febbraio del 1975, Vincenzo Stranieri non aveva ancora quindici anni. Un’impressionante sequenza di arresti e di scarcerazioni ha poi segnato la sua vita da uomo libero sino all’età di ventiquattro anni quando, il 7 giugno del 1984, le sicure si sono chiuse dietro di lui senza più riaprirsi. Oggi Vincenzo Stranieri di anni ne ha 49 e il suo conto con la giustizia è ancora aperto. Il boss manduriano che per la magistratura e i collaboratori di giustizia è stato il numero due della Sacra corona unita di Pino Rogoli, l’ex piastrellista di Mesagne divenuto capo della potente «quarta mafia» italiana, è ancora considerato uno dei 430 criminali più pericolosi e irriducibili d’Italia.

Per questo è sottoposto al regime di carcere duro conosciuto come 41 bis. I reati per i quali è stato giudicato colpevole sono sequestro di persona, traffico di droga, detenzione di armi, estorsioni e associazione mafiosa. Minacce, danneggiamenti e violenza, invece, sono tutti reati che ha maturato durante la sua lunga vita di recluso indocile. Per ben sei volte ha distrutto la cella dove si trovava rinchiuso. Non è un ergastolano, non ha condanne per omicidio, ma nonostante tutto nessuno è ancora in grado di dire quando tornerà libero.

Il principio

A quindici anni Stranieri viveva già con una donna più grande di lui di cinque anni che mise incinta prestissimo. A diciotto anni aveva moglie, due figli (avuti quando era ancora minorenne) e un’attività criminale che rendeva abbastanza da permettergli un’esistenza più che agiata. Quanto gli costerà tutto quel successo, quel lusso, però, lo capirà in seguito ma senza pentimenti. Il super detenuto, infatti, pur dissociandosi, in seguito, dal crimine, si è quasi sempre dichiarato innocente. A sedici anni il primo figlio, Antonio, a diciassette un’altra bambina, Anna. A quell’epoca aveva messo da parte quattro condanne per un totale di sedici mesi da scontare, mentre un decimo della sua vita lo aveva passato in galera per furti e violenza aggravata. E dire che quando aveva ventidue anni, tra sconti di pena, detenzione già fatta, condoni e amnistie, il suo debito con la giustizia era sceso ad appena venticinque giorni di cella. Poco più di tre settimane dietro le sbarre e sarebbe stato un uomo libero. Ma quella vita portata all’eccesso non ammetteva soste. Così, una sera d’estate del 1984, fu arrestato per il rapimento della manduriana Anna Maria Fusco, figlia dell’imprenditore del vino, Antonio Fusco (protagonista, quest’ultimo, due anni dopo, dello scandalo del Primitivo avvelenato al metanolo).

Dentro una vita

Sulla soglia del mezzo secolo di vita, tre quarti dei quali passati in gabbia, spinto dal desiderio della figlia Anna che vuole raccontare al mondo la storia di un padre che non l’ha vista crescere, sposarsi, diventare mamma, il detenuto speciale ha deciso di raccontarsi. E lo fa nell’unica maniera possibile per uno nelle sue condizioni: impugnando la penna (fosse un uomo libero avrebbe acceso il computer) e tracciando linee d’inchiostro sulle pagine ingiallite di una grossa computisteria che conservava da tempo.

Racconto – I

Oggi, 28 aprile 2008, è lunedì e mi trovo rinchiuso nel carcere di Opera a Milano. Tante volte mi sono chiesto a cosa potesse servirmi questo quadernone che porto in giro da otto anni. Ora, improvvisamente, mi è chiaro: ne farò un libro, con l’aiuto del Buon Dio e della sua Gloria. Lo leggerà qualcuno? A volte i buoni consigli vengono ascoltati, altre volte no. Io dico che chi mi ascolterà diventerà bravo e andrà in Paradiso. Lo spunto per questo libro nasce dalla proposta di un mio nuovo amico, un giornalista del mio paese che personalmente non conosco. L’idea, però, è partita da una persona a me molto cara, mia figlia Anna, a cui voglio un bene dell’anima come ne voglio a mio figlio Antonio, a mia moglie Paola, ai miei nipoti, a mia nuora e mio genero. Anche per loro ho accettato di offrire questo contributo, spero utile. Nel raccontare la mia vita ometterò alcuni particolari, a volte anche i nomi. Cercherò di descrivere ciò che ho vissuto in questi quasi cinquant’anni di “non vita” in cui è accaduto di tutto. Cose belle poche. E tante cose brutte.

Quando, agli inizi del 2008, si fa convincere dalla figlia Anna a raccontare quella che lui stesso definisce la sua «non vita», Stranieri si trova rinchiuso nella sezione di massima sicurezza del carcere Opera di Milano. In quella città c’era stato più volte, da uomo libero e poi da latitante. Ed è da lì che inizia la sua memoria.

Racconto – II

Porcaccia miseria, sono passati 24 anni dall’ultimo arresto. Ad Opera a Milano, dove mi trovo adesso, c’ero già stato esattamente 24 anni fa e qualche mese. Sarà un caso? Proprio 24 anni fa mi trovavo in questa città, da latitante, ma libero. Mi cercavano per alcune rapine commesse nei comuni della provincia di Taranto. Mi presero qui a Milano e dopo pochi giorni mi trasferirono a Taranto per affrontare il processo che finì con il confronto con le mie stesse vittime che mi scagionarono. Fui rimesso in libertà a maggio del 1984 e il 7 giugno di quello stesso anno mi riarrestarono per il sequestro Fusco. Da allora non ho più lasciato questi luoghi infami. Le carceri le puoi dipingere come vuoi, puoi anche ricoprirle d’oro, ma restano pur sempre luoghi di sofferenza. Chi dice o crede il contrario si sbaglia enormemente, parola mia. Forse qualcuno mi dirà che il carcere deve per forza essere un luogo di sofferenza. Ha ragione, ma solo perché non è lui che soffre, ma soffrono altri. Vale bene la parola di Gesù che dice: «Ipocrita chi carica il peso sugli altri quando su di lui non sposterà nemmeno una piuma».

Conosciuto dagli inquirenti come «Stellina», per via della sagoma a cinque punte tatuata sulla fronte, Stranieri è stato ospite di tutte le principali carceri italiane dove ancora si trova sottoposto al regime riservato ai mafiosi più pericolosi e ai terroristi. Più della metà della sua vita l’ha trascorsa ininterrottamente rinchiuso. Non una detenzione semplice: da diciassette anni vive separato dal mondo da un vetro che gli impedisce qualsiasi contatto con l’esterno, anche di accarezzare i suoi parenti che lo vanno a trovare non più di una volta al mese. Durante i colloqui la sua voce è filtrata da un interfono per cui nessuno dei familiari, oggi, sarebbe in grado di riconoscerla dal vivo. I suoi figli, nel frattempo, sono diventati adulti e genitori. Il 23 maggio del 1992, diciassette anni dopo quel primo arresto nel minorile di Lecce, la sua permanenza carceraria fu irrimediabilmente e drammaticamente influenzata dall’attentato di Capaci, a Palermo, in cui il sicario di Totò Riina, Giovanni Brusca, azionò il telecomando che fece esplodere cinque quintali di tritolo uccidendo il capo della Superprocura nazionale antimafia, Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. La risposta dello Stato a quel terribile crimine, fu l’istituzione della «carcerazione di sicurezza» che prevedeva la cancellazione dei diritti per tutti i detenuti con condanne per reati di natura mafiosa. Stranieri, nel frattempo in carcere per il sequestro Fusco, era stato coinvolto nel primo maxi processo contro la Nuova camorra pugliese di Raffaele Cutolo e poi in quello sulla Sacra corona unita di Rogoli. In questi processi, istruiti prima dalla Procura di Bari e poi da quelle di Lecce e Brindisi, fu ritenuto colpevole di aver fatto parte di un’associazione organizzata e pertanto soggetto all’isolamento. Così, nell’estate del 1993, dopo nove anni di detenzione normale, l’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, firmò personalmente la lista dei primi 236 dannati da internare. In quell’elenco, oltre al manduriano Stranieri, c’erano Bernardo Brusca, Vito Buscemi, Salvatore Buccarella, Giuseppe Calò, Raffaele Cutolo, Nicola Di Salvo, Giacomo Gambino, Michele Greco, tutta la famiglia dei Madonia, Sebastiano Mesina, Franco Parisi, Antonio Perrone, Giuseppe Piromalli, Giuseppe Rogoli, Biagio Sciuto e tanti altri. I padrini, i capi bastoni e i gregari della mafiosità italiana, insomma, furono isolati in celle singole nel carcere dell’Asinara e sottoposti a regole rigidissime contenute nel nuovo ordinamento carcerario del 41 bis.

Racconto – III

Sono passati 24 anni e la mia vita è piena di ricordi. La memoria è l’unica macchina del tempo che viaggia alla velocità del pensiero. Con la mente puoi andare velocissimo, in un secondo puoi tornare a quando eri bambino, travalicare le frontiere dello spazio e del tempo. Grande cosa è la mente umana. Purché la si sappia controllare. Se la lasci troppo libera, quella, è come un leone che ti sbrana. A volte è meglio non pensare troppo. Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza ma ci ha dotati di un valore che è il libero arbitrio.

È un valore troppo grande che deve essere usato a piccole dosi sennò sono dolori e sofferenze, come quelle che ho passato e sto passando io e tutte le persone che mi amano. Certo, ognuno può fare della sua vita quello che vuole. Da ragazzi si è onnipotenti. Uno crede di essere furbo, più furbo dei suoi genitori, dei nonni, di tutti quelli che lo hanno cresciuto. Loro ti dicono di stare attento, di non commettere errori e tu, a quell’età, sei infastidito di tante raccomandazioni.

Inizia proprio lì la storia di tutto: in questo negare i consigli è racchiuso l’inizio della perdizione. Non ascolta oggi, non ascolta domani e sei fritto, per sempre. C’è poi chi nasce con una stella storta, come quella che mi son fatto tatuare sulla fronte. Succede così che quella stella te la porti per tutta la vita e sta a te decidere se deve continuare in quel modo o se è meglio mettere un freno a quella vita troppo di fretta. La mia è andata avanti così, per niente bene. Proprio per niente. Giorni fa ero sdraiato sul letto, guardavo di fronte il cancello chiuso, le sbarre alla finestra, cemento tutto intorno. Per quanto? Per 20 ore al giorno e per tanti anni. Bello, vero? Bello un cavolo! Non c’è niente di bello in un carcere, lo ripeto, tutto è sofferenza e non credete alle scemenze che vi raccontano sulla vita carceraria perché qui tutto è dolore. L’unico vantaggio di questa sofferenza è che ti fa crescere e puoi incontrare Dio. A me è successo. È nel dolore che ritrovi il Signore e ti avvicini a lui che è stato processato e condannato ingiustamente, portato a morire da innocente sulla croce dal potere di allora.

Venti ore al giorno a guardare il soffitto

Il detenuto in 41 bis non ha diritti. Può avere un solo colloquio al mese, con familiari o conviventi di grado diretto, della durata non superiore ad un’ora. In alternativa all’incontro visivo può avere una telefonata ogni trenta giorni. In questo caso, però, il parente deve recarsi nella sede dove è detenuto il congiunto e da lì telefonargli attraverso la rete interna. Ogni colloquio deve essere ascoltato e registrato. L’internato può godere di due ore d’aria al giorno più altre due di socialità (mensa, chiesa, palestra, biblioteca, cinema-tv). Per le restanti venti ore rimane da solo chiuso in cella. Nel 2009 un ulteriore inasprimento delle misure detentive speciali ha ridotto a due ore il tempo da trascorrere fuori dalla cella. Altre restrizioni nell’ora di aria che in gergo viene definita “passeggio”, vietano raggruppamenti superiori a quattro detenuti per volta. Essi non devono avere la stessa provenienza geografica. Il Ddl 733 convertito in legge il 22 luglio del 2009 (Pacchetto sulla sicurezza), ha inasprito ulteriormente le norme del 41 bis prevedendo l’internamento di tutti i detenuti con tale regime in un unico penitenziario situato su un’isola. La famiglia può inviargli due pacchi al mese, del peso non superiore ai dieci chili, più altre due spedizioni straordinarie all’anno (Natale, Pasqua), contenenti abiti, biancheria, indumenti intimi, calzature e cibo. Sono vietate persino le bevande gassate come l’aranciata. Tutto viene controllato dall’addetto alla censura: indumento per indumento, pezzo per pezzo, pagina per pagina. Anche i libri devono essere attentamente visionati e superare il controllo. Il colloquio si svolge attraverso un vetro e, di solito, con l’ausilio di un citofono. Tutta la corrispondenza in arrivo e in partenza è sottoposta a visione. Il fornellino scaldavivande è consentito solo durante il giorno. Il detenuto può ricevere somme limitate di denaro (attualmente sino a 500 euro mensili); è vietata l’organizzazione di attività culturali, ricreative e sportive; è impossibile la nomina e la partecipazione a rappresentanze dei detenuti come anche lo svolgimento di attività artigianali per proprio conto o per conto terzi. Gli ospiti delle sezioni del 41 bis non possono frequentare corsi scolastici, possono studiare solo per conto proprio e l’unico intermediario con i professori è un educatore. A queste limitazioni del decreto ministeriale, vanno aggiunte quelle imposte a discrezione del singolo direttore del carcere. Per i figli minori di 12 anni, inoltre, è consentito un solo colloquio visivo al mese senza vetro divisorio e per la durata non superiore ai 10 minuti. In Italia sono diffusi i casi di figli di detenuti in 41 bis che sono sottoposti a trattamenti psichiatrici. Quando fu istituito l’isolamento carcerario per i mafiosi, i due figli di Vincenzo Stranieri, Antonio e Anna, avevano già superato i dodici anni di età per cui ora non ricordano, se non vagamente, contatti diretti, pelle a pelle, con il padre. Il primogenito, caratterialmente più debole rispetto alla sorella, ha sviluppato e sta pagando questo distacco sino all’estremo limite della follia con continui ricoveri in reparti psichiatrici. Torniamo al 41 bis: naturalmente per chi vi è sottoposto la vita diventa un inferno. I segni di un inevitabile stress emotivo emergono dalle lettere che Vincenzo Stranieri invia costantemente alla famiglia. In una di queste, datata 13 marzo 2008, scrive alla figlia Anna.

“Ciao tesoro di papà, come stai? Spero bene di te Alex, Pier Paolo, Vincenzo, mamma, Shelly e tutti di casa. Ci avviciniamo alla Santa Pasqua del Signore che vi auguro di trascorrere serenamente e felicemente tutti in famiglia con la più viva speranza che la prossima la passiamo insieme, se il Buon Dio vuole. Ne sono passate 24 di Pasque, è forse pure l’ora di tornare a casa. (…) Papà, state appresso agli avvocati. Per i pacchi usate la posta celere. Dice che ci mette un giorno ad arrivare e vediamo… la prima volta mandate roba che non va a male salumi, formaggi, pane, capicollo, lo potete mettere pure sotto vuoto in cellofan o nelle buste tagliato a pezzi come facevate a Spoleto. - Parlando della prossima seduta in Tribunale del riesame che dovrà decidere la proroga del carcere duro, puntualmente riconfermata, scrive: “Speriamo vada bene. Dopo 16 anni forse è pure l’ora che cambi qualcosa in meglio perché di peggio abbiamo già visto di tutto. (…) Vi mando un bacione forte a te Alex, Pier Paolo, Vincenzo, mamma, Shelly, Antonio e Giusy e tutti di casa. Vi voglio un mondo di bene. Tuo papà Vincenzo”.

(Vincenzo Stranieri, carcere di massima sicurezza Opera a Milano)

Il bisogno d’interrompere quel tremendo isolamento compare in maniera ancora più evidente in una delle tante corrispondenze con il sottoscritto.

“Caro Nazareno, vedi se c’è qualcuno disposto ad offrirmi un lavoro per corrispondenza, un giornale, magari, o qualcos’altro e se vieni a trovarmi con qualche parlamentare vorrei discutere proprio di questo. Qua stiamo venti ore al giorno in cella a poltrire. Moltiplicato per 25 anni sono un’enormità, diciassette di 41 bis, per cosa poi? A loro dire per recidere i contatti con l’esterno, ma quanto meno ci diano il modo di non perdere pure la ragione: venti ore a guardare il soffitto, a cosa e a chi servono?”. (Vincenzo Stranieri, carcere di massima sicurezza dell’Aquila, 16 marzo 2009)

"La figlia del boss scrive alla ministra Cancellieri". Sulla “LA VOCE di Manduria” giornale online è stata pubblicata la lettera che di seguito riportiamo. La lettera è stata spedita al Ministero della Giustizia. E' di Anna Stranieri che si rivolge al Ministro Cancellieri chiedendo pari opportunità per suo padre, detenuto da 30 anni, più dei due terzi, 22 anni, in regime di 41 bis. In parole semplici: in segregazione. Il caso è stato ampiamente trattato quando nel seguito si parla della provincia di Taranto e delle sue problematiche taciute. "Pregiatissima ministra della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. Mi chiamo Anna Stranieri e sono la figlia di Vincenzo Stranieri, detenuto ininterrottamente da 30 anni, 22 dei quali in regime di carcere duro del 41 bis. Lei ha detto al Pese che il Suo intervento per scarcerare la signora Giulia Ligresti l’avrebbe fatto per chiunque anche per i delinquenti e i mafiosi. Ebbene, mio padre è stato condannato perché ritenuto un mafioso ma non ha mai ucciso nessuno. Io sono cresciuta senza averlo mai potuto toccare e accarezzare e ho potuto vederlo solo una volta al mese, quando mi è stato possibile farlo, avendolo inseguito in tutte le carceri d’Italia dove è stato. Ora è gravemente malato, è stato tre volte rinchiuso in manicomio, soffre di manie di persecuzione, è delirante e a volte non riconosce nemmeno noi parenti. Non le chiedo di fare per lui ciò che ha fatto per la signora Ligresti, ma almeno le faccia togliere il 41 bis per dare la possibilità a noi familiari di visitarlo quando ci pare e di curarlo come merita ogni ammalato. Mantenga fede a quello che ha detto a noi italiani per giustificare il suo interessamento per la signora Ligresti, sua amica. Mi faccia dimenticare con un suo interessamento per mio padre che è stata lei a mettere la firma sugli ultimi due decreti di conferma del 41 bis per mio padre malato che ha dimenticato cosa sia la libertà."

Anna Stranieri, Manduria.

LA SOCIETA' FOGGIANA. LA SECONDA MAFIA PUGLIESE. LA QUARTA MAFIA.

Società foggiana. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La società foggiana è una organizzazione criminale di stampo mafioso, operante nelle città di Foggia, San Severo e Cerignola, che ha trovato accordi criminali con organizzazioni come Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta. Questo sodalizio criminale trova energia nella continua pressione psicologica e morale esercitata nei confronti di commercianti e individui emulando una sorta di atto di terrorismo psicologico che genera una continua egemonia sul territorio controllato di quartiere in quartiere provocando una popolazione sempre più spaventata e sofferente. La risultante è una terra bruciata. L'ex Questore della Polizia di Stato di Foggia, in un'intervista recente ha dichiarato che l'80% dei commercianti paga il pizzo. La società foggiana è considerata una delle mafie italiane più brutali e sanguinose.

Il Fenomeno. Il fenomeno mafioso è largamente diffuso e difficile da eliminare ma si può contrastare. Attacca la società e penetra all'interno della stessa diventando parte integrante di essa. I requisiti sono, una scarsa o quasi nulla educazione civica, un livello culturale generalmente basso, un concetto di comunità in senso legale praticamente assente, un modo di fare riverente e non partecipativo, infine e ultimo per caso, un passaparola molto diffuso che nella maggior parte dei casi non corrisponde alla realtà con un livello di individualismo non eccellente e forme di gruppo con aggregazioni di pensiero molto comuni. Oltre ai reati comunemente noti ne esistono altri tristemente meno noti che spiegano come la macchia sia estesa così tanto da coinvolgere una moltitudine di persone. L'esempio classico per capire e studiare una società impregnata è quello del riciclaggio di denaro proveniente da fonti di guadagno illeciti, il quale serve per creare o rifinanziare società rette da soggetti prestanome che assumono alle proprie dipendenze personaggi legati alla mafia, dettando metodi e modi nel mercato che generano una concorrenza inesistente. Importante in questo senso, la storia recente di una pizzeria foggiana dove la titolare era costretta a comprare una mozzarella di scarsa qualità, in questo modo la sua pizza è stata meno apprezzata dalla clientela che ha notato subito la differenza, portando un calo delle vendite. Quando la stessa titolare si è trovata a dover praticamente dire no a questa logica, la mafia l'ha perseguitata con atti vandalici e altro. Altro esempio per andare un po più lontano, in Calabria, dove un ipermercato aperto con i soldi della mafia e continuamente finanziato dalla stessa come mezzo di copertura per il riciclaggio di denaro, offriva prodotti a prezzi molto bassi creando una concorrenza nulla. Quindi non sempre esiste la logica del pizzo ma in molti casi ci si avvale di metodi intimidatori per costringere imprenditori ad assumere personale o per assoggettare la concorrenza a proprie logiche, per non parlare dei legami che si vengono ad instaurare all'interno di amministrazioni locali con dirigenti e politici. Purtroppo la risposta della società non è sempre lecita, certe logiche criminali penetranti minano qualsiasi forma di legalità cercando addirittura di instaurare un rapporto amichevole e protettivo nei confronti di chi paga il pizzo o soccombe a decisioni di mano criminale, tutto ciò porta una conoscenza capillare del territorio che serve per assoggettare ancora meglio la gente che ci vive, contrastando la forma di legalità continuamente inseguita dallo Stato con le proprie figure istituzionali.

Storia. Fu l'omicidio di Giuseppe Laviano (luogotenente della Sacra Corona Unita a Foggia, il cui corpo non fu mai trovato) nel gennaio del 1989, a segnare una svolta nella guerra di mafia e l'ascesa di Rocco Moretti, detto "il porco", nell'ambito della malavitaorganizzata foggiana a discapito dello stesso Laviano. In seguito agli arresti operati dalla polizia nell'operazione "Mantide", tra i tanti particolari, sono emerse anche rivelazioni macabre, come quella della foto della testa mozzata di Laviano, mostrata agli esponenti principali della Società durante i summit. Ma non è tutto: pare che Vito Lanza, uno degli arrestati, portasse con sé un osso del cadavere di Laviano a mo' di reliquia, tanto da utilizzarlo come soprammobile mentre pranzava. Il mandante dell'omicidio Laviano sarebbe, secondo i magistrati, lo stesso Rocco Moretti, 55 anni, capo storico della Società foggiana e condannato a 27 anni per la cosiddetta "strage del Bacardi", compiuta il primo maggio 1986, in cui furono uccisi quattro pregiudicati e ferito un quinto del clan, il boss sanferdinandese Gennaro Manco avversario con la complicità di Gianfranco Piscopia, Salvatore Prencipe e Franco Vitagliani. La spedizione punitiva fu commissionata da Giosuè Rizzi, fra i fondatori della Sacra Corona Unita e "primula rossa" della Società foggiana.

Inchiesta "Double Edge". L'esito del processo di primo grado nei confronti di 41 persone arrestate il 24 giugno del 2002 nell'ambito dell'operazione Double Edge è stato di 9 condanne, 4 patteggiamenti, 27 assoluzioni. Tra gli imputati condannati figurano, Federico Trisciuoglio (condannato a 4 anni di reclusione), Salvatore Prencipe (3 anni), Vincenzo Antonio Pellegrino, (3 anni), Antonio Bernardo (3 anni), Franco Spiritoso (3 anni), Michele Mansueto, (3 anni). Tra gli assolti Roberto Sinesi, Mario Piscopia,Antonello Francavilla e il fratello Emiliano. Le accuse per i 41 foggiani, arrestati dagli agenti della Mobile e giugno 2002 erano a vario titolo, di associazione mafiosa, droga, estorsioni, prostituzione, armi, usura, furto e ricettazione. Il giudice ha condannato gli imputati per il solo reato di mafia, non riconoscendo gli altri capi di imputazione. Il Pubblico Ministero della DDA di BariGianrico Carofiglio aveva chiesto 7 assoluzioni, e 29 condanne, cinque imputati avevano chiesto di patteggiare. Il Comune di Foggia, in questo processo si era costituito parte civile e aveva chiesto un risarcimento danni di 1 milione di euro. Il giudice invece ha stabilito che gli imputati dovranno pagare un risarcimento danni pari a 250 000 euro.

Operazione "Poseidon". Il processo la cui sentenza è stata emessa vedeva alla sbarra invece le persone finite agli arresti con il blitz "Poseidon", messo a segno dagli agenti della Squadra Mobile il 28 giugno 2004, annus horribilis per la città: dal 1.1.2002 al 25.11.2004, si contano 100 omicidi e 104 tentati omicidi consumati nell'area del Tribunale di Foggia, la maggior parte dei quali attribuiti alla criminalità organizzata. Furono 30 le persone arrestate, accusate a vario titolo di associazione mafiosa, traffico e spaccio di droga, estorsione, abuso d'ufficio, falso ideologico, favoreggiamento personale e omessa denuncia. Complessivamente il gup ha emesso 23 condanne e 6 assoluzioni. Il PM della DDA aveva invece chiesto 27 condanne e 2 assoluzioni. Imputati nel processo anche due poliziotti, il primo dirigente Agostino De Paolis e l'ispettore capo Pasquale Loizzo, entrambi assolti perché "il fatto non sussiste".

La guerra di mafia del 1998. Nel periodo più buio della guerra, tra il 1998 e il 1999 si contano 14 omicidi e 2 agguati falliti scatenando una guerra di mafia, dove a farne le spese sono per la maggiore dei pregiudicati di spicco dei clan rivali fra loro ma anche innocenti che con la mafia non c'entravano nulla. 22 gennaio 1998: Alle 8 di sera viene ammazzato a fucilate Mario Francavilla, 45 anni, becchino detto «uè ner», condannato nel maxi-processo Panunzio: è su una citycar quando un'auto con 4 killer lo affiancano facendo esplodere diversi colpi di fucile. Era ritenuto il luogotenente del boss Roberto Sinesi. Sospetti su un malavitoso della provincia come uno dei possibili sicari.

15 giugno 1998: Ferito alla testa alle 7.40 in via Gioberti Paolo Vitagliani, 33 anni, detto «Paolo a siuccarell», assolto dall'accusa di mafia e droga nel maxi-processo «day before» e scarcerato il 21 maggio. È su uno scooter quando due killer su un ciclomotore l'affiancano e lo feriscono con una pistola calibro 9. Dopo la scarcerazione avrebbe partecipato ad un summit con altri malavitosi cercando di imporre le volontà del boss detenuto Sinesi al quale era ritenuto vicino. Attualmente è in carcere con diversi ergastoli da scontare, accusato del suo ferimento è Gianfranco Bruno, cognato di Giovanni Bruno, ucciso da Vitagliani nell'ultima guerra di mafia.

3 ottobre 1998: Ammazzato alle 8 di sera in viale Colombo Antonio Parisi, 51 anni, detto «il milanese». Sta salendo sull'auto dove l'attendono moglie e figli quando un killer solitario s'avvicina e lo ammazza con una calibro 38. Condannato per estorsione ed assolto per mafia nel maxi-processo, potrebbe essere stato ucciso per non aver voluto aiutare economicamente la «Società»: due indagati a piede libero, pochi elementi.

5 dicembre 1998: Ucciso alle 9 di sera in via Borrelli Marco Bruno, 40 anni, mentre scende dall'auto con moglie e figli. Un killer solitario s'avvicina e spara con una pistola calibro 7.65: la vittima non era affatto collegata all'ambiente malavitoso, pur se questo delitto viene inserito da polizia e carabinieri nell'elenco dei morti della guerra di mala. I familiari della vittima pensano che si sia trattato di un errore di persona.

3 febbraio 1999: Assassinato alle 8 di sera nel portone di casa in viale Fortore Savino Agnelli, 43 anni, detto «Ninuccio ù ner»: un killer nascosto nell'atrio spara con una «7.65». Era stato condannato per mafia in «Panunzio» e poi assolto in appello. Era ritenuto vicino al capo clan Vincenzo Antonio Pellegrino.

10 marzo 1999: Ferito alle 8 di sera in un agguato nei pressi di casa in via Salvemini Franco D'Angelo, 44 anni, scarcerato un mese prima dopo la condanna in «day before»: si pensa ad un regolamento di conti nel mondo dello spacco, ma nessun elemento concreto.

10 maggio 1999: Uccisi alle 3 di pomeriggio in via Manzoni Marcello Catalano e Francesco Viscillo, entrambi di 29 anni, condannato in primo grado in «day before»: sono su uno scooter quando due killer su una moto li affiancano e fanno fuoco con una pistola calibro 38. Erano ritenuti vicini al clan Piscopia e una delle chiavi di lettura potrebbe essere il loro tentativo d'imporre decisioni ad altri mafiosi sui traffici di droga.

21 settembre 1999: Agguato alle 7 di sera in via Fania, davanti ad un bar dove si sono ritrovati i mafiosi Federico Trisciuoglio, Salvatore Prencipe e Leonardo Piserchia. Arrivano due killer su una moto ed uno spara 40 colpi con un mitra kalashnikov, ferendo di striscio Prencipe e Trisciuoglio ed ammazzando per sbaglio un passante che festeggiava il suo onomastico al bar, Matteo Di Candia di 62 anni; ferito anche un altro passante. È il tentativo del clan rivale di spazzare i vertici della «batteria» vincente in quel momento.

5 ottobre 1999: Ferito alle 8 di sera, davanti al suo circolo al Cep, Claudio D'Angelo coinvolto nel maxi-processo «day before» e fratello di Franco pure sfuggito ad un agguato nel marzo precedente. I killer sparano con una calibro 9 da un'auto in corso, ferendo gravemente il foggiano.

10 ottobre 1999: Trovato alle 4 di pomeriggio, in un casolare a «Quadrone delle vigne» sulla strada statale 16, il cadavere di Domenico Russo. 27 anni, scomparso la sera prima. È stato ucciso con 7 colpi di pistola calibro 9. Le indagini portano all'arresto di un tossicomane accusato d'omicidio perché avrebbe attirato in trappola la vittima, con la scusa di comprare qualche dose di eroina: è stato assolto nel processo in corte d'assise.

24 ottobre 1999: Ammazzato alle 9 di sera in via Capozzi, nei pressi della sua sala giochi, Leonardo Piserchia, 48 anni, detto «pastina» e/o «copertone», nome storico della malavita foggiana. Era scampato alla strage al circolo Bacardi il primo maggio dell'86; era sfuggito all'agguato di via Fania il 21 settembre '99, era stato condannato nel maxi-processo Panunzio. Un killer l'avvicina mentre è in compagnia di familiari e spara con una pistola calibro 38. Due ipotesi: l'ha ucciso chi non era riuscito ad eliminarlo nell'agguato di via Fania; è stato ammazzato poiché in via Fania era stato lui ad attirare Prencipe e Trisciuoglio reali obiettivi dei killer. Ipotesi, nessuna certezza.

28 ottobre 1999: Assassinato alle 9 di sera sulla circonvallazione Fabio Antonio Catalano, 27 anni, cugino di Marcello Catalano ucciso nel maggio precedente. È su una «Fiat Uno» quando i killer lo affiancano a bordo di un'auto e fanno fuoco con una calibro 38. Indagati tre foggiani appartenenti al clan Piscopia. La vittima lavorava presso un autosalone finito nel mirino della mala, dove si erano recati pochi giorni prima del delitto tre giovani poi sottoposti allo «stub» dopo l'omicidio e rilasciati.

21 dicembre 1999: Assassinati alle 11 di sera a Parco San Felice Alfonso Palumbo e Nicola La Bella di 32 e 34 anni. Sono in auto insieme a Felice Di Rese (ferito di striscio) e Stefano Mucciarone (illeso) quando una «Panda» li affianca e i killer aprono il fuoco con pistole calibro 7.65. Le vittime e i loro amici erano ritenuti vicini al clan Trisciuoglio-Prencipe. È l'unico omicidio che compare nella richiesta di rinvio a giudizio per «double edge»: imputato a piede libero un foggiano di 35 anni.

27 dicembre 1999: Assassinato alle 7.30 di sera in via Manzoni Flavio Ciro Lo Mele, 33 anni, parente di Mario Francavilla ucciso nel gennaio '98: sta salendo sull'auto quando un killer s'avvicina e fa fuoco con una pistola calibro 38. Era indagato per l'omicidio di Fabio Antonio Catalano e la sua morte viene ritenuta la risposta al duplice omicidio Palumbo-La Bella.

Situazione attuale. Il foggiano ha risentito dell'influenza della camorra e della defunta Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. La criminalità, organizzata in "batterie" (Sinesi-Francavilla, Mansueto-Trisciuoglio-Prencipe, Moretti-Pellegrino-Piscopia,Memmo-Losciano-Sario) è risultata in costante evoluzione ed ha aggregato in una società tutte le espressioni emergenti del territorio riuscendo ad infiltrarsi nelle aree costiere limitrofe in cui ha progressivamente imposto i propri interessi illeciti nel terziario, in particolare assumendo il controllo del settore delle onoranze funebri per il controllo del racket del "caro estinto". Le inchieste giudiziarie denominate "Double Edge", "Araba Fenice", "Discovery" e "Poseidon" hanno rivelato i rapporti dei clan foggiani con altri gruppi criminali della provincia ed i motivi che avevano generato una prima guerra di mafia iniziata nel periodo 1998-1999 e la seconda nel periodo 2002-2003. Il numero degli affiliati alla società supera i duecento nella sola Foggia. Il traffico e lo spaccio di sostanze stupefacenti, le estorsioni ed il gioco d'azzardo (apparecchiature di video-poker) risultano essere le attività privilegiate dalle consorterie foggiane.

Struttura. Nel foggiano, sotto il profilo strutturale e funzionale, l'organizzazione presenta una forma piramidale, con al vertice elementi di spicco, coadiuvati da luogotenenti; l'aggregato criminale si suddivide in "batterie" dislocate in tutta la provincia, così come già ampiamente dimostrato dalle sentenze di condanna nei maxi-processi di mafia denominati "Panunzio" e "Day before". A valle dell'operazione contro i Moretti-Pellegrino-Lanza ei Sinesi-Francavilla dell'1 dicembre 2018 il procuratore nazionale Federico Cafiero de Raho descrive la società foggiana di oggi con una struttura di tipo 'ndranghetista: con vincoli di sangue, rituali di affiliazioni e gradi come il picciotto, il picciotto d'onore e lo sgarrista.

Appalti e collusioni tra politica e mafia. In tema di appalti pubblici, vasto eco ha avuto l'inchiesta incentratasi sui collegamenti tra taluni esponenti della imprenditoria foggiana e soggetti della locale criminalità organizzata, sfociata nell'operazione convenzionalmente denominata “Vela”, che ha portato all'arresto di dieci persone, tra le quali due vice presidenti dell'Assindustriadi Capitanata, alcuni imprenditori locali e 4 soggetti collegati alla criminalità organizzata, nonché all'emissione di avvisi di garanzia a carico di politici locali e regionali. Nell'ambito della stessa operazione, la magistratura ha disposto il sequestro di svariate attività commerciali, terreni ed appartamenti. Tuttavia, dopo breve tempo, il Tribunale del Riesame di Bari, in accoglimento delle istanze presentate dai difensori, ha disposto la scarcerazione degli indagati, annullando il provvedimento restrittivo per carenza di gravi indizi.

Influenza nel territorio italiano. Il raggio d'azione della Società foggiana è prettamente locale, non presenta ancora le forti infiltrazioni nazionali ed internazionali di Cosa nostra, 'Ndrangheta e Camorra; alcune indagini però hanno dimostrato come vi siano diversi insediamenti nelle zone limitrofe la Capitanata.

Provincia di Foggia.

Gargano. Nel Gargano, invece, esiste una mafia arcaica e violenta, fatta di pastori e masserie, le attività maggiormente redditizie dei clan garganici sono il traffico di droga e armi[14]; anche per ragioni geografiche il controllo del territorio è assoluto. I clan predominanti sono i Libergolis di Monte S. Angelo, gli Alfieri e i Primosa di Monte Sant'Angelo, i Romito di Manfredonia e le famiglie dei Tarantino e dei Ciavarella di San Nicandro Garganico in perenne lotta fra loro. Cosche note alla cronaca per la Faida del Gargano, che hanno prodotto nel corso di una trentina d'anni, circa cento omicidi. In data 23 giugno del 2004 il blitz «Iscaro-Saburo» portò all'arresto di altre cento persone presunte affiliate ai clan della faida. In data 21 aprile 2009, il presunto boss Franco Romito e il suo autista Giuseppe Trotta vengono crivellati nella loro auto in località Siponto. Sono tre le armi utilizzate per compiere il duplice omicidio; recuperati sull'asfalto 4 bossoli di un fucile calibro 12 caricato a pallettoni, numerosissimi bossoli calibro 7.62 di una mitraglietta e 4/5 di una pistola calibro 9per21. I due sono stati raggiunti da una pioggia di proiettili in più parti del corpo. Franco Romito aveva il volto completamente sfigurato e non aveva più la mano sinistra. Franco Romito potrebbe essere stato ucciso per essere stato per anni con i suoi familiari confidente dei carabinieri e in molte indagini sulla famiglia mafiosa del clan opposto Libergolis.

San Severo. A San Severo è insediata un'associazione classica, gerarchica la cui attività più redditizia è legata all'importazione di stupefacenti dai Paesi Bassi da rivendere in tutta Italia[15]. A Quarto Oggiaro opera un clan di origine sanseverese (Sabatino).

Cerignola. A Cerignola opera il clan Piarulli-Ferraro e Clan di Tommaso; una criminalità di impronta camorristica e un'altra simile alle "stidde" siciliane, strutture federali e non verticistiche. La criminalità locale molto attiva e famigerata soprattutto per i gruppi di fuoco dediti ai grossi furti come gli assalti ai portavalori e rapine in tutta Italia, traffico di droga, estorsioni e ricettazione di auto rubate. Infiltrazioni mafiose nel nord Italia.

Cinque reali siti: Orta Nova, Carapelle, Ordona, Stornara e Stornarella. Ad Orta Nova opera il clan Gaeta, attiva in tutti i cinque Reali Siti e già decimata in molte sue ramificazioni dall'Operazione Veleno, che portò a 52 arresti nel 2007. Cosca ritenuta affiliata alla Sacra Corona Unita.

Nel resto dell'Italia.

Abruzzo. In data 12 settembre 2011, Guardia di Finanza e Polizia di Stato hanno sequestrato beni per 20 milioni di euro nella città di Pescara tra locali notturni, conti corrente e proprietà aziendali. Tra i sette indagati alcuni risultano originari di Manfredonia e secondo gli organi inquirenti sarebbero legati ai clan del Gargano; più nello specifico, la famiglia Granatiero, titolare di alcuni beni sequestrati, è accusata di essere in contatto con i Romito.

Piemonte (Pollidoro). Dagli anni 90 Situati nella zona Falchera. In Provincia Di Torino.

Marche. Da un'inchiesta cominciata nei primi anni del 2000 denominata "Reclaim" si è scoperto che i clan della società foggiana si sono insediati nelle marche dedicandosi prevalentemente allo spaccio di droga, rapine e gestione del gioco d'azzardo. Coinvolti anche esponenti dell'industria di Macerata. In data 6 luglio 2010, a Fano (Pesaro-Urbino) viene sgominata una banda composta da pugliesi e marchigiani, la quale si dedicava ad estorsioni e spaccio di sostanze anabolizzanti. I capi risultano provenienti da San Nicandro garganico.

Rapporti con le altre mafie italiane.

Camorra. I rapporti tra camorra e delinquenza foggiana sono, probabilmente, quelli di più antica data e quelli più profondi. La delinquenza foggiana è riuscita a fare il salto di qualità proprio grazie alla camorra, quella di Cutolo in particolare; durante il periodo della NCO molti "cutoliani" trascorsero i periodi di reclusione nelle carceri di San Severo e Foggia prendendo contatti con la delinquenza locale e affiliando alcuni personaggi, la sorella di Raffaele Cutolo, Rosetta, abitò a San Severo in soggiorno obbligato. Cutolo organizzò anche una sorta di propaggine della NCO nella Puglia settentrionale, la Nuova camorra pugliese; l'uccisione di don Peppe Sciorio, luogotenente di Cutolo per Foggia, fu un chiaro segno che il crimine foggiano voleva diventare indipendente.

Clan dei casalesi. Le indagini hanno dimostrato come esistano rapporti tra Società foggiana e casalesi, in data 19 marzo 2012 un'operazione dello SCICO (Guardia di Finanza) di Bari ha permesso di scoprire come i casalesi avessero affidato agli uomini della Società l'attività di falsificazione di banconote e insieme si occupassero anche di riciclare il rame rubato alle ferrovie.

'Ndrangheta. Sui rapporti Società-'Ndrangheta sono stati scoperte alleanze tra i Romito di Manfredonia con le 'ndrine di Reggio Calabria Libri-Tegano-De Stefano, tra i Sabatino di San Severo con le 'ndrine di Vibo Valentia e tra i gruppi di Foggia con i Coco Trovato (alleati dei De Stefano).

Rapporti con le mafie dell'est. I rapporti con le mafie dell'est riguardano soprattutto: traffico di droga, traffico di armi e prostituzione.

Il male e i talebani del “bene”, scrive il 3 dicembre 2017 su "La Repubblica" Enrico Bellavia - Giornalista di Repubblica. Chiesero a Luciano Liggio se esistesse la mafia e lui serafico rispose, sì, se esiste l’antimafia. Vero perché troppo spesso in Italia quell’ “anti” vive solo nella ragione del suo opposto. Così se c’è la mafia, c’è l’antimafia e se c’è il fascismo c’è anche l’antifascismo. Così i destini del male e del suo antidoto sembrano indissolubilmente legati. L’antimafia che è o dovrebbe essere la sostanza dello stato di diritto, esiste invece come una setta, una organizzazione da contrapporre alla mafia e non la ragione stessa del vivere civile. Ci si deve accreditare antimafiosi per vedersi riconoscere la legittimazione a dire qualcosa, altrimenti si rischia l’indistinto anonimato dell’ovvietà. Ma con i galloni addosso dell’antimafiosità militante, allora anche la banalità dell’evidenza, veste i panni del martirio sofferto della rivelazione. L’antimafia che avrebbe dovuto essere la constatazione che nella società, nella vita civile, nel sostrato di regole e diritti di un Paese c’erano già gli strumenti per la ribellione, ha finito con l’essere una comoda tenda sotto la quale accasarsi mentre altri impiantavano il gabbiotto dell’ufficio rilascio patenti. Il talebanismo antimafioso, fatto di dogmi e uomini simbolo, fatto di eroi di carta vendicatori delle verità negate ha finito con il prendersi tutto il campo, consegnando in dote ai populismi di ogni risma la genuina volontà di un popolo, siciliano, italiano, di farla finita con i bravi. Ecco, l’antimafia come totem, il venerabile nulla al quale votarsi incuranti di selezionare i compagni di strada, consegnando ruoli da guru agli illuminati del momento, la perpetuazione di un male presupposto del bene che gli si oppone è l’unico totem dal quale fuggire e di gran carriera. Non lo fanno gli antimafiosi tutti d’un pezzo, quelli mai un dubbio, quelli che decidono a chi concedere la benemerenza della parola. Quelli che se la raccontano ogni giorno e sperano, in cuor loro che ci sia sempre un nemico, così tanto per giustificare la loro di esistenza di anti qualcosa. Magari con il fondoschiena poggiato su qualche polverosa poltrona di comando di qualcosa diventata per contatto essa stessa antimafiosa. L’antimafia del contagio virtuoso è così l’antimafia del contatto provvidenziale. E per tutto il resto basta un po’ di martirio, una spruzzatina di illuminismo, due quarti di ovvietà e un terzo di furbizia.  Dopotutto ogni totem incarna un tabù.

I fantasmi di una guerra feudale, scrive il 9 dicembre 2017 su "La Repubblica" Davide Grittani - Giornalista e scrittore. Nel 1964 il regista ligure Elio Piccon realizzò un film sul Paese che viveva all’ombra del boom economico, in assoluta miseria, sul pericoloso confine tra disperazione e illegalità. Quel film si chiama “L’antimiracolo” e l’anno dopo si aggiudicò la Targa Leone di San Marco alla XXVI edizione della Mostra internazionale del cinema di Venezia. In pochi sanno che fu interamente girato a Lesina e San Nicandro Garganico, e che il regista – durante le riprese – raccontò d’essere stato attratto da una «terra in cui gli esseri umani non hanno volto». Dieci anni dopo quel film, a San Nicandro Garganico nasceva Gennaro Giovanditto. Non è un regista. Nemmeno un attore. Non ha niente a che fare col cinema, se non il fatto d’essere figlio della generazione «senza volto» raccontata da Piccon. A Gennaro Giovanditto la giustizia italiana attribuirebbe – a vario titolo – l’esecuzione di tredici omicidi. Tutti commessi nell’ambito di una guerra di mafia, quella “garganica” ammesso che abbia davvero un senso distinguerla dalle altre, che dura da decenni. Non sono un cronista, non nel senso rigoroso del termine che viene riconosciuto a chi racconta la vita di una terra attraverso la morte di chi la abita. Ragione per cui non proverò ad analizzare gli aspetti cronologici e processuali delle presunte imprese malavitose contestate a Giovanditto. Mi viene chiesto di raccontare, coi miei occhi, ciò che mi arriva di questa storia, di questa guerra. E la prima cosa che non posso fare a meno di notare è che di Gennaro Giovanditto non esistono fotografie. Poca, pochissima roba, custodita gelosamente negli archivi di chi la cronaca della guerra di mafia l’ha raccontata con precisione inimitabile (penso a Giovanni Rinaldi de "La Gazzetta del Mezzogiorno”), ma poi più nulla. Per quanto ne sanno quelli che, come me, lo cercano negli oceani del web, Gennaro Giovanditto è un uomo senza volto. Per la giustizia italiana, un killer senza volto. In confronto a lui, altri due protagonisti di questa guerra, Mario Luciano Romito (ucciso nella strage del 9 agosto 2017) e Francesco Libergolis (ucciso il 27 ottobre 2009), paiono fin troppo esposti: immagini, storie, tracce, abitudini. Fino a quando sono rimasti in vita, s’intende. Sembrerebbe un dettaglio di natura morbosamente giornalistica, invece risponde a una precisa volontà degli interpreti di questa dottrina. Fin tanto che non se ne conoscono i volti, nessuno può dire di averli incontrati e riconosciuti (ammesso che ci sia qualcuno disposto a farlo). Fin tanto che restano al buio, nessuno può parlargli del sole. La dimensione esistenziale che si accetta è ignota ai più, quasi letteraria, pirandelliana: nessun essere umano condurrebbe la propria vita all’interno di un doppio fondo, invece per loro è condizione indispensabile per continuare a vivere senza lasciar tracce, per dettare gli eventi senza farsi travolgere, per imporre la forza senza dare l’impressione di poterlo fare. Fantasmi, categorie sfuggenti, leggendarie, tutt’altro che clandestini, semplicemente trasparenti. Come diceva Piccon, Giovanditto non ha un volto (pubblico) per scelta. Ne ha (eccome) uno privato, che conoscono in pochi. Anche perché – così raccontano i magistrati dell’operazione Remake – chi riesce a vederlo è quasi certo che non rimanga in vita. Ed ecco un altro tema di questa guerra feudale, carica di simboli primitivi che solo l’antropologia riesce a decifrare. Alla maggior parte dei morti ammazzati è stato sparato in pieno volto, sottraendo loro i connotati, quindi la dignità della sepoltura. Una scena toccante de L’antimiracolo mostra proprio l’esibizione del dolore durante una veglia funebre, l’ostentazione dei parenti, la loro collera contro il destino, l’adorazione della faccia che stanno salutando per sempre. Alle vittime della “mafia garganica” alle quali è stato asportato – a fucilate – il volto, viene sottratta questa dignità, viene inibito l’onore del saluto. Chi è senza volto non può essere compianto, tantomeno ricordato. «E’ difficile da spiegare, la durezza di questi posti – raccontava Piccon – si può raccontare solo attraverso la poesia barbarica che ho trovato in alcune campagne e contrade del Gargano». Bisognerebbe conoscerlo, il Gargano, per provare a spiegare di cosa stiamo parlando. Di quale substrato culturale sono figli questi morti, in quale torba ha vegetato l’odio alla base di questa contesa apparentemente senza etica. A cinquant'anni dalla sua uscita, "L’antimiracolo” è stato restaurato e riconsegnato alla cinematografia italiana. In pochi continuano a sapere che è stato girato tra Lesina e San Nicandro Garganico, alcune scene nelle campagne di Monte Sant’Angelo. A mezzo secolo da quell’allarme inascoltato, le ragioni della faida che sta facendo discutere il Paese sono sempre le stesse. La terra, la roba, i frutti che assicura e quelli che promette. A poco più di quarant’anni dalla nascita di Gennaro Giovanditto, nessuno si chiede più che volto abbia. Non ha più senso, nei luoghi che a furia di ignorare le facce stanno rinunciando anche al sorriso.

San Nicandro, dove è cominciato tutto, scrive il 7 dicembre 2017 su "La Repubblica" Giuliano Foschini - Giornalista di Repubblica. Esiste un punto dal quale è più facile parlare di passato e futuro della mafia del Gargano. Un punto dal quale è possibile vedere ferocia, interessi, affari, paranoie. Ma in fondo anche futuro. Quel punto è San Nicandro Garganico, 15 mila abitanti nella parte Nord del promontorio, i laghi (di Lesina e Varano) più vicini del mare. La storia della mafia, qui, ha una data ben precisa, che è quella anche dell’inizio della faida: 28 marzo 1981, scompaiono nel nulla cinque membri della famiglia Ciavarella, conosciutissima in paese: Matteo, di 57 anni, la moglie Incoronata Gualano, di 55, e i tre figli, Nicola, Giuseppe e Caterina, di 17, 16 e 5 anni. Che fine hanno fatto? Ammazzati e fatti sparire nel nulla, forse in una cava, forse dati in pasto ai porci. Chi è stato? Giuseppe Tarantino, dicono le sentenze dei tribunali con le quali è stato condannato all’ergastolo. Perché lo ha fatto? Anche Tarantino, con la sua famiglia vive a San Nicandro. E doveva vendicare uno dei suoi otto fratelli, contro il quale Matteo Ciavarella aveva testimoniato per un furto di bestiame. Cinque morti per un furto di maiali.

Un’assurdità che sembra non finire mai: un morto, due morti, tre, bisogna contare fino a diciassette per raccontare la faida tra i Tarantino e i Ciavarella, assassini su assassini, una generazione completamente distrutta. Il 22 agosto dell’87 viene assassinato Leonardo Tarantino, fratello di Giuseppe. Il 22 dicembre Sebastisano Tarantino, e poi Michele, Giovanni, il 28 novembre del 2002 tocca ad Antonio Ciavarella, poi a Carmine Tarantino, dunque a Luigi, ad Antonio, nel 2007 sono finiti i fratelli e si passa ai cognati, ai cugini. Orrore su orrore. Eppure esiste una generazione, partita da San Nicandro, che potrebbe avere un futuro. Il motivo è nella storia di Rosa Di Fiore, la più bella del paese, famiglia per bene, la mamma era l’insegnante della città, che diventa protagonista di un romanzo di mafia. Rosa si innamora, giovanissima, di Pietro Tarantino, capobastone della zona. Si sposa. Nascono tre bambini. Poi Rosa scappa. Si innamora di Matteo Ciavarella, fugge e traccia per la prima volta un tratto, che non sia sangue, tra le due famiglie. Succede di più: nasce un altro bambino. Un Ciavarella diventa fratello di un Tarantino. Rosa sa che si sta attraversando la linea d’ombra. «Non volevo che i miei figli crescessero in quel modo, che diventassero dei boss, che diventassero come i rispettivi padri» dice ai magistrati. Rosa Di Fiore diventa una collaboratrice di giustizia. Condannando così al carcere a vita i padri dei suo i figli «Mi mandi all'ergastolo» gli ha urlato il suo ex compagno. «Non mi fai più paura; ormai sei un cane che non morde più non mi fai più paura». «Dopo ogni omicidio — ha raccontato ai giudici Rosa, che in famiglia chiamavano Lidia — la mamma di Matteo (ndr, Ciavarella) lo lavava con acquaragia per eliminare eventuali macchie di polvere da sparo, gli forniva alibi e abiti puliti. Perché era proprio la famiglia a spingere Matteo a uccidere, per sete di vendetta». «Matteo quando sceglieva una vittima usava sempre una frase diceva: "Questo me lo mangio"». Non era un modo di dire. Il 5 dicembre 2002 Matteo Ciavarella uccise Carmine Tarantino, l'ex cognato della Di Fiore, con una raffica di proiettili in volto. Rosa, davanti al pm della Dda Domencio Seccia, racconta come andarono le cose: «Matteo mi descrisse il modo in cui gli sparò. Mi disse che non aveva più tutta la faccia. Gli chiesi: "Ma era come Michele?, un altro esponente che fu ucciso dalla famiglia. E lui: «No, era molto peggio, ha detto: "Proprio me l'è magnat, me l'è magnat tutta la faccia. Lo sai che ho fatto? mi sono leccato il sangue suo, dopo». Rosa e i suoi figli sono da tempo lontani da San Nicandro, da Foggia e dalla Puglia.  «I suoi figli», racconta il procuratore Seccia, «non hanno imparato mai a sparare».

Una donna divisa fra due "famiglie”, scrive su "La Repubblica" il 10 dicembre 2017 Domenico Seccia - Procuratore capo della Procura della Repubblica di Fermo. Prototipo della mafia bionica. Madre di figli che si chiamano Tarantino e Ciavarrella e che rappresentano il compendio del superamento di quel conflitto in una famiglia, dove l’amore materno, e la fratellanza dei figli suggella la vera fine di quella mafia. Rosa Lidia Di Fiore partecipa alla guerra di mafia garganica tra i Ciavarrella e i Tarantino; ne è partecipe da ambo i punti di vita, personificando quella dolorosa e tragica contrapposizione, essendo moglie di Pietro Tarantino e, poi, convivente del boss di mafia, Matteo Ciavarrella. Rosa Lidia è di Cagnano Varano. Un paese del profondo del Gargano. E della donna garganica ha la risolutezza, la forza, la graniticità. Era figlia di Grazia Miscia, una insegnante di Cagnano Varano. Aveva sposato un Tarantino, Pietro, acerrimo nemico dei Ciavarrella. Lo sposa a diciotto anni, una scelta coartata, disse durante un interrogatorio. Pietro Tarantino era parte di una famiglia di allevatori, temuta, dedita al narcotraffico. In guerra con i Ciavarrella quando nell’aprile del 1981, Giuseppe Tarantino uccide cinque componenti della famiglia rivale, compresa una bambina di tre anni, non facendone trovare più i corpi. Rosa Lidia, a Cagnano, vive in una realtà temuta e rispettata. In paese, la moglie di un Tarantino è rispettata, temuta, onorata. La mafia trasferisce i suoi onori. Conviveva con le attività criminali dei Tarantino; ne osservava il taglio della droga, l’organizzazione del traffico relativo, le cessioni. Rosa Lidia si trasferisce, con il marito a San Nicandro Garganico, la terra dei Ciavarrella. La relazione tra la Di Fiore e Matteo Ciavarrella era come “un fuoco appicciato”. Rosa Lidia vive con la famiglia di Matteo, che partecipa attivamente alle attività delittuose. Vive con la madre di Matteo Ciavarrella, condannato per narcotraffico; vive con il fratello di Matteo Ciavarrella, condannato per omicidio di mafia, per associazione mafiosa, per narcotraffico; vede e frequenta tutti gli uomini del clan e gli altri parenti, le cui gesta riempiranno le pagine delle sentenze di quella mafia. Vede armi, impara a sparare. Ne ascolta il linguaggio di morte; ne parafrasa il terrore; ne asseconda la cupezza, deve condividerne la fame di sterminio; l’attività di killeraggio da trasferta che il Ciavarrella commette quando i maggiorenti della mafia garganica lo chiamano per commettere omicidi “puliti”. La ricordo durante il primo interrogatorio. Era dura, spocchiosa, forte, radicale, intransigente. Era però una donna che aveva fatto gli studi, che proveniva da buona famiglia, abbruttita dagli eventi delittuosi, di sangue, mafia, droga e di potere criminale che contraddistingueva il clan Ciavarrella. “E’ inutile la sua venuta”, mi disse, adirata. La ascoltai per comprendere il ruolo in uno dei tanti omicidi di mafia. Quello avvenuto contro Scanzano, e commesso dal suo convivente. Come un’anguilla, sfuggiva ad ogni domanda, rispondendo, sprezzante, addirittura nel suo dialetto garganico cagnanese. Gestiva un copione, il suo copione. Fatto di fierezza criminale, di forza criminale, della donna che non è solo la compagna del boss, ma che avverte ed esercita fedelmente un ruolo in quella violentissima fazione criminale. Una donna che esercitava lusso e violenza; che conduceva una vita omaggiata dalla riverenza e dai rancori? Dopo le prime domande, aveva compreso che il cerchio si stava chiudendo. Che le responsabilità apparivano chiare Che non poteva più sfuggire alla giustizia. Comprese il dolore di quella vita. Di una vita inutile per i suoi figli. “..Ho chiesto di parlare con voi semplicemente perché volevo stare con i miei quattro figli, in quanto sono venuta a conoscenza del fatto che i bambini mi devono essere tolti e volevo trovare una via per non farmeli togliere, li vorrei tenere tutti quanti io, tutti e quattro, sia i Tarantino che i figli di Ciavarella".

Nessuno parla della Società Foggiana.

Un cimitero senza lapidi e senza croci, scrive l'8 dicembre 2017 Antonella Caruso - Giornalista del “Corriere del Mezzogiorno”, su "La Repubblica". Il fondo si può solo immaginare, un baratro enorme e terrificante, l'assoluto delle tenebre diventato complice inconsapevole della mafia garganica. E’ la grava di Zazzano, in un territorio impervio del comune garganico di San Marco in Lamis. “Un cimitero della mafia” come lo definì nel 2009 l’allora procuratore della repubblica di Bari, Antonio Laudati. Giù in quel budello furono ritrovati i resti di almeno quattro vittime di mafia, scomparse nel nulla, inghiottite dalla terra e dalla terra a lungo custodite. La prima discesa nella grava di Zazzano ad opera di un gruppo di speleologi avvenne nel 1957. Le leggende in paese raccontavano di moglie e di donne gettate in quell’immenso pozzo per punizione, di tragedie e vendette. Leggende alle quali la mafia garganica, invece, diede forma gettando, probabilmente per circa 10 anni, coloro che aveva trucidato. Vittime di lupara bianca, morti ammazzati la cui tomba era conosciuta solo da chi aveva stabilito che quei corpi, quelle identità non dovessero essere mai più ritrovate. A 70 metri (nel bagagliaio di un’auto spinta giù dalla bocca larga circa 30 metri) il primo ritrovamento: in una borsa di plastica che l’umidità, gli animali, il tempo aveva deformato, ossa pelviche, costole, arti superiori ed inferiori, in un’altra busta all’esterno dell’auto un cranio. La mafia “non uccide mai gratuitamente” sottolineava il giudice Giovanni Falcone: l’omicidio è l’ultima soluzione quando le minacce, le intimidazioni, la violenza non sono più sufficienti. E spesso gli omicidi non devono lasciare prove, i morti ammazzati di mafia quelli il cui corpo non deve essere ritrovato, portano con sè anche i nomi dei mandanti e degli esecutori. E farli inghiottire dalla terra assume un carattere simbolico. Un modus operandi fu riscontrato in quel cimitero senza lapidi e senza croci, dove “felci, lingue cervine, muschi e radici contorte degli alberi” rendevano quel baratro ancor più difficile da penetrare. Auto e resti di cadaveri smembrati. Le vittime uccise e poi probabilmente portate in auto sino alla grava, con un sacchetto di plastica in testa per contenere forse il sangue. A circa 73 metri furono ritrovati sempre in una borsa di plastica. Il terzo cadavere ad una profondità di 80 metri. Il quarto corpo alcuni metri più in basso. Furono identificati solo tre dei quattro corpi restituiti dal fango e dal buio: un ragazzo di 27 anni scomparso nel 2001 e suo padre di 57 anni. Un uomo di 44 anni di cui si erano perse le tracce nel 1991. Mentre resta sconosciuta l’identità del quarto cadavere che come riportato nel libro “Lupara Bianca”: l’uomo “è stato inoltre soggetto a tentativi di smembramento in seguito alla sua morte, probabilmente al fine di facilitarne l'occultamento”. Una mafia feroce, arcaica e moderna insieme. “Una mafia con regole di vendetta e di punizione mutuate dalle più arcaiche comunità agricolo-pastorali”, ha scritto più volte la commissione antimafia nelle sue relazioni.

San Marco in Lamis, il boss ucciso con 2 fucilate alla nuca. Confermato il rito dell'esecuzione per Luciano Romito: stessa modalità anche per il cognato che fungeva da autista, scrive l'11 Agosto 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". E’ stato ammazzato con due fucilate alla nuca il boss di Monte Sant'Angelo Mario Luciano Romito. E' quanto è emerso dalle autopsie eseguite presso l’istituto di medicina legale di Foggia delle quattro vittime dell’agguato di tre giorni fa a San Marco in Lamis. La stessa sorte è toccata al cognato di Romito, Matteo de Palma, che era l’autista del boss: anche lui è stato ucciso con un colpo di fucile alla nuca. I due fratelli contadini, uccisi perchè testimoni involontari del duplice omicidio, sono stati giustiziati con colpi sparati a distanza ravvicinata. Il questore di Foggia ha vietato i funerali, in forma pubblica, del presunto boss Mario Luciano Romito, ucciso nell’agguato dell’altro giorno. Si svolgeranno invece alle 16,00 di oggi nella chiesa della Collegiata, a San Marco in Lamis, dove è stato proclamato lutto cittadino, i funerali per Aurelio e Luigi Luciani, i due fratelli uccisi dai killer. I fratelli - è emerso dalle autopsie - sono stati ammazzati dai killer con colpi sparati con il fucile d’assalto AK 47 Kalashnikov: Aurelio Luciani che aveva tentato di fuggire uscendo dall’auto, è stato raggiunto da due colpi al fianco e uno al gluteo; il fratello Luigi è stato ucciso con due colpi alla testa e uno alla nuca. «A settembre il Csm provvederà alla nomina del nuovo Procuratore della Repubblica di Foggia. Sarà una delle prime azioni che faremo». Lo afferma Antonio Leone, Consigliere laico del Consiglio Superiore della Magistratura. "Mi sono confrontato con il Vicepresidente Legnini immediatamente dopo il drammatico episodio accaduto sul Gargano. Gli ultimi pareri relativi all’iter della nuova nomina sono arrivati proprio alla fine di luglio. Per questo motivo completeremo il percorso non appena gli uffici torneranno operativi. Per il futuro - conclude - valuteremo anche la richiesta al governo di un aumento dei Sostituti Procuratori per far fronte alle oggettive necessità del territorio. Purtroppo i fatti di questi ultimi giorni ci impongono, oltre che delle riflessioni, anche il compimenti di azioni rapide ed efficaci».

Foggia, agguato in strada al boss: 4 morti. Freddati due contadini testimoni involontari. A San Marco in Lamis l'obiettivo era Mario Luciano Romito, che è morto sul colpo con suo cognato. Poi i sicari hanno ucciso due fratelli che avevano visto tutto. Il ministro Minniti a Foggia per l'emergenza, scrive il 9 agosto 2017 "La Repubblica". Una pioggia di proiettili. E una strada di solito poco trafficata che si trasforma in una scena da Far West. La strage era stata pianificata nei minimi dettagli. Tutto è accaduto in pochi minuti intorno alle 10 sulla strada provinciale 272, nei pressi della vecchia stazione di San Marco in Lamis, in provincia di Foggia: quattro persone uccise da un commando armato e formato, forse, da quattro o cinque killer. Le vittime erano a bordo di due mezzi, trovati a una distanza di circa 500 metri l'uno dall'altro: due uomini sono stati uccisi mentre erano su un Maggiolone Wolkswagen blu scuro, gli altri due erano in un Fiorino bianco.

L'obiettivo dei killer era nel Maggiolone: si tratta del boss Mario Luciano Romito, cinquant'anni, di Manfredonia, a capo dell'omonimo clan che negli ultimi anni si è contrapposto al clan Li Bergolis nella cosiddetta 'faida del Gargano'. Con lui, nella vettura, c'era il cognato Matteo De Palma, che gli faceva da autista, anche lui morto all'istante. Secondo la ricostruzione fatta dai carabinieri del comando provinciale di Foggia, un'automobile con i sicari a bordo avrebbe affiancato il Maggiolone e i killer avrebbero aperto il fuoco con un fucile d'assalto kalashnikov Ak-47 e un fucile da caccia calibro 12, uccidendo sul colpo con una sventagliata di proiettili Romito e De Palma.

Poi il commando si è messo all'inseguimento del Fiorino a bordo del quale stavano tentando di fuggire due contadini, testimoni scomodi - a quanto sembra - del duplice omicidio. I due agricoltori, i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, di San Marco in Lamis, rispettivamente di 47 e di 43 anni, hanno visto uccidere e hanno capito di essere in pericolo: avrebbero tentato la fuga, ma sono stati raggiunti e uccisi. Uno dei due contadini ha cercato anche di fuggire a piedi, ma i killer non hanno avuto alcuna pietà e hanno continuato a sparare. Uno dei due fratelli era ancora vivo quando è stato trasportato nell'ospedale di San Severo, dove però è morto poco dopo. Nel Fiorino sono stati trovati dai carabinieri attrezzi utilizzati per coltivare la terra e raccogliere verdure: i due agricoltori nulla avevano a che fare, secondo quanto emerso finora, con il boss e il cognato. Questi ultimi probabilmente erano arrivati per un appuntamento che si è rivelato invece essere una trappola mortale. L'agguato è stato compiuto da un gruppo di feroci criminali per affermare il proprio potere.

"Li immagino i fratelli Luciani, Luigi e Aurelio, capire in una frazione di secondo che quello che avevano visto li avrebbe condannati a morte", ha scritto Roberto Saviano sulla sua pagina Facebook. "Dopo aver freddato il presunto boss Mario Luciano Romito e il cognato e guardaspalle Matteo De Palma, i sicari li hanno inseguiti nei campi e li hanno finiti a sangue freddo. Il mio pensiero è subito corso a Rosario Livatino. La colpa dei fratelli Luciani era di essere al lavoro il 9 agosto. Vittime innocenti, colpevoli.

Secondo quanto emerge dalle indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Bari - sul luogo dell'agguato c'era il magistrato antimafia Pasquale Drago - i sicari potrebbero aver agito per una vendetta collegata a omicidi avvenuti in precedenza nella stessa zona. L'agguato è avvenuto in un tratto di strada che si trova a pochi chilometri da San Severo e Apricena, altri due comuni della Capitanata in cui recentemente sono avvenuti omicidi a causa della lotta tra clan per la spartizione degli affari illeciti sul territorio.

Dall'inizio dell'anno sono 17 gli omicidi avvenuti nel territorio foggiano. L'ultimo delitto, il 27 luglio, è stato quello di un ristoratore di Vieste, il 31enne Omar Trotta, freddato a colpi di pistola all'ora di pranzo mentre si trovava nel suo locale. "Quello che è accaduto - ha detto il sindaco di San Marco in Lamis, Michele Merla - è terribile, non ci sono parole per descrivere quello che è avvenuto". Il punto della situazione dopo l'ennesimo agguato avvenuto nel Foggiano sarà fatto giovedì 10 dal ministro dell'Interno, Marco Minniti, che presiederà a Foggia una riunione del Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza pubblica, al quale parteciperà anche il governatore pugliese Michele Emiliano. Al termine il ministro incontrerà il sindaco di Foggia e i primi cittadini di alcuni dei comuni della Provincia. Il governo non fa "niente", accusa il leader della Lega, Matteo Salvini, che invoca l'esercito per le strade del Gargano. Libera, invece, per dare un segnale annuncia che il prossimo 21 marzo la Giornata della memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie si terrà a Foggia.

Il boss Romito era sfuggito ad altri agguati. Fra gli episodi più eclatanti c'è quello del 18 settembre 2009: il boss uscì illeso da un attentato dinamitardo mentre si stava recando, in compagnia del fratello Ivan, nella caserma dei carabinieri in cui aveva l'obbligo di firma. Il cofano dell'Audi A4 station wagon sulla quale viaggiavano lui e il fratello - anche lui non ebbe ferite - saltò in aria a causa di una bomba. E' stato inoltre coinvolto nel blitz contro la faida del Gargano portato a termine dai carabinieri il 23 giugno del 2004, ma due anni più tardi venne assolto da tutte le accuse. Mario Luciano è fratello di Franco Romito, anche lui considerato dagli inquirenti uno dei presunti boss delle famiglie coinvolte nella faida. Il regolamento definitivo dei conti tra le famiglie Romito e Li Bergolis cominciò subito dopo la sentenza di primo grado del secondo maxiprocesso alla mafia garganica (sentenza del 7 marzo 2009): poco più di un mese dopo, il 21 aprile 2009, Franco Romito venne ucciso insieme col suo autista. Da anni - è scritto negli atti giudiziari - Franco Romito aveva svolto un ruolo di confidente dei carabinieri e aveva perfino partecipato con i carabinieri a posti di blocco per riconoscere alcuni latitanti della mafia garganica.

I Romito e i Li Bergolis erano stati alleati per anni, nella loro lotta contro il clan rivale degli Alfieri-Primosa, ma l'alleanza era durata fino alla lettura degli atti giudiziari, sino a quando i Li Bergolis avevano scoperto che Franco Romito li aveva traditi da tempo, quando era diventato confidente degli investigatori, anche barattando, dunque, i suoi amici di un tempo con la libertà. Franco Romito soltanto una decina di mesi prima di essere ucciso era stato assolto da accuse pesanti: associazione mafiosa, traffico di droga, duplice omicidio. Sia in primo sia in secondo grado era emersa la sua collaborazione con i carabinieri a varie operazioni tra le quali una trappola tesa nella sua masseria di Manfredonia (nella quale aveva fatto piazzare microspie agli investigatori) per far confessare omicidi ed estorsioni ai boss dei clan rivali dei Li Bergolis e Lombardi. All'uccisione di Franco Romito seguirono varie feroci esecuzioni con una scia di morti, tra cui il figlio di lui il 23enne Michele, freddato il 27 giugno del 2010 in un agguato mentre era in auto con lo zio, Mario Luciano Romito, scampato alle pallottole e ferito in maniera lieve.

San Marco in Lamis, omicidio fratelli Luciani: uno scambio di persona? Agricoltori uccisi: spunta l’ipotesi di uno scambio di persona, turista “graziata” dal commando. Aurelio e Luigi Luciani potrebbero esser stati scambiati per due fedelissimi di Mario Luciano Romito, che avrebbero lo stesso pick up bianco dei due agricoltori uccisi, scrive Maria Grazia Frisaldi l'11 agosto 2017 su "Foggia Today". Uccisi perché testimoni scomodi di un agguato di mafia, oppure - ipotesi investigativa che prende sempre più corpo nelle ultime ore - perché vittime di un tragico scambio di persona. Nel giorno delle esequie di Luigi e Aurelio Luciani, vittime innocenti dell’agguato di mafia del 9 agosto scorso, si fa strada l’idea che i due fratelli agricoltori di San Marco in Lamis possano essere stati uccisi dal commando che lo scorso mercoledì mattina ha freddato, a colpi di kalashnikov e fucili, il presunto boss Mario Luciano Romito ed il cognato Matteo De Palma, entrambi di Manfredonia, perché scambiati per due “fedelissimi” dei Romito. Agricoltori uccisi, uno scambio di persona? A trarre in inganno i killer potrebbe essere stato il mezzo a bordo del quale i due Luciani, agricoltori incensurati del posto amati e stimati da tutti, erano a bordo: un pick up bianco, identico a quello di altri due sammarchesi con i quali verosimilmente Romito e De Palma avevano un appuntamento nei pressi della vecchia stazione ferroviaria del paese garganico, luogo dell’imboscata. Sulle indagini, condotte dall’Arma dei carabinieri, vige il più stretto riserbo. Ma questa ipotesi investigativa lascerebbe intendere che i sicari non fossero del posto, ovvero che non conoscessero direttamente gli obiettivi dell’agguato, ma avessero solo indicazioni sui mezzi da colpire. La turista americana minacciata e graziata dal commando. Un’ipotesi che prende corpo e sostanza anche alla luce della circostanza, ancora tutta da vagliare, secondo la quale, una terza persona - una donna, turista straniera in transito sulla Pedegarganica - sia stata “graziata” dal commando: minacciata con le armi, la donna sarebbe stata costretta ad allontanarsi nonostante fosse da ritenersi, anche lei, una “testimone scomoda” dell’agguato al pari delle altre due vittime. L’autopsia sui corpi e i funerali. Nella mattinata di ieri, intanto, è stata effettuata l’autopsia sui corpi dei quattro coinvolti nella strage. Almeno una trentina di colpi, quelli esplosi dai killer, con kalashnikov e fucili calibro 12. Per i due Luciani, questo pomeriggio, nella chiesa della Collegiata di San Marco in Lamis, si terranno i funerali di Stato; quelli di Romito e De Palma sono stati effettuati in forma privata questa mattina per essere tumulati subito dopo. Altre 15 perquisizioni, insieme a quelle effettuate dai carabinieri nell’immediatezza dei fatti, sono state eseguite nelle ultime ore dai militari a carico di pregiudicati della zona.

Faida del Gargano, c’è una testimone «Ho visto 4 uomini incappucciati». Il racconto di una turista francese che sarebbe stata risparmiata dai sicari. Sui fratelli uccisi spunta la pista dello scambio di persona, scrive Giusi Fasano l'11 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". Ci sono due vigili urbani che stanno annotando i dati di un incidente lungo la statale che porta verso il Gargano, nel Comune di Apricena. Sulla scena arriva un’auto con targa francese, alla guida c’è una donna molto agitata, «spaventatissima» diranno poi gli agenti municipali ai loro superiori. La signora scende di corsa e, parlando francese, spiega alla vigilessa che li ha visti. Ha incrociato il commando dei killer della strage di San Marco in Lamis. «Ho visto quattro uomini laggiù, lungo la strada», racconta. «Avevano i mitra in mano ed erano incappucciati. Erano in un macchina che ho incrociato mentre sfrecciava via». L’agente prova a calmarla. Le dice che c’è una caserma dei carabinieri proprio lì vicino, le consiglia di denunciare tutto. Ma lei è di corsa, o forse ha bisogno di qualche minuto in più per raccogliere le idee. Risponde che sta andando a Rodi Garganico e che farà denuncia lì. La versione della donna adesso è agli atti dell’inchiesta sulla strage di San Marco in Lamis nella quale sono stati uccisi in quattro anche se l’obiettivo vero, l’unico, era il boss cinquantenne Mario Luciano Romito, del clan di Manfredonia che porta il suo cognome e che da anni è in guerra contro la famiglia dei Li Bergolis. Romito l’altro giorno è stato ammazzato assieme a suo cognato Matteo De Palma, che gli faceva da autista e che non risulta coinvolto nella faida. Assieme a loro sono stati rincorsi per mezzo chilometro e ammazzati anche i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, due agricoltori che hanno avuto il solo torto di trovarsi nel posto sbagliato e al momento sbagliato sul loro Fiorino pick-up. Sono stati testimoni involontari dell’agguato e finora si è pensato che proprio per questo i killer li avessero eliminati ma più passano le ore più gli inquirenti si convincono che il commando li abbia uccisi credendoli i guardaspalle del boss. In passato era capitato che le guardie del corpo di Romito usassero un pick-up bianco e probabilmente nella cattiva sorte dei due fratelli c’entra anche questo dettaglio.

La donna francese in qualche modo avvalora la tesi dell’equivoco dei guardaspalle perché se gli assassini avessero ammazzato gli agricoltori soltanto perché testimoni forse avrebbero provato a seguire ed eliminare anche lei che li ha visti abbastanza bene da descriverli con le armi fra le mani e la faccia coperta. Dall’inchiesta emerge, semmai ce ne fosse bisogno, quanto fossero determinati quegli uomini nella loro crudeltà. L’autopsia sui due fratelli dice che tutti i colpi di kalashnikov sparati contro di loro li hanno colpiti alle spalle, cioè mentre quei due innocenti tentavano una fuga disperata. Anna, la moglie di Luigi, è una psicologa e professoressa in una scuola media del paese. «La colpa di mio marito è stata lavorare, spaccarsi la schiena tutte le mattine», dice. Antonio, il padre di Luigi e Aurelio, ripete a tutti la stessa domanda da due giorni e lo ha fatto anche ieri dopo i funerali, dopo la folla, dopo il lutto cittadino e le urla «innocenti» davanti alla chiesa. «Dov’è lo Stato per la gente che lavora onestamente?» ha chiesto una volta di più a se stesso e al mondo. Lo Stato (la questura) ieri ha vietato i funerali pubblici per il boss e il cognato mentre la procura e i carabinieri lavorano senza sosta per ricostruire i fatti e dare quella risposta «durissima» invocata dal ministro degli Interni Marco Minniti. Ci sarebbero più sospettati, uno in particolare: un uomo del «gruppo dei Li Bergolis» che non risulta più in zona dal giorno della strage.

Mafia a Mattinata, coinvolti pezzi dello Stato. Minacce del poliziotto al sindaco, scrive il 23 giugno 2017 "L'Immediato". Nuovi elementi nel caso Mattinata, il comune a rischio scioglimento per presunte infiltrazioni della criminalità. Stavolta il protagonista è un poliziotto, accusato di minacce nei confronti dell’attuale sindaco, Michele Prencipe. Un caso che è già sbarcato nelle aule di tribunale. Il quadro, in buona sostanza, si intorpidisce ancora di più e tiene dentro anche pezzi dello Stato nelle vicende di mafia. Ma veniamo ai fatti. Prencipe, primo cittadino della “farfalla del Gargano”, denunciò a fine agosto 2015, un episodio con protagonista Bartolomeo D’Apolito, vice dirigente e ispettore di polizia in servizio presso il commissariato di Manfredonia, dove attualmente dirige l’ufficio amministrativo (rilascio porto d’armi, concessioni e quant’altro), nonostante sia sotto processo tanto che in molti si chiedono come possa un poliziotto restare in carica nel commissariato competente nel comune di Mattinata. Il primo cittadino, in sede di denuncia, parlò ai carabinieri di uno “strano avvicinamento” da parte di D’Apolito il quale, il 18 agosto 2015 gli chiese un appuntamento, a poche ore da un’importante riunione comunale nell’ambito della quale Prencipe avrebbe comunicato la revoca della delega assessoriale al figlio dell’ispettore, Raffaele D’Apolito e alla cugina Valentina Ricucci. Revoche poi avvenute anche se D’Apolito junior continua a svolgere il ruolo di consigliere comunale dal Nord Italia, dove si trasferì poco dopo l’episodio in questione. Le revoche si resero necessarie poiché era venuto meno il rapporto di fiducia e politicamente non c’erano più le condizioni per proseguire insieme. L’ispettore, però, contattò telefonicamente il sindaco riferendogli che aveva necessità di parlargli di persona di argomenti di natura riservata. Prencipe, vista la strana richiesta del poliziotto con il quale mai aveva intrattenuto rapporti di carattere personale, accettò l’invito ma insospettito e intuendo che l’argomento potesse essere correlato alla revoca dell’incarico al giovane figlio assessore, si recò all’appuntamento provvedendo a registrare la conversazione col suo smartphone. I due si incontrarono poco dopo al distributore Agip di Mattinata, sulla SS89 tra Mattinata e Vieste e qui, l’ispettore articolò una serie di discorsi dal tenore intimidatorio che il sindaco intese correlati alla sua decisione di rimpiazzare il figlio in giunta. In sintesi, il poliziotto riferì di aver appreso, da un suo collega, che Prencipe qualche mese prima, sarebbe stato intercettato telefonicamente mentre intratteneva rapporti con persone di Mattinata “poco raccomandabili”. Un fatto, però, sempre smentito dal sindaco e sul quale non risulta alcuna prova. Inoltre, D’Apolito fece riferimenti ad altri contesti amministrativi nel cui ambito il governo comunale era stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Chiaro il riferimento a Monte Sant’Angelo, sciolto il mese prima. Quasi a minacciare la stessa fine del comune angiolino. L’ispettore si lasciò andare anche ad allusioni relative all’esistenza di magistrati poco “attenti” nella loro attività professionale. Nel corso della conversazione, transitarono presso quel distributore due persone, Carmine Armillotta e Antonio Minuti, successivamente indicati dal sindaco come testi. Ma durante l’udienza di ieri, 22 giugno, i due sono stati colpiti da improvvisa amnesia. Minuti, in particolare, ha dapprima negato tutto nonostante la sua voce presente nella registrazione. Al quarto ammonimento del giudice Tavano, circa le conseguenze che comporta il reato di falsa testimonianza, si è infine riconosciuto in quel file audio, ascoltato ieri in tribunale. Il processo che si sta svolgendo nel palazzo di giustizia di Foggia, sta assumendo anche i contorni di un giallo. Il fascicolo contenente gli atti è stato svuotato da una presunta mano galeotta tanto che il pm ha già denunciato l’episodio. Per sua fortuna una copia degli atti è nelle mani dell’avvocato di parte civile, Raul Pellegrini. Altrimenti sarebbe stato impossibile proseguire nel procedimento. Prossima udienza il 16 novembre per l’esame dell’imputato. Pesanti le ipotesi d’accusa formulate dai carabinieri per D’Apolito: rivelazione segreto d’ufficio, millantato credito, minaccia a corpo politico e violenza privata.

Rivelò incontro nella masseria del boss (latitante) di Mattinata, trasferito ispettore di polizia, scrive l'11 agosto 2017 “L’Immediato”. Trasferito nel commissariato di Cerignola, Bartolomeo D’Apolito, ormai ex vice dirigente del commissariato di Polizia di Manfredonia. L’uomo, sorpreso in un’intercettazione pubblicata dalla nostra testata, rivelò di un incontro con protagonisti pezzi della vecchia amministrazione guidata da Lucio Roberto Prencipe nella masseria di “Baffino”, boss locale svanito nel nulla qualche settimana fa. “Perché quando tu vai a sederti in una masseria e vai a concordare determinate cose… Con certi nomi, Baffino e company…”, queste le parole dell’ispettore registrate dall’attuale sindaco, Michele Prencipe durante una chiacchierata presso una stazione di servizio. Il sindaco, infatti, col proprio smartphone, captò tutta la conversazione con D’Apolito che, nell’agosto 2015, chiese un appuntamento a Prencipe dopo aver saputo che sarebbe stato revocato l’incarico di assessore al figlio Raffaele D’Apolito, tutt’ora consigliere comunale. I due si incontrarono presso un distributore di carburante sulla SS89 tra Mattinata e Vieste. Nonostante il silenzio imbarazzante del vecchio prefetto e del vecchio questore e associazione nazionale magistrati, questi ultimi tirati in ballo da D’Apolito in un altro passaggio della conversazione, alla fine qualcosa si è mosso se l’ispettore ha dovuto lasciare il commissariato sipontino. Troppo evidenti le incompatibilità con il territorio tra Manfredonia e Mattinata se si considera che l’ispettore è attualmente sotto inchiesta proprio per le presunte minacce al sindaco Prencipe. D’altronde non mancano altre situazioni poco chiare al commissariato di Manfredonia, avvenute negli ultimi tempi. Anzitutto diversi trasferimenti per incompatibilità ambientale e prepensionamenti anticipati. E, come se non bastasse, agenti in pensione continuano a viaggiare su macchine di servizio. Insomma si spera che fra sei mesi, al cambio del dirigente, arrivi una nuova guida che sappia incidere sulle indagini e decidere sugli assetti interni.

Cos'è e come è nata la Faida del Gargano. Origine e omicidi di una scia di sangue nata per un furto di bestiame, oramai 30 anni fa, scrive il 9 agosto 2017 "L'Agi". La strage di stamani nei pressi della vecchia stazione di San Marco in Lamis ha riacceso le luci sulla sanguinosa faida del Gargano, storie di sangue e di orrore tra le rocce e le campagne del promontorio che si affaccia come uno sperone sull’Adriatico. In realtà sarebbe più corretto parlare di faide visti i filoni di una vicenda dalle tante articolazioni e che si snoda per diversi decenni. 

Origine di una faida. Numerose le famiglie del Gargano coinvolte nella cosiddetta faida, una guerra nata per questioni di abigeato e poi trasformatasi in lotta per il controllo del territorio e dei traffici illeciti. La più nota è quella tra i Li Bergolis e gli Alfieri-Primosa di Monte Sant’Angelo. Una guerra iniziata oltre 30 anni fa e scandita da oltre 30 omicidi, altrettanti tentativi di omicidio e decine di casi di lupara bianca. Un tempo alleati dei Li Bergolis e del capo famiglia Francesco, detto “Ciccillo” vi erano anche i Romito, con l’ultimo boss rimasto ucciso a colpi d’arma da fuoco stamani sulla provinciale 272. Poi l’alleanza subisce una rottura e anche queste due famiglie entrano in guerra uccidendosi tra loro.

Una catena di omicidi e corpi nelle grotte. Un’altra faida è quella di San Nicandro Garganico tra i Tarantino e i Ciavarrella tra le più cruente e feroci di quelle pur crudeli del Gargano. Tutto inizia con il furto di un bovino. La catena di delitti comincia il 28 marzo del 1981 quando scompaiono nel nulla - forse inghiottiti per sempre da una delle grotte garganiche o, secondo alcuni, dati in pasto ai maiali - cinque componenti della famiglia Ciavarrella: Matteo, di 57 anni, la moglie Incoronata Gualano, di 55, e i tre figli, Nicola, Giuseppe e Caterina, di 17, 16 e 5 anni. Per questa strage è stato condannato all´ergastolo Giuseppe Tarantino, primo di otto fratelli. Matteo aveva testimoniato nel processo del furto di bovino e doveva essere vendicato. Diciassette gli omicidi contati sino ad oggi che hanno l’unico obiettivo di eliminare il rivale che porta quel cognome. E quando tutti i Tarantino o i Ciavarrella sono praticamente estinti si passa ad eliminare i cognati. Una faida che racconta anche la storia di una donna, diventata collaboratore di giustizia, che prima è sposata ad un Tarantino e poi diventa l’amante di un Ciavarrella.

Un'altra guerra, a Vieste. Poi c’è l’ultima guerra quella che si sta svolgendo a Vieste dopo il vuoto di potere creato dall’omicidio di Angelo Notarangelo, detto Cintaridd ucciso nel gennaio del 2015, secondo alcuni da qualcuno che gli era amico e che voleva scavalcarlo. Famiglie in guerra tra loro ma che a seconda della convenienza si alleano tra loro anche con qualche clan della Società, la mafia di Foggia. Una guerra tra ex allevatori ora diventanti imprenditori dei traffici illeciti, tra cui droga e le estorsioni, storie di famiglie legate da un lungo filo rosso di sangue.

La faida mafiosa del Gargano che ora ammazza anche d’estate. In due anni 29 omicidi, i clan abbondano di armi. La fama di killer infallibili dei «montanari». Lo scontro tra le famiglie di Manfredonia e Monte Sant’Angelo non rispetta più nemmeno il tacito patto che metteva al sicuro la stagione turistica, scrive Gianni Santucci il 10 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera".  La mafia del Gargano ammazzava sempre d’inverno. Perché tra luglio e agosto la costa accoglie i turisti, alberghi e ristoranti stracolmi, l’Italia conserva intatta l’immagine del paradiso turistico di buona cucina e acque cristalline: e non deve (non doveva) sapere che quell’industria così florida, in provincia di Foggia, viene taglieggiata senza tregua e senza pietà dalle estorsioni della criminalità organizzata. Questa era la ratio di quella legge sotterranea: mai sangue d’estate. E invece il 27 luglio scorso, nel centro storico di Vieste, in una pozza di sangue i carabinieri hanno raccolto il cadavere di Omar Trotta, 31 anni, pregiudicato, ammazzato davanti alla moglie e in mezzo ai turisti.

Poi arriva il 9 agosto, data che farà storia in quest’epica balorda: non un omicidio, ma una strage d’estate, per ammazzare un capo clan di Manfredonia, Mario Luciano Romito, 50 anni. Conta anche (e molto) il luogo, San Marco in Lamis, paese dell’interno garganico attaccato a San Giovanni Rotondo, dove mercoledì, come ogni giorno, gli autobus turistici hanno accompagnato i devoti di San Pio. E così bisogna aggiornare le statistiche: dodici omicidi negli ultimi tre mesi in provincia di Foggia, 29 morti ammazzati in poco meno di due anni, tentati omicidi a ripetizione, un’autobomba esplosa nel 2014, una disponibilità di armi da Paese balcanico: eccola, la guerra di mafia più feroce e dimenticata d’Italia. Che sia degenerata, lo testimonia la mattanza di mercoledì: azione da guerra sotto il sole d’agosto.

Tre anni fa, durante un’audizione davanti alla Commissione parlamentare sulle intimidazioni agli amministratori locali, l’allora questore di Foggia, Piernicola Silvis, raccontò: «Se un’autobomba esplode qui, non lo viene a sapere nessuno. Queste cose devono essere dette, perché non possiamo aspettare, all’italiana, il morto eccellente, che ammazzino un procuratore della Repubblica, o un bambino, o che facciano una strage con qualche morto innocente per ricordarci che a Foggia c’è un’associazione criminale di stampo mafioso». Il bambino hanno rischiato d’ammazzarlo a settembre 2016, nell’agguato al boss Roberto Sinesi una pallottola ha trapassato la scapola del nipote, 4 anni (si sono salvati entrambi). Solo nell’ultimo anno e mezzo la Squadra mobile di Foggia ha chiuso quattro inchieste e arrestato oltre cento persone per armi, estorsioni, agguati, omicidi. Mercoledì infine, a quanto pare, sarebbero morti due «innocenti». Silvis è appena andato in pensione, oggi è solo uno scrittore (il suo ultimo romanzo, Formicae, è ambientato in quelle zone), e riflette: «In questi anni c’è stato un grande disinteresse dell’opinione pubblica nazionale; forze dell’ordine e magistratura lavorano, ma solo se l’Italia si accorge di questa situazione il contrasto alla criminalità organizzata potrà essere più determinato».

Nelle guerre di mafia ci sono i «miracolati» e i «morti che camminano». Mario Luciano Romito rientrava in entrambe le categorie. Miracolato, anzi, lo era due volte. Scampato prima a una bomba nel cofano della sua Audi A4, il 18 settembre 2009; uscito poi soltanto ferito da una Lancia Y10 investita dalle pallottole l’anno dopo, il 27 giugno 2010 (suo nipote Michele morì nell’agguato). Pochi giorni fa, uscito dal carcere, il miracolato Romito è dunque tornato nella sua Manfredonia da sorvegliato speciale (per carabinieri e magistrati), ma soprattutto da morto che camminava, per il clan rivale. Sentenza da eseguire senza attesa, evidentemente: l’hanno ammazzato d’estate e con una strage. I gruppi mafiosi del Gargano sono conosciuti come «montanari» e hanno la fama di sicari infallibili. C’è una vecchia faida: Romito di Manfredonia contro Libergolis di Monte Sant’Angelo. Un tempo alleati, dal 2009 hanno iniziato a trucidarsi dopo un maxi processo (oggi si parla di «eredi» dei Libergolis, perché i boss sono in carcere o al cimitero). Nel Gargano, però, c’è anche un altro scontro in corso, iniziato dopo l’omicidio del boss Angelo Notarangelo, nel gennaio 2015 a Vieste. Ogni tanto qualcuno scompare: e si dice che finisca a pezzi nelle mangiatoie dei porci. L’ultima sparizione in zona è del 26 maggio 2017.

La mafia più pericolosa di Cosa nostra e ‘ndrangheta di cui non avete mai sentito parlare. In Puglia opera da anni una mafia più subdola delle altre: quella del foggiano. Ecco come ne parlano gli uomini delle istituzioni, scrive il 10 Agosto 2017 "TPI". Criminalità garganica: peggio della mafia e della ‘ndrangheta. La più agguerrita e pericolosa nel panorama nazionale. Uccide senza pietà, nasconde i corpi e li flagella con colpi di pistola alla nuca. In 30 anni di faida ha provocato oltre 250 omicidi. La mafia in Puglia fa tremare anche le istituzioni e le forze di polizia per la capacità di intimidazione. È ignorata dai media, in pochi ne parlano. Eppure il bollettino di guerra è in costante aumento per furti, omicidi ed estorsioni. La provincia di Foggia vive una forte criticità dal punto di vista della sicurezza urbana, come dimostra l’attacco avvenuto nella notte tra il 4 e il 5 marzo 2017 contro le auto della polizia a San Severo, nel foggiano. Alcuni colpi di arma da fuoco sono stati esplosi contro gli automezzi del reparto Prevenzione crimine, che si trovano in città per un controllo rafforzato del territorio disposto dopo i recenti episodi di criminalità. Franco Miglio, sindaco di San Severo e presidente della provincia di Foggia, ha parlato di “attacco alle istituzioni”. In questo territorio lo Stato è debole, inadeguato. Sono pochi i magistrati della Direzione distrettuale antimafia e sono troppo pochi gli uomini delle forze dell’ordine. Il comando generale dell’arma dei carabinieri ha istituito di recente l’unità operativa dei Ros (raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei carabinieri) che sarà coordinato dalla procura di Bari per competenza territoriale in materia di indagini. “È la mafia in cui non ci sono pentiti, ed è difficile poter approfondire le indagini”, spiega a TPI Giuseppe Volpe, procuratore della Repubblica di Bari. “Pochi sono gli uomini e, forse, poco preparati a indagini eterogenee. Non solo: ha operato per anni senza fare rumore e ha potuto rafforzarsi grazie al silenzio delle istituzioni, del mondo della politica e dell’informazione”. Insomma, sui Monti del Gargano, è nata la nuova mafia. Una mafia giovane che gestisce il traffico di armi, droga, il racket delle estorsioni nell’ambito commerciale e turistico. Ha rafforzato i suoi interessi internazionali con solidi rapporti tra l’Albania e i Balcani. Nei sui omicidi utilizza un linguaggio tradizionale: la spietatezza. “La stampa nazionale non è mai stata attenta alle dinamiche criminali in Puglia”, prosegue Volpe. “Fatti e sviluppi sono poco conosciuti all’opinione pubblica. Eppure, la criminalità garganica è una organizzazione intelligente in cui non ci sono affiliazioni ma, solo gerarchie familiari in cui non è possibile pentirsi”. “Mancano i collaboratori di giustizia. Ammetto che abbiamo carenza di uomini e di bravi investigatori capaci di infiltrarsi nel tessuto criminale foggiano. La Commissione antimafia ci ha convocati solo una volta nel 2014 in un’audizione parlamentare. Poi, stranamente, il silenzio”. Ed ecco, quindi, lo sconforto. Il metodo utilizzato degli inquirenti è unico, ma la trama della criminalità nel foggiano è più complessa. Sono almeno tre organizzazioni che agiscono in piena autonomia. C’è la mafia di Cerignola, specializzata nelle rapine ai portavalori; c’è la mafia del Gargano, che opera nel tavoliere; e c’è la Società foggiana, la mafia di Foggia città.

La Società foggiana. L’origine della Società foggiana risale al 5 gennaio 1979, quando alcuni esponenti criminali della zona si raccolgono nell’hotel Florio di Lucera, per incontrare Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova camorra organizzata. Cutolo tenne il primo incontro e organizzò la struttura criminale. Il suo obiettivo era quello di estendere la sua filiera di influenza in Puglia e creare un nuovo polo mafioso. “La criminalità garganica è senza padrini e senza coppola”, ha detto a TPI Piernicola Silvis, questore di Foggia. Dopo il suo arrivo in città nel 2013, fu fatta esplodere una macchina piena di tritolo nei pressi della questura. Forse un avvertimento per intimidire un investigatore esperto. Silvis è nato e cresciuto a Foggia, conosce tutte le dinamiche criminali. Quindi, uno bravo da sopraffare e da reprimere. Un atto di sfida. “Non è la mafia siciliana o la ‘ndrangheta calabrese: è peggio”, continua Silvis. “Uccide in silenzio facendo sparire i corpi degli infedeli. Una spregiudicatezza inaudita, senza eguali. In questa splendida terra, purtroppo, prevale l’omertà. Nessuno parla, nessuno denuncia. Insomma, manca il coraggio. La paura è tanta”. Nel Gargano non arrivano solo i fedeli devoti a Padre Pio e San Michele Arcangelo. C’è il flusso di oltre duemila turisti che fa gola alle organizzazioni criminali. Un business in cui è difficile sottrarsi al racket. E tutti, dunque, devono rispettare le regole che impongono i boss: pagare il racket per evitare di vedersi polverizzare il proprio ristorante o attività commerciale. Miliardi di soldi riciclati e rinvestiti nelle costruzioni edili, in società di trasporti, in attività illecite legate anche al commercio del pomodoro. Una rete che non perdona, anzi, ramifica. Tanti sono gli omicidi legati al rifiuto del pizzo e tanti sono quelli che sono scampati alla morte. Ma, nonostante tutto, si continua a pagare. Il rifiuto non è gradito alla criminalità, ammazza. “La mafia di Capitanata è una delle mafie più difficili da affrontare sul piano del contrasto investigativo”, ha detto a TPI Giuseppe Gatti, componente della Direzione distrettuale antimafia di Bari. Gatti segue da anni le inchieste riguardanti l’area foggiana. È l’unico magistrato sotto scorta della procura barese. “Siamo di fronte a una vera emergenza nazionale. Si tratta di una mafia che si caratterizza per una saldezza del vincolo mafioso. Mentre, l’altra peculiarità è data dalla disumanità, retaggio derivante dalla camorra cutoliana. Gli elementi che tengono saldo il vincolo mafioso sono: il familismo; il solidarismo e il pragmatismo. Dalle ultime indagini emerge una organizzazione moderna con una grande capacità organizzativa”.

Sotto scorta il pm che incastrò la mafia garganica: «Non dimenticano». Nuove minacce a Domenico Seccia, attuale procuratore a Fermo, dal 2003 indagò sulla faida ottenendo le condanne per mafia. Recentemente un pentito dal carcere Udine ha parlato di un attentato, scrive Nicola Pepe l'11 Agosto 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Era una mafia più immaginata che dimostrata»: questo scrissero i giudici della Corte di assise di appello di Bari nel 2001 quando assolsero gli imputati, considerati alla stregua di quattro montanari. Quella sentenza, dieci anni dopo, venne smontata pezzo dopo pezzo grazie al lavoro di un magistrato, Domenico Seccia, nel giugno del 2003 diventato sostituto procuratore della Dda di Bari si occupò del Gargano portando a giudizio 100 persone e facendo riconoscere il reato di mafia anche ai Libergolis ritenuti i nemici dei Romito. Un lavoro che Seccia (da 4 anni procuratore a Fermo, dopo aver diretto la Procura di Lucera) ha tradotto in un libro, la Mafia innominabile (160 pagine) «vecchio» ormai di sei anni ma ora più attuale che mai, e poi con un altro testo «La mafia sociale». Ci sono voluti 30 anni e decine di morti ammazzati per sostituire la parola «faida» con «mafia» e rendendo reale quelle che per tanti lustri era stato ritenuto irreale. Da più di 10 anni Seccia ha la scorta: ha avuto lettere anonime proiettili e, di recente, nuove minacce sono giunte da un pentito che ha riferito di aver appreso nel carcere di Udine un progetto di attentato contro il magistrato.

Procuratore, lei è stato il pm che ha dimostrato processualmente la mafia garganica. Non è stato facile, vero?

«Nel 2003, appena nominato in Dda, in soli sette giorni mi arrivarono in ufficio 72 fascicoli relativi a fatti del Gargano. Una enciclopedia del crimine su sparatorie, omicidi, bombe, estorsioni: tanti episodi apparentemente separate ma che riuscii a mettere insieme tra di loro».

Cosa fece subito?

«Presi una mappa del territorio (da San Nicandro Garganico a Monte Sant’Angelo, da San Giovanni Rotondo sino alle città marine), la attaccai al muro e iniziai a piantare le bandierine, come nei film. E via a coordinare indagini per dimostrare che la mafia esisteva».

Quella del Gargano è considerata una mafia diversa da quella foggiana?

«La mia idea, suffragata da sentenza ormai passate in giudicato, è che mafia foggiana e mafia garganica rappresentano un unicum. Questa strategia investigativa si è sempre rivelata vincente».

La strage di mercoledì è legata a fatti vecchi?

«Quella gente non dimentica mai. Non ho elementi per confermare che si tratti di una vendetta, anche se ho una mia idea, e non escludo che probabilmente la causa possa ricercarsi in traffici illeciti, tra cui la droga. Posso solo dire che quella gente non si fa scrupoli e questa strage potrebbe non restare impunita».

Sul Gargano non si pente nessuno, è così?

«Personalmente ho gestito diversi collaboratori. Ci sono stati pentiti importantissimi ben oltre il 2007, tra i quali Rosa Lidia Di Fiore, che ci ha permesso di sgominare la mafia sannicandrese (riconosciuta dalla Cassazione), o Antonio Catalano che ci ha svelato i rapporti interni alla mafia garganica e lucerina, rivelandoci anche i legami con la mafia foggiana; oppure c'è anche il pentito Scarano che ci ha consentito di fare luce sui rapporti con il clan Tedesco».

Lei è convinto che la mafia garganica sia diversa da Scu, n'drangheta e altro?

«Assolutamente sì. Non ho mai visto un territorio così esteso controllato da un'associazione mafiosa. Quando fu catturato Franco Libergolis, scoprimmo che si nascondeva a Borgo Rosso, località che non figura neanche sul Catasto. Ci riferì di aver sentito dal suo nascondiglio il rumore di un passaggio di cavalli (il reparto Cacciatori di Calabria, gli stessi che manderà Minniti insieme ai droni, ndr)».

Qual è secondo lei la soluzione?

«Nessuno ha la bacchetta magica. Non bisogna mai smettere di indagare sul vincolo associativo per sapere chi riveste ruoli all'interno di ciascun gruppo. Di certo, dopo gli arresti e le condanne per due o tre anni, il il Gargano ha vissuto un periodo di quiete».

Le hanno confermato la scorta. Un pentito, da Udine, avrebbe appreso in carcere di un progetto contro di lei. 

«Di questo non posso parlare».

Mafia del Gargano, ci sono voluti altri morti per far arrivare Minniti. Per avere la presenza a Foggia del numero uno del Viminale si è dovuto aspettare l'ennesima carneficina di questa guerra. A cui non si vuole dare il bollo di associazione mafiosa. Ma che sta facendo troppe vittime innocenti, scrive Lirio Abbate il 10 agosto 2017 su "L'Espresso". È una zona del meridione consegnata da troppi anni nelle mani delle mafie. È il Gargano. È la provincia di Foggia, dove si continua a uccidere, e in questa guerra di mafia finiscono inesorabilmente anche vittime innocenti, come in tutte le guerre. Giornalisticamente la chiamiamo “mafia del Gargano”, ma giudiziariamente non c'è ancora una sentenza con la quale si può mettere il bollo per associazione mafiosa. E nemmeno sull'aggravante mafiosa. Agli imputati che investigatori e magistrati hanno portato anno dopo anno davanti ai giudici per chiederne la condanna per mafia, questa è stata ribaltata. Sempre assolti da questo reato, giudicati solo come banditi semplici. Criminali che però agiscono sotto la guida di un capo, di un boss che comanda una famiglia, un clan, i cui componenti vengono impiegati per intimidire, preparare attenti a cantieri e attività commerciali, e poi uccidere. Uccidere i rivali. Per questo è guerra. E in mezzo ci sono i cittadini che sono costretti a subire le aggressioni e a convivere con la paura. Vieste è una cittadina turistica di 14 mila abitanti che negli ultimi decenni, grazie all’intraprendenza di tanti imprenditori, ha conosciuto uno straordinario sviluppo turistico valorizzando le risorse del mare, delle spiagge e dell’ampia foresta umbra e si è imposta come una delle mete turistiche del mezzogiorno. Oggi dispone di oltre cento mila posti letto, tra censiti e non, e l’intero paese è un grande albergo diffuso; ogni anno le presenze turistiche superano di molto i due milioni. Ma come spesso accade nelle cose belle del Sud, parallelamente, si mettono in moto dinamiche criminali attirate dall’esplosione di ricchezza. Il primo obiettivo di questa criminalità, ovviamente, non poteva essere che gli imprenditori a cui imporre servizi di guardiania e pagamento del pizzo; per chi non ci stava attentati, incendi, danneggiamenti. Questi gruppi criminali nel tempo diventano clan mafiosi e fondano la loro forza su una diffusa sottovalutazione, dall’opinione pubblica alle istituzioni al grido: “Questa non è mafia”. Un ritornello ripetuto anche da uomini delle istituzioni e da alcuni politicanti. Il 29 luglio scorso, a 48 ore dall’ultimo omicidio compiuto a Vieste, durante una seduta urgente del consiglio comunale, aperto proprio sull'emergenza criminalità, il sindaco Giuseppe Nobiletti, un giovane avvocato, famiglia di albergatori, uno dei fondatori dell’associazione antiracket della cittadina, insieme ai consiglieri fa votare un documento con il quale chiedono un incontro urgente al Ministro dell’Interno Marco Minniti: non si tratta, come spesso accade in casi di questo tipo, di chiedere uomini, mezzi o sedi di forze dell'ordine. Il sindaco è chiaro in quello che dice: «Non chiediamo l’esercito a Vieste, chiediamo semplicemente che ci venga data la giusta attenzione». Ci sono voluti, dal 29 luglio, altri quattro morti da aggiungere a questa guerra di mafia per far arrivare a Foggia il ministro dell'Interno che ha annunciato, dopo questa ennesima carneficina a San Marco in Lamis, in cui sono caduti anche vittime innocenti, la presenza del numero uno del Viminale. Il vantaggio che la mafia del Gargano ha avuto, e continua ad avere, è questa condizione di marginalità mediatica nazionale che gli è stata data. Al contrario, purtroppo, gli abitanti di questo vasto territorio, la percezione mafiosa la vivono ogni giorno. E la vogliono contrastare. Nel 2009 un gruppo di operatori turistici, sostenuti anche da Tano Grasso che all'epoca era presidente della federazione antiracket italiana, inizia a reagire all’intimidazione delle bombe; nasce l’associazione antiracket, arrivano le prime denunce e inizia la collaborazione con l’autorità giudiziaria. Si ha così il primo di alcuni processi contro gli estortori di Vieste, il più noto è stato chiamato processo “Medioevo”. Un dibattimento durato a lungo, segnato dalle testimonianze degli operatori economici che raccontavano ai giudici anni di violenze e soprusi; ogni mattina in cui si sarebbe svolta la testimonianza della vittima, da Vieste partiva un bus sul quale salivano commercianti e operatori turistici per accompagnare i colleghi in tribunale e far sentire la solidarietà e il sostegno dell’intera città a chi si esponeva con la propria testimonianza nell’aula di giustizia, davanti agli imputati. Il 4 febbraio 2014 arriva la sentenza: gli imputati vengono condannati per estorsione, ma per i loro delitti, contro la richiesta dell’accusa, non si riconosce l’aggravante mafiosa. L’effetto è semplice, a poco a poco gli imputati vengono scarcerati, tornano in giro nel paese. Nelle scorse settimane la Corte d’Appello di Bari ha riconosciuto l’aggravante mafiosa ad un imputato. Non ci vuole molto, purtroppo, perché siano “i fatti” a ribaltare quella sentenza. Colui che al processo era indicato come il “capo”, nel gennaio 2015, viene ucciso durante un raid mafioso ed è il primo di una lunga scia di omicidi che sta insanguinando questo territorio. Adesso sono queste azioni di morte che impediscono la possibilità di negare l’esistenza della mafia: se non sono bastate le denunce degli imprenditori, questi omicidi fugano ogni dubbio.

Mannino: «All’antimafia piace il Palazzo Che ne sa di Foggia?», scrive Riccardo Tripepi il 12 Agosto 2017 su "Il Dubbio". L’ex ministro Calogero Mannino analizza la strage di mafia di Foggia e l’atteggiamento di tutti quelli che si dovrebbero interessare di antimafia. «La strage di mafia avvenuta a Foggia e le considerazioni formulate da Piero Sansonetti nel suo editoriale dovrebbero far aprire una riflessione profonda e precisa sulla quale occorrerebbe una meditazione da parte di tanti». Non ha dubbi Calogero Mannino, esponente di spicco della Dc degli anni ’ 80 e più volte ministro della Repubblica. Mannino, da poco assolto dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato nel processo stralcio per la trattativa Stato- mafia, si prepara al giudizio d’appello. Per come fortemente voluto dalle parti civili: Comune di Firenze, Associazione vittime della strage di via Georgofoli e le Agende Rosse. Una lunghissima vicenda giudiziaria, partita negli anni ’ 90 e ancora in corso che ha segnato praticamente un’intera esistenza. «Credo che nel corso degli ultimi trent’anni sia avvenuto quello che all’inizio è stato previsto da Sciascia e cioè la costituzione di organizzazioni antimafia all’interno delle quali la militanza civile si è trasformata in una compagnia di canto. Compagnie che hanno non denunciano la criminalità in quanto tale, ma la valutazione delle possibili implicazioni, inerenze e collusioni della politica o di segmenti di società civile. Siamo arrivati perfino al punto di fraintendere il romanzo di Sciascia, attribuendo all’autore quasi una simpatia per don Mariano ed, invece, nessun libro di sociologia o criminologia ha mai rappresentato così lucidamente la mafia nel suo contesto storico e sociale, pieno di equivoci e contraddizioni».

Ma formare ed educare le giovani generazioni è fondamentale specie negli ambienti più a rischio…

«Le racconto un episodio. Non molto tempo fa entro dal barbiere per portare mio nipote a tagliare i capelli. Il salone è pieno e ci sono tanti giovani che attendono il proprio turno. Due di loro sono “sotto” i due barbieri che tagliano loro i capelli per come richiesto alla Genny, con la cresta centrale. Ho fatto una domanda per capire e ho scoperto che Genny è un personaggio di Gomorra. In buona sostanza i giovani copiano comportamenti e costumi dei criminali. Mi pare evidente quindi che l’antimafia non mette in guardia la società civile, né provvede alla formazione delle coscienze all’interno dei vari gradini in cui è articolata la società. L’antimafia è solo una compagnia di canto che esercita la strumentalizzazione politica».

La ritiene una stortura degli ultimi anni?

«Credo sia sempre stato così. Nessuno, per esempio, ha il coraggio di ricordare che i primi nuclei di antimafia, insieme ai loro giornalisti di riferimento, erano contro Falcone e Borsellino».

Vede anche delle responsabilità degli organi di informazione dunque…

Mi pare che il modo con cui sia stata trattata la strage di Foggia lo dimostri in modo evidente. Il giornalismo non c’è più e non si occupa dell’esistenza della criminalità. Gli omicidi in Puglia sembrano una roba da anni ’ 70 e ’ 80 in Sicilia. Eppure nessuno se ne è interessato, a dimostrare che se la mafia uccide, l’antimafia se ne infischia. Ed insieme a lei, in modo parallelo anche alcuni uffici giudiziari e un certo giornalismo. Conseguenza inevitabile di un’onda lunga che vede l’antimafia come strumento di lotta politica che ha generato processi privi di fondamento».

Si sta riferendo anche alla sua vicenda personale?

«Mi limito a ricordare che tutto nasce nel momento in cui il governo Andreotti decide di azzerare l’alto commissariamento contro la mafia, comprese le sue strutture parallele. Una decisione che ha creato piccoli nuclei di riferimento per l’antimafia e un certo giornalismo. Basta incrociare i nomi di associazioni e giornalisti di due o tre riviste siciliane che hanno fatto da battistrada. Un processo privo di fondamento basato sulla dichiarazione di qualche pentito e dimenticando che sono stato il primo e il più tenace sostenitore dell’introduzione nell’ordinamento dell’articolo 416 bis. Già nel 1979 mi ero fatto dare l’incarico di preparare la mozione conclusiva della Commissione antimafia Cattanei da portare all’esame del Parlamento. Evidentemente qualcosa andò storto».

Che cosa?

«Dovevano entrare dei nomi nella relazione che io mi rifiutai di far entrare ed evidentemente sono diventato uno da contrastare, nonostante il mio impegno profuso nella lotta alla mafia e un lavoro che poi ha portato alla legge Rognoni- La Torre che per molti si dovrebbe chiamare legge Mannino».

Sta descrivendo una strumentalizzazione politica contro di lei?

«Le racconto un altro episodio. All’aeroporto di Palermo Falcone- Borsellino, sotto la scritta che intitola lo scalo ai due giudici, c’è uno striscione “io sto con Di Matteo” (ndr: il pm del processo). Psichicamente queste baracchette me le sono trovate dentro processo. La giusta scelta di consentire nei processi contro i mafiosi la presenza delle parti civili, adesso è diventata un mestiere. Si è formata una squadra che si avvale anche di avvocati e giornalisti. Non esiste in un Paese civile che si possa condizionare un processo per la presenza di parti civili che non avrebbero neanche un titolo legale per prendervi parte. Proseguendo così si corre il rischio, come già visto nel mio processo e in quello Andreotti, che l’antimafia favorisca la mafia facendo perdere di vista i veri fatti criminali».

Come recuperare il giusto equilibrio?

«Credo che la battaglia di Sansonetti sia prima di tutto una battaglia di onestà. Questi comitati antimafia con tutte le loro derivazioni e implicazioni vanno messi all’attenzione del Parlamento e della politica. Il fenomeno dovrebbe essere messo a fuoco anche dal giornalismo che dovrebbe tornare a fare giornalismo d’inchiesta e non essere solo giornalismo militante. Altrimenti continueremo ad essere sempre lontani dalle responsabilità e dalla verità e continueremo ad inseguire soltanto ombre».

Se la mafia uccide l’antimafia se ne infischia, scrive Piero Sansonetti l'11 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Giornali, politici, intellettuali anti-mafia ignorano la strage di mafia di San Marco in Lamis, in provincia di Foggia. L’altro giorno nelle campagne di San Marco in Lamis, provincia di Foggia, la mafia pugliese ha trucidato quattro persone. Due delle vittime forse erano anche loro legate ai clan, le altre due erano due contadini di passaggio, che hanno visto e hanno provato a scappare, ma sono stati inseguiti, raggiunti e scannati sul posto, perché erano testimoni pericolosi. Mi pare che una strage mafiosa di queste dimensioni e di questa ferocia non avvenisse da diversi anni, forse dobbiamo risalire alla mattanza di Duisburg di dieci anni fa per trovare un precedente. Eppure sulla stampa non ha avuto grande risalto. Guardavo ieri mattina le prime pagine dei giornali più legati all’idea di giornalismo gridato (e cioè Libero, il Giornale, Il Fatto Quotidiano e La Verità) ma la notizia della strage pugliese non appare. Zero titoli, zero righe. Neppure sulla prima pagina di un giornale di livello intellettuale decisamente superiore, come il manifesto, ci sono titoli né righe. La compagnia dell’antimafia che se ne infischia delle cosche. E sui giornali che invece se ne occupano non ho trovato dichiarazioni di esponenti politici nazionali, o di uno dei capi della commissione parlamentare antimafia. Neanche ho visto interviste a magistrati del settore. Fatto insolito. L’unico che si è occupato della cosa – oltre al ministro Minniti è il Superprocuratore Roberti, e la cosa va a suo merito. Non mi indigno, perché la bellezza del giornalismo – e della politica, e forse anche della magistratura – è che ciascuno è autorizzato a valutare le notizie come crede. Però mi stupisco un po’. Perché mi pareva che un omicidio plurimo così feroce – al di là di come la si pensi sulla politica, o sulla mafia, o sulla giustizia – fosse degno di essere preso in considerazione dal sistema dell’informazione. E potesse suggerire delle riflessioni, anche importanti, su eventuali novità nel pianeta mafioso. Tanto più che siamo in pena estate, le notizie mancano e molti giornali, proprio ieri, per trovare un titolo da mettere in prima pagina si sono dovuti occupare di un certo Gianluca Vacchi, che io non ho ancora capito bene chi sia e perché sia famoso, oltre che per una discreta quantità di muscoli e – pare – di milioni. Però questa situazione mi spinge a due riflessioni serie. Una delle quali riguarda la mafia e l’altra riguarda il giornalismo. Partiamo dalla mafia. Da molti anni l’intellettualità italiana è attiva sul tema della lotta alla mafia. Per lei è un fiore all’occhiello. L’antimafiosità dell’intellettualità italiana è la prova della sua tempra morale. E schierata compatta dietro ogni iniziativa della magistratura. In particolare lo sono alcuni giornali, e sicuramente – ad esempio – il Fatto è tra questi. Come mai, invece, sulla strage di Foggia questo disinteresse? Temo che la spiegazione sia scritta in quel famoso articolo di Leonardo Sciascia, che negli anni ottanta, con una geniale intuizione, segnalò l’esistenza dei «professionisti dell’antimafia». All’inizio questa categoria riguardava un certo numero di persone che combatteva realmente la mafia, e poi faceva della lotta alla mafia uno strumento politico, o di potere, o di carriera. Successivamente si è sviluppata, col tempo, si è trasformata in “compagnia antimafia”, si è allargata a dismisura, ha conquistato la commissione parlamentare ( che si è messa alla sua testa, insieme a un paio di intellettuali doc e qualche giornalista) ed è diventata un luogo dove nessuno sa niente di mafia, nessuno si occupa di combatterla, ma in molti si applicano alla possibilità di usare la categoria dell’antimafia per ragioni di lotta politica e come strumento per manganellare gli avversari. Si è creata una completa scissione e autonomizzazione tra mafia e antimafia. Si è persa ogni connessione. L’antimafia esiste a prescindere dalla mafia e non è molto interessata all’evoluzione della mafia. E’ indipendente. Così succede che se per caso in un paese del casertano arrestano un assessore e lo accusano di concorso esterno in associazione mafiosa, l’intera compagnia dell’antimafia scatta come un sol uomo, e grida contro quest’assessore, e lo dichiara colpevole, e chiede conto al suo partito e ogni tanto chiede anche le dimissioni del ministro dell’Interno. Non parliamo dell’ipotesi che nella città più grande d’Italia vengano arrestati un po’ di tangentari incalliti e anche loro colpiti col famoso articolo 416bis (associazione mafiosa), anche se abbastanza presto appare a tutti evidente che la mafia non c’entra nulla. Titoli a nove colonne (si diceva così una volta) su tutti i giornali per giorni e giorni, riunioni, dichiarazioni, sit- in, flash-mob, fiaccolate e convegni. E molta indignazione su Facebook. Se poi la mafia, la mafia vera, attuale, vivente, prende un kalasnikov e cosparge di sangue la campagna di Foggia, tutti pensano che sia un piccolo fatto di cronaca nera, da lasciare ai neristi. Perché? Esattamente per la ragione che dicevamo prima. Loro dicono: «Noi siamo l’antimafia, che ci importa a noi della mafia?». L’avete vista, ieri, Rosy Bindi? Macché. Si è occupata recentemente del campionato di calcio, delle tifoserie, di come si fanno i giornali, ha interferito nella compilazione delle liste elettorali, ma una strage mafiosa non sembra materia per la sua commissione. La seconda riflessione riguarda di striscio la questione mafiosa, ma riguarda il giornalismo. E il modo nel quale sta evolvendo. Sempre più lontano dai fatti, dalle cose che succedono, da quelle che una volta si chiamavano le notizie. E’ attratto da tutt’altro. Il giornalismo è sempre stato un campo di battaglia politica, e lo è in tutto il mondo. Persino negli Stati Uniti, dove forse esiste il giornalismo migliore e più moderno del pianeta, la politica c’entra sempre ed è uno dei campi di azione Da noi però sta avvenendo un completo ribaltamento della struttura del giornalismo. Il giornalismo sta diventando – per un numero sempre crescente di giornali – esclusivamente uno strumento di battaglia politica. E le notizie che non abbiano implicazioni nella battaglia politica sono diventate prive di interesse. Una volta alla riunione di redazione si elencavano prima tutte le notizie, poi si decideva come occuparsene, in quale gerarchia ordinarle, ed eventualmente come commentarle e come costruire su di esse delle battaglie politiche o culturali. Oggi alla riunione di redazione si decide che battaglia aprire (in genere è una battaglia contro Renzi…) e poi si vede se ci sono notizie che possono essere utili per questa battaglia, e si lavora su di esse. Tutte le altre notizie, se c’è posto, nelle ultime pagine.

Puglia, la caccia abusiva in mano ai clan: la criminalità controlla anche il business dei bracconieri. I clan foggiani che hanno messo le mani su un business lucroso. E il gelo di questi giorni sta peggiorando la situazione: senza cibo e acqua, gli uccelli si spingono in territori più esposti, scrive Chiara Spagnolo il 17 gennaio 2017 su "L'Espresso". Un posto fisso per la caccia "regolare" in Capitanata può costare fino a 40mila euro l'anno, uno abusivo almeno 10mila in meno: si scrive 'caccia non consentita' e si legge bracconaggio, gestito dai clan foggiani che hanno messo le mani su un business lucroso, trovando nei campani i clienti più spregiudicati e facoltosi. Dalla provincia settentrionale della Puglia a quelle della Campania i chilometri sono pochi e acquistare un posto in capanno o bunker - nel Parco del Gargano così come nelle saline di Margherita di Savoia, vicino al lago di Lesina o sulle alture della Daunia - è per molti un buon antidoto alla noia domenicale. Per capirlo basta fare un giro nei bar di paese e ascoltare accenti e inflessioni dialettali o affacciarsi alla porta e controllare le targhe dei grossi suv carichi di armi. Il problema del bracconaggio è tornato d'attualità dopo il freddo intenso che ha messo in ginocchio la Puglia a inizio anno e ha indotto Lipu (la Lega italiana protezione uccelli) e Wwf a chiedere alla Regione la chiusura anticipata della caccia consentita e maggiore vigilanza nelle zone martoriate dal gelo. L'ente ha prima illuso gli ambientalisti con un provvedimento di sospensione nel weekend della Befana e poi ha fatto parziale retromarcia, con l'interdizione limitata alla beccaccia e che rischia di determinare un contenzioso giudiziario. Di certo, al momento, c'è che gli uccelli migratori che scelgono la Puglia per il clima più mite rispetto all'Est Europa sono allo stremo. Provati dalla mancanza di cibo e acqua, si spingono in territori più esposti e diventano facili prede, come è accaduto all'oca collorosso abbattuta pochi giorni fa sul lago di Lesina. Si tratta di un anatide originario della Siberia, di cui sopravvivono appena 50mila esemplari e che dovrebbe godere di protezione particolare, come la moretta tabaccata impallinata poche ore prima sul litorale di Zapponeta. Ma il condizionale è d'obbligo, perché tra il passaggio del Corpo forestale nell'Arma dei carabinieri e la soppressione delle Province, che ha di fatto esautorato la polizia provinciale, i controlli sull'attività venatoria sono ridotti al lumicino. E se pure la Regione Puglia, con il Piano faunistico di agosto, ha stanziato un milione 800mila euro per attività che comprendono la gestione delle aree protette e i controlli, resta il fatto che nell'intrico di norme e competenze molto poco si riesce a fare per contrastare l'armata cacciatori. Già quelli iscritti agli Ambiti territoriali provinciali sono un piccolo esercito di 50.142 - 20.030 a Foggia, 13.159 a Bari, 6.167 a Lecce, 5.720 a Taranto, 5.066 a Brindisi - ansiosi di sparare soprattutto a volatili, ma anche a volpi e cinghiali. I residenti fanno la parte del leone, ma i posti a disposizione per gli extraregionali non sono pochi: 801 a Foggia, 526 a Bari, 243 a Lecce, 228 a Taranto e 202 a Brindisi. Su tutto vige la regola della proporzione, con il territorio foggiano trasformato in riserva venatoria, considerato che dei 560.000 ettari di territorio agro-silvo-pastorale, appena 12.000 sono ambiti protetti, mentre più della metà (380.000) sono considerati superficie utile alla caccia. Aree immense e anche poco agevoli alla percorrenza, su cui la difesa del territorio è affidata a forze dell'ordine impegnate in mille altre attività e a sparuti gruppi di volontari. Poche decine sono quelli della Lipu, altrettanti quelli del Wwf, e battono boschi e zone umide. Sono loro a scoprire bunker ricoperti di sabbia e capanni circondati dalle canne. E sono loro a ricevere minacce esplicite, danneggiamenti alle auto e ai posti di osservazione. È accaduto in Capitanata, ma anche in Salento - dove gli irregolari (che cacciano senza permesso o in giorni di silenzio venatorio) si concentrano nell'oasi delle Cesine e nel Parco di Porto Selvaggio - ma anche sulla costa tarantina, in particolare verso le saline di Manduria, o in Valle d'Itria nella zona della Selva di Fasano.

I BASILISCHI. LA MAFIA LUCANA.

I Basilischi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. I basilischi sono un'organizzazione criminale, di tipo mafioso, nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. Grazie ad intercettazioni e all'intervento dello Stato, il 22 aprile 1999 tutti i capi di questa organizzazione sono stati arrestati. Da allora, secondo la procura nazionale antimafia, la criminalità organizzata delle zone del materano, la Val d'Agri e del Melfese sono controllate da cosche che fanno capo alla 'Ndrangheta di Rosarno.

Storia. La nascita. La famiglia dei basilischi nacque agli inizi del 1994, allorquando Giovanni Luigi Cosentino, soprannominato “faccia d'angelo”, un pregiudicato molto noto per le sue passate imprese criminose, all'interno delle carceri di Potenza e Matera iniziò ad avvicinare altri detenuti con l'intento di creare un'organizzazione che, con l'avallo di alcune famiglie malavitose calabresi (e segnatamente quella dei Morabito), avrebbe dovuto riunire tutte le associazioni criminali che sino a quel momento avevano operato in Basilicata: proprio per questo il gruppo veniva denominato famiglia dei basilischi. Ottenuto difatti il nulla osta dalle 'ndrine dei Pesce e Serraino di Rosarno, si formò un gruppo di malavitosi operante in tutta la Regione con a capo Giovanni Gino Cosentino. Quella organizzazione ambiva a diventare la quinta mafia del meridione d'Italia. L'organizzazione venne effettivamente formata da Saverio Mammoliti (detto Don Saru) dei Mammoliti che nominò come capo-società Renato Martorano. Sembra abbiano avuto contatti anche con i Morabito.

Inchiesta "Iena 2". Con l'inchiesta Iena 2, in cui sono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M.), Gianfranco Blasi (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M. nel 2006) e Antonio Luongo, il pubblico ministero di Potenza Vincenzo Montemurro evidenzia un cambio di assetto: l'appalto ottenuto all'Ospedale San Carlo da un'azienda controllata da un gruppo malavitoso campano viene trattato dai Basilischi in prima persona. Da questo si dedurrebbe che il controllo del territorio lucano è in mano al gruppo dei Basilischi che tratta alla pari con le altre mafie assumendo così una sua identità ed autonomia, pur rimanendo legato alla 'ndrangheta.

Operazione "Chewingum". I Basilischi sono stati oggetto di un'inchiesta della procura antimafia di Potenza, "l'operazione Chewingum", che sta tentando di fare luce sulle attività e sulla struttura dell'organizzazione.

Anni 2000. In seguito al maxi-arresto del 22 aprile 1999, che ha incarcerato i capi della cosca, sembra che la 'ndrangheta di Rosarno abbia ristabilito il potere sulla criminalità in Basilicata, destituendo Cosentino e creando sette 'ndrine, composte da malavitosi locali e comandate direttamente da sette calabresi. Nel 2006, nell'inchiesta che ha coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia e il sindaco di Campione d'Italia, vi era anche la famiglia Tancredi del potentino. Secondo la procura antimafia nazionale, le zone lucane colpite da questo fenomeno sono quelle di Policoro, Montalbano Jonico, Pisticci, Scanzano Jonico (dove operano gli Scarcia), la Val d'Agri (dove sono concentrate le risorse petrolifere della regione), e Melfese. Con sentenza del 21 dicembre 2007 il Tribunale di Potenza, composto dai giudici Daniele Cenci, Ubaldo Perrotta e Gabriella Piantadosi, ha accertato l'esistenza della "Famiglia Basilischi". Il 30 ottobre 2012 la Corte d'appello di Potenza ha confermato la sussistenza del clan mafioso dei “Basilischi”.

Attività. Detenzione e commercio di esplosivi. Gioco d'azzardo. Traffico di droga. Traffico di armi. Rapine. Usura.

Affiliati. Sono affiliati all'organizzazione dei Basilischi alcuni membri del clan Scarcia del materano, i melfitani Massimo e Marco Cassotta (quest'ultimo assassinato il 14 luglio 2007), Antonio Cossidente e il salernitano Vincenzo De Risi, il gruppo potentino capeggiato da Renato Martorano (coinvolto nell'inchiesta Iena 2), e a cui appartengono i noti Dorino Stefanutti e Michele Badolato. Tutti i citati sono sotto inchiesta e condannati più volte per reati di stampo mafioso.

Riti. Nel 1996 la polizia ritrova un codice con la descrizione di un rito di battesimo sul monte Policoro che cita come luoghi sacri, il monte stesso, Potenza e il fiume Sinni.

I Casalesi nelle carceri lucane pensano al post-Basilischi. La 'ndrangheta» e l'ex isola felice. La «Famiglia» di Basilicata in uno studio dell'Università di Essex. «Dalle celle i boss potrebbero riorganizzare il clan», scrive Silvia Bortoletto l'11 settembre 2016 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il mito della Lucania Felix, la Basilicata come isola povera ma felice, in un mare inquinato di criminalità e violenza, va sfatato. I tentativi della 'Ndrangheta di costituire una mafia lucana, cui potesse essere affidata la gestione di vari traffici, si registrano sin già dagli anni '60 e '70. La vera indipendenza, però, e l'attribuzione di un nome, famiglia Basilischi, all'organizzazione criminale, avviene nel 1994: l'allora boss della 'Ndrangheta, Peppe Morabito, dà il permesso a Giovanni Luigi Cosentino, detenuto nel carcere di San Gimignano con l'accusa di aver gestito un giro di prostituzione, di costituire un'entità mafiosa autonoma. La Famiglia Basilischi, come tale, ha però vita breve: il 22 aprile 1999, la Procura di Potenza, grazie anche alla cooperazione di un crescente numero di pentiti, emette 84 ordini di custodia cautelare, assestando un duro colpo all'organizzazione. A quel punto i Basilischi devono mutare forma per sopravvivere e, come la 'Ndrangheta, diventano imprenditori di un vero e proprio marchio, che fa capo a diversi clan con vari gradi di affiliazione. Traffico di armi e droga, riciclaggio di denaro, usura, smaltimento illegale di rifiuti, investimenti nell'attività estrattiva del petrolio e gestione di appalti pubblici: sono tante le aree d'interesse cui la mafia lucana si è dedicata nel tempo. Di questo parliamo con Anna Sergi, docente di criminologia all'Università di Essex e co-presidente della commissione post-laurea della British Society of Criminology. La Famiglia Basilischi sembra essersi affermata, così come altre associazioni di stampo mafioso, grazie all'allettante prospettiva di appartenenza ad una setta/confraternita offerta agli aspiranti membri. Ma, a differenza, di altre organizzazioni, i Basilischi sono nati grazie al beneplacito della 'Ndrangheta e grazie all'azione di proselitismo svolta dal carcere di San Gimignano da Cosentino. Non c'era quindi una storia di famiglie dai cognomi conosciuti e temuti? «A livello criminologico, la Famiglia Basilischi è stata un esperimento della ‘Ndrangheta che, da buona «holding» del crimine organizzato, ha deciso di operare un tentativo di «outsourcing», di esternalizzazione delle risorse, in Basilicata. Questo perché molti dei clan della ‘Ndrangheta hanno da sempre l’acume tipico dei businessmen: capire quando e come permettere l’autonomia di gruppi locali per trarne vantaggi economici. La creazione di un gruppo autonomo, la Famiglia Basilischi, è stata «commissionata» a Cosentino in carcere nel 1994, i rituali di affiliazione sono stati ripresi da quelli già esistenti della ‘Ndrangheta, le affiliazioni guidate dai Morabito (nda: potente famiglia della mala calabrese), e, soprattutto, gli accessi ad alcuni dei mercati «concessi» dagli stessi clan calabresi. La Famiglia Basilischi nasce quindi come costola della ‘Ndrangheta, ma si avvale di rituali ancor più mistici, ancora più ascetici; questo per creare quel «collante narcisistico» tipico dei gruppi mafiosi, in un territorio che vergine non era. I gruppi esistenti in Basilicata prima dei Basilischi dovevano, tramite certi rituali, re-inventarsi sotto un nuovo nome e una nuova affiliazione. La «creazione» dei Basilischi deve essere intesa come convincimento di questi gruppi pre-mafiosi ad unirsi sotto una nuova egida con il benestare della ‘Ndrangheta, che, appunto, porta le licenze e gli accessi ai mercati. Sin dagli anni 80, quindi, subito dopo il terremoto dell’Irpinia – con conseguenti investimenti e fondi allocati alla regione – troviamo gruppi criminali locali pre-mafiosi al servizio di altre mafie espansionistiche e avide di accaparrarsi quei fondi e quegli investimenti, soprattutto la ‘Ndrangheta. Fino al 1989 abbiamo delle autorità disattente e dei media ancora più ciechi; e il mito della «Lucania Felix», di un territorio non affetto dal morbo mafioso, è stato il mantra ripetuto per tutto il decennio. Nel 1990, il nuovo Procuratore Generale di Potenza, inizia un’operazione di riconoscimento delle situazioni pre-mafiose sul territorio e inizia a setacciare la zona per ricondurre estorsioni, omicidi – le faide inter-clan di Montescaglioso da fine anni Ottanta - , atti di violenza – incendio doloso al Municipio di Melfi -, arricchimenti veloci e crimini economici, tutti sotto un’unica strategia di mafia lucana o quantomeno di penetrazione di altre mafie in Basilicata. Il mito della Lucania Felix pertanto ha reso le autorità incapaci di vedere che tutti gli ingredienti per l’indipendenza erano già presenti dagli anni 80». La Famiglia Basilischi ha gradualmente sancito la propria autorità, pur sempre rimanendo «succube» o comunque legata alle attività criminali e agli intenti «manageriali» di 'Ndrangheta e Camorra sul proprio territorio. Ma quali erano le maggiori differenze con le più note organizzazioni? «Ad oggi i gruppi criminali, un tempo affiliati come Famiglia Basilischi, non risultano più attivi sotto questo nome. Non deve sorprendere che la Famiglia Basilischi sia stata un esperimento fallito, su cui la magistratura è riuscita a intervenire già nel 1999, con arresti e catture che hanno menomato il gruppo in modo sostanziale. La Famiglia si presentava come un’organizzazione molto gerarchizzata che, grazie a rituali mistici, invitava i vari membri ad unirsi ad una fratellanza e ad un sentire comuni. Al centro di tutto vi era l'idolatria del capo. Ed è proprio questo uno dei punti chiave di differenza: la ‘Ndrangheta non ha mai avuto un culto del capo, un capo dei capi dal potere assoluto, come lo volevano i Basilischi. Nella ‘Ndrangheta, ma così come anche nei clan di Camorra, non può esserci spazio per idolatrie: il potere e gli affari devono essere il più possibile flessibili. Inoltre, i Basilischi non si sono mai specializzati in un’attività prescelta. Hanno sempre fatto di tutto e di più: dalla droga, al radioattivo, al racket, alle interferenze politiche, al riciclaggio di denaro, al contrabbando. Da ultimo, la differenza dei Basilischi con altre associazioni mafiose, sta nella struttura del gruppo e nell’incapacità di reagire in modo efficace alle varie sfide interne ed esterne. Per esempio, nonostante la centralizzazione del potere in mano a Cosentino (e poi Cossidente), nonostante i rituali di affiliazione da manuale, la Famiglia non sembra avere piani di riserva e strategie di conservazione in atto e i gruppi locali, soprattutto dopo la divisione in sei aree di influenza voluta dalla ‘Ndrangheta nel 2003, hanno continuato a preferire ed inseguire interessi propri, rispetto a quelli della Famiglia come entità «madre». Nel momento in cui i capi si sono pentiti noi vediamo la Famiglia Basilischi crollare ed essenzialmente morire. In altri gruppi criminali mafiosi la capacità del gruppo di ripresentarsi nonostante gli attacchi delle autorità e gli incidenti di percorso, rappresenta una forza e una garanzia che i Basilischi non sembrano mai avere avuto». Grazie all'azione di pentiti, tra i quali Antonio Cossidente, dal 2003 spuntano nomi di politici locali, affiliati a partiti noti, collusi con i Basilischi...«Negli ultimi anni si è registrato un aumento dell’attenzione delle autorità e dei media locali e nazionali sui nessi mafia-politica in Basilicata. In particolare, da quando Antonio Cossidente, secondo capo dei Basilischi, si è ufficialmente pentito nel 2010 (anche se la sua collaborazione con la giustizia pare risalire al 2003), sono venuti a galla vari legami tra partiti politici e gruppi mafiosi lucani sin dagli anni 90». Qual è lo scopo principale della sottrazione di materiale radioattivo dal Centro Enea della Trisaia? Può questa attività collidere con il monopolio dello smaltimento dei rifiuti detenuto dalla Camorra? «È del 2001 l’indagine di una delegazione della Commissione Antimafia in Basilicata per investigare su sottrazioni di materiale radioattivo dal Centro Enea della Trisaia, dove per anni scorie radioattive, rifiuti solidi e liquidi di alta e media attività nucleare, risultavano abbandonate in condizioni di scarsa sicurezza. Ancora una volta, al centro delle indagini era la ‘Ndrangheta e per fatti risalenti già ai primi anni 90. Si parlò in seguito anche di eventuali connessioni con elementi deviati dei servizi segreti. Il materiale, che fu rivelato essere plutonio, pare sia stato trasportato a Reggio Calabria da cui fu poi imbarcato e rivenduto a gruppi terroristici in altri paesi: i media parlarono dell’Iraq, tra gli altri. Ma l’indagine rimase e rimane top secret. Il Centro Enea, dal canto suo, ha più volte ribadito che non solo non si trattava di plutonio ma che nulla era sparito dal proprio inventario». Può la Famiglia Basilischi realisticamente pensare ad un controllo dell’attività di estrazione del petrolio in Val d'Agri con la probabile collusione della classe dirigente? «Tutte le famiglie mafiose di un certo calibro si preoccupano di condizionare gli appalti regionali e locali. La Famiglia Basilischi necessariamente è stata attratta da appalti pubblici e soprattutto dagli investimenti relativi ai giacimenti di petrolio in Val D’Agri. In quel territorio, in particolare, sono da anni attivi clan campani e calabresi. I Basilischi si trovano a partecipare a fine anni 90, legati ai clan di Siderno e della bassa Campania». Quanto c’è da temere la presenza del clan casalese nelle carceri lucane? Quali scenari si possono aprire? «I clan mafiosi pescano da sempre all’interno delle carceri per manovalanza. Le carceri sono probabilmente il luogo più sicuro e più consono al reclutamento di nuove e vecchie leve. Negli ultimi anni si è registrato questo fenomeno curioso di affiliati di Camorra latitanti, soprattutto casalesi, che hanno deciso di costituirsi alle autorità presentandosi al carcere di Melfi, poiché il Tribunale di Melfi, fino a quando è rimasto aperto, è risultato particolarmente veloce nel gestire i procedimenti di custodia cautelare. La concentrazione di camorristi nelle carceri lucane potrebbe evolversi in almeno due scenari. Da una parte, questa potrebbe essere una mossa strategica dei casalesi, per assicurarsi manovalanza propria in terra lucana; la situazione “post-Basilischi”, infatti, risulta confusa e sicuramente non organizzata come prima, pertanto ci sono spazi di manovra che, sia Camorra, sia ‘Ndrangheta potrebbero sfruttare. D’altra parte, la concentrazione del know-how camorristico nel carcere lucano potrebbe essere impiegato nella costituzione di nuovi gruppi in carcere e nella formazione di criminali autoctoni, a servizio dei casalesi, un po’ come accadde con la ‘Ndrangheta e Cosentino nel 1994. Sarebbe l'inizio di un altro «esperimento mafioso», questa volta targato Camorra».

I Basilischi sono una organizzazione criminale nata nel 1994 a Potenza e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. Grazie ad intercettazioni e all'intervento dello Stato, il 22 aprile 1999 tutti i capi di questa organizzazione sono stati arrestati.

I Basilischi nascono come una 'ndrina della 'ndrangheta calabrese e da essa dipendono, sono protetti e aiutati. Ottenuto difatti il nulla osta dalle 'ndrine dei Pesce e Serraino di Rosarno, si formò un gruppo di malavitosi operante in tutta la Regione con a capo Giovanni Gino Cosentino. Quella organizzazione ambiva a diventare la quinta mafia del sud Italia. L'organizzazione venne effettivamente formata da Don Saru dei Mammoliti che nominò come capo-società Renato Martorano. Sembra abbiano avuto contatti anche con i Morabito.

Con l'inchiesta Iena 2, in cui sono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M.), Gianfranco Blasi e Antonio Luongo, il pubblico ministero di Potenza Vincenzo Montemurro evidenzia un cambio di assetto: l'appalto ottenuto all'Ospedale San Carlo da una azienda controllata da un gruppo malavitoso campano viene trattato dai Basilischi in prima persona. Da questo si dedurrebbe che il controllo del territorio lucano è in mano al gruppo dei Basilischi che tratta alla pari con le altre mafie assumendo così una sua identità ed autonomia, pur rimanendo legato alla 'ndrangheta.

I Basilischi sono stati oggetto di una inchiesta della procura antimafia di Potenza, "l'operazione Chewingum", che sta tentando di fare luce sulle attività e sulla struttura dell'organizzazione.

Nel 2006, nell'inchiesta che ha coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia e il sindaco di Campione d'Italia, vi era anche la famiglia Tancredi del potentino.

In seguito al maxi-arresto del 22 aprile 1999, che ha incarcerato i capi della cosca, sembra che la 'ndrangheta di Rosarno abbia ristabilito il potere sulla criminalità in Basilicata, destituendo Cosentino e creando sette 'ndrine, composte da malavitosi locali e comandate direttamente da sette calabresi.

Con sentenza del 21 dicembre 2007 il Tribunale di Potenza ha accertato l'esistenza della "Famiglia Basilischi".

Sono affiliati all'organizzazione dei Basilischi alcuni membri del clan Scarcia del materano, i melfitani Massimo e Marco Cassotta (quest'ultimo assassinato il 14 luglio 2007), Antonio Cossidente e il salernitano Vincenzo De Risi, il gruppo potentino capeggiato da Renato Martorano (coinvolto nell'inchiesta Iena 2), e a cui appartengono i noti Dorino Stefanutti e Michele Badolato. Tutti i citati sono sotto inchiesta e condannati più volte per reati di stampo mafioso.

Da “Il Giornale” la mafiopoli lucana. Scommesse clandestine, partite truccate, cocaina e politica, cocaina e calcio, cocaina alla «Potenza-bene». Un fiume di parole, e di polvere bianca. Inchieste e processi in corso scuotono la sonnolente Lucania: affari sporchi, appalti criminali, compravendita di voti e posti di lavoro, ricatti incrociati, relazioni pericolose coi boss della quinta mafia sconosciuta ai più: i Basilischi. Il bubbone della calciopoli locale esploso a novembre del 2009 con l’arresto del presidente del Potenza calcio, Giuseppe Postiglione - accusato di vendersi le partite e di scommetterci sopra - investe il centrosinistra della Basilicata (la giunta regionale guidata dal Pd Vito De Filippo). Antonio Cossidente, temuto pentito della cosca locale collegata alla ’ndrangheta, dopo aver verbalizzato quel che sapeva sulla connection sportivo-criminale (dalla costruzione di un nuovo stadio alla gestione di sale-scommesse, dai 170mila euro «di provenienza illecita versati al presidente Postiglione» al servizio d’ordine affidato al clan) ha «sparato» sui politici. E sui presunti rapporti con alcuni di loro che fanno parte, o appoggiano, la giunta del governatore De Filippo. Accuse tutte da dimostrare, ovviamente. I nomi snocciolati in aula dal super pentito Cossidente (che Postiglione considerava suo «fratello maggiore») sono quelli del vicepresidente della giunta, Agatino Mancusi, coordinatore regionale dell’Udc, ma anche del consigliere regionale Luigi Scaglione, eletto nelle file di Popolari uniti che appoggiano l’amministrazione di centrosinistra e poi Roberto Galante, già consigliere comunale dell’Idv e candidato dei Popolari uniti. È invece un secondo pentito, Alessandro D’Amato, a fare il nome di Gaetano Fierro, ex assessore regionale all’Agricoltura ed ex sindaco di Potenza, candidato al Senato con l’Udeur, ora nell’Udc al coordinamento regionale. D’Amato si sofferma anche sulla confidenza ricevuta in cella dal coimputato Cossidente che gli avrebbe parlato di un ricatto da 100mila euro ai politici per tenere la bocca chiusa. Vere bombe a orologeria quelle del collaborante Cossidente: «Negli anni dopo il 2002-2003 controllavo la sicurezza dello stadio Viviani di Potenza con la società Potenza Asc (...). Poi ebbi contatti con il consigliere regionale Luigi Scaglione sia in termini di politica che di amicizia, dopodiché, nell’ultimo periodo, parlammo della costituzione di una nuova società e della costruzione di un nuovo stadio con annessi locali commerciali». Affari su affari, favori su favori. Cossidente si sofferma a lungo su Scaglione: «L’ho conosciuto nel 2002 (...) era inserito nel Cda del Potenza e in quel momento entrai a far parte della sicurezza per il tramite di Renato Martorano (esponente della ‘ndrangheta in Basilicata, ora in carcere, ndr). In quell’occasione conobbi Raffaele Marino, Vito Giuzio, Genni D’Onofrio e Agatino Mancusi. Dopo iniziai ad avere vari contatti. Lui era inviso dalla tifoseria e quindi cercò di avere tranquillità. Dato che ero sottoposto a una misura di sicurezza molto rigida avevo la necessità di dimostrare che facevo qualcosa. Scaglione si adoperò con Orazio Colangelo (nel 2008 eletto con una lista civica vicina al centrosinistra, ndr) per farmi avere la gestione del campo “Tre fontane” e avere una facciata pulita (...)». A suo dire Postiglione sarebbe stato a conoscenza dell’ottimo rapporto tra il boss e il consigliere, tant’è che chiese al «fratello maggiore» d’intercedere: «Mi disse se potevo parlare con Gigi (Scaglione, ndr) perché sapeva che lo conoscevo (...) Per la mia organizzazione ci sarebbe stato un utile di tipo economico, avremmo potuto gestire sia lo stadio (...)». Quando si passa al capitolo elezioni, le parole del «dichiarante» si spostano sull’ex Idv Roberto Galante: «Nel 2005 votammo sia lui (Scaglione, ndr) che Roberto Galante, alle regionali... comunque fu aiutato». E sempre a proposito di Scaglione parla dell’assunzione di uno dei suoi uomini al Don Uva, un centro di riabilitazione: «Ha fatto da tramite per far sì che una persona a me vicina facesse lavori di giardinaggio (...) un pregiudicato a me vicino (...), tramite un altro politico all’interno della struttura». Poi la domanda del pm punta alla droga. Cossidente non si fa pregare: «In un’occasione il boss Aldo Fanizzi mi disse di aver consegnato 5 o 10 grammi di cocaina a Scaglione». Vero? Falso? Le persone tirate in ballo dal pentito respingono le rispettive accuse. «Non ho mai fumato neanche una sigaretta - sbotta Scaglione - figuriamoci la cocaina. Hanno intercettato il telefono, è tutto negli atti, è tutto chiaro e trasparente». E sul favore chiesto per il figlio dal boss pentito? Scaglione non nega il contatto ma spiega d’aver chiesto a Cossidente il titolo di studio prima di liquidarlo così: «E fallo studiare che poi si vede». Nega anche Galante. Rapporti limpidi. «Gli inquirenti avranno modo di dimostrare che non c’entro niente. Cossidente lo conoscono tutti visto che i giornali ne hanno parlato tanto. Bisogna capire cosa si intende per “conoscere” (…). Il mio elettorato è fatto dalle persone che conosco, da amici. E allora quest’anno quando ho preso 838 voti chi mi ha appoggiato, la Sacra corona unita?». Si difende energicamente anche il vicepresidente Agatino Mancusi sui contatti con l’ex boss: «Andavo al campo ma non ho mai avuto rapporti di gestione all’interno del Potenza Asc (…), solo ruoli marginali. Eravamo un gruppo di amici che portavano avanti questa esperienza, niente più. Conosco Cossidente perché veniva sempre lì, né più e né meno (…). Quando stai ai bordi di un campo e conosci delle persone, non è che sai tutto il resto...».

Basilischi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. I basilischi sono un'organizzazione criminale, di tipo mafioso, nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. Grazie ad intercettazioni e all'intervento dello Stato, il 22 aprile 1999 tutti i capi di questa organizzazione sono stati arrestati. Da allora, secondo la procura nazionale antimafia, la criminalità organizzata delle zone del materano, la Val d'Agri e del Melfese sono controllate da cosche che fanno capo alla 'Ndrangheta di Rosarno.

La famiglia dei basilischi nacque agli inizi del 1994, allorquando Giovanni Luigi Cosentino, soprannominato “faccia d'angelo”, un pregiudicato molto noto per le sue passate imprese criminose, all'interno delle carceri di Potenza e Matera iniziò ad avvicinare altri detenuti con l'intento di creare un'organizzazione che, con l'avallo di alcune famiglie malavitose calabresi (e segnatamente quella dei Morabito), avrebbe dovuto riunire tutte le associazioni criminali che sino a quel momento avevano operato in Basilicata: proprio per questo il gruppo veniva denominato famiglia dei basilischi. Ottenuto difatti il nulla osta dalle 'ndrine dei Pesce e Serraino di Rosarno, si formò un gruppo di malavitosi operante in tutta la Regione con a capo Giovanni Gino Cosentino. Quella organizzazione ambiva a diventare la quinta mafia del meridione d'Italia. L'organizzazione venne effettivamente formata da Saverio Mammoliti (detto Don Saru) dei Mammoliti che nominò come capo-società Renato Martorano. Sembra abbiano avuto contatti anche con i Morabito.

Con l'inchiesta Iena 2, in cui sono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M.), Gianfranco Blasi (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M. nel 2006) e Antonio Luongo, il pubblico ministero di Potenza Vincenzo Montemurro evidenzia un cambio di assetto: l'appalto ottenuto all'Ospedale San Carlo da un'azienda controllata da un gruppo malavitoso campano viene trattato dai Basilischi in prima persona. Da questo si dedurrebbe che il controllo del territorio lucano è in mano al gruppo dei Basilischi che tratta alla pari con le altre mafie assumendo così una sua identità ed autonomia, pur rimanendo legato alla 'ndrangheta.

I Basilischi sono stati oggetto di un'inchiesta della procura antimafia di Potenza, "l'operazione Chewingum", che sta tentando di fare luce sulle attività e sulla struttura dell'organizzazione.

In seguito al maxi-arresto del 22 aprile 1999, che ha incarcerato i capi della cosca, sembra che la 'ndrangheta di Rosarno abbia ristabilito il potere sulla criminalità in Basilicata, destituendo Cosentino e creando sette 'ndrine, composte da malavitosi locali e comandate direttamente da sette calabresi. Nel 2006, nell'inchiesta che ha coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia e il sindaco di Campione d'Italia, vi era anche la famiglia Tancredi del potentino. Secondo la procura antimafia nazionale, le zone lucane colpite da questo fenomeno sono quelle di Policoro, Montalbano Jonico, Pisticci, Scanzano Jonico (dove operano gli Scarcia), la Val d'Agri (dove sono concentrate le risorse petrolifere della regione), e Melfese. Con sentenza del 21 dicembre 2007 il Tribunale di Potenza, composto dai giudici Daniele Cenci, Ubaldo Perrotta e Gabriella Piantadosi, ha accertato l'esistenza della "Famiglia Basilischi". Il 30 ottobre 2012 la Corte d'appello di Potenza ha confermato la sussistenza del clan mafioso dei “Basilischi”. Sono affiliati all'organizzazione dei Basilischi alcuni membri del clan Scarcia del materano, i melfitani Massimo e Marco Cassotta (quest'ultimo assassinato il 14 luglio 2007), Antonio Cossidente e il salernitano Vincenzo De Risi, il gruppo potentino capeggiato da Renato Martorano (coinvolto nell'inchiesta Iena 2), e a cui appartengono i noti Dorino Stefanutti e Michele Badolato. Tutti i citati sono sotto inchiesta e condannati più volte per reati di stampo mafioso.

Ascesa e caduta dei Basilischi, la mafia italiana che voleva imitare la 'ndrangheta, scrive Vincenzo Marino il 14 giugno 2016. Dalle rocce del Pollino si vede tutto: salendo dal lato che poi sprofonda nello Ionio si può capire quasi nitidamente dove comincia la Calabria, e dove la Basilicata diventa Puglia. Attorno alla seconda metà degli anni Novanta, non era inusuale trovare un gruppo di uomini parlottare e compiere strani riti sulle montagne attorno a Policoro, a metà strada tra Taranto e Sibari, alla sorgente del fiume Sinni. Lì, scortato da "tre sentinelle d'omertà", il "novizio" avrebbe potuto incontrare gli "uomini d'onore" e il boss, e vedersi fare questa domanda: "Conoscete la Famiglia Basilischi?" I "Basilischi," oltre a essere il titolo di un film del 1963 diretto da Lina Wertmüller, sono un'organizzazione di stampo mafioso riconosciuta ufficialmente solo nel 2007 grazie alla sentenza di un maxi-processo antimafia, poi confermata in appello nel 2012. Ma temporalmente, il loro operato come "Quinta Mafia italiana" - come verrà definita - si estende soltanto dal 1994 a 1999. È in quell'anno infatti che - stando al racconto del collaboratore di giustizia Santo Bevilacqua - il boss del clan calabrese dei Morabito concede a Giovanni Luigi Cosentino, pregiudicato noto col nome di "faccia d'angelo", l'indipendenza del suo clan lucano. L'incontro avviene nel carcere di San Gimignano, in Toscana; il luogo in cui sia il boss lucano, sia altri personaggi della malavita calabrese, scontavano le loro pene. Lì, Giovanni Luigi Cosentino avrebbe "ricevuto dai calabresi l'investitura del Crimine, ovvero il capo di organizzazione mafiosa," ricorda ancora Bevilacqua. Ed è sempre dal carcere che "Faccia D'angelo" darà vita alla sua opera di proselitismo, a tessere le strategie finalizzate ad allargare la famiglia e i suoi interessi, fino a coprire l'intero territorio regionale. Sarà la nascita della prima struttura mafiosa lucana 'propriamente detta', la picconata al mito della Lucania felix, regione ritenuta inspiegabilmente immune alle mafie malgrado sia geograficamente accerchiata dalla camorra campana, dalla Sacra Corona Unita pugliese, e dalla 'ndrangheta a sud. In realtà, sin dagli anni Ottanta - ossia subito dopo il terremoto dell'Irpinia - si ha conoscenza di gruppi criminali locali, pronti ad accaparrarsi e a gestire per altri gli investimenti e i fondi derivanti dalla ricostruzione post-sismica. Ma il processo di espansione delle strutture criminale locali verrà genericamente ignorato. È solo negli anni Novanta però che - come affermerà il Procuratore Generale dell'epoca - la situazione viene definita "preoccupante," ma ancora limitata territorialmente, disunita. Ma soprattutto, legata a doppio filo ai clan calabresi. Sarà proprio la 'ndrangheta ad "allenare" la criminalità locale, che a essa si ispirerà e che da essa sarà condizionata, da tutti i punti di vista. Si può dire che fino al 1995, in sostanza, la mafia lucana esisteva, in un qualche modo, ma non se ne avevano due riprove: quella giudiziaria, e il fatto che l'organizzazione fosse grosso modo autonoma. Eppure, in qualche modo, la smania di emergere come "nuova mafia" non è mai mancata. La sua versione embrionale, la Nuova Famiglia Lucana - creata sul modello delle mafie calabresi e pugliesi - denunciò un proprio tentato omicidio telefonando all'agenzia ANSA di Potenza. Come a dire: siamo arrivati. La stessa necessità di emergere anima la prima fase dei Basilischi, così bisognosi di affermarsi come nuovo crimine locale da uccidere un agente di polizia, Francesco Tammone — una delle tipologie d'omicidio più roboanti, la rappresaglia contro lo Stato. Secondo la Procura Nazionale Antimafia, le zone colpite dal fenomeno sarebbero state quelle di Policoro, Montalbano Jonico, Pisticci, Scanzano Jonico, Melfi, soprattutto la Val d'Agri, dove sono concentrate le risorse petrolifere della regione. Alla Famiglia si affilieranno alcuni membri del clan della zona di Matera e del melfese, boss del salernitano, il gruppo di Potenza e ciò che restava del gruppo criminale antecedente ai Basilischi. Il clan era specializzato nel traffico di droga, esplosivi e armi, rapine, usura, gioco d'azzardo, e l'estorsione sistematica nei confronti dei commercianti e delle imprese. "I Basilischi," riporta la studiosa Anna Sergi nel documento La perduta Lucania Felix, "praticavano l'usura, ricettavano i titoli di credito di provenienza delittuosa, riciclavano i proventi sporchi e affermavano un controllo egemonico del territorio e al proprio interno, attraverso vincoli di comparaggio, rigide gerarchie e pagamento delle spese processuali per gli arrestati." Il cambio di passo arriva con l'operazione scoperta dall'inchiesta Iena 2, in cui finiscono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza - la cui posizione verrà poi archiviata - per quello che il pubblico ministero di Potenza Vincenzo Montemurro definirà un "cambio di assetto": la famiglia riesce a mettere le mani sull'appalto di costruzione dell'Ospedale San Carlo, dimostrando quanto fosse ormai capace di lavorare ad alti livelli, e di trattare alla pari con le altre mafie — essendo coinvolto, nell'appalto, anche l'interesse della malavita campana. Ma erano proprio i calabresi, secondo quanto riportato da inchieste, racconti di pentiti e cronache, a rifornire la famiglia lucana di armi e droga. Un legame a doppio filo dal quale Cosentino ha cercato di liberarsi col loro benestare, in un rapporto che sempre Anna Sergi definisce esperimento di "outsourcing," l'esternalizzazione da parte dei calabresi delle risorse da lasciar controllare ai clan locali della Basilicata, per goderne i vantaggi col minimo sforzo. Proprio questa necessità di sentirsi effettivamente mafia il prima possibile, e di trovare un'amalgama identitaria dapprima inesistente, li porta a dare grossissima importanza alla tematica dei rituali mafiosi, alcuni dei quali si ritiene siano stati in un certo modo "spiegati" in carcere dai calabresi allo stesso Cosentino. Per rinsaldare un gruppo ancora privo di collante, questi riti puntavano spesso a sottolineare il senso di appartenenza alla Famiglia, con giuramenti simili a quelli dei clan della Calabria, dalle venature esoteriche e massoniche. Una delle liturgie prevedeva la recitazione dei una formula per diventare "uomo d'onore". "Sul monte Pollino, sapevo che il mio cuore freddo avrebbe potuto essere curato," recitava una di queste frasi.

"Conoscete la Famiglia Basilischi?"

"Certo che la conosco," rispondeva l'aspirante affiliato. "La tengo nel cuore, la servo e mi servo."

"Qual è il tuo desiderio?", gli veniva replicato.

"La stima, l'orgoglio della mia terra e una lunga fratellanza."

I luoghi in cui avvenivano questi rituali non sono per nulla casuali. Il monte Pollino è la sommità "da dove tutto si vede e non si è visti," il fiume Sinni - tra i cuori d'acqua della regione - è ciò che accoglierà il corpo freddo dell'adepto in caso di tradimento." E poi tagli sulle braccia, incisioni, carte da gioco napoletane, tatuaggi e il particolare del santo protettore, San Michele Arcangelo, contemporaneamente protettore della 'ndrangheta e della polizia — mentre per questi ultimi, però, il santo è raffigurato con la bilancia della giustizia, per i clan calabresi reca una catena in mano. Il capo società, infine, abbracciava il nuovo adepto, che gli rispondeva "Sono felice di abbracciare un altro fratello, che sapevo di avere ma non conoscevo." La struttura interna, insieme ai rituali, ricalcava la stessa 'ndrangheta. Sono stati proprio i calabresi rinchiusi a San Gimignano a spiegare a "faccia d'angelo" come doveva essere organizzata la cosca, secondo la classica divisione calabrese in crimine, 'ndrine e locale. Parlando da collaboratore di giustizia ai pubblici ministeri, è Cosentino a spiegare che la stessa struttura a "albero," tipica della mafia, era la stessa sulla quale si reggeva quella dei Basilischi: le cinque parti della pianta rappresentavano il "capobastone" (il tronco), i "mastri di giornata" e i "camorristi di sangue, di sgarro e di seta" (i rami), i "picciotti" (ramoscelli) e i "giovani d'onore" (i fiori), le giovani leve. Il tutto, percorso e tenuto in vita dalla "linfa" dell'omertà e del silenzio. Sotto l'albero, il fango di traditori e polizia. Alla fine il "fango" prevarrà sulla "linfa": nell'aprile del 1999 una maxioperazione porterà all'arresto di praticamente tutti i capi dell'organizzazione. Da allora, secondo varie indagini, il territorio sarebbe finito sotto il controllo delle famiglie di Rosarno, che attorno al 2003 avrebbero diviso il territorio in sei o sette 'ndrine comandate direttamente dai calabresi. Dopo il pentimento del cognato, però, "faccia d'angelo" perse credibilità, e venne estromesso da un accordo fra gli altri boss e le mafie limitrofe. Il nuovo boss Antonio Cossidente, nominato dallo stesso Cosentino una volta uscito dal carcere, non riuscì tuttavia a tenere unito il gruppo, che nel 2004 si frantumò in frazioni autonome e che in buona parte venne cannibalizzato da organizzazioni più potenti. Sarà questa la morte sostanziale della Famiglia Basilischi, sebbene nella Relazione annuale del 2011 della Direzione Nazionale Antimafia si parli di "seconda linea di forze emergenti, di nuovi candidati," che starebbero cercando di emergere in un contesto privo di leader. A confermarlo è lo stesso Cossidente, ormai collaboratore di giustizia, nel 2013. "Sono già sulla buona strada, cioè la cattiva."

I Basilischi. Anna Sergi racconta la mafia della Basilicata, scrive Silvia Bortoletto. Il mito della Lucania Felix, la Basilicata come isola povera ma felice, in un mare inquinato di criminalità e violenza, va sfatato. I tentativi della 'Ndrangheta di costituire una mafia lucana, cui potesse essere affidata la gestione di vari traffici, si registrano sin già dagli anni '60 e '70. La vera indipendenza, però, e l'attribuzione di un nome, Famiglia Basilischi, all'organizzazione criminale, avviene nel 1994: l'allora boss della 'Ndrangheta, Peppe Morabito, da il permesso a Giovanni Luigi Cosentino, detenuto nel carcere di San Gimignano con l'accusa di aver gestito un giro di prostituzione, di costituire un'entità mafiosa autonoma. La Famiglia Basilischi, come tale, ha però vita breve: il 22 aprile 1999, la Procura di Potenza, grazie anche alla cooperazione di un crescente numero di pentiti, emette 84 ordini di custodia cautelare, assestando un duro colpo all'organizzazione. A quel punto i Basilischi devono mutare forma per sopravvivere e, come la 'Ndrangheta, diventano imprenditori di un vero e proprio marchio, che fa capo a diversi clan con vari gradi di affiliazione. Traffico di armi e droga, riciclaggio di denaro, usura, smaltimento illegale di rifiuti, investimenti nell'attività estrattiva del petrolio e gestione di appalti pubblici: sono tante le aree d'interesse cui la mafia lucana si è dedicata nel tempo. Di questo parliamo con Anna Sergi, docente di criminologia all'Università di Essex e co-presidente della commissione post-laurea della British Society of Criminology.

La Famiglia Basilischi sembra essersi affermata, così come altre associazioni di stampo mafioso, grazie all'allettante prospettiva di appartenenza ad una setta/confraternita offerta agli aspiranti membri. Ma, a differenza, di altre organizzazioni, i Basilischi sono nati grazie al beneplacito della 'Ndrangheta e grazie all'azione di proselitismo svolta dal carcere di San Gimignano da Cosentino. Non c'era quindi una storia di famiglie dai cognomi conosciuti e temuti?

«A livello criminologico, la Famiglia Basilischi è stata un esperimento della ‘Ndrangheta che, da buona “holding” del crimine organizzato, ha deciso di operare un tentativo di “outsourcing”, di esternalizzazione delle risorse, in Basilicata. Questo perché molti dei clan della ‘Ndrangheta hanno da sempre l’acume tipico dei businessmen: capire quando e come permettere l’autonomia di gruppi locali per trarne vantaggi economici. La creazione di un gruppo autonomo, la Famiglia Basilischi, è stata “commissionata” a Cosentino in carcere nel 1994, i rituali di affiliazione sono stati ripresi da quelli già esistenti della ‘Ndrangheta, le affiliazioni guidate dai Morabito (nda: potente famiglia della mala calabrese), e, soprattutto, gli accessi ad alcuni dei mercati “concessi” dagli stessi clan calabresi. La Famiglia Basilischi nasce quindi come costola della ‘Ndrangheta, ma si avvale di rituali ancor più mistici, ancora più ascetici; questo per creare quel “collante narcisistico” tipico dei gruppi mafiosi, in un territorio che vergine non era. I gruppi esistenti in Basilicata prima dei Basilischi dovevano, tramite certi rituali, re-inventarsi sotto un nuovo nome e una nuova affiliazione. La “creazione” dei Basilischi deve essere intesa come convincimento di questi gruppi pre-mafiosi ad unirsi sotto una nuova egida con il benestare della ‘Ndrangheta, che, appunto, porta le licenze e gli accessi ai mercati. Sin dagli anni 80, quindi, subito dopo il terremoto dell’Irpinia – con conseguenti investimenti e fondi allocati alla regione – troviamo gruppi criminali locali pre-mafiosi al servizio di altre mafie espansionistiche e avide di accaparrarsi quei fondi e quegli investimenti, soprattutto la ‘Ndrangheta. Fino al 1989 abbiamo delle autorità disattente e dei media ancora più ciechi; e il mito della “Lucania Felix”, di un territorio non affetto dal morbo mafioso, è stato il mantra ripetuto per tutto il decennio. Nel 1990, il nuovo Procuratore Generale di Potenza, inizia un’operazione di riconoscimento delle situazioni pre-mafiose sul territorio e inizia a setacciare la zona per ricondurre estorsioni, omicidi – le faide inter-clan di Montescaglioso da fine anni Ottanta - , atti di violenza – incendio doloso al Municipio di Melfi -, arricchimenti veloci e crimini economici, tutti sotto un’unica strategia di mafia lucana o quantomeno di penetrazione di altre mafie in Basilicata. Il mito della Lucania Felix pertanto ha reso le autorità incapaci di vedere che tutti gli ingredienti per l’indipendenza erano già presenti dagli anni 80».

La Famiglia Basilischi ha gradualmente sancito la propria autorità, pur sempre rimanendo “succube” o comunque legata alle attività criminali e agli intenti “manageriali” di 'Ndrangheta e Camorra sul proprio territorio. Ma quali erano le maggiori differenze con le più note organizzazioni?

«Ad oggi i gruppi criminali, un tempo affiliati come Famiglia Basilischi, non risultano più attivi sotto questo nome. Non deve sorprendere che la Famiglia Basilischi sia stata un esperimento fallito, su cui la magistratura è riuscita a intervenire già nel 1999, con arresti e catture che hanno menomato il gruppo in modo sostanziale. La Famiglia si presentava come un’organizzazione molto gerarchizzata che, grazie a rituali mistici, invitava i vari membri ad unirsi ad una fratellanza e ad un sentire comuni. Al centro di tutto vi era l'idolatria del capo. Ed è proprio questo uno dei punti chiave di differenza: la ‘Ndrangheta non ha mai avuto un culto del capo, un capo dei capi dal potere assoluto, come lo volevano i Basilischi. Nella ‘Ndrangheta, ma cosi' come anche nei clan di Camorra, non può esserci spazio per idolatrie: il potere e gli affari devono essere il più possibile flessibili. Infatti, un gruppo nuovo che centralizza il potere, non garantisce la flessibilità che certi affari richiedono. Inoltre, e questa è un’altra differenza con gruppi mafiosi più forti, i Basilischi non si sono mai specializzati in un’attività prescelta. Hanno sempre fatto di tutto e di più: dalla droga, al radioattivo, al racket, alle interferenze politiche, al riciclaggio di denaro, al contrabbando. Questa diversificazione delle attività in un gruppo appena nato e in un mercato criminale già saturo e saldamente in mano ad altre forze, soprattutto la ‘Ndrangheta, non può essere una strategia vincente. A livello di organizzazione economica, un gruppo nuovo e piccolo ha più possibilità di successo nel mercato quando sceglie la specializzazione in un’area di nicchia, piuttosto che optare per la generalizzazione e il conseguente dispendio controproducente di energie e risorse. Da ultimo, la differenza dei Basilischi con altre associazioni mafiose, sta nella struttura del gruppo e nell’incapacità di reagire in modo efficace alle varie sfide interne ed esterne. Per esempio, nonostante la centralizzazione del potere in mano a Cosentino (e poi Cossidente), nonostante i rituali di affiliazione da manuale, la Famiglia non sembra avere piani di riserva e strategie di conservazione in atto e i gruppi locali, soprattutto dopo la divisione in sei aree di influenza voluta dalla ‘Ndrangheta nel 2003, hanno continuato a preferire ed inseguire interessi propri, rispetto a quelli della Famiglia come entità “madre”. Nel momento in cui i capi si sono pentiti – che in altri gruppi mafiosi significa che si formano nuove alleanze di ‘resistenza’ e di ‘rinnovamento’ del gruppo per garantire la perpetuazione delle attività – noi vediamo la Famiglia Basilischi crollare ed essenzialmente morire. In altri gruppi criminali mafiosi la capacità del gruppo di ripresentarsi nonostante gli attacchi delle autorità e gli incidenti di percorso, rappresenta una forza e una garanzia che i Basilischi non sembrano mai avere avuto».

Grazie all'azione di pentiti, tra i quali Antonio Cossidente, dal 2003 spuntano nomi di politici locali, affiliati a partiti noti, collusi con i Basilischi. Tra i tanti troviamo Roberto Galante, ex consigliere comunale, pronto a promettere incarichi e appalti, in cambio di voti e protezione. E' emerso qualche altro nome recentemente?

«Negli ultimi anni si è registrato un aumento dell’attenzione delle autorità e dei media locali e nazionali sui nessi mafia-politica in Basilicata. In particolare, da quando Antonio Cossidente, secondo capo dei Basilischi, si è ufficialmente pentito nel 2010 (anche se la sua collaborazione con la giustizia pare risalire al 2003), sono venuti a galla vari legami tra partiti politici e gruppi mafiosi lucani sin dagli anni 90. Si pensi per esempio alle indagini sui deputati Antonio Luongo (Ds), Antonio Potenza (gruppo misto Popolari-Udeur), Gianfranco Blasi (Forza Italia). Negli anni le indagini hanno colpito nomi di spicco dell’amministrazione locale: il Presidente della Giunta regionale della Basilicata, Filippo Bubbico (Ds); il Presidente del Consiglio regionale lucano, Vito De Filippo (Margherita); l’assessore alle attività produttive della Regione Basilicata ed ex sindaco di Potenza, Gaetano Fierro (Udeur); il sindaco di Potenza ed ex Presidente della Provincia, Vito Santarsiero (Margherita). Più di recente, nel maggio 2015, abbiamo l’ex vicegovernatore ed assessore regionale, Agatino Mancusi, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e rinviato a giudizio con altre 6 persone, tra cui il succitato Roberto Galante, l’ex consigliere regionale Luigi Scaglione (attuale segretario regionale del Centro democratico) e l’ex assessore comunale di Potenza, Rocco Lepore, già condannato in primo grado e assolto in appello nell’ambito di un altro processo sui presunti intrecci tra mafia e politica. Il processo ci sarà in autunno 2015 e significativamente vedrà il giudizio anche su Antonio Cossidente. L’ipotesi dell’accusa è che Cossidente si sia servito dei suoi agganci politici per influenzare le elezioni comunali di Potenza nel 2004, mentre un sistema di scambi e favori, tra assunzioni lavorative e discussioni di strategie politiche, è stato al centro dell’inchiesta grazie ad intercettazioni tra i politici e i luogotenenti di Cossidente o Cossidente stesso.Il collegamento tra mafia e politica a questi livelli, se confermati in giudizio, ci fa capire come i Basilischi, nei loro anni di maggiore operatività, stessero efficacemente portando avanti una strategia di infiltrazione nelle amministrazioni locali, piuttosto che mirare ad affermarsi solo come forza criminale. Sebbene il loro piano di azione si sia poi dimostrato fallimentare e sia caduto in seguito ad arresti ed interventi delle forze dell’ordine e anche della ‘Ndrangheta che ha ripreso il controllo del territorio, si può capire come la politica in Basilicata sia stata vicina alle consorterie criminali e sia stata penetrabile con modalità molto simili a quelle di Calabria, Sicilia e Campania».

Qual è lo scopo principale della sottrazione di materiale radioattivo dal Centro Enea della Trisaia? Può questa attività collidere con il monopolio dello smaltimento dei rifiuti detenuto dalla Camorra?

«È del 2001 l’indagine di una delegazione della Commissione Antimafia in Basilicata per investigare su sottrazioni di materiale radioattivo dal Centro Enea della Trisaia, dove per anni scorie radioattive, rifiuti solidi e liquidi di alta e media attività nucleare, risultavano abbandonate in condizioni di scarsa sicurezza. Ancora una volta, al centro delle indagini era la ‘Ndrangheta e per fatti risalenti già ai primi anni 90. Si parlò in seguito anche di eventuali connessioni con elementi deviati dei servizi segreti. Il materiale, che fu rivelato essere plutonio, pare sia stato trasportato a Reggio Calabria da cui fu poi imbarcato e rivenduto a gruppi terroristici in altri paesi: i media parlarono dell’Iraq, tra gli altri. Ma l’indagine rimase e rimane top secret. Il Centro Enea, dal canto suo, ha più volte ribadito che non solo non si trattava di plutonio ma che nulla era sparito dal proprio inventario. A mio avviso, l'interessamento dei Basilischi verso materiale radioattivo di scarto, risponde a piani e voleri della 'Ndrangheta. I calabresi, infatti, soprattutto nell’alto Tirreno, più vicino alla Basilicata, si occupano di radioattivo perché e quando è lucrativo, come merce di scambio per il traffico d’armi per citare un esempio. I gruppi camorristici, invece, a differenza di quelli calabresi, di questo settore hanno il monopolio: hanno cioè scelto di “specializzarsi”. In questo senso non credo si possa parlare di collisione con i camorristi, perché i Casalesi detengono il controllo del loro territorio in maniera specialistica e consolidata da decenni: il loro monopolio non viene intaccato. Quello che si può pero' affermare con certezza e' che, nel momento in cui i Basilischi dovessero sparire di scena, i clan che volessero lavorare sui terreni in Basilicata sarebbero sicuramente in concorrenza con i clan di Camorra. La ‘Ndrangheta sicuramente lo è, come lo è in altri territori in Italia, ma si tratta di una concorrenza studiata e non casuale».

Può la Famiglia Basilischi realisticamente pensare ad un controllo dell’attività di estrazione del petrolio in Val d'Agri con la probabile collusione della classe dirigente?

«Tutte le famiglie mafiose di un certo calibro si preoccupano di condizionare gli appalti regionali e locali. La Famiglia Basilischi necessariamente è stata attratta da appalti pubblici e soprattutto dagli investimenti relativi ai giacimenti di petrolio in Val D’Agri. In quel territorio, in particolare, sono da anni attivi clan campani e calabresi. I Basilischi si trovano a partecipare a fine anni 90, legati ai clan di Siderno e della bassa Campania. Recentemente, tra il 2013 e il 2015, l’attenzione delle autorità sugli investimenti e il petrolio della zona si è ravvivata a causa delle preoccupazioni a livello sia ambientale, sia sanitario di tali estrazioni. Ad ogni modo, il coinvolgimento di clan locali, appoggiati da clan sia calabresi, sia campani, nella zona è storia vecchia e come tale consolidata. La collusione con la classe dirigente non risulta un dato di fatto ma resta probabile. Le mafie da sempre seguono il denaro e seguono gli investimenti. Quando si tratta di attività cosi lucrative come le estrazioni in Val D’Agri, il supporto anche indiretto della classe dirigente aiuta l’infiltrazione mafiosa e permette l’insediamento negli appalti pubblici. Quanto questo sia volontario e strategico nella classe dirigente non lo sappiamo. Quello che sappiamo, però, è che i politici locali hanno interessi nella zona e utilizzano il solito sistema di favoritismi e clientelismo per partecipare agli investimenti. L’incontro tra consorterie mafiose e ditte locali a un certo punto risulta inevitabile»»

Quanto c’è da temere la presenza del clan casalese nelle carceri lucane? Quali scenari si possono aprire?

«I clan mafiosi pescano da sempre all’interno delle carceri per manovalanza. Le carceri sono probabilmente il luogo più sicuro e più consono al reclutamento di nuove e vecchie leve. Negli ultimi anni si è registrato questo fenomeno curioso di affiliati di Camorra latitanti, soprattutto casalesi, che decidono di costituirsi alle autorità presentandosi al carcere di Melfi, poiché il Tribunale di Melfi risulta particolarmente veloce nel gestire i procedimenti di custodia cautelare. La concentrazione di camorristi nelle carceri lucane potrebbe evolversi in almeno due scenari. Da una parte, questa potrebbe essere una mossa strategica dei casalesi, per assicurarsi manovalanza propria in terra lucana; la situazione “post-Basilischi”, infatti, risulta confusa e sicuramente non organizzata come prima, pertanto ci sono spazi di manovra che, sia Camorra, sia ‘Ndrangheta potrebbero sfruttare. D’altra parte, la concentrazione del know-how camorristico nel carcere lucano potrebbe essere impiegato nella costituzione di nuovi gruppi in carcere e nella formazione di criminali autoctoni, a servizio dei casalesi, un po’ come accadde con la ‘Ndrangheta e Cosentino nel 1994. Sarebbe l'inizio di un altro “esperimento mafioso”, questa volta targato Camorra». Silvia Bortoletto - Cosa Vostra

LA CAMORRA. LA MAFIA CAMPANA.

Nuova Camorra Organizzata. La Nuova Camorra Organizzata (conosciuta anche con l'acronimo N.C.O.) è l'organizzazione camorristica creata da Raffaele Cutolo, boss dei boss della camorra, negli anni settanta del XX secolo in Campania. Si ingrandì enormemente agli inizi degli anni ottanta coinvolgendo gli altri clan di camorra in sanguinose guerre. Fu soppiantata dalla Nuova Famiglia, una confederazione di clan creata ad hoc da boss quali Michele Zaza, i fratelli Ciro e Lorenzo Nuvoletta ed Antonio Bardellino (affiliati a Cosa Nostra), e da altri capi-banda camorristi (Carmine Alfieri, Luigi Giuliano, Pasquale Galasso). La NCO fu considerata estinta alla fine degli anni ottanta, quando molti dei boss furono uccisi o arrestati.

Storia. I primi anni. Il fondatore di questa organizzazione è Raffaele Cutolo, detto anche "il sommo" o "il professore" (in napoletano: o' prufessòre), nato a Ottaviano, piccolo centro alle porte di Napoli, ai piedi del Vesuvio. Il professore conosce da giovane le sbarre del carcere per un omicidio commesso nel 1963, ma trasforma la carcerazione nel suo trampolino di lancio. L'organizzazione nacque nel padiglione Milano del carcere di Poggioreale a Napoli all'inizio degli anni settanta, per iniziativa di Cutolo e di vari compagni di cella tra cui Raffaele Catapano, Pasquale D'Amico e Michele Iafulli. Cutolo si ispirò, inizialmente, ai rituali della Bella Società Riformata, l'organizzazione camorristica napoletana di inizio Ottocento, e della Confraternita della Guarduna, associazione criminale spagnola del XVII secolo. Uno dei documenti audio ritrovati che testimoniano questi rituali è il cosiddetto "giuramento di Palillo", un giuramento cerimoniale di iniziazione registrato su audiocassetta sequestrato a Giuseppe Palillo, affiliato di Cutolo, al momento del suo arresto. La cassetta conteneva suoni e canzoni e un lungo monologo. La voce non fu riconoscibile in maniera chiara, essendo l'audio di pessima qualità, ma tutto lasciava pensare che fosse quella dello stesso Cutolo. La cerimonia veniva definita, nel gergo camorristico, "battesimo", "fedelizzazione" o "legalizzazione." L'apertura del monologo si soffermava sul valore dell'omertà: Omertà bella come m'insegnasti, pieno di rose e fiori mi copristi, a circolo formato mi portasti dove erano tre veri pugnalisti. La storia che segue racconta dei camorristi spagnoli che, dopo essere stati esiliati dalle loro terre, giunsero in Campania, in Calabria, in Sicilia e in Sardegna dove fondarono una "società divina e sacra". Dopo una nuova dispersione, fu trovato l'accordo per la definitiva riconciliazione nelle stanze del castello di Ottaviano, luogo che per Cutolo aveva da sempre avuto un valore simbolico. Fino a quando sette cavalieri raccolsero il potere della società e lo consegnarono a Cutolo. Seguiva poi la descrizione della cerimonia con il taglio sul braccio e il patto di sangue per rendere effettiva la "fedelizzaizone". Tra i passaggi più significativi del giuramento di Palillo, documento esemplare degli ideali di tutta la controcultura criminale cutoliana, che faceva leva sulla disoccupazione dilagante e sulle ingiustizie sociali, vi era il seguente, che suonava profetico e al tempo stesso cupo e minaccioso nei confronti degli stessi affiliati: «Un camorrista deve sempre ragionare con il cervello, mai con il cuore... Il giorno in cui la gente della Campania capirà che vale più un tozzo di pane libero che una bistecca da schiavo, quel giorno la Campania ha vinto veramente... Noi siamo i cavalieri della camorra, siamo uomini d'onore, d'omertà e di sani princìpi, siamo signori del bene, della pace e dell'umiltà, ma anche padroni della vita e della morte. La legge della camorra a volte è spietata, ma non ti tradisce.» La formula d'apertura era: "Con parole d'omertà è formata società". Il giuramento finale era: "Giuriamo di dividere con lui gioie, dolori, sofferenze... però se sbaglia e risbaglia ed infamità porta è a carico suo ed a discarico di questa società e responsabilizziamo il suo compare di sangue". L'elenco di tutti i "fidelizzati" sarebbe poi stato conservato presso una delle stanze del castello di Ottaviano, nascosto in una nicchia nella parete e tenuto in cura dalla sorella di Cutolo, Rosetta. La ritualità è stata sempre di rilievo nelle organizzazioni criminali. In particolare, nell’ambito della Nuova Camorra Organizzata, Cutolo aveva predisposto un suggestivo “giuramento di sangue”. Il rito cominciava con il “battesimo” del luogo in cui veniva svolto il giuramento, pronunciando le seguenti parole: “Battezzo questo locale come lo battezzarono i nostri tre vecchi antenati. Se loro lo battezzarono con ferri e catene, io lo battezzo con ferri e catene. Alzo gli occhi al cielo, vedo una stella volare, è battezzato il locale”. Dopo il rito continuava: “Tengo cinque damigelle alla mia destra, cinque bei fiori alla mia sinistra, una ciampa di cavallo alla romana che forma società divina e sacra. Cade una stella, scende una belata: con parole d’omertà, è formata società. Quanto pesa un picciotto? Quanto una piuma sparsa al vento. Cosa rappresenta un picciotto? Una sentinella d’omertà che gira e rigira sette cantoni e che quello che vede e che sente lo porta in ballo alla società”. Poi, come ricorda Francesco De Simone, seguono taluni atti simbolici quali un’incisione che il padrino compie col coltello sulla punta del dito indice destro dell’iniziato e sul suo dito indice, toccandosi col sangue. Un abbraccio fra “cumpare” e “cumpariello”, fra padrino e figlioccio, suggella la fine del rito iniziatorio. Al vertice del gruppo c'è ovviamente Cutolo, definito "il Vangelo", che faceva le veci del vecchio capintesta della Bella Società Riformata ma, a differenza di questi che veniva eletto nel corso di riunioni tenute da rappresentanti dei vari quartieri di Napoli, Cutolo è il capo indiscusso per volontà divina, da cui dipende la vita e la morte di tutti. Al livello sottostante vi è la cassiera dell'organizzazione, la sorella Rosetta. Seguono quindi i santisti, ossia i bracci destri di Cutolo, che cambiarono nel corso degli anni. Tra di essi vi furono Corrado Iacolare, Vincenzo Casillo, Pasquale Barra, Antonino Cuomo. Seguono quindi gli sgarristi, i capizona o referenti territoriali che si divisero Napoli e Salerno con le rispettive province. Gli affiliati vennero definiti semplicemente picciotti. Vi erano infine gruppi speciali di affiliati, definiti batterie, ossia la manovalanza di killer pronti ad uccidere chiunque al primo comando. Alla cerimonia di affiliazione dovevano partecipare cinque persone: il Vangelo, un affiliato favorevole ed uno sfavorevole, il contabile e il maestro di giornata. Gli ultimi due avevano il compito di "registrare" la "fedelizzazione" in caso di esito positivo. Per quanto riguarda i rapporti comunicativi con l'esterno, di fondamentale importanza dato che la maggior parte dei principali esponenti della NCO erano ergastolani, Cutolo sviluppò due strutture parallele, una all'interno del sistema penitenziario chiamata "cielo coperto", e l'altra al di fuori chiamata "cielo scoperto". Per mantenere la sua leadership, Cutolo necessitava di trasmettere i suoi ordini ai membri della NCO al di fuori del carcere in modo efficace e affidabile, assicurando al contempo che una parte dei profitti generati fosse consegnata all'interno del carcere in modo da poter espandere la sua campagna di reclutamento. Le particolari condizioni del carcere di Poggioreale, che includevano la sua posizione strategica nel centro di Napoli e il flusso continuo di persone come affiliati liberi sulla parola e parenti dei carcerati, consentirono a Cutolo di coordinare con successo le attività criminali dalla sua postazione centralizzata, da cui inviava direttive agli associati per le operazioni esterne. I parenti venivano utilizzati principalmente come corrieri di informazioni, ma, quando questi non erano disponibili, false parentele venivano certificate attraverso la collaborazione, più o meno forzata, degli impiegati nei comuni in cui gli affiliati erano residenti; ciò avvenne in particolare per il comune nativo di Cutolo, Ottaviano. Il Dipartimento di Giustizia scoprì nel 1983, che Cutolo era stato visitato quasi ogni giorno da luglio 1977 a dicembre 1978 da Giuseppe Puca che utilizzava un documento secondo cui risultava cugino di primo grado di Cutolo. Cutolo aveva anche ricevuto tre visite da un altro suo affiliato che risultò, nell'ordine, cognato, compare e infine cugino di primo grado; tutte relazioni parentali formalmente iscritte nel registro comunale. Cutolo istituì anche il cosiddetto soccorso verde per aiutare la popolazione carceraria, fornendo loro abiti, avvocati, consulenza legale, soldi per sé stessi e per le loro famiglie, e anche regali come articoli di lusso. Fin dalla prima affiliazione, Cutolo aveva istituito un fondo di 500.000 lire per ogni affiliato. I soldi venivano versati ai carcerati, in tutta Italia, tramite il sottogruppo di Rosetta Cutolo, che disponeva di diversi corrieri ed era considerata la cassiera dell'organizzazione. Nel tentativo di controllare l'intera regione, Cutolo superò e andò oltre la struttura familistica tipica della camorra urbana. La NCO aveva una struttura aperta e poteva contare su circa 1.000 nuovi affiliati all'anno. L'affiliazione era aperta a tutti, bastava solo giurare fedeltà a Cutolo e giurare di contribuire alle attività criminali comuni. Tuttavia, non appena il business dell'organizzazione si ampliò a dismisura e c'era bisogno di più manodopera, il reclutamento divenne più aggressivo e, in seguito, anche obbligatorio. In prigione, i carcerati venivano costretti a diventare membri della NCO. In caso contrario, potevano subire una punizione corporale o addirittura una vendetta trasversale. L'organizzazione era una sorta di federazione di diversi clan, ognuno con la sua area territoriale di riferimento, ma gerarchicamente ordinata e strettamente controllata da Raffaele Cutolo. Al di fuori del carcere, veniva indetta una riunione esecutiva, ogni quindici giorni, in cui Rosetta Cutolo, raccoglieva le informazioni da riferire poi al fratello nelle visite in carcere.

Il dopo-terremoto. Servendosi dei ricavati delle tangenti imposte dai suoi fedelissimi fuori dal carcere, Cutolo riesce ad investire attentamente i guadagni all'interno dello stesso carcere di Poggioreale per aiutare le condizioni dei giovani detenuti, soprattutto quelli destinati a uscire presto. Tra le motivazioni addotte dal Cutolo per attrarre sempre più nuovi affiliati vi sono quelle legate a quelle che lui riteneva le ingerenze della mafia siciliana negli affari criminali campani. Solo con un'organizzazione forte ed unita Napoli e la Campania avrebbero potuto contrastare la forte avanzata di Cosa Nostra, soprattutto nel campo del contrabbando e dello smistamento di stupefacenti. Oltre a tentare di costruire un'identità regionale su basi delinquenziali, Cutolo usa anche il suo ascendente per ricomporre liti e dispute all'interno del carcere. I risultati non si fanno attendere: la popolarità tra gli ex-detenuti è altissima i legami di gratitudine sono molto saldi e un mare di soldi comincia ad affluire nelle casse del Professore. Già nel 1980 la NCO poteva contare su circa 7.000 affiliati. Le offerte in danaro sono però il primo passo per creare una falange di fedelissimi. Il passaggio da gruppo di affiliati legati da un patto di sangue ad organizzazione affaristica ramificata come una holding e connessa con la politica e con gli ambienti finanziari, avvenne dopo il terremoto del novembre del 1980, quando le cellule cutoliane cominciarono ad infiltrarsi negli appalti per la ricostruzione o a richiedere tangenti ai grossi cantieri che nascevano come funghi a Napoli e provincia e in buona parte della Campania. Nella relazione sulla camorra, presentata nel 1993 dalla Commissione Parlamentare Antimafia, la veloce diffusione della NCO da semplice banda carceraria ad holding mafiosa viene spiegata come segue: «Ad un ceto delinquenziale sbandato e fatto spesso di giovani disperati, Cutolo offre rituali di adesione, carriere criminali, salario, protezione in carcere e fuori. Si ispira ai rituali della camorra ottocentesca, rivendicando una continuità ed una legittimità che altri non hanno. Istituisce un tribunale interno, invia vaglia di sostentamento ai detenuti più poveri e mantiene le loro famiglie. La corrispondenza in carcere tra i suoi accoliti è fittissima e densa di espressioni di gratitudine per il capo, che si presenta alcune volte come santone e altre come moderno boss criminale. Vive di estorsioni, realizzate anche attraverso la tecnica del porta a porta. Impone una tassa su ogni cassa di sigarette che sbarca. Vuole imporsi ai siciliani, che non si sottomettono. Impera con la violenza più spietata.» (Commissione Parlamentare Antimafia, 1993f, pp. 43-44)

Anche le alleanze con altre realtà delinquenziali extra-regionali diventano numerose: oltre che con la Sacra Corona Unita pugliese (da lui fu creato un ramo nel 1979 capeggiato dai fratelli Spedicato e Guerrieri che gli si ribellò successivamente per la sua indipendenza), Cutolo stringe i rapporti con la 'ndrangheta, in particolare con le cosche Piromalli, De Stefano e Mammoliti. Con la sua breve latitanza tra il 1978 e il 1979, Cutolo stringe anche accordi con le bande lombarde di Renato Vallanzasca (detto "il bel Renè") e Francis Turatello e quelle pugliesi (Nuova Camorra Pugliese e Sacra corona unita). Quando considera la sua organizzazione oramai matura, Cutolo decide di imporre una tassa persino sulle casse di sigarette a tutti gli altri clan camorristici di Napoli. Nel 1978 Michele Zaza (noto contrabbandiere napoletano legato con la mafia siciliana) e i suoi creano una banda denominata Onorata fratellanza, ma Cutolo non se ne preoccupa e si infiltra in nuovi territori. Il contrasto con la Nuova Famiglia. Quando tenta di prendere il controllo della zona del centro di Napoli (Forcella, Duchesca, Mercato, Via del Duomo) nelle mani dei potenti Giuliano, questi si alleano con i clan di San Giovanni a Teduccio e di Portici e con i boss Carmine Alfieri e Pasquale Galasso. Alla fine del 1978 nasce la cosiddetta Nuova Famiglia, formatasi da una precedente alleanza denominata "Onorata Fratellanza", una confederazione di clan creata ad hoc per eliminare i cutoliani. E scoppia la guerra. È una guerra senza quartiere: nel solo napoletano, nel 1979 si registrano 71 omicidi; l'anno successivo sono 134 e salgono a 193 nel 1981, a 237 nel 1982, a 238 nel 1983, per scendere a 114 nel 1984. Anche la NF fece un uso propagandistico dell'affiliazione con relativo cerimoniale per attrarre sempre più giovani sbandati. Il giuramento ufficiale di affiliazione fu trovato nell'auto di Mario Fabbrocino e ricalcava in maniera spudorata quello della NCO, rifacendosi ai valori della fedeltà e dell'omertà. Quando nella Nuova famiglia subentrano anche i Nuvoletta, gli Alfieri, i Galasso, i Misso della Sanità e soprattutto i casalesi, la guerra si conclude con un indebolimento dei cutoliani e con un rafforzamento della presenza camorristica nel napoletano.Alla fine degli anni ottanta una serie di blitz e una catena di omicidi (tra cui quello del figlio di Cutolo, Roberto, e quello del suo avvocato, Enrico Madonna), mettono la parola fine all'ascesa cutoliana.

La Camorra. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La camorra è un'organizzazione criminale italiana di connotazione mafiosa originaria di Napoli.

Etimologia del termine. «Dissi di una simil setta. La camorra infatti, nel significato generale del vocabolo, designa ben altro che l'associazione [...] Il vocabolo si applica a tutti gli abusi di forza o di influenza. Far la camorra, nel linguaggio ordinario, significa prelevar un diritto arbitrario e fraudolento.» (Marc Monnier, La camorra: notizie storiche raccolte e documentate, 1862).

Le ipotesi sull'etimologia del termine sono varie:

Secondo l'enciclopedia Treccani e il linguista Massimo Pittau, sarebbe legato per similitudini fonetiche e semantiche al nome dell'antica città biblica di Gomorra. Il passaggio semantico sarebbe avvenuto per traslazione attraverso il significato intermedio di vizio/malaffare e quindi di delinquenza/malavita.

Secondo lo studioso Abele De Blasio, professore all'Università di Napoli, deriverebbe dal termine Gamurra del XIII secolo, indicante un'associazione di mercenari sardi al soldo di Pisa, come riporta il primo tomo del Codex Diplomaticu Sardiniae.

Un'altra corrente sostiene sia connesso ad una bisca frequentata dalla malavita napoletana del XVII secolo. In un documento ufficiale del Regno di Napoli risalente al 1735, troverebbe riscontro nel significato di tassa sul gioco, imposta dovuta ai protettori dei locali dediti al gioco d'azzardo.

Si pensa anche possa fare riferimento alla gamurra che indossavano i lazzaroni napoletani, un indumento simile alla chamarra spagnola, tipico dell'Italia tardo-medievale e rinascimentale. Nelle antiche commedie teatrali si ritrova spesso questo termine ad indicare un abito o una giacchetta molto corta.

Altri affermano che andrebbe connesso al termine morra, ovvero banda. Per cui, chi ne avesse fatto parte sarebbe stato c'a morra (con la banda). Morra, comunque, può significare anche rissa.

Secondo qualche autore campano, potrebbe inoltre derivare da ca' murra e cioè capo della murra. Nella Napoli settecentesca, infatti, il guappo di quartiere doveva risolvere le dispute tra i giocatori della murra (tipico gioco di strada).

Storia. Secondo una delle ipotesi storiche la società segreta che diede origine alla Bella Società Riformata si sarebbe formata a Cagliari nel XIII secolo sotto il nome di Gamurra (probabilmente derivante dal medesimo nome di una giacchetta marinara tipica dell'Italia tardo medievale e rinascimentale, o dalla lingua araba Kumargioco d'azzardo proibito dal Corano) e poi si sarebbe diffusa a Napoli intorno al XIV secolo. Secondo l'ipotesi più accettata, il termine nascerebbe invece direttamente a Napoli, intorno al XVI-XVII secolo, trovando la sua radice etimologica originaria nello stesso dialetto napoletano, venendosi a formare dalla giunzione delle parole c'a-morra (con la morra), in riferimento all'omonimo gioco di strada. In virtù delle notizie storiche accertate, è assai condiviso datare ai primi anni del XIX secolo la nascita della camorra partenopea intesa come organizzazione criminale segreta, «una sorta di massoneria della plebe napoletana».

Il mito e le origini. Secondo scrittori come Marc Monnier, rettore della Università di Ginevra e tra i primi ad aver dedicato un testo sulla camorra e ad averla analizzata[18], il termine camorra deriverebbe da gamurra e avrebbe origine non napoletana, ma sardo/pisana. La prima citazione del termine si ha infatti in un documento medievale pisano. Una delle ipotesi storiche della camorra vede questa nascere e svilupparsi in periodo medievale nei quartieri portuali della città di Cagliari e intorno al XIII secolo, quando era necessario per Pisa, che allora regolava la politica del luogo, controllare gli isolani ed evitare che questi potessero unirsi e creare sommosse. Furono usate bande di mercenari isolani armati, il cui compito era quello di pattugliare i diversi borghi e mantenere così l'ordine pubblico. Tale gestione di potere passerà in seguito dalle mani dei governanti pisani a quelle dei governanti aragonesi: protettorato, gabelle, gioco d'azzardo e tangenti forniranno loro le entrate necessarie per mantenere in piedi tale organizzazione malavitosa, ormai composta e diretta da capibastone della plebe. Secondo questa ipotesi i gruppi di mercenari sardi lasciano Cagliari e raggiungono la Campania e vi si stabiliscono nel XVI secolo, durante il governatorato spagnolo. A differenza delle altre organizzazioni criminali, diffuse soprattutto in campagna, la camorra attecchisce velocemente in città, tra la popolazione locale, nei quartieri più popolosi, organizzandosi in famiglie (o clan), capitanate da criminali provenienti dai più bassi strati della società napoletana, che oltre a fungere da mercenari pagati dagli alti ceti sociali, per esercitare il controllo delle bische, si rendevano allo stesso tempo anche autori di soprusi, abusando del potere conferitogli. Queste bande infatti commettevano illeciti ai danni delle povere persone del popolo, come raccontato in un documento dell'epoca: «facimme caccià l’oro de’ piducchie» (dal libro "La camorra" di Monnier). I progenitori della camorra storica, quella ottocentesca, esistevano nel XVII secolo ed erano detti compagnoni che si muovevano in quattro e vivevano alle spalle di prostitute, controllando il gioco d'azzardo e facendo rapine. In ogni quartiere napoletano c'era un gruppo di compagnoni di cui era membro anche qualche nobile. Il loro luogo d'incontro era la taverna "del Crispano", presso l'attuale Stazione Centrale di Napoli. Anche il canonico Giulio Genoino, ispiratore della rivolta di Masaniello, si faceva proteggere da compagnoni. Vi erano pure i cappiatori, ladri di strada, e i campeadores, rapinatori con coltelli. Alla fine del XVII secolo a Napoli ci furono 1338 impiccati, 17 capi giustiziati, 57 decapitati, 913 condannati alla galera. Nel periodo del vicereame spagnolo il criminale più noto fu Cesare Riccardi, detto "abate Cesare", a capo di una banda di criminali.

La carestia del 1764. Il medico e storico napoletano Salvatore De Renzi (1800 - 1872), in un saggio pubblicato nel 1868 sulla carestia nel Regno di Napoli del 1764[29] imputa alla presenza di camorristi una delle cause della carestia, poiché questi, intervenendo ad accaparrare a fini speculativi il grano ed altri generi alimentari, ne turbavano il libero mercato: "nel seno stesso delle amministrazioni si costituivano numerose consorterie di camorristi, i quali cercavano di profittare dei pubblici bisogni e le carestie avvenivano allora come effetto di deplorabili sistemi annonari e quale conseguenza della immoralità degli uomini ed erano meno scusabili della stessa peste".

La Bella Società Riformata. Nel 1820 la "Bella Società Riformata" si costituì ufficialmente, riunendosi nella chiesa di Santa Caterina a Formiello a Porta Capuana; i camorristi napoletani definivano la loro organizzazione anche come "Società della Umirtà" o "Annurata Suggità" ("Onorata Società") per alludere alla difesa del loro "onore", che consisteva nell'omertà (Umirtà), cioè il codice malavitoso del silenzio e dell'obbligo a non parlare degli affari interni all'organizzazione con la polizia. Per accedere all'organizzazione era previsto un vero e proprio rito di iniziazione definito "zumpata" (o dichiaramento) che consisteva in una sorta di duello rusticano. Questo si spiega soprattutto con il fatto che i camorristi ebbero sempre l'ambizione di imitare i nobili. Impiegando il coltello o la spada cercavano di dimostrare il loro "valore" in questa sorta di scontri. Le fasi preliminari della zumpata erano l'appìcceco, il litigio, il ragionamento, tentativo di composizione della controversia, banchetto e poi duello. Se il combattimento all'arma bianca si poteva tenere in una qualsiasi zona affollata l'utilizzo di una pistola richiedeva, invece un luogo solitario. In origine il sodalizio si occupa principalmente della riscossione del pizzo da alcuni dei numerosi biscazzieri, che affollano le strade dei quartieri popolari di Napoli. Ben presto, però, conseguentemente all'unità d'Italia, il fenomeno dilaga e le estorsioniiniziano a danneggiare la quasi totalità dei commercianti. Nonostante le violenze e i crimini perpetrati, i camorristi godono della benevolenza del popolo al quale, in una situazione come quella post-unitaria di totale disinteresse delle istituzioni per i problemi sociali, garantiscono un minimo di "giustizia".

Tra le principali fonti di risorse economiche della camorra si ricordano:

Il “Barattolo” che era la percentuale di circa il 20% sugli introiti dei biscazzieri;

lo “Sbruffo” era, invece, la tangente su tutte le altre attività (dai facchini ai venditori ecc.);

un particolare regime di tassazione per la prostituzione;

il gioco piccolo (una sorta di Lotto).

Sotto il regno di Francesco I la camorra godette del favore della casa reale, ad essa erano anche affiliati Michelangelo Viglia valletto del re e la cameriera della regina, Caterina De Simone. Nei primi anni del regno di Ferdinando II divenne famoso Michele Aitollo detto "Michele a Nubiltà, costui i giovedì presiedeva una sorta di corte di giustizia in un basso napoletano, per dirimere litigi fra persone del popolo minuto, e talvolta per questa sua funzione pacificatrice si pronunciava anche su persone inviategli da Luigi Salvatores, commissario di Pubblica Sicurezza del rione Porto, e perfino Gennaro Piscopo il prefetto di polizia[33].Intorno al 1840, Aniello Ausiello di Porta Capuana spadroneggiava. I guadagni alla sua paranza arrivavano dalla partecipazione alle periodiche aste organizzate dall'esercito, che vendeva in quel modo i cavalli di scarto. Secondo Marc Monnier, "la camorra fu rispettata, usata spesso sotto i Borbone fino al 1848. Essa formava una specie di polizia scismatica, meglio istruita sui delitti comuni della polizia ortodossa, che occupavasi soltanto dei delitti politici. [...] Inoltre la camorra [...] era incaricata della polizia delle prigioni, dei mercati, delle bische, dei lupanari e di tutti i luoghi malfamati della città".[35] Con lo scoppio della rivoluzione infatti alcuni importanti camorristi (quali Luigi Cozzolino detto il "Persianaro", Michele Russomartino detto il "Piazziere", Andrea Esposito detto “Andreuccio di Porta Nolana” e addirittura il capo della camorra del quartiere Mercato Salvatore Colombo, entrato nella setta dell’Unità Italiana) passarono dalla parte dei liberali nella lotta anti-assolutista, partecipando agli scontri di piazza[36]. Ciò determinerà le prime repressioni su vasta scala della camorra a Napoli, portate avanti dai ministri della polizia Gaetano Peccheneda prima (nel 1849-50) e Luigi Ajossa poi (nel 1859-60).

Il ruolo nell'unità d'Italia. Quando nel 1860, Garibaldi sbarcò in Sicilia, la camorra ne approfittò appoggiando i Savoia contro la dinastia regnante dei Borbone. La "ricompensa" nella politica camorristica fu concordata con i malavitosi dal prefetto di Polizia nominato da re Francesco II delle Due Sicilie, Liborio Romano, il quale lasciò il controllo di Napoli alla camorra durante la fase di transizione del regno, al fine di evitare possibili rivoluzioni incoraggiate dai Borbone in esilio. Il nuovo ministro degli interni del nuovo Regno d'Italia, Silvio Spaventa, ruppe con la camorra e cercò di estirpare il fenomeno e ripristinare la legalità. Nel 1911, si tenne a Viterbo il processo Cuocolo per l'omicidio di Gennaro Cuocolo e Maria Cutinelli e, grazie alle confessioni del camorrista pentito Gennaro Abbatemaggio, vennero inflitte severe pene ai maggiori esponenti dell'organizzazione. La sera del 25 maggio 1915, nelle Caverne delle Fontanelle, nel popolare rione Sanità, i camorristi, presieduti da Gaetano Del Giudice, decretarono lo scioglimento della Bella Società Riformata; in realtà l'associazione era già stata decimata nel corso del processo Cuocolo.

Il XX secolo, dittatura fascista e il dopoguerra. Mussolini sottovalutò il fenomeno camorristico, tanto che concesse la grazia a molti dei camorristi condannati a Viterbo, sicuro che nel nuovo assetto dittatoriale questi non avrebbero costituito più un pericolo. Molti delinquenti diventarono squadristi entrando a far parte delle squadre fasciste ed ebbero in cambio il silenzio sul loro passato. Nel 1921, proliferano i sindacati padronali da contrapporre a quelli operai. E, naturalmente, per animarli, servono squadre armate pronte a tutto, che non hanno nulla da perdere. Il primo sindacato padronale è quello dei camerieri. Nasce con l'appoggio di Guido Scaletti, piccolo camorrista della zona dei Quartieri Spagnoli. Il fascismo usa una tattica abile. Usa i camorristi per reprimere la delinquenza, con il miraggio di cancellare loro i reati e assicurare impieghi. In molti si prestano a questo disegno. A Casignana spararono contro i contadini che avevano occupato le terre. Arturo Cocco, ad esempio, camorrista del quartiere Sanità aveva fiutato il vento e si era gettato tra le braccia del regime. Il suo ascendente nella sua zona d'origine poteva ben servire a controllare che tutto andasse a dovere e la polizia si avvantaggiava dei servigi di Cocco. Negli anni di crescita del fascismo, quando nel partito di Mussolini a Napoli si fronteggiano il movimentismo di Aurelio Padovani con le tendenze istituzionali di Paolo Greco, nei diversi quartieri gli appoggi malavitosi non sono chiari. Un altro guappo violento, Marco Buonocuore, sparò a un operaio antifascista e ottenne buoni incarichi pubblici. L'iscrizione al Partito Fascista era comunque agevolata, senza tener conto della fedina penale[38]. Al quartiere Sanità, Salvatore Cinicola, detto macchiudella con un passato da guappo, fu ben lieto, in cambio di favori e onori, di diventare informatore della polizia, facendo, come amava ripetere da veleno della malavita. Il 25 luglio del 1943, con la caduta di "Mussolini", la gente del quartiere tentò di linciarlo. Fu proprio Luigi Campoluongo a salvarlo. La vita gli fu risparmiata, ma la gente lo costrinse comunque a girare per via dei Vergini tutto imbrattato di sterco. Anche a Bagnoli ci furono personaggi violenti impegnati a tenere a freno gli operai dell'Ilva (poi Italsider): i fratelli Vittorio e Armando Aubry. In cambio, fino al 1935, ottennero l'appalto delle operazioni di carico e scarico ai pontili della fabbrica. Un controllo che consentiva anche buoni guadagni con il contrabbando, che passava attraverso quella piattaforma. Poi, cominciò la stretta del regime. La mano ferma contro la criminalità, che agli inizi era servita al fascismo per affermarsi. Centinaia di delinquenti, piccoli e grandi, vennero inviati al confino. L'obiettivo era duplice: arrestare i camorristi scomodi, restii ai patti con la polizia: dare all'opinione pubblica dimostrazione di una mano ferma contro la criminalità, legando ancora di più al regime i delinquenti più morbidi. Scrive Paolo Ricci:"La camorra aveva riacquistato parte nella sua consistenza nel marasma del dopoguerra. Tuttavia essa non aderì in un primo momento che in minima parte all'invito dei fascisti.[...] Fu un periodo confuso, in cui in certi quartieri ( ad esempio ai Vergini) la camorra (o quello che rimaneva , trasformata, adattata ai nuovi tempi, di essa) si alleò con il popolo nella lotta contro le squadracce d'azione e in altri quartieri,specie in quelli di periferia, invece, i guappi facevano parte delle squadre di azione [...] Nelle fabbriche i padroni e i dirigenti puntavano sui guappi per spezzare l'unità operaia.".[38] .Nell'immediato dopoguerra, il soggiorno obbligato a Napoli, imposto dal governo degli U.S.A. al boss di Cosa nostra statunitense Lucky Luciano contribuì al superamento della dimensione locale del fenomeno e all'inserimento dei camorristi campani nei grandi traffici illeciti internazionali, quali il contrabbando di sigarette in collegamento con il clan dei marsigliesi. Tuttavia, in questa fase, la camorra non ha la struttura verticistica che la caratterizzava nei secoli precedenti, né tanto meno ha un potere decisionale sugli affari che svolge con la mafia, per i quali molto spesso è solo un vettore e si presenta come una pluralità di famiglie più o meno legate tra loro. È ancora l'epoca della "camorra dei campi" e dei mercati. Infatti, una delle figure di spicco del periodo è Pasquale Simonetti, (detto Pascalone 'e Nola per il suo grosso fisico e per la sua origine), un camorrista che controllava il racket dei mercati generali di Napoli, la cui uccisione sarà poi vendicata da sua moglie Assunta Maresca (detta "Pupetta"), il cui processo penale avrà un'eco di livello nazionale.

Gli anni dai '70 ai '90: dalla Nuova Camorra Organizzata al clan dei casalesi. Gli anni 1973-1974 videro un boom del contrabbando di sigarette estere, che aveva il suo centro di smistamento a Napoli: infatti nei primi anni settanta numerosi mafiosi palermitani (Stefano Bontate, Vincenzo Spadaro, Gaetano Riina e Salvatore Bagarella) vennero inviati al soggiorno obbligato in Campania, consentendogli di avviare rapporti con Michele Zaza e altri camorristi napoletani, attraverso i quali acquistavano i carichi di sigarette; addirittura nel 1974 i mafiosi siciliani provvidero ad affiliare a Cosa nostra Zaza, i fratelli Nuvoletta, Antonio Bardellino e altri in modo da tenerli sotto controllo e di lusingarne le vanità, autorizzandoli anche a formare una propria Famiglia a Napoli: secondo il collaboratore di giustizia Antonino Calderone, il capo della Famiglia di Napoli era Salvatore Zaza (fratello di Michele), il consigliere era Giuseppe Liguori (detto "Peppe 'o Biondo", suocero di Michele Zaza) e i capidecina erano Giuseppe Sciorio e i fratelli Nuvoletta. Nella metà degli anni settanta, dal carcere di Poggioreale, nel quale è rinchiuso per omicidio, Raffaele Cutolo inizia a realizzare il suo progetto: ristrutturare la camorra come organizzazione gerarchica in senso mafioso, sfruttando il nuovo business della droga; nasce così la Nuova Camorra Organizzata (N.C.O.). La NCO tentò di imporre il controllo su tutte le attività illecite e ciò spinse le organizzazioni contrabbandiere napoletane e siciliane, rappresentate da Zaza, dai fratelli Nuvoletta e da Bardellino, a riunirsi sotto il nome di Nuova Famiglia (NF), per portare guerra alla camorra cutoliana. La guerra tra le due organizzazioni criminali è spietata e si conclude nei primi anni ottanta con la sconfitta della NCO. Le vittime sono molte centinaia, tra esse anche molti innocenti. In questa fase ci fu anche una connessione generata dal "Caso Cirillo" tra camorra e Brigate Rosse. Dal 1979 la camorra ha ucciso 3600 persone, tra esse anche molti innocenti. Nel 1992 il boss Carmine Alfieri tentò di dare alla malavita organizzata nella regione una struttura verticistica creando la Nuova Mafia Campana (NMC), anch'essa scomparsa dopo poco tempo, ma nel corso degli anni novanta la camorra rafforza la sua struttura di tipo orizzontale (con varie bande territoriali più o meno in lotta tra loro) non verticistica fatta eccezione per alcuni pochi cartelli, tra cui il clan dei casalesi che si strutturò in modo verticistico, formato da una dozzina di clan con una cassa comune.

Il XXI secolo. All'inizio degli anni 2000 l'organizzazione gode ancora di un certo potere, dovuto anche ad appoggi di tipo politico, che le consente il controllo delle più rilevanti attività economiche locali, in particolare modo nell'hinterland napoletano e casertano. Oggi la camorra conta migliaia di affiliati divisi in oltre 200 famiglie attive in tutta la Campania. Sono segnalati insediamenti della camorra anche all'estero, come nei Paesi Bassi, Repubblica Dominicana, Spagna, Brasile, Portogallo, Russia, Francia, Romania, Germania, Polonia ed Albania. I gruppi si dimostrano molto attivi sia nelle attività economiche (infiltrazione negli appalti pubblici, immigrazione clandestina, sfruttamento della prostituzione, riciclaggio di denaro sporco, usura e traffico di droga) sia sul fronte delle alleanze e dei conflitti. Quando infatti un clan vede messo in discussione il proprio potere su una determinata zona da parte di un altro clan, diventano molto frequenti omicidi e agguati di stampo intimidatorio. Il ritorno al contrabbando di sigarette è dovuto ai recenti cambiamenti avvenuti all'interno di alcuni gruppi di camorra. In particolare l'attività è risorta nell'area nord di Napoli, dove opera il gruppo formato dai Sacco-Bocchetti-Lo Russo che, uscito dall'alleanza di Secondigliano, ha recuperato parecchio spazio e deciso di investire in questa attività, visto che i canali della droga sono controllati da altri gruppi, in particolare quello degli Amato-Pagano. A Napoli città il fenomeno è ancora limitato anche se in crescita, soprattutto nella zona dei Mazzarella (Mercato e Case Nuove). Il 7 febbraio 2008 viene arrestato il boss Vincenzo Licciardi, tra i 30 latitanti più pericolosi d'Italia. Era considerato il capo dell'alleanza di Secondigliano.

La situazione corrente. «Pasquale Villari, nel primo grande affresco sociologico sulla camorra che fu (ed è) "Lettere meridionali", dopo aver descritto le condizioni di vita nel centro storico di Napoli, così concludeva: "Finché dura lo stato presente di cose, la camorra è la forma naturale e necessaria della società che ho descritto. Mille volte estirpata, rinascerà mille volte."» (Isaia Sales, Napoli e il paradosso della guerra sociale Il Mattino, 5 febbraio 2016, pagina 1). Grande risalto ha avuto negli anni 2004 e 2005 la cosiddetta faida di Scampia, una guerra scoppiata all'interno del clan Di Lauro quando alcuni affiliati decisero di mettersi in proprio nella gestione degli stupefacenti, rivendicando così una propria autonomia e negando di fatto gli introiti al clan Di Lauro, del boss Paolo Di Lauro, detto Ciruzzo 'o Milionario. Ma questa faida non è l'unica contesa tra clan sul territorio napoletano. Numerose sono le frizioni e gli scontri tra le decine di gruppi che si contendono le aree di maggiore interesse. A cavallo tra il 2005 e il 2006 ha destato scalpore nella cittadinanza e tra le forze dell'ordine la cosiddetta "faida della Sanità", una guerra di camorra scoppiata tra lo storico clan Misso del rione Sanità e alcuni scissionisti capeggiati dal boss Salvatore Torino, vicino ai clan di Secondigliano; una quindicina di morti e diversi feriti nel giro di due mesi. Per quanto riguarda l'area a nord della città (quella da sempre maggiormente oppressa dai gruppi criminali), tra i quartieri di Secondigliano, Scampia, Piscinola, Mianoe Chiaiano, resta sempre forte l'influenza del cartello camorristico detto Alleanza di Secondigliano, composto dalle famiglie Licciardi, Contini, Prestieri, Bocchetti, Bosti, Mallardo, Lo Russo, Stabile e con gli stessi Di Lauro quali garanti esterni (molto spesso, infatti, gli uomini di "Ciruzzo 'o Milionario", si sono interposti tra le liti sorte fra le varie famiglie del cartello, evitando possibili guerre). Per le zone centrali della città (centro storico, Forcella) resta ben salda l'alleanza tra i clan Misso, Sarno e Mazzarella, che controllano praticamente tutta l'area ad est di Napoli, dal centro fino al quartiere periferico di Ponticelli, facilitati anche dalla debacle del clan Giuliano di Forcella, i cui maggiori esponenti (i fratelli Luigi, Salvatoree Raffaele Giuliano) sono diventati collaboratori di giustizia. Le loro attività oggi si basano però solo sul contrabbando. Nell'altra zona "calda" del centro di Napoli, le zone del quartiere Montecalvario, dette anche "Quartieri Spagnoli", dopo le faide di inizio anni novanta tra i clan Mariano (detti i "picuozzi") e Di Biasi (detti i "faiano"), e tra lo stesso clan Mariano e un gruppo interno di scissionisti capeggiato dai boss Salvatore Cardillo (detto "Beckenbauer") e Antonio Ranieri (detto "Polifemo", poi ammazzato), la situazione sembra essere tornata in un clima di relativa normalità, grazie anche al fatto che molti boss storici di quei vicoli sono stati arrestati o ammazzati. La zona occidentale della città non è da meno per quanto riguarda numero di clan e influenza sul territorio. Tra le aree più "calde" si trovano il Rione Traiano, Pianura (Napoli), e lo stesso quartiere Vomero, per anni definito quartiere-bene della città e considerato immune alle azioni dei clan, oggi preda di almeno quattro clan in guerra e saccheggiato dalla microcriminalità comune. Da citare, il cartello denominato Nuova camorra Flegrea, che imperversava a Fuorigrotta, Bagnoli, Agnano e Soccavo, ma che ha subito un duro colpo dopo il blitz del dicembre 2005, quando vi furono decine di arresti grazie alle rivelazioni del pentito Bruno Rossi detto "il corvo di Bagnoli". A Pianura (Napoli) vi è stata in passato una violenta faida tra i clan Lago e Contino-Marfella, che ha portato a numerosi omicidi, tra i quali quello di Paolo Castaldi e Luigi Sequino, due ragazzi poco più che ventenni uccisi per errore da un gruppo di fuoco del clan Marfella, perché stazionavano sotto la casa di Rosario Marra, genero del capoclan Pietro Lago ed erano, quindi, "sospetti". Nella vasta area metropolitana ormai urbanisticamente saldata alla città, sono numerose le zone in mano ai gruppi camorristici, non solo per quanto riguarda i campi "classici" nei quali opera un clan mafioso (estorsioni, usura, traffico di droga), ma anche per quanto riguarda le amministrazioni comunali e le decisioni politiche (si vedano i numerosi comuni sciolti per infiltrazioni camorristiche). La zona davvero soggetta al potere camorristico in città è comunque l'area periferica a nord che comprende i già citati quartieri di Secondigliano, Scampia, Miano, Chiaiano e Piscinola. In Campania, oltre all'hinterland napoletano per influenza sul territorio un ruolo di primo piano è occupato dal clan dei Casalesi, storico sodalizio dell'agro aversano in provincia di Caserta e ormai operativo in gran parte d'Europa; l'organizzazione infatti si pone come un grande cartello criminale di portata internazionale (come più volte riportato dalla DIA e DDA di Caserta e Napoli) gestito dalle famiglie Schiavone e Bidognetti (che hanno ereditato il potere di Bardellino dopo l'omicidio di questi) e dalle altre famiglie alleate che fungono da referenti per le varie province. Tra i vari clan che compongono il cartello è da segnalare il clan Belforte quale tiene il controllo sui traffici e le attività estorsive nei comuni di Marcianise e Maddaloni, e il clan La Torre; quest'ultimo attivo nella cittadina di Mondragone, nella zona di Baia Domitia e sul litorale domizio. Al 2013 si stimava che nella regione Campania operino 114 clan e 4.500 affiliati. Forme di camorra locale meno invasive dal punto di vista militare ma molto radicate sul territorio sono presenti anche nella periferia di Salerno principalmente nel quartiere Mariconda dove è presente lo spaccio di sostanze stupefacenti[48], nell'Agro nocerino sarnese, in provincia di Avellino sono egemoni i clan Cava e Graziano, mentre in provincia di Benevento imperversa il clan Pagnozzi.

Ipotesi definitorie. Nel Grande Dizionario Italiano dell'Uso (GRADIT) compaiono definizioni alte, come: «1a, organizzazione criminale di stampo mafioso, costituitasi con leggi e codici propri già durante il Seicento, e che attualmente esercita il controllo su attività illecite specialmente nell'area napoletana. 1b estens., associazione di tipo mafioso. 1c estens., associazione di persone prive di scrupoli che per vie illecite si procurano favori, guadagni o sim.: gira e rigira è tutta una camorra!». Altre definizioni considerate basse sono: «imbroglio», «chiasso», «cagnara». Sebbene il termine sia impropriamente usato per indicare la società criminale nata a Napoli nel XIX secolo e conosciuta anche come Bella Società Riformata, oggi spesso si tende ad identificare con questo termine un'unica organizzazione criminale simile alla cupola mafiosa siciliana o ad altre organizzazioni di uguale stampo. In realtà la struttura della camorra è molto più complessa e frastagliata al suo interno in quanto composta da molti sodalizi diversi tra loro per tipo di influenza sul territorio, struttura organizzativa, forza economica e modus operandi. Inoltre le alleanze fra queste organizzazioni, qualora si possano considerare tali semplici accordi di non belligeranza fra i numerosi clan operanti sul territorio, sono spesso molto fragili e possono sfociare in contrasti o vere e proprie faide o guerre di camorra, con agguati ed omicidi.

Struttura. La camorra è organizzata in modo pulviscolare con centinaia di famiglie, o clan, ognuna delle quali è più o meno influente a livello territoriale in quasi tutti i comuni della provincia di Napoli e in molti comuni della regione, in particolare della provincia di Caserta. Queste organizzazioni si uniscono e si dividono con grande facilità rendendo ulteriormente difficoltoso il lavoro di "smantellamento" degli inquirenti e delle forze dell'ordine. Questa struttura, caratteristica della camorra fin dal dopoguerra, fu sostituita solo in un'occasione e solo temporaneamente: durante la lotta tra Nuova Camorra Organizzata (NCO) e Nuova Famiglia (NF), un conflitto scatenato da Raffaele Cutolo nel corso del quale la stragrande maggioranza dei clan dovette scegliere con chi schierarsi. Tutte le volte che si è tentato di riorganizzare la camorra con una struttura gerarchica verticale si è preso come modello Cosa nostra. Questi tentativi sono sempre falliti per la tendenza dei capi delle varie famiglie a non ricevere ordini dall'alto. Per tale ragione è improprio parlare di camorra come un fenomeno criminale unitario e organico. Lo stesso termine "camorra", quale entità criminale unitaria, è fuorviante, data la natura estremamente frammentata e caotica della malavita napoletana. Fanno eccezione alcuni determinati cartelli di alleanze, come quello dei Casalesi che è formato da una struttura verticistica composta da una dozzina di cosche con a capo 3 famiglie (Schiavone, Bidognetti, Zagaria-Iovine) e una cassa comune, o come l'Alleanza di Secondigliano. Ma anche all'interno di questi stessi cartelli sono nate, negli anni, violente faide che hanno coinvolto le stesse famiglie interne ai gruppi.

Economia. Secondo recenti dati forniti dall'Eurispes, sembra che la camorra guadagni:

Attività illecite e Valore

Traffico di droga 7.230 milioni €

Imprese e appalti pubblici 2.582 milioni €

Traffico di armi 2.066 milioni €

Estorsione e usura 362 milioni €

Prostituzione 258 milioni €

Il giro d'affari complessivo delle famiglie napoletane si aggirerebbe intorno ai 12 miliardi e mezzo l'anno. I dati Eurispes appaiono tuttavia incompleti poiché non considerano due settori cardine dell'economia camorrista: innanzitutto la produzione e la distribuzione di falsi (abbigliamento, CD-DVD, prodotti tecnologici) con canali e sedi in tutti i continenti. Altro importante settore è quello dello smaltimento illegale dei rifiuti, sia industriali che urbani, attività estremamente lucrosa che secondo alcuni sta conducendo vaste zone di campagna nelle province di Napoli e Caserta verso un progressivo degrado ambientale. A titolo di esempio, che la campagna fra i comuni di Acerra, Mariglianoe Nola, una volta rinomata in tutta la penisola come fra le più verdi e fertili, è da taluni ora indicata con il termine di "triangolo della morte". Il 25 luglio 2011 gli Stati Uniti d'America hanno varato un nuovo piano per il contrasto della criminalità internazionale (strategy to combat transnational organized crime) ed hanno individuato le 4 principali organizzazioni transnazionali più pericolose per l'economia americana posizionando la camorra al secondo posto dopo i Brother Circle russi e prima della Yakuza giapponese e dei Los Zetas messicani con un giro d'affari di 25 miliardi di dollari[54]. Le attività principali della camorra, secondo il governo americano, sarebbero la distribuzione di falsi e il narcotraffico. Per avere un'idea della pericolosità economica della camorra negli Stati Uniti basta pensare che altre organizzazioni italiane che hanno una presenza storica in America, come Cosa nostra e 'ndrangheta, non vengono neanche menzionate. Secondo lo studio del 2013 condotto da Transcrime, centro di ricerca dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, i ricavi delle mafie italiane ammonterebbero a circa 25,7 miliardi di euro l'anno. Di questi, il 35% è appannaggio della Camorra, il 33% della 'ndrangheta, il 18% di Cosa nostra e l'11% della Sacra corona unita. La Camorra avrebbe perciò la fetta di ricavi più larga all'interno del mercato criminale italiano, superando di poco le organizzazioni calabresi e quasi "doppiando" quelle siciliane.

I rapporti con le istituzioni. Numerosi sono stati in passato i contatti tra i gruppi camorristici e la politica locale e nazionale. All'inizio degli anni novanta i pentiti Pasquale Galasso e Carmine Alfierifecero dichiarazioni che misero sotto accusa Antonio Gava, potente capo della corrente dorotea e dirigente della Democrazia Cristiana, successivamente assolto. Secondo l'ex procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore, il 30% dei politici campani è colluso con la camorra. Il dato incrementa notevolmente se si conta che, solo nella Provincia di Napoli, di 51 comuni su 92 sono stati sciolti o interessati da provvedimenti per infiltrazioni camorristiche, con pesanti condizionamenti sulla spesa pubblica e l'imprenditoria legata agli appalti. Dal 1991, data dell´entrata in vigore della legge, ad oggi stati sciolti per camorra in Campania circa 86 comuni. Una media di 4 comuni ogni anno.

L'infiltrazione. Comuni. L'organizzazione riuscì ad infiltrarsi in numerosi comuni della regione, che poi vennero sciolti, alcuni furono:

Acerra (NA)

Arzano (NA) (nel 2008)

Afragola (NA) (nel 1999 e nel 2005)

Battipaglia (SA) nel 2014

Boscoreale (NA) - 2 volte

Brusciano (NA)

Carinola (CE)

Caivano (NA)

Casal di Principe (CE) - 3 volte

Casalnuovo di Napoli (NA)

Casaluce (CE)

Casamarciano (NA)

Casandrino (NA) - 2 volte (una nel 1991)

Casapesenna (CE) - 3 volte

Casola di Napoli (NA)

Casoria (NA) (1999 e 2005)

Castel Volturno (CE) - 2 volte

Castello di Cisterna (NA)

Crispano (NA)

Ercolano (NA)

Frattamaggiore (NA)

Giugliano in Campania (NA)

Gragnano (NA) (1 volta nel 2012)

Grazzanise (CE) - 3 volte

Gricignano di Aversa(CE)

Liveri (NA)

Lusciano (CE) - 2 volte

Marano di Napoli (NA)

Marcianise (CE)

Melito di Napoli (NA)

Montecorvino Pugliano (SA)

Mugnano (NA) - 2 volte

Nola (NA) - 2 volte

Nocera Inferiore (SA)

Ottaviano (NA)

Orta di Atella (CE)

Pagani (SA) - 2 volte, l'ultima il 22 marzo 2012

Pago del Vallo di Lauro (AV)

Pignataro Maggiore (CE)

Pimonte (NA)

Poggiomarino (NA) - 2 volte

Pomigliano d'Arco (NA)

Pompei (NA) - 2 volte

Portici (NA)

Pozzuoli (NA)

Quarto (NA)

Quindici (AV) - primo caso in Italia; il Sindaco fu destituito dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini, per motivi di ordine pubblico. - 4 volte

San Cipriano d'Aversa (CE)

San Gennaro Vesuviano (NA) - 2 volte

San Giuseppe Vesuviano (NA) - (1993, 2009)

San Paolo Bel Sito (NA) - 2 volte

San Tammaro (CE)

Sant'Antimo (NA)

Sant'Antonio Abate (NA)

Santa Maria la Carità (NA)

Santa Maria la Fossa (CE)

Sarno (SA)

Scafati (SA)

Terzigno (NA)

Torre Annunziata (NA)

Torre del Greco (NA)

Trentola Ducenta (CE)

Tufino (NA)

Villa di Briano (CE) - 2 volte

Villa Literno (CE)

Volla (NA)

ASL. Le giunte comunali non sono le uniche istituzioni ad essere state oggetto di scioglimento per infiltrazioni camorristiche. Nell'ottobre del 2005, infatti, primo caso in Italia, fu sciolta dal Consiglio dei Ministri l'Azienda sanitaria locale "Napoli 4", che comprendeva ben 35 comuni del napoletano suddivisi in 11 distretti sanitari: Poggiomarino, Casalnuovo di Napoli, Nola, Marigliano, Roccarainola, San Giuseppe Vesuviano, Somma Vesuviana, Palma Campania, Volla, Acerra e Pomigliano d'Arco, per un bacino di utenti di circa seicentomila abitanti.

Faide:

Prima faida di Afragola, tra i Moccia e i Giugliano: avvenne prima dello scontro fra la NCO e la NF; all'epoca i due eserciti in guerra erano i Moccia e i Giugliano, anch'essi di Afragola. Raffaele Cutolo avrebbe voluto fare un favore alla famiglia Moccia facendo ammazzare l'avvocato Giulio Battimelli.

Faida tra la NCO e la Nuova Famiglia: guerra che scoppiò dopo che l'8 dicembre 1978 le principali famiglie malavitose napoletane decisero di confederarsi in un unico cartello denominato Nuova Famiglia per combattere lo strapotere di Raffaele Cutolo. Fu, di gran lunga, la più violenta per numero di morti ammazzati: nel 1979 si registrarono 71 omicidi; 134 l'anno successivo, 193 nel 1981, 237 nel 1982, 238 nel 1983, 114 nel 1984 (987 in tutto). La guerra iniziò già nel 1978, anche se di fatto fu il 1980, a sancire l'inizio dell'eccidio che si sarebbe venuto a verificare nel periodo 1978-1983, ovvero quando in ballo non ci fu più solo la scelta di Cutolo di distaccarsi dai siciliani, ma i soldi provenienti dal dopo-terremoto dell'Irpinia nel 1980, la Fratellanza napoletana o Onorata fratellanza, come si chiamava fino a quel momento divento la Nuova Famiglia o NF e non inglobò più solamente i clan: Giuliano, Vollaro e Fabbrocino, che fino a quel momento avevano combattuto Cutolo, ma a poco a poco li seguirono anche Gli Zaza, gli Alfieri, i Galasso, i Bardellino (i futuri casalesi), i Nuvoletta, i Gionta, nel 1981 anche i Misso e via via molti altri. La guerra si concluse dopo il maxi-blitz contro la NCO avvenuto il 17 giugno 1983, anche se ci furono dei colpi di coda alla fine del '83 e intorno alla meta dell'84 come: l'omicidio di Gateano Ruffa (22 ottobre 1983), l'omicidio di Giovanni Bifulco (30 dicembre 1983) e l'omicidio di Vincenzo Palumbo e Rosa Martino (14 maggio 1984), tutti ovviamente cutoliani dato che la NCO non poteva più reagire per mancanza di una organizzazione interna. La guerra fu vinta nel 1983 dalla Nuova Famiglia.

Faida tra i Giuliano e i Misso: combattuta tra il 1979 e il 1984, iniziò quando Luigi Giuliano chiese al suo vecchio amico Giuseppe Misso di schierarsi in favore suo contro Cutolo, ma questi si rifiutò perché non voleva schierarsi con nessuna delle due fazioni, allora i Giuliano per ripicca gli chiesero il pizzo e la risposta di Misso fu alquanto brusca in quanto sequestrò i parenti di Giuliano in un basso e li picchiò, e nonostante nel 1981 Giuseppe Misso decise di schierarsi contro Cutolo la guerra di camorra andò avanti lo stesso infatti il 24 settembre 1983 avvenne il triplice omicidio di Domenico Cella, Ciro Lollo e Ciro Guazzo, uccisi alla Sanità. Motivo dell'azione, una rappresaglia contro il clan rivale dei Giuliano che aveva imposto la chiusura delle sedi del Movimento sociale alla Sanità.

Faida tra i Giuliano e i Contini: combattuta nel 1984 tra il clan Giuliano e il nascente gruppo di Eduardo Contini e Patrizio Bosti (condannati poi proprio per un duplice omicidio avvenuto nel contesto di questa faida, quello dei fratelli Gennaro e Antonio Giglio). Il tutto cominciò per una storia di controllo di una bisca della zona dell'Arenaccia.

Faida di Quindici: faida decennale tra le famiglie Graziano e Cava del comune di Quindici, in provincia di Avellino. Iniziata negli anni ottanta si protrae ancora oggi.

Prima faida di Castellammare: Umberto Mario Imparato contro il Clan D'Alessandro. Questa faida portò a diverse decine di agguati mortali, tra cui quello di Michele D'Alessandro in cui morirono quattro suoi guardaspalle (lui si salvò per miracolo) in viale delle Terme a Castellammare di Stabia.

Prima faida dei Quartieri Spagnoli: combattuta tra i clan Mariano, detti i picuozzi, e Di Blasi, detti i faiano, alla fine degli anni ottanta; fu una delle guerre più cruente di quel periodo, gli agguati mortali furono diverse decine.

Faida tra i Giuliano e l'Alleanza di Secondigliano: violento scontro avvenuto tra i due potenti gruppi nel 1990. Culminò con l'omicidio di Gennaro Pandolfi, dei Giuliano, e del figlio Nunzio Pandolfi, di appena due anni.

Faida tra i Clan Gallo-Cavalieri e i Gionta: combattuta tra i clan Gionta e il Clan Gallo-Cavalieri di Torre Annunziata. A scatenare la faida, che continua tuttora, malgrado le inchieste della Procura antimafia e l'incessante lavoro degli investigatori, fu il duplice omicidio di due affiliati ai Gallo, uccisi nel dicembre 1990, a cui fece seguito, pochi giorni dopo, l'agguato in cui persero la vita altre due persone appartenenti al gruppo dei Gionta. Dopo anni di pace tra i due clan, data dal fatto che si sono creati rapporti di parentela, nel 2006 la faida è riesplosa, arrivando all'apice nel 2007 con 4 morti in 2 giorni, dopo alcuni episodi verificatisi nel 2013, agguati e omicidi ai danni soprattutto dei Gionta, la faida sembra nuovamente cessata.

Prima faida di Pianura: svoltasi tra il 1991 e il 2000 tra i clan Lago, e i clan Contino e Marfella, alleati. Il primo atto risale al 1991: il 21 aprile, a Pianura, furono assassinati due spacciatori. Dopo l'arresto e il pentimento del boss Giuseppe Contino, a continuare l'opera è stato il clan Marfella. In questa seconda fase del conflitto è da inserire il duplice omicidio di Luigi Sequino e Paolo Castaldi, due ragazzi innocenti ammazzati per errore sotto l'abitazione dei Lago, perché scambiati dai sicari dei Marfella per due vedette del clan rivale.

Prima faida di Ercolano: guerra tra gli Esposito e gli Ascione, combattuta quasi interamente nel 1990; iniziò con l'omicidio del boss Antonio Esposito e uscirono perdenti gli Esposito dopo l'agguato mortale ai danni del reggente del clan Salvatore Esposito (1960 - 1993), anche se di fatto l'omicidio di Delfino Del Prete, aveva già deciso le sorti della guerra.

Faida tra i Misso e l'Alleanza di Secondigliano: faida portata avanti dal boss Giuseppe Misso e dai vertici dell'Alleanza di Secondigliano. La situazione degenerò dopo il duplice omicidio di Alfonso Galeota e Assunta Sarno, moglie di Giuseppe Misso, nel 1992.

Seconda faida dei Quartieri Spagnoli: dopo la prima faida, che si concluse senza un vincitore netto, i Mariano dovettero affrontare un gruppo di scissionisti al proprio interno guidati dai boss Antonio Ranieri (detto Polifemo, poi ammazzato) e Salvatore Cardillo (detto Beckenbauer); questi ultimi due furono seguiti da un nugolo di fedelissimi. La violenta faida che ne seguì portò di fatto alla dissoluzione dello stesso clan Mariano a seguito di numerosi omicidi, pentimenti e blitz con decine di arresti negli anni 1993 e 1994.

Seconda faida di Ercolano: faida decennale che vede coinvolti i clan Ascione e Birra. È una delle faide più cruente in termini morti ammazzati. In ballo ormai non c'è più soltanto il controllo del territorio: la guerra di camorra va avanti perché tra i malavitosi delle due famiglie c'è un odio profondo e radicato. Nella faida sono coinvolti anche i Papale. Dopo anni di lotta tra i due clan e gli innumerevoli arresti che hanno decimato entrambe le fazioni ad aver vinto la faida sarebbero gli Ascione-Papale, sebbene in un primo momento davano come camorra vincente la "cuparella", tanto è che in un certo periodo anche gli Ascione-Papale dovevano rifornirsi di droga da loro. La vera svolta fu nel 2007, dopo l'omicidio di Antonio Papale, quando i "Bottone" decisero di vendicare il fratello morto, tant'è vero che dopo tale episodio o giù di lì, si conteranno 10 omicidi e altrettanti tentati omicidi avvenuti tra il marzo 2007 e il gennaio 2011, tutti contro il clan Birra, mentre quest'ultimo non riuscirà a mettere a segno nemmeno un omicidio in favore loro. Il clan Birra, di fatto, non esiste più. Chi non si è pentito o è in carcere o è morto ammazzato, mentre il clan Ascione è ancora operante a Ercolano, forte dell'alleanza con i Falanga di Torre del Greco.

Prima faida interna ai Casalesi: combattuta nella seconda metà degli anni novanta tra la famiglia Bidognetti e il clan scissionista capeggiato da Antonio Cantiello. Vide il rogo di San Giuseppe, quando nella notte di San Giuseppe del 1997 fu incendiato il bar Tropical ad Ischitella (il cui gestore aveva rifiutato, per ordine degli stessi Bidognetti, di installare all'interno dell'esercizio alcuni video-poker commissionati dalla famiglia Cantiello), in cui morì, bruciato vivo, il giovane cameriere del locale, Francesco Salvo.

Seconda faida interna ai Casalesi: scontro tra le famiglie del cartello e la fazione scissionista guidata dal boss Giuseppe Quadrano (poi pentitosi).

Faida tra i Licciardi e i Prestieri: conosciuta anche come la faida della minigonna, fu combattuta tra i clan Prestieri e Licciardi e portò ad una ventina di morti in pochi mesi. Tutto cominciò infatti in una discoteca per una battuta di troppo tra due gruppi di giovani sul vestito troppo succinto di una ragazza. I due gruppi di giovani appartenevano a clan di camorra, questo portò prima alla morte del giovane Vincenzo Esposito detto 'o principino, pupillo della famiglia Licciardi, e poi a quella di numerosi affiliati dei Prestieri come ritorsione.

Faida tra i Mazzarella e i Rinaldi: un tempo alleati, i Mazzarella da un lato, e dall'altro i Rinaldi, famiglia storica del rione Villa di San Giovanni a Teduccio, fino al 1989 fedelissimi di Vincenzo Mazzarella e fratelli. Tutto filò liscio fino a quando un boss dei Rinaldi non cominciò ad essere troppo ingombrante e fu ucciso. Quest'agguato portò ad una guerra con decine di morti protrattasi fino ad oggi.

Faida tra gli Altamura e i Formicola: conflitto violentissimo durato anni svoltosi nel territorio di San Giovanni a Teduccio. Più che per motivi di predominio criminale, la faida è stata combattuta per rancori di tipo familiare. La guerra decapitò entrambe le famiglie, compresi i due boss, e si fece sempre più feroce.

Faida tra i Cuccaro e i Formicola: guerra a cui sono riconducibili diversi episodi di sangue. Alla base dei sanguinosi contrasti c'è l'agguato mortale contro Salvatore Cuccaro, potente numero uno della cosca familiare di Barra nonostante avesse soltanto 31 anni, avvenuto il 3 novembre del 1996.

Frima faida di Forcella: detta anche "faida tra la Forcella di sopra e la Forcella di sotto", fu uno scontro interno al clan Giuliano che ebbe luogo a metà anni novanta; da una parte i figli di Pio Vittorio Giuliano, dall'altra i figli di Giuseppe Giuliano. Ci andò di mezzo, tra gli altri, anche il patriarca Giuseppe, detto zì Peppe, 63 anni, ammazzato nel corso di un clamoroso agguato a Forcella il 9 luglio del 1998.

Prima faida della Sanità: fu combattuta negli anni 1997 e 1998 tra il clan Misso e i clan, alleati tra loro, Tolomelli e Vastarella. Dopo numerosi omicidi, tra cui quello del boss Luigi Vastarella, vi fu l'atto finale con l'autobomba, una Fiat Uno imbottita di tritolo, scoppiata in che doveva uccidere due boss dei Misso e che invece portò ad undici feriti innocenti.

Faida tra i Sarno e i De Luca Bossa: questa faida può essere considerata come una sorta di "spin-off" della faida tra i Misso e l'alleanza di Secondigliano, essendo i primi alleati dei Sarno e i secondi inglobati nell'Alleanza. Dopo numerosi omicidi, la faida culminò con l'autobomba di Ponticelli del 1998, in cui morì un nipote del boss Vincenzo Sarno (vittima predesignata dell'agguato).

Terza faida dei Quartieri Spagnoli: fu la guerra combattuta, a fine anni novanta e inizio anni duemila, tra il clan Di Biasi, rimasto il clan dominante ai Quartieri dopo la dipartita interna dei Mariano, e i Russo, figli del boss Domenico Russo, detto Mimì dei cani. Numerosi omicidi tra cui quelli dei due patriarca, Francesco Di Biasi, padre dei faiano, e lo stesso Domenico Russo.

Faida dei quartieri collinari Vomero-Arenella: combattuta nei due quartieri bene della città, fino ad allora considerati immuni dalla malavita organizzata; verso la metà degli anni novanta lo storico clan capeggiato da Giovanni Alfano si scisse, formando due distinti schieramenti. Da un lato, gli affiliati di vecchia militanza al gruppo Alfano, dall'altro quelli rimasti fedeli al pluri-pregiudicato Antonio Caiazzo. Diversi sono stati gli omicidi commessi nel corso della faida, conclusasi, però, con un ultimo efferato delitto, tristemente noto come la strage dell'Arenella, avvenuta l'11 giugno del 1997, in cui perdeva la vita l'innocente Silvia Ruotolo, che si trovò nel mezzo della sparatoria in quanto stava riportando il figlio a casa dopo averlo ripreso all'uscita della sua scuola, il tutto sotto gli occhi dell'altra figlia della donna, che assistette alla morte della madre dalla terrazza di casa sua; la donna era cugina dei giornalisti Guido e Sandro. Le immediate indagini portavano, in tempo record, all'arresto di tutti i componenti del commando e del mandante: Giovanni Alfano.

Seconda faida di Forcella: scoppiò in seguito all'avvento dei Mazzarella a Forcella; alcuni componenti dei Giuliano (tra cui Ciro Giuliano 'o barone) non accettarono di buon grado l'entrata in scena dei Mazzarella. Inevitabile la spaccatura all'interno dell'organizzazione e soprattutto all'interno della famiglia; i Mazzarella si allearono con alcuni personaggi di buon livello della camorra. Dall'altra si organizzarono, per combattere il clan Mazzarella, altri giovanissimi imparentati con i Giuliano. Questo portò ad alcuni omicidi, tra cui quello dello stesso Ciro Giuliano e di Annalisa Durante, vittima quattordicenne innocente morta in un agguato con obiettivo un nipote della famiglia Giuliano.

Terza faida interna ai Casalesi: combattuta dal 2003 al 2007 tra le famiglie Tavoletta-Ucciero e Schiavone-Bidognetti. Vide la "strage di San Michele", del 29 settembre 2003, con due morti ammazzati e tre feriti in un solo agguato.

Faida di Chiaiano: conflitto svoltosi nel corso del 2003 e 2004 a Chiaiano tra il clan Stabile e il clan Lo Russo, in precedenza alleati sotto la bandiera dell'Alleanza di Secondigliano. Tra gli agguati mortali, si ricorda quello avvenuto sulla Tangenziale di Napoli il 1º giugno del 2004, quando vennero uccisi un uomo che si trovava su un'ambulanza perché ferito a causa di un precedente agguato, e il secondo che lo seguiva in auto.

Seconda faida di Castellammare: combattuta tra il clan D'Alessandro, predominante a Castellammare di Stabia, e il clan Omobono-Scarpa dal 2003 al 2005.

Prima faida di Scampia: guerra svoltasi tra l'ottobre 2004 e il settembre 2005 che portò a quasi un centinaio di morti ammazzati, è stata, dopo quella combattuta negli anni ottanta tra la NCO cutoliana e la Nuova Famiglia, la faida camorristica che suscitò maggior clamore mediatico e che accese nuovamente i riflettori dei mass-media nazionali e internazionali sulla malavita organizzata napoletana dopo molti anni di disinteressamento; il conflitto si scatenò quando vari gruppi scissionisti del clan Di Lauro decisero di staccarsi dalla casa madre dopo che i figli del boss Paolo Di Lauro avevano deciso di sostituire alcuni dei leader storici nei principali ruoli chiave con gente a loro più fidata. Questa guerra stravolse gli equilibri criminali della zona nord di Napoli e portò alla nascita di altri gruppi criminali indipendenti tutti federati nel cosiddetto cartello degli scissionisti di Secondigliano (detti anche Spagnoli, a causa della latitanza in Spagna di uno dei leader del sodalizio), chiamato in seguito anche clan Amato-Pagano. Tra i tanti omicidi avvenuti all'interno della faida uno dei più cruenti fu quello di Gelsomina Verde, una ragazza di 22 anni totalmente estranea ad ambienti criminali, torturata, uccisa e poi bruciata da dei sicari del Clan Di Lauro solo perché ex fidanzata di uno scissionista.

Faida tra gli Aprea e i Celeste-Guarino: combattuta nella zona di Barra tra il clan Aprea e quella che secondo gli investigatori era la fazione scissionista dei Celeste-Guarino negli anni 2005 e 2006.

Seconda faida della Sanità: combattuta dal 2005 al 2007 tra il clan Misso e la fazione scissionista dei Torino, appoggiati dai Lo Russo di Miano. Più di venti omicidi in due anni, stravolse completamente gli equilibri della camorra nella zona della Sanità, di Materdei, dei Tribunali. Questa faida portò alla dissoluzione di entrambi i gruppi, dopo i pentimenti dei boss Emiliano Zapata Misso, Giuseppe Misso junior e Michelangelo Mazza per i Misso, e di Salvatore Torino e altri elementi di spicco per la fazione opposta.

Seconda faida di Scampia: iniziata ad agosto 2012 e finita a dicembre dello stesso anno, contò decine di vittime. La nuova faida vedeva contrapposto il cartello degli Scissionisti ad una sua fazione interna, i cui componenti del clan sono stati ribattezzati Girati della Vanella Grassi (dal nome della via del quartiere dove hanno la base operativa e dal termine girato che in gergo camorristico significa colui che ha tradito) oppure gruppo della Vinella Grassi (soprannominata anche così in gergo camorristico) che si sono alleati con il clan Di Lauro (clan spodestato dagli Scissionisti a seguito della faida precedente); tra le vittime ci sono stati il boss degli scissionisti Gaetano Marino (fratello del boss Gennaro Marino detto Genny 'O McKay), ucciso il 23 agosto del 2012 a Terracina dove si trovava in vacanza con la famiglia, Pasquale Romano, ragazzo innocente ammazzato per errore il 15 ottobre 2012 a Napoli nel quartiere di Marianella, perché scambiato per uno spacciatore (vero bersaglio dei killer) a cui assomigliava e Luigi Lucenti, pregiudicato di 50 anni ucciso con tre colpi di pistola il 5 dicembre 2012 da due killer in un cortile di un asilo di Scampia (dove in quel momento era in corso l'annuale concerto natalizio dei piccoli alunni), dove si era rifugiato per sfuggire all'agguato; proprio questo episodio causò molto scalpore e indignazione nell'opinione pubblica, tanto che la faida s'interruppe proprio a seguito di esso. I vincitori di questa faida furono i Girati, dato che il 15 dicembre 2012 il lancio di alcune bombe a mano da parte degli Abete-Abbinante-Notturno fece calare gli appoggi tra la gente di Scampia al clan e ne decretò la sconfitta dal punto di vista militare.

Seconda faida di Pianura: iniziata a fine giugno 2013 e finita nel medesimo anno. La faida conta molte vittime.

Terza faida di Forcella: iniziata a marzo 2013 e terminata nel il 2 luglio 2015 con l'omicidio del baby-boss Emanuele Sibillo (ottobre 1995 - 2 luglio 2015), la faida vedeva contrapposti da un lato il clan Giuliano (figli e nipoti di Giuseppe), il clan Mazzarella, il clan Del Prete ed il clan Buonerba, dall'altro la cosiddetta Paranza dei bambini, così chiamata per via della giovane o giovanissima età dei suoi componenti, afferenti al cartello camorristico formato dai giovani della famiglia Giuliano (nipoti e pronipoti di Pio Vittorio), in conflitto con i loro parenti da molti anni, affiancati dai clan Sibillo, Brunetti e Amirante, quest'ultimi alleati del clan Ferraiuolo-Stolder e appoggiati esternamente dal gruppo Rinaldi di San Giovanni a Teduccio, per il controllo dei rioni di Forcella, Maddalena e Duchesca. La faida si conclude con la cacciata dei Mazzarella da San Giovanni a Teduccio e la vittoria della Paranza dei Bambini a Forcella, nonostante l'agguato mortale ai danni del boss Sibillo.

Terza faida di Scampia: iniziata ad ottobre 2015 e tuttora in corso, più che una nuova faida, è la prosecuzione di quella precedente, conclusasi senza vincitori e vinti, ma solamente interrotta a causa della grande attenzione mediatica derivata da alcuni episodi di sangue verificatisi al suo interno; dalla ripresa delle ostilità si contano già diversi agguati mortali da parte di entrambe le fazioni (composte prevalentemente da giovanissimi e da donne, che hanno preso il posto dei boss arrestati e/o assassinati).

Prima faida di Miano: iniziata nel settembre 2016 e tuttora in corso, vede contrapposti i clan Nappello (costola dei Lo Russo) e Stabile-Ferrara di Chiaiano, i primi sono sostenuti dai Licciardi, infatti dietro la mattanza di Miano ci sarebbe la regia occulta dei Licciardi.

Stragi. Gli avvenimenti più importanti furono:

Strage di Torre Annunziata o Strage di Sant'Alessandro: avvenuta a Torre Annunziata (NA) presso il circolo dei pescatori il 26 agosto del 1984 nell'ambito della faida tra i casalesi di Antonio Bardellino ed i Gionta (un tempo alleati nella faida contro la NCO di Raffaele Cutolo). Da un autobus precedentemente rubato, scesero una dozzina di killer dei casalesi che iniziarono a fare fuoco per circa due minuti contro il circolo dei pescatori, luogo di ritrovo abituale degli affiliati del clan Gionta. Alla fine si contarono otto morti e sette feriti gravi.

Strage del Venerdì Santo di Torre del Greco: Il 1º aprile del 1988 in un locale di Torre del Greco (NA), furono uccise quattro persone, tra i quali il boss emergente Ciro Fedele; a compiere la strage furono alcuni esponenti del clan rivale dei Gargiulo che vollero così vendicare la precedente uccisione del loro capo-clan, Vincenzo Gargiulo.

Strage di Castellammare di Stabia: il 21 aprile del 1989 tra Castellammare di Stabia e Gragnano (NA), un commando al servizio del boss Imparato tentò di uccidere il boss rivale, Michele D'Alessandro, nell'agguato morirono quattro guardaspalle del D'Alessandro, mentre lui, pur rimanendo gravemente ferito, riuscì a salvarsi.

Strage di Ponticelli: avvenuta il 12 novembre del 1989 nel Bar Sayonara di Ponticelli, quartiere della zona est di Napoli; circa sei killer spararono con armi automatiche tra la folla uccidendo sei persone e ferendone un'altra. Due delle persone decedute erano semplici passanti, totalmente estranei ad ambienti criminali.

Strage di Pescopagano: avvenuta a Pescopagano, frazione di Mondragone (CE), il 24 aprile del 1990; alla fine si contarono cinque vittime: tre tanzaniani, un iraniano ed un italiano ucciso per errore, e sette feriti, tra cui il gestore del bar e suo figlio quattordicenne, rimasto paralizzato perché colpito ad una vertebra.

Strage dei Quartieri Spagnoli o Strage del Venerdì Santo: compiuta il 29 marzo del 1991 da esponenti del clan Mariano contro un suo gruppo scissionista interno, nell'agguato morirono tre persone e quattro, estranee al clan, rimasero ferite.

Strage di Piazza Crocelle: avvenuta a Napoli, nel quartiere industriale di Barra, il 31 agosto del 1991, nata probabilmente per futili motivi e per contenere le mire espansionistiche della famiglia Liberti, vide tre morti ammazzati, due feriti (tra cui un bambino di 8 anni) ed una donna anziana morta per infarto.

Strage di Acerra: avvenuta ad Acerra (NA), il 1º maggio del 1992 in ambito della faida tra i Di Paolo-Carfora ed i Crimaldi-Tortora. Per vendicare l'uccisione del fratello del boss Di Paolo, un gruppo di sicari del clan uccise cinque persone e ne ferì altre due, sterminando così un'intera famiglia, compreso un ragazzino innocente di appena quindici anni.

Strage del Bar Fulmine a Secondigliano: avvenuta a Napoli, nel quartiere di Secondigliano, all'ingresso del suddetto locale, il 18 maggio del 1992. L'agguato costò la vita a cinque persone, mentre altre due vennero gravemente ferite.

Strage di Lauro o Strage delle donne: avvenuta a Lauro (AV), provocata dalla faida decennale tra i clan Cava e Graziano. La sera del 26 maggio del 2002, un'automobile che trasportava alcune donne del clan Cava viene seguita e speronata da un'altra auto guidata da Luigi Salvatore Graziano con alcune parenti, che volevano vendicare il fallito agguato ordito dalle Cava ai danni di Stefania e Chiara Graziano, le due figlie del boss Luigi Salvatore, avvenuto appena un'ora prima, a seguito del quale le Cava si erano liberate delle armi usate; trovatesi senza possibilità di difesa, queste tentarono di scappare a piedi, ma furono assalite dal fuoco dei sicari dei Graziano; alla fine si contarono tre morti (tutte donne del clan Cava, di cui una, Clarissa, aveva appena sedici anni) e cinque feriti.

Strage di San Michele: maturata durante la faida tra il clan Tavoletta-Cantiello e la fazione dei casalesi facenti capo a Bidognetti, avvenne il 29 settembre del 2003a Villa Literno (CE); due sicari appartenenti ai Tavoletta-Cantiello tesero un agguato a cinque uomini dell'altra fazione, di questi due morirono (Vincenzo Natale, pregiudicato di 25 anni, e Giuseppe Rovescio di 24 anni) ed altri tre furono feriti.

Strage di Casavatore: Il 31 gennaio 2005, avviene il triplice omicidio di Giovanni Orabona (Casavatore, 12 agosto 1981 - 31 gennaio 2005), Antonio Patrizio (Casavatore, 26 settembre 1979 - 31 gennaio 2005) e Giuseppe Pizzone (Casavatore, 4 luglio 1979 - 31 gennaio 2005) tutti e tre pregiudicati e affiliati al clan Ferone (clan vicino ai Di Lauro). La strage va a inserirsi nel contesto della prima faida di Scampia che vede contrapposti i clan Di Lauro con quello degli scissionisti, dopo tale episodio il clan Ferone passerà nelle file degli scissionisti e rappresenterà l'atto conclusivo della faida che vede la vittoria di questi ultimi.

Strage di Castel Volturno o Strage di San Gennaro: la sera del 18 settembre del 2008, vengono uccisi in un agguato ad Ischitella, frazione di Castel Volturno, sei extracomunitari da tempo residenti nella zona. L'agguato seguì l'omicidio di Antonio Celiento, avvenuto mezz'ora prima a Baia Verde (altra frazione di Castel Volturno), eseguito dallo stesso gruppo di fuoco.

I rapporti con le altre organizzazioni mafiose.

Cosa nostra. Vari clan di camorra hanno intrattenuto rapporti, più o meno duraturi, con Cosa nostra. Elementi di spicco della mafia palermitana (come Salvatore Riina e Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano) si sono trovati a contatto con famiglie camorristiche come i Nuvoletta e gruppi facenti parte della Nuova Famiglia.

'Ndrangheta. Nel corso del Novecento vi sono stati vari intrecci di favori e di cooperazione tra camorristi e 'ndranghetisti. Negli anni settanta in occasione della prima guerra di 'ndrangheta il boss reggino Paolo De Stefano chiede e ottiene da Raffaele Cutolo capo della Nuova Camorra Organizzata l'omicidio di Don Mico Tripodo, altro boss reggino in carcere a Napoli. Tra famiglie delle due organizzazioni vi furono anche doppie affiliazioni come quella del camorrista Antonio Schettini affiliato al clan di Giuseppe Flachi o di Franco Coco Trovato affiliato alla famiglia di Carmine Alfieri. Roberto, figlio di Raffaele Cutolo fu ammazzato a Tradate in Lombardia dalla 'ndrangheta per una vendetta trasversale il 24 dicembre 1990. In cambio per la mafia calabrese i Fabbrocino e gli Ascione avrebbero ucciso Salvatore Batti, un camorrista fuggito a Napoli.

Sacra Corona Unita. Nel 1981 Raffaele Cutolo, affidò a Vincenzo Esposito detenuto in quel periodo nel carcere di San Severo di Foggia e Pino Iannelli e Alessandro Fusco il compito di fondare in Puglia un'organizzazione diretta emanazione della Nuova Camorra Organizzata che prese il nome di Nuova camorra pugliese o NCOP (Nuova Camorra Organizzata Pugliese) che operò dagli anni ottanta a Foggia, Taranto e Lecce. Tra gli esponenti vi è anche Antonio Modeo e Aldo Vuto capi della mafia tarantina. Questa associazione prese piede soprattutto nel foggiano a causa della vicinanza territoriale e dei contatti preesistenti tra esponenti della malavita locale e i camorristi campani. Tuttavia questa iniziativa venne vista con sospetto dai malavitosi di altre zone della Puglia. Come risposta al tentativo di Cutolo di espandersi in Puglia, si tentò di dar vita ad un'associazione malavitosa di stampo mafioso formata da esponenti locali. Con la sconfitta dei cutoliani in Campania, scomparvero anche in Puglia, e l'organizzazione dominante divenne quella della Sacra corona unita fondata dagli 'ndranghetisti.

Banda della Magliana. La camorra intrattiene rapporti con le associazioni mafiose operanti nella capitale, quali la banda della Magliana, in particolare con Massimo Carminati, i clan Fasciani e Casamonica.

Triade cinese. Alcuni gruppi napoletani, tra cui i Giuliano di Forcella, hanno intrecciato relazioni di affari con gruppi cinesi soprattutto nel settore della contraffazione di marchi italiani. I gruppi napoletani hanno imposto il prezzo finale dei prodotti e in cambio hanno fornito i servizi per aggirare i controlli. I cinesi inoltre hanno fatto entrare nelle loro società diversi boss napoletani.

Mafia nigeriana. I rapporti tra camorra e mafia nigeriana riguardano soprattutto il traffico di droga e la prostituzione. In particolare, i camorristi permettono ai clan nigeriani di organizzare la tratta delle donne sul territorio in cambio di una quota sui guadagni.

Mafia albanese. Dalla seconda relazione semestrale del 2010 della DIA vengono illustrati contatti tra la mafia albanese e il clan Mazzarella, con gli Scissionisti di Secondigliano e i Serino di Salerno.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali, che cominceranno fra un mese, vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Carmine Schiavone, Casal di Principe (Caserta) 20 luglio 1943. Pentito a suo tempo camorrista, cugino di Francesco alias Sandokan, era amministratore e consigliere del clan dei casalesi (vedi SCHIAVONE Francesco). Figlio di un commerciante di agrumi e di una casalinga, anche lei Schiavone di cognome, ma del ramo delinquenziale della famiglia (sorella del padre di Sandokan). Sposato, con figli. Titolo di studio, diploma in ragioneria. Ammesso al programma di protezione, è agli arresti domiciliari in espiazione di 20 anni di pena. La sua vita l’ha raccontata nel 2000 a Giovanna Montanaro e Francesco Silvestri, che l’hanno intervistato per il libro Dalla Mafia allo Stato (Gruppo Abele). Prima condanna nel 64 («legata a cose di ragazzi un po’ esuberanti che non pensavano a cosa potesse essere il domani»), da convinto fascista che era, nel 68 passa alla Democrazia Cristiana («passai al gruppo Patriarca che fu il primo politico che feci votare»). Arrestato nel 72 per tentata estorsione, in carcere allarga la cerchia di amici, affezionandosi in particolare a Mario Iovine (vedi SCHIAVONE Francesco alias Sandokan). Assolto e scarcerato dopo pochi mesi, apre centri Aima di raccolta prodotti ortofrutticoli per la trasformazione conserviera e si mette in affari con Iovine («a noi interessava il business, che all’epoca erano le bische clandestine le bollette false, e le truffe insomma»). Arrestato nel 77 per rapina («ingiustamente»), resta in carcere sei anni. Mentre i camorristi si schieravano chi dalla parte di Cutolo chi dalla parte della Nuova Famiglia, «noi facemmo Cosa Nostra casalese, e fummo battezzati io e mio cugino Sandokan. Ciò avvenne nel 1981. Io ero già mafioso dal 1974, ma non ero mai stato affiliato formalmente». Insieme agli altri gruppi casertani si schierano contro i cutoliani («Fino al 1983 ci fu proprio una guerra totale»). «Comunque, già vedevo come sarebbero andate le cose alla lunga: c’era gente che teneva la madre che faceva la vita a Milano, oppure gente che faceva lo sfruttamento della prostituzione o che spacciava droga. Dove si poteva arrivare con queste persone? Si sentivano forti perché erano diventati una massa, ma non c’era un credo ideologico, non c’era il proposito fermo dell’uomo d’onore, era una cosa sbandata». A conflitto ancora in corso, Carmine crea con Iovine il «sistema dei consorzi»: «Io contrattavo con le grosse imprese, con gli appalti, i subappalti. Tutte le attività che passavano attraverso la provincia di Caserta fino a Latina erano controllate dal clan, poi c’erano gli appoggi, a Firenze, a Bologna, a Reggio Emilia, a Roma». Si occupa anche della fornitura di droga, cocaina venduta ai grossisti di Napoli, Roma, Fondi, Milano, con assoluto divieto di spacciarla nel casertano. «La politica che facevamo era: il popolo a noi ci deve amare per amore e non per terrore. Noi non dovevamo fare gli errori che Cutolo e altri avevano fatto. Si doveva capire che noi non portavamo droga a Casale, che noi non facevamo furti, non facevamo rapine. Fino al 1989-90 se qualcuno si è permesso di fare rapine è stato ammazzato, oppure è sparito». Arrestato nell’83, in primo grado viene condannato a 18 anni per associazione mafiosa, ridotti in appello a 5. «All’epoca avevo sette figli: cinque maschi e due femmine. E a un certo punto incominciai a dirmi: “Ho i figli sposati, sono nonno, invecchio, può continuare la vita in questa maniera?». Nel 90 apre un’impresa di calcestruzzo, ma incomincia a litigare coi cugini, per primo con Francesco Bidognetti: «Io gli imputavo che loro avevano inondato l’Agro aversano di fusti tossici e nucleari». L’idea in origine era sua, ma Bidognetti lo aveva scoraggiato per poi farlo di nascosto da lui («incassavano 600 milioni al mese e alla cassa ne davano 100 al mese»). Il 6 luglio 1991 viene arrestato (nell’impresa di calcestruzzo sono state trovate delle armi che in realtà, dice Carmine, lui aveva dato a suo cugino «Walterino»). Il 26 luglio ottiene gli arresti domiciliari (si è dato per cardiopatico), ma il 21 novembre, diventata definitiva la condanna a 5 anni per associazione mafiosa, si dà alla latitanza. Sentendosi lo scaricabarile del clan (per la faccenda delle armi), se la prende con Sandokan, rinfacciandogli pure di fare la cresta sulla cassa del clan: «Abbiamo fatto una guerra con i cutoliani, una con i Nuvoletta, una con i Bardellino, una coi De Falco, l’ultima la dobbiamo fare io e te?». Oltre ai risentimenti personali c’è che dal 90 i Casalesi hanno cominciato a spacciare anche a Casale, e hanno smesso di mantenere i familiari dei detenuti, finché, nel 91, viene ammazzato perfino un bambino di dieci anni. «Quella è un’altra goccia che fece traboccare il vaso. Mio cugino stava in carcere e un altro mo cugino prese la reggenza militare, cominciarono a sparare e dove andava andava. Mi accorgo che i fatti non quadrano più, erano diventati delle bestie. Mi fanno arrestare a Maglie». È il luglio 92, in Sicilia sono stati ammazzati il giudice Falcone e Borsellino, e Carmine si prende il carcere duro («pensai: i siciliani fanno i guai per i loro intrallazzi e noi ne paghiamo le conseguenze»). In carcere viene esautorato, con la scusa ufficiale che avendo l’amante non può più fare il capo. «Mia figlia Rosaria era l’unica di cui mi fidavo, a un certo punto le dissi: “Questi mi faranno pentire, questi non si rendono conto che mi faranno pentire, perché stanno perdendo tutto ciò che significa essere uomo, con questa gente non c’è futuro più per nessuno”». «Stetti quattro o cinque giorni sul letto con la testa sul cuscino. Ho analizzato tutta la mia vita, tutta la vita loro come un proiettore che proietta un film, e dissi: “Sono bestie, io mi sono trovato in mezzo a delle bestie e sono diventato più bestia di loro. Quanti altri morti innocenti ci dovranno essere! Quanta altra gente dovrà piangere i figli drogati!». Qualche giorno dopo riceve la visita della figlia Rosaria, e le dice testuali parole: «Tu gli vuoi bene al tuo fidanzato? Se gli vuoi bene sposati, perché io questa volta sparo la bomba atomica. Questa volta muore Sansone con tutti i filistei». A maggio 1993 si pente, facendo sequestrare beni del clan per 2.500 miliardi. Dalle sue dichiarazioni nasce il processo “Spartacus” (vedi SCHAVONE Francesco detto “Sandokan”). Ammesso al programma di protezione dei collaboratori di giustizia, dopo due anni ha cambiato generalità. Ora vive con la moglie e il figlio più piccolo in una località segreta. «Dal lunedì al venerdì sono impegnato nei vari processi, il sabato e la domenica cerco di lavorare quando ce la faccio. Ora tengo un po’ tutto abbandonato, perché sto da circa 8-9 mesi quasi fisso in video-conferenza o in processi. E penso che ancora per 15 anni sarà così Ancora ci sono 100 processi in Corte d’assise da fare, ditemi voi quando finirò». «È un grande falso, bugiardo, cattivo e ipocrita che ha venduto i suoi fallimenti. Una bestia. Non è mai stato mio padre. Io non so neanche cosa sia la camorra» (sua figlia Pina, in una lettera aperta ai giornali, subito dopo la notizia del suo pentimento, secondo Carmine Schiavone costretta a farlo dai cugini). Lo Stato «Noi vivevamo con lo Stato. Per noi lo Stato doveva esistere e doveva essere quello Stato che c’era, solo che noi avevamo una filosofia diversa dai siciliani. Mentre Riina usciva da un isolamento isolano, da montagna, vecchio pecoraio, insomma, noi avevamo superato questi limiti, noi volevamo vivere con lo Stato. Se qualcuno nello Stato ci faceva ostruzionismo, ne trovavamo un altro disposto a favorirci. Se era un politico non lo votavamo, se era uno delle istituzioni si trovava il modo per raggirare». (Giorgio Dell’Arti - Massimo Parrini, Catalogo dei viventi 2009, Marsilio, scheda aggiornata al 5 ottobre 2008.

Carmine Schiavone: “Potessi tornare indietro non mi pentirei”. L’ex capo della cupola casalese si sfoga e si racconta il 23 agosto 2013, tra iperboli e confessioni, ai microfoni di Sky Tg24. "Politici, magistrati e forze dell’ordine sono più responsabili di noi che abbiamo sparato, perché sapevano e hanno permesso”, scrive Emanuele Repola su “Interno 18”. Continua a far rumore il servizio lanciato in esclusiva ieri da Sky Tg24. Le parole di Carmine Schiavone hanno tuonato nell'aria, lasciando a bocca aperta chiunque l'abbia visto. Eppure, quelle parole e quelle confessioni non aggiungono altro rispetto alla quotidianità di queste terre. Rifiuti, elezioni, "modello Caserta", corruzione, omicidi. L'ex ras dei Casalesi parla a ruota libera del sistema e degli enormi interessi che la società di oggi ha nei confronti della camorra. Schiavone parla delle scorie tossiche, provenienti non solo dal nord Italia, ma da tutta l'Europa, nascoste fino a 18 metri sotto terra, lungo tutto il lungomare che va da Baia Domizia fino a Pozzuoli: "Venivano a scaricare rifiuti industriali, farmaceutici, chimici, ospedalieri. In più casse di fanghi termonucleari. Tutto sotterrato tra mare e campagne. Stanno morendo oltre 5 milioni di persone". Racconta poi degli omicidi che gli sono stati imputati, 53, secondo la giustizia, oltre 500 per Schiavone, che ricorda tutti gli assassini ordinati dalla cupola nel corso delle faide territoriali. Ed anche qui l'ex boss si sfoga con la giornalista di Sky. "Ci sono oltre 500 e rotti omicidi, a partire dal '75, dopo la guerra con i Nuvoletta. Noi abbiamo sparato è vero, ma politici, magistrati, polizia, carabinieri, sono più responsabili di noi, perchè hanno permesso tutto questo". Carmine Schiavone soffre l'abbandono delle istituzioni. Attacca politici e magistrati per averlo abbandonato, e si pente del suo pentimento. Nonostante questo abbia permesso l'arresto dei capi della cupola del sistema nei processi Spartacus I e Spartacus II. "Potessi tornare indietro non mi pentirei più. Io mi sono pentito davvero, se no tutte quelle carte non le avrei date. Ma qui non siamo in America. Io mi sono pentito veramente, quello è stato il guaio. Non lo farei più perché qui le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente". Quando poi la giornalista gli chiede dei soldi maneggiati, Schiavone fa un passo indietro con la memoria, e confessa il giro di miliardi che mensilmente girava nelle casse dei clan, arrivando a superare le centinaia di miliardi di lire. "Mensilmente avevamo una spesa di quasi 3 miliardi tra corruzione e piccoli lavori come le copie delle auto di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, delle radiotrasmittenti. In più noi mantenevamo le caserme, ogni tanto davamo loro qualche piccolo spacciatore. Non c'era neanche bisogno di controllarli perchè erano stesso loro che alla sera ci portavano le informazioni". Il rapporto con le istituzioni e con il mondo della politica. Le infiltrazioni all'interno dei palazzi del potere per piazzare i propri referenti. L'asse stato-mafia per Schiavone è qualcosa di indistruttibile. Una fitta maglia di intrecci di interessi da ambo le parti che non chiuderanno mai il circolo vizioso creatosi: "Noi spostavamo 70-80mila voti, significava la differenza tra la vittoria di un partito e un altro". L'aprassia di chi non si ribella e non si è ribellato è la chiave che ha spalancato le porte del paese al sistema criminale dello stato-mafia, e a poco serve oggi indignarsi per il racconto di ciò che ormai è storia nota da anni. "Le istituzioni ci hanno abbandonato", sostiene l'ex boss del clan dei Casalesi e collaboratore di giustizia. E poi: le terre del Sud sono state avvelenate, "il vero affare del clan è il traffico dei rifiuti dal Nord e dall'Europa".

Collaboratore di giustizia per 20 anni, dal 1993, a luglio ha terminato il suo programma di protezione. Ha ordinato l'esecuzione di centinaia di omicidi e con le sue rivelazioni ha permesso le condanne definitive all'ergastolo per i boss e gregari del clan imputati nel processo Spartacus e ha fornito importanti informazioni anche sul vero business dei Casalesi: quello dello smaltimento dei rifiuti tossici. «Ero uno dei capi della cupola, ma mi sono pentito davvero perché altrimenti quelle carte lì non le avrei mai scritte. Il mio guaio - aggiunge Schiavone - è stato proprio quello di essermi pentito veramente perché in Italia non c’era una giustizia, una legge, un politico che sappia capire questo. Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi perché è vero che noi abbiamo sparato, ma i ministri, i carabinieri, i magistrati, i poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo. Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle». Schiavone, nel corso dell’intervista a SkyTG24, parla anche dei rifiuti tossici interratti dal lungo mare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. E aggiunge: "La mafia non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L’organizzazione mafiosa non morirà mai".

Intervista a Sky Tg24 del feroce ex boss dei Casalesi, testimone di giustizia dal '93: "Ministri, carabinieri, magistrati, poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo". "La mafia non sarà mai distrutta, ci sono troppo interessi", scrive Conchita Sannino su “La Repubblica”. "Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi. Sì, lo dico: sono pentito di essermi pentito". Così parla Carmine Schiavone, l'ex capo killer e super-ragioniere del gotha dei Casalesi, in un'intervista concessa a Sky Tg 24. E' l'assassino (per almeno 53 volte) che con le sue fluviali dichiarazioni rese ai magistrati antimafia nei primi anni Novanta, aprì alla giustizia il primo varco nel bunker degli impenetrabili segreti della mafia casertana. Ed è anche il cugino del famoso ed omonimo boss Francesco Schiavone, quel Sandokan tuttora rinchiuso al 41 bis sotto il peso di numerosi ergastoli, il padrino che non ha mai voluto seguire l'esempio di Carminiello. Ora Carmine recrimina sul suo rapporto con lo Stato. E premette: "Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle". Schiavone è stato accusato di aver dato l'assenso o partecipato complessivamente a 53 omicidi. Lui fa spallucce rispetto a quel numero. "Io coinvolto in 53 omicidi? Molti di più, ci sono 500 e rotti omicidi fatti (il riferimento è alle varie faide consumate tra opposte fazioni). Ma non è che li ho proprio ordinati tutti io, è che ero uno dei capi della cupola". Poi, nel corso della stessa intervista, firma la facile profezia secondo cui finché le mafie sposteranno i voti "l'organizzazione non finirà mai". Spiega: "Noi spostavamo 70-80mila voti, significava la differenza tra la vittoria di un partito e un altro". E dà la pagella a quelle divise, o magistrati o politici comprati o corrotti proprio da quelli come lui. Schiavone affronta anche il tema dei rifiuti tossici interrati, dal lungomare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. "La mafia - conclude - non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L'organizzazione mafiosa non morirà mai". Vero è che Carmine Schiavone ha dato una spallata consistente al lavoro dei pubblici ministeri antimafia. Ha collaborato alla prima costruzione di quel super processo che avrebbe spazzato in carcere tutti i vertici dei casalesi: Spartacus I e Spartacus II. Ma, superata anche la boa dei settant'anni, ora riserva l'ennesima confessione choc. "Se potessi tornare indietro non mi pentirei - dice - Io mi sono pentito davvero, se no tutte quelle carte non le avrei date. Ma qui non siamo in America. Io mi sono pentito veramente, quello è stato il guaio. Perché non c'è un politico che sappia guardare davvero un pentito, non siamo negli Stati Uniti. E non lo farei più: perché qui le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente". Poi spara a zero su politici, divise e magistrati inquinati. "Noi mantenevamo una buona parte delle forze dell'ordine, carabinieri e polizia. A me alla sera mi veniva portata la striscetta dalla polizia, con le operazioni che avrebbero fatto il giorno successivo". E in cambio, cosa offriva l'organizzazione criminale? "Gli davamo ogni tanto qualcuno, qualche piccolo spacciatore, per fargli fare carriera". E aggiunge: "Noi sì, è vero che abbiamo sparato. Però un ministro, un magistrato, un carabiniere e un poliziotto, che si sono venduti, sono più responsabili di noi". Irascibile, amante delle iperboli, ma sempre stratega. Carmine Schiavone è colui che rivelò, fin dalle sue prime dichiarazioni, il concepimento di un vero e proprio Stato Mafia da parte dell'organizzazione criminale del casertano. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni". Lo stesso Schiavone, non più di qualche mese fa, in un'aula di giustizia, proclamava a voce alta, nello scontro verbale con un avvocato di parte avversa: "Ma io non sono mai stato un camorrista. Io ero un uomo d'onore". Così come aveva destato scalpore un altro racconto reso in aula, secondo cui don Peppino Diana, noto parroco antimafia ucciso da una fazione dei casalesi avversa agli Schiavone a Casal di Principe nel 1994, avrebbe aiutato più volte durante le elezioni i "candidati politici vicini agli Schiavone, tra cui Nicola Cosentino", l'ex deputato del Pdl oggi agli arresti domiciliari e imputato in due processi a Santa Maria Capua Vetere. Violento, e vendicativo. Sembra che la sua vita di cittadino sotto copertura in località segreta gli sia sempre stata strettissima, procurandogli non pochi dispiaceri familiari. Finì a processo persino quando suo figlio fu arrestato per la detenzione di un vero e proprio arsenale nel periodo in cui lui era già pentito e doveva dimostrare di non saperne nulla: un ispettore di polizia raccontò, in aula, che quel ragazzo voleva sparare a suo padre. "Aveva un sacco di problemi, quel figlio veniva seguito anche dall'assistenza sociale. Non aveva mai perdonato al padre di essersi pentito e di aver perso potere, denaro, rispetto e riconoscibilità sui loro territori".

Don Patriciello. Lettera aperta a Carmine Schiavone. Il parroco di Caivano scrive all'ex boss. "È giunta l’ora del coraggio e della verità. Aiutaci anche tu a svergognare questi loschi figuri nascosti dietro la cravatta e il computer". Ecco il testo intero della lettera aperta girata da don Maurizio Patriciello a Carmine Schiavone dopo la recente intervista pubblicata da Sky Tg24. «Carmine, fratello mio, stiamo soffrendo. Terribilmente. E con noi, ne sono certo, state soffrendo anche tu e la tua famiglia. Abbiamo ascoltato la tua intervista su Sky Tg24 e siamo rimasti angosciati. Tante cose già le sapevamo. Altre le abbiamo da sempre immaginate. Ma sentirle direttamente dalla bocca di chi le ha vissute è tutt’ altra cosa. È proprio vero che la vita è un’eterna lotta tra il bene e il male. E’ proprio vero che il dio Mammona ammalia, affascina e trascina verso gli abissi più gelidi, profondi e bui tanti nostri fratelli in umanità. Ma è pur vero che la scintilla di luce – la coscienza - che Dio ha messo in ognuno di noi non si spegne mai. Tu, capo del Clan dei Casalesi, tanti anni fa ti sei pentito. Oggi affermi: “Se potessi tornare indietro non mi pentirei. Sono pentito di essermi pentito e non lo farei più perché le istituzioni ci hanno abbandonato…Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi? Perché è vero che noi abbiamo sparato, ma i ministri, i carabinieri, i magistrati, i poliziotti sono più responsabili di me…”. Hai ragione. Preferisco essere derubato, imbrogliato, umiliato da un ladro di professione piuttosto che da un ladro travestito da politico, da industriale o da servitore dello Stato. Eppure non riesco a essere d’accordo con te quando affermi che “La mafia non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale”. No, mafia e mafiosi, camorra e camorristi possono essere e di fatto saranno distrutti. Il male non ha l’ultima parola. Ci devi credere anche tu. L’ultima parola l’avrà solamente il bene. A trionfare sarà l’amore, non la cattiveria. Sempre e dappertutto, anche in Campania. Ma questo avverrà quando sapremo, noi campani e chi i campani si è comprato per una manciata (potrà essere anche un autotreno è la stessa cosa) di monete. Quei soldi, lo hai visto, bruciano più del fuoco. Il pane macchiato dal sangue che gli innocenti della catastrofe ambientale stanno versando, è indigesto. È pane che non sazia. Pane avvelenato. Pane velenoso. Fratello Carmine, fino ad oggi, purtroppo, i pentiti dell’inquinamento delle nostre terre li abbiamo solo tra i camorristi. È vero. È giunta l’ora che si facciano avanti tutti coloro che hanno avvelenato, o permesso di avvelenare, le nostre campagne. È giunta l’ora del coraggio e della verità. Aiutaci anche tu a svergognare questi loschi figuri nascosti dietro la cravatta e il computer. Non è giusto che il termine “camorrista” venga appiccicato solo a voi. Loro lo sono stato quanto e forse più di voi. Ma, ti prego, esci dal generico. Dicci chiaramente dove, in quale contrada, in quale terreno, in quale sito sono stati sversati i veleni che stanno portando a morte la nostra gente, i nostri giovani, i nostri figli. Sai che un popolo numeroso e impaurito lotta ogni giorno per arrivare a qualche soluzione. Oso chiederti di aggiungerti a noi. Vieni anche tu con noi. Facci da guida. Impegnati oggi per il bene come un tempo lo sei stato per il male. Insieme ce la possiamo fare a salvare la nostra terra martoriata e bella. Non per noi. Credo che per noi ormai sia già tardi. Lo facciamo per le future generazioni. Per i nostri figli. Per i figli dei loro figli. Perché non abbiano a vergognarsi dei loro padri. Perché non abbiano a maledirci. Ridiamo un poco di speranza ai nostri giovani. E anche tu cerca di non smarrirla la speranza, compagna tra le più care nel corso della vita. Amica indispensabile quando ti svegli la mattina. Ci sentiamo come il piccolo Davide di fronte a Golia. Le nostre mani stringono una piccola fionda e la spada del gigante è lunga e affilata. Ma non siamo soli. Il Signore Gesù non ci ha abbandonati mai. È Lui la nostra forza, la nostra pace, la nostra speranza. E’ a lui che ci affidiamo per lottare e sperare di vincere questa guerra. Lotta anche tu con noi. Chiedi di farlo anche ai tuoi figli e ai tuoi vecchi amici. Presto anche per noi verrà la sera. Sarà bello, allora, sul letto di morte, confessare a chi ci vuole bene: “Ho sbagliato. Ho peccato. Se potessi tornare indietro non rifarei tanti errori che, purtroppo, ho fatto. Sono pentito, però, e ho fiducia che Dio mi perdoni. Vi prego, figli: tenetevi lontano da ogni violenza, da ogni sopruso, da ogni menzogna. Ricordate sempre che c’ è più gioia nel dare che nell’avere. Peccato che io l’ho compreso così tardi. Accompagnatemi con la vostra preghiera. Ti benedico, fratello, e ti prometto che pregherò per te».

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali, che cominceranno fra un mese, vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Napoli ostaggio della baby camorra. Due giorni di paura nella città partenopea. E ancora una vittima giovanissima. Colpita dal fuoco della camorra. Che nel centro storico è sempre più in mano a ragazzini che si sentono super boss e sono armati fino ai denti, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso” il 7 settembre 2015. Gennaro Cesarano, 17 anni. Ciro Esposito, 22 anni. Emanuele Alioto, 22 anni. Tutti uccisi nel quartiere Sanità, tra il 2013 e il 2015. Il rione dove è nato Totò si è trasformato in un cimitero di ragazzini, vittime di una guerra di camorra che fa morti in tutto il centro storico. A morire sono soprattutto giovanissimi. Alcuni sono affiliati, altri estranei ai clan. Ma comunque ragazzini, che nel deserto di opportunità spesso cedono alle lusinghe della camorra e scelgono la scorciatoia criminale. L'ultimo a cadere sotto i colpi di una paranza armata è Genny Cesarano. Una morte che aggiunge un tassello inquietante alla due giorni di sangue e fuoco in cui è piombata la città partenopea: in un altro quartiere, a Soccavo, in 12 ore ci sono stati tre raid con sparatoria annessa. Sempre in quelle ore, un trentenne è stato ucciso in un agguato a Ponticelli. «Non è Baghdad» ha dichiarato Luigi De Magistris, ma una cosa però è certa, la vita dei minorenni napoletani vale davvero poco. Cesarano è stato colpito da una raffica sparata davanti alla chiesa della piazza della Sanità alle cinque meno dieci del mattino. L'ipotesi è che si trovasse insieme a un gruppo di coetanei che stava controllando il territorio della piazza di spaccio. Ma del suo coinvolgimento ancora non ci sono conferme. Ma poco importa, perché non è questo quello che conta. Non è una distinzione netta tra buoni e cattivi che può riportare un luogo alla normalità. Un proiettile vagante? Non era lui l'obiettivo? Aveva precedenti ma ha cambiato vita, dicono i genitori. Poco importa, perché stiamo parlando di un minorenne, che come tanti suoi coetanei, in certe zone di degrado e mafia, non è libero di scegliere cosa fare della sua vita. È una morte, dunque, che chiama in causa l'assenza della politica, l'indifferenza dei cittadini, il silenzio della stampa nazionale in questi anni di piombo e violenza. «Nessuno verrà a salvarci, tocca a noi fare qualcosa per cambiare questa realtà». La realtà di cui ha parlato padre Alex Zanotelli nella sua omelia, durante i funerali di Genny, è molto più simile a un girone dell'inferno che a un quartiere normale di un Paese normale. Nel centro storico di Napoli ragazzini non ancora ventenni cadono a terra stecchiti, uccisi da raid di camorra che qui combatte una guerra per occupare territorio e per vendicare vite umane. Napoli oggi rivive gli anni peggiori della sua storia, benchè il sindaco De Magistris ripeta che i dati sulla criminalità sono peggiori a Roma e Milano. Il governo intanto sembra ammalato di cecità. Nessuno dei componenti è ancora è andato in quei vicoli, ministri e presidente del Consiglio sono impegnati a girare per le feste dell'Unità. Eppure sono almeno due anni che adolescenti senza futuro muoiono in quelle strade. La vita reale è fatta di giovanissimi che muoiono solo perché hanno deciso di uscire di casa. Le strade occupate militarmente da baby camorristi in cerca di successo criminale. Smaniosi di scalare le gerarchie e di conquistare le piazze di spaccio. Più ne occupano e maggiori saranno i guadagni. I quattrini servono a questi boss in erba non tanto per il potere, ma per divertirsi la sera in discoteca, ostentare lì sulla pista da ballo o davanti al bancone del bar abiti firmati, l'ultimo modello di iPhone e scooteroni nuovi fiammanti. Anche per loro l'apparenza è una regola di vita. Il quartiere della Sanità è uno dei centri in cui si sta svolgendo la guerra tra gruppi camorristici. Quando “l'Espresso” un anno e mezzo fa raccontò da Forcella i Giulianos , i giovani eredi della storica dinastia di padrini, questa mattanza era già in corso. I baby boss di Forcella che scimmiottano i camorristi dei film sono ora in carcere, colpiti qualche mese fa da un'ordinanza di custodia cautelare. In quelle oltre mille pagine di documenti giudiziari la realtà superava di gran lunga la fiction Gomorra. La squadra Mobile di Napoli è riuscita a fotografare l'ascesa del clan dei rampolli spietati e le alleanze con altri capi poco più che ventenni. Insieme hanno seminato il panico per i vicoli sgarrupati della città e scalato il potere criminale. Il cartello porta il nome dei gruppi che lo compongono: Amirante-Brunetti-Giuliano-Sibillo. Tutti nati negli anni '90, e tutti agguerritissimi. Armati fino ai denti, avevao persino realizzato un poligono di tiro sui tetti dei palazzi del loro regno impenetrabile. E non esitavano a sparare per strada per provare le armi colpendo in qualche caso anche i passanti. Poi è arrivata la retata. Il nucleo più importante della “paranza dei bimbi” è stato colpito. Ma in due sono riusciti a fuggire. Due latitanti che sono anche fratelli. Emanuele e Pasquale “Lino” Sibillo. Il primo è stato rintracciato prima dai nemici e freddato in un vicolo del rione che credeva di possedere, il secondo è ancora fuggitivo. E gode di protezioni trasversali all'interno dei rioni dove ha scelto di nascondersi. Da questi nomi è necessario partire per comprendere quanto sta accadendo nel cuore di Napoli. Partire cioè dai ragazzi con la pistola che fanno la guerra ai vecchi padroni di questi quartieri. Uno scontro tra nuove generazioni e padrini che hanno fatto la storia criminale della città. E c'è un particolare che emerge dalle informative confluite nell'inchiesta che ha portato all'arresto dei Giuliano-Sibillo. Un particolare che fa riferimento proprio a quanto il rione Sanità fosse strategico per la paranza dei bimbi. Poche righe in cui si parla di Emanuele Alioto “'o Piccirillo” - uno dei “uagliancelli” ammazzato alla Sanità - come un punto di riferimento per il gruppo. Alioto era in grado di fornire contatti e garantire alleanze con esponenti della camorra della Sanità. Non solo, risulta dai documenti giudiziari che nel rione i Sibillo-Giuliano avessero anche un luogo di ritrovo. Un bar a pochi passi dalla piazza dove è stato ucciso l'altro mattina Genny Cesarano. L'ennesima giovanissima vittima della camorra.

I baby boss di Gomorra, quando la realtà supera la fiction. O'Pop, Zecchitella, o'Malegno. Sono i ragazzini con la pistola del clan Giuliano che con la violenza hanno conquistato Napoli. Vorrebbero essere come Genny del serial targato Sky. Ma loro uccidono e muoiono davvero. Le intercettazioni choc contenute nell'ultima indagine della procura antimafia, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Luigi Giuliano junior è un ventenne del “Sistema di Forcella” e come ogni camorrista vive nel terrore: «Cammino sempre con la pistola in mano, pure se devo andare nel vico dirimpetto». La giovane età non deve trarre in inganno, lui e i “compagni suoi” ostentano esperienza. Le armi sono la loro identità e ne possiedono una quantità spaventosa. Impugnare un revolver li fa sentire grandi, anche se all’anagrafe sono ragazzini, tutti nati negli anni Novanta. Ma sparano facile, sparano per qualunque pretesto. Hanno allestito persino poligoni di tiro sui tetti dei palazzi utilizzando le antenne paraboliche come bersagli. Vivono in un eterno videogame convinti che dopo la scritta game over ci sia sempre un’altra chance. E così per tre anni il loro terrore cieco ha imposto una nuova legge di camorra nel centro di Napoli. Genny Savastano, quello della serie tv “Gomorra”, è il loro idolo. I carabinieri sui tetti del centro storico di Napoli usati come poligono di tiro per i "baby boss". E a leggere le 1.700 pagine dell’ordinanza che ha fatto finire in cella 60 di questi baby boss, c’è un senso di stordimento, perché fiction e realtà si sovrappongono. Prendete la vicenda di Totore, uno che a diciassette anni è considerato un pistolero esperto e si è conquistato con il piombo un posto da protagonista nel clan dei ragazzi terribili. Ha ucciso una persona solo perché gli aveva chiesto una sigaretta. Era l’alba del 10 febbraio 2014. Quella sera il clan aveva un tavolo prenotato, in una delle discoteche più frequentate di Napoli, il Private One. La festa è finita con un loro coetaneo ammazzato a sangue freddo perché, appunto, si era permesso di domandare una sigaretta. La vittima si chiamava Maurizio Lutricuso, trucidato con sette colpi di pistola. Dell’omicidio è sospettato “Totore o’malegno”, all’epoca minorenne. Totore è considerato un impavido pistolero, tanto che «essendosi distinto per la sua temerarietà veniva sostanzialmente “arruolato”». I soprannomi del “Sistema” ricordano davvero i protagonisti del “Gomorra” televisivo. Tra di loro si chiamano O’ Pop, o’ Russ, Zecchetella, Gigino, Polpetta, Ciro Ciro, o’ Palumm, o’ Malegno. Sono i giovanissimi affiliati di un cartello di camorra che in tre anni si è preso il centro di Napoli. Un gruppo spietato che ha seminato il panico tra i vicoli sgarrupati del ventre della città. Ragazzini in carne e ossa, a differenza di Genny Savastano, che ammazzano e muoiono davvero. Sono i Giuliano, eredi della dinastia criminale del vecchio re di Forcella, Luigi “Lovigino” Giuliano, che insieme ai fratelli era a capo di un’economia sommersa che sfamava migliaia di persone. Erano altri tempi. Ora quei rioni sono caduti in mano ai nipoti che non conoscono regole. Girano per le strade formando delle batterie. Le “paranze armate “vengono annunciate dal rombo degli scooteroni 200 di cilindrata. E indossano il casco per nascondersi il volto nelle spedizioni punitive. Un anno fa “l’Espresso” era stato a Forcella per raccontare i “uaglioncelli” con la pistola. Due settimane fa una retata della squadra Mobile di Napoli, coordinata dalla procura antimafia di Napoli, ha messo un freno al clan che ha scippato il centro della città ai padroni storici, i Mazzarella. Per la “paranza dei bimbi”, così l’hanno soprannominata nel quartiere, si sono aperte le celle di Poggioreale. L’inferno dentro il quale la camorra spinge tante giovani vite, nella fiction così come nella realtà. Il ruolo di capo clan è toccato ai discendenti diretti della vecchia guardia. Giuseppe, Guglielmo, Antonio, Luigi senior e junior, Salvatore. I nuovi “Giulianos” non hanno codici di affiliazione: la loro bibbia è la legge della strada. Le serate in discoteca, la cocaina, le costose bottiglie di champagne «da 150 euro l’una» e le immagini postate su Facebook per celebrare le loro notti brave, che spesso si concludono sparando. Si spara per niente, oppure per conquistare pezzi di territorio. Così è nato lo scontro con le famiglie di camorra Mazzarella e Caldarelli, che a piazza Mercato gestiscono il suk dei prodotti contraffatti. I Giuliano sono abituati a maneggiare armi e caricatori. Ci sono decine di pagine di intercettazioni in cui tra di loro si vantano dei “ferri” che possiedono e custodiscono gelosamente. Come la «357 Magnum cromata con il manico di gomma, quello di Al Capone» raccontano esaltati i soldatini del Sistema, che hanno trasformato le viuzze in trincee di una guerra ignorata dal resto d’Italia. E il più delle volte colpiscono nel mucchio. Il 31 dicembre 2013, per esempio, mentre a casa Giuliano erano iniziati i preparativi per il cenone a cui avrebbe partecipato tutto il clan, uno degli scugnizzi di casa, Cristiano detto “Panzarotto”, aveva deciso di provare una delle pistole a disposizione del gruppo: «Mi vuoi far provare quella Sette (la pistola) qua nel vico». Alcuni istanti dopo, Mia Sumon, un immigrato dal Bangladesh, viene colpito da un proiettile vagante. “Panzarotto” lo racconta subito agli amici: «Dissi spariamo in aria, chiavai una botta in petto a un nero, il nero cadde a 20 metri sul volto santo». È come se uccidere o ferire fosse un gioco, o una fiction, con la possibilità di resettare e di tornare all’inizio. Ma dietro ogni guerra c’è sempre un business da accaparrarsi. Per gli inquirenti il «motivo del contendere con i Mazzarella sono gli enormi introiti delle estorsioni agli ambulanti e delle piazze di spaccio». Un pentito racconta il funzionamento di una piazza di spaccio. E la somiglianza con il fortino della droga messo in piedi dalla famiglia Savastano è impressionante. «Lo spaccio avviene in una abitazione. Le persone corpulente aspettano giù e viene calato un paniere, entro cui viene messo il denaro e dopo viene confezionata al momento la quantità di stupefacente. C’è una telecamera presente in quasi tutte le piazze». Il clan Giuliano incassava da ogni piazza quasi mezzo milione all’anno. Soldi che i “uaglioncelli”, spendevano in divertimento, vizi e serate. Agli affiliati invece spetta uno stipendio che va dai 140 a settimana, per le pedine più piccole, ai mille euro per i più alti in grado. Ma più aumentano i profitti, più il sospetto si insinua nell’organizzazione. «Questa è la sfaccimma della confidenza», dice uno dei fratelli Giuliano lamentandosi con Emanuele Sibillo dei dissidi insorti. Sibillo è il boss in erba del clan federato ai Giuliano. E spiega ai soci come leggere l’aggressione subita dal cassiere del gruppo: «Queste non sono stronzate, queste sono reazioni, sai quando viene l’arbitro vicino e ti dà il cartellino? Eh, questo è». Già: a 17 anni Sibillo sognava di fare il giornalista. Poi quel desiderio è stato inghiottito dalla camorra. Era riuscito a sfuggire alla grande retata, ma non ai clan nemici che l’hanno trovato prima della polizia e ucciso vicino al vecchio tribunale. Un omicidio «eccellente», l’hanno definito gli inquirenti, nonostante fosse solo un ragazzino. Uno di quelli che insieme ai Giuliano ordinava estorsioni a tappeto: dagli Internet point agli ambulanti, dalle prostitute di via Tribunali ai parcheggiatori abusivi, nessuno era esente dalla tassa. Prendersi Napoli era il sogno di questi baby criminali. Un delirio interrotto dallo scatto delle manette. Quei vicoli però non trovano pace. A venti giorni dalla retata tre minorenni sono stati feriti con 11 colpi di pistola. Uno di loro è ritenuto vicino al cartello Giuliano-Sibillo, in guerra contro i Mazzarella, i vecchi padroni del centro che considerano i “muschilli” come Emanuele scorie da eliminare.

La paranza dei bambini nella guerra di Napoli. Una faida generazionale dietro all'uccisione del ragazzo di 17 anni, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. Se vuoi terrorizzare un territorio senza iniziare una lunga guerra tra famiglie criminali, devi fare molte stese. "Fare le stese" significa correre sui motorini e sparare a tutto e tutti. Tutti si buttano a terra, stesi, perché terrorizzati, pietrificati. Poi se qualcuno lo stendi davvero, se lo ammazzi, è danno collaterale. Possibilmente da evitare perché le stese riuscite meglio non dovrebbero provocare danni collaterali. Ma se accade, accade. Ecco cosa sta succedendo a Napoli. Sparare su finestre, cancelli, vetri delle auto, con pistole semiautomatiche ma anche fucili d'assalto, l'Ak47, intramontabile e sempre amato dai clan napoletani. Le stese sono un modo per seminare terrore con un metodo da guerriglia psicologica, mettere paura e far abbassare la testa. Usano questa espressione, "fare la stesa" come stendere o far stendere una persona. "Stesa" come estendere il proprio dominio o come stendere un lenzuolo, una cappa, su un quartiere, vicolo per vicolo. Senza stese un gruppo dovrebbe intraprendere una faida in modo classico e faida significa investimenti, alti, in manovalanza: pali, pedinatori, sicari. Così viene gestito il centro storico di Napoli dai gruppi criminali: con il terrore. Che nessuno alzi la testa all'arrivo dei nuovi, che siate affiliati o piccoli pregiudicati per reati minori che con l'associazionismo criminale non hanno nulla a che fare. Eppure dopo la morte di Gennaro Cesarano, che sia lui o meno l'obiettivo del commando di fuoco, l'unico discorso che ha trovato spazio è stato se a morire sia stato un colpevole o un innocente. Attributi che in quel territorio hanno perso senso, se mai ne hanno avuto uno. Come può un ragazzo di 17 anni se ritenuto colpevole generare quel senso di distanza e repellenza che si ha come quando si accumulano i cadaveri criminali di una nuova guerra di camorra. Se a quell'età muori in strada ucciso perché bersaglio di una paranza di fuoco vuol dire che il fallimento è andato ben oltre i proclami e le possibilità di riscatto di un territorio. È inutile presentare Napoli come un progetto lungimirante, è senza risorse e finanche senza idee: la speranza alimentata dal governo della città e dal governo di Roma in questo caso si chiama inganno. In un contesto del genere non resta che parlare di colpevolezza e innocenza, perché colpevole il morto, assolti noi che ne leggiamo, ne parliamo, ne scriviamo. Colpevole il morto vale la regola più abusata e falsa del "si uccidono tra loro". Sul morto per caso, sul morto innocente ancora esistono residuali moti di empatia ci si sente costretti a prendere parte, a decidere. Ecco perché ogni volta è la stessa attesa: ma stava in mezzo o non c'entrava? La mia risposta ora è: 17. 17 anni! E invece è per ogni colpevole che cade e si affilia si perde ogni possibilità di percorso altro e se il presunto colpevole è un diciassettenne, allora forse ci si soffermerà qualche attimo in più a considerare ciò che sta accadendo: il mezzogiorno italiano è nel pantano e solo una rivoluzione meridionale può sperare di modificare le cose. Uso l'espressione rivoluzione meridionale di Guido Dorso le cui pagine oggi sono persino più attuali di quando le scrisse su invito di Piero Gobetti nel 1925: "No, il Mezzogiorno non ha bisogno di carità, ma di giustizia; non chiede aiuto, ma libertà. Se il mezzogiorno non distruggerà le cause della sua inferiorità da se stesso, con la sua libera iniziativa e seguendo l'esempio dei suoi figli migliori, tutto sarà inutile...". Ma quale libertà oggi viene data? Luigi Galletta, 21 anni, meccanico di Forcella, questa estate è stato ucciso per essersi rifiutato di truccare dei motorini sapendo che avrebbero fatto parte delle paranze che giravano per uccidere. Non voleva stare in mezzo ai guai, un'etica scelta per istinto; la mattina lo hanno massacrato di botte e il pomeriggio lo hanno ucciso. Anche in quel caso tutti i discorsi furono sul suo essere innocente o colpevole: davvero si era rifiutato o lavorava invece per i nemici di chi l'ha ucciso? Nel dubbio se piangere un morto o sputarci sopra ci si è dimenticati della sua storia. Innocente o colpevole? Sputtani Napoli o ne canti lodi? Si esaurisce il discorso su Napoli e su intere aree in cui ormai c'è guerra. Mi ha colpito il commento di Francesco Ebbasta, regista e anima dei Jackal, ragazzi che hanno fatto di Napoli, con la loro capacità di fare video online, un nuovo polo creativo. Loro che non si sono mai occupati di questi temi, hanno scritto che "bisogna accettare la realtà dei fatti per quella che è: siamo dei poveretti". Poveretti perché a Napoli si preferisce ignorare la realtà, perché due ragazzi armati che ne mettono in fuga duecento in piazza Bellini, la piazza più frequentata della città, sono il peggior ufficio stampa possibile. Il sindaco De Magistris invoca il governo che promette di inviare rinforzi armati, senza capire che militarizzare significa creare ulteriori tensioni. Alfano manderà 50 poliziotti. Ma davvero credete sia sufficiente? Ora l'unico lavoro di polizia che davvero avrebbe un senso sarebbe quello di intelligence per provare a capire che direzione sta prendendo questa guerra e poi mandare 50 progetti sociali veri, 50 idee nuove per sollevare da pressione fiscale e burocrazia le aziende del sud. Con 50 poliziotti sapete cosa succederà? Che Napoli si riempirà di posti di blocco che verranno accusati di fermare chi non porta il casco mentre gli affiliati  -  si dirà  -  hanno sentinelle e sanno dove non passare e anzi riceveranno ancora una più allargata simpatia della gente. Mentre va in scena l'ennesima pantomima tra politica cittadina e nazionale, ciò che resta è un dato di fatto sconcertante: questa nuova ondata di violenza ci dice che le organizzazioni criminali rimangono tra i pochi ambiti di crescita economica che la città offre. Ora la faida è tra le nuove generazioni: l'alleanza tra clan di Forcella e dei Quartieri Spagnoli è voluta da una parte della Sanità e osteggiata da un'altra e il campo si apre a tutti quei ragazzi che si sono addestrati sparando sui tetti contro le antenne paraboliche, quei minorenni che da un'inchiesta della Dda di Napoli vengono definiti "la paranza dei bambini". Le loro famiglie spesso non sono neanche di camorra, non appartengono al Sistema, sono lavoratori talvolta con precedenti penali senza l'aggravante dell'associazionismo mafioso. A questo proposito è interessante, per descrivere il contesto, ascoltare cosa dicono i familiari del ragazzo ucciso: aveva un precedente ma qui tutti chi per un motivo, chi per un altro, hanno avuto a che fare con la giustizia. Come se alla Sanità sia più normale che altrove commettere reati. E se non fossero gli abitanti stessi a dirlo potremmo essere accusati di voler diffamare il quartiere, eppure risulta evidente che dove non ci sono prospettive non c'è scelta. Del resto, la giovanissima età della nuova paranza ci dice chiaramente che c'è voglia e quindi necessità di fondare da zero una nuova generazione mafiosa. Una generazione che è figlia del suo tempo, che porta barbe lunghe da hipster e che comunica su Facebook, che si fa assolvere su Facebook da una platea di "amici" che è lontana dallo stigmatizzare finanche gli omicidi. Sulla bacheca di Gianluca Ianuale, uno degli assassini dell'uomo ucraino, Anatolij Karol, ucciso a Castello di Cisterna per aver tentato di sventare una rapina in un supermercato, ci sono frasi di vicinanza, di comprensione, talvolta ramanzine come si farebbero a un amico che si è ubriacato la sera prima. Ma nessuno che abbia preso le distanze. Ebbene lui ha ammazzato una persona e gli si dà solidarietà. La vicinanza che si dà a una persona che ha compiuto un crimine efferato come un omicidio arriva da un territorio che mette in conto che possa accadere. Ecco perché quel territorio ha gli strumenti per riuscire a metabolizzare un omicidio e riesce a trovare le parole "giuste", parole di circostanza. I più qualunquisti definiscono "sputtanapoli" chiunque osi raccontare ciò che accade in città, mentre loro, comodamente seduti nelle varie esaltazioni identitarie, lo sport, il mare, la pizza, la simpatia  -  galli sulla monnezza mi verrebbe da dire utilizzando un'espressione napoletana  -  ignorano ciò che accade a due passi. Tutto questo succede mentre le organizzazioni puntano ormai sui giovani. Le famiglie del passato hanno optato per una strategia doppia, da un lato il pentimento dall'altro lasciar dominare le nuove leve. Quando prenderanno il potere si siederanno sulle spalle di questi nuovi principi. I nuovi combattenti di camorra ricevono dalle vecchie famiglie armi e una volta mostrato di saper sparare e di saper gestire avranno l'incoronazione ad essere i vicari dei soliti re. I clan storici investono fuori e risolvono i guai giudiziari collaborando con la giustizia e spesso in cambio riescono a salvaguardare il proprio patrimonio come è accaduto alla villa di Pasquale Galasso definito il castello della camorra a Miasino, vicino a Novara, confiscato ma ancora gestito dai parenti del boss. Eppure è tutto ancora all'inizio; la morte di Ciro Esposito, figlio di Pierino il boss della Sanità, non è stata ancora vendicata, quindi la risposta della Sanità deve ancora venire (avevano provato ma la paranza partita per vendicarsi è stata arrestata). Napoli somiglia sempre di più a quella che era la città degli anni '80 e questi ragazzini ne mostrano il fallimento. Di questo sud non si parlerà ancora per molto: non porta voti, non genera consenso internazionale. Ma qui lo Stato, che dovrebbe amministrare, dare giustizia, organizzare l'educazione non è la politica o le forze dell'ordine. Lo Stato in questi posti è la Fondazione di Comunità San Gennaro voluta da don Antonio Loffredo il cui obiettivo è creare un'opportunità di lavoro attraverso la promozione della cultura, in alternativa alla strada. Lo stato è la Rete voluta da Alex Zanotelli, lo Stato è l'Orchestra Santainsamble dei bambini del Rione Sanità voluta dall'associazione l'Altra Napoli di Ernesto Albanese (suo padre fu ucciso mentre lo stavano derubando della pensione). Lo Stato è la Fondazione Pavesi che organizza corsi gratuiti di teatro per bambini. Lo Stato è il Nuovo Teatro Sanità di Mario Gelardi che offre uno spazio dove poter tentare di trascendere la propria quotidianità. Non pensare solo a soldi, sopravvivenza, e buffonerie. Ma provare a imparare, divertirsi, misurarsi. Tutto questo sta facendo lo Stato senza armi e senza codice penale contro la paranza dei bambini, il peggior prodotto di una terra dimenticata contesa tra disperati e indifferenti. E le lacrime di dolore che tracimano da queste storie nascono dalla difficoltà di resistere e non dalla celebrazione del lamento. È questa la differenza tra il pianto e il piagnisteo che in molti dovrebbero imparare a capire per capire questo sud.

La paranza dei bambini: adda murì mammà. Giovanissimi, veloci, violenti. Sono i protagonisti dell'atteso romanzo di Roberto Saviano che uscirà per Natale. Eccone un assaggio in esclusiva, scrive Roberto Saviano il 31 luglio 2016 su "La Repubblica". È il 31 maggio 2013, Anna chiama Antonella poco prima di mezzanotte per dirle di non uscire di casa. La conversazione si interrompe per il rumore fortissimo di spari in strada, nei pressi di via Sant'Arcangelo a Baiano, pieno centro storico di Napoli, zona universitaria, a due passi da via dei Tribunali e dai luoghi del turismo. A poche centinaia di metri da lì hanno sfilato gli abiti di Dolce e Gabbana. Il mattino dopo, prestissimo, alle 5.40 Antonella sente al telefono un'altra donna, Angela, che abita a vico Carbonari, prolungamento di via Sant'Arcangelo a Baiano. Anche Angela ha sentito gli spari. Parlano proprio di quello:

Angela: Comunque mi sono scioccata stasera.

Antonella: Qui mi sembra il Far West. Mi hanno detto che stanno tutti(incomprensibile), pure i bimbi... pure...

Angela: Ma è una paranza nuova?

Antonella spiega ad Angela che a Forcella c'è una nuova paranza dove ci sono "pure i bimbi".

Queste intercettazioni telefoniche sono presenti nelle oltre 1.600 pagine dell'ordinanza cautelare emessa dal Gip di Napoli, nell'ambito dell'inchiesta sulla "Paranza dei bambini" (condotta dai pm della Dda Henry John Woodcock e Francesco De Falco), che ha portato a 43 condanne, quasi tutte nei confronti di giovanissimi. Nel gergo camorristico "paranza" significa gruppo criminale, ma il termine ha origini marinaresche e indica le piccole imbarcazioni per la pesca che, in coppia, tirano le reti nei fondali bassi, dove si pescano soprattutto pesci piccoli per la frittura di paranza. L'espressione "paranza dei bambini" indica la batteria di fuoco, ma restituisce anche con una certa fedeltà l'immagine di pesci talmente piccoli da poter essere cucinati solo fritti: piscitiell', proprio come questi ragazzini. 1987, 1989, 1991, 1993, 1985, 1988, 1995, 1994: queste le date di nascita dei ragazzi della paranza. "Ciro Ciro", "'o Rerill", "'o Pop", "'o Russ", "'Nzalatella", "Recchiolone" i loro soprannomi. Studiare la paranza dei bambini significa tratteggiare la nuova forma che la camorra napoletana ha assunto: barbe lunghe e corpi completamente tatuati, ma giovanissimi. Queste storie, tra doglie, sforzi, lacrime e muscolose spinte di rabbia, diventeranno il mio prossimo romanzo (questa volta di fiction e non più non-fiction). Si intitolerà La paranza dei bambini e uscirà a dicembre per Feltrinelli. Qui, oggi, trovate una anticipazione il cui titolo è Adda murì mammà, espressione che a Napoli i ragazzi usano di continuo per giurare che ciò che stanno dicendo è vero. Espressione che descrive meglio di molte altre lo spirito della paranza, pronta al sacrificio estremo - perdere la propria madre - per affrontare ciò che nel resto d'Italia sarebbe impensabile. Pronta a perdere tutto, libertà, affetti, vita. Per comandare.

Adda murì mammà. "Dobbiamo costruire una paranza tutta nostra. Nun amma appartenè a nisciuno, sule a nuje. Non dobbiamo stare sotto a niente." Tutti guardavano Nicolas in silenzio. Aspettavano di capire come avrebbero potuto emanciparsi senza mezzi, senza un cazzo. Nemmeno votare potevano, erano in pochi ad aver compiuto diciott'anni. Patenti manco a parlarne, sì e no qualche patentino per i 125. Bambini li chiamavano e bambini erano veramente. E come chi ancora non ha iniziato a vivere, non avevano paura di niente, consideravano i vecchi già morti, già seppelliti, già finiti. L'unica arma che avevano era la ferinità che i cuccioli d'uomo ancora conservano. Animaletti che agiscono d'istinto. Mostrano i denti e ringhiano, tanto basta a far cacare sotto chi gli sta di fronte. Diventare mostruosi, solo così chi ancora incuteva timore e rispetto li avrebbe presi in considerazione. Bambini sì, ma con le palle. Creare scompiglio e regnare su quello: disordine e caos per un regno senza coordinate. "Se creren' ca simm' creature, ma nuje tenimm' chest'... e tenimm' pur' chest'." E con la mano destra Nicolas prese la pistola che teneva nei pantaloni. Uncinò il ponticello con l'indice e iniziò a far roteare l'arma come se non pesasse niente mentre con la sinistra indicava il pacco, il cazzo, le palle. Tenimm' chest' e chest': armi e palle, questo era il concetto. "Nicolas..." Agostino lo interruppe, qualcuno doveva farlo, Nicolas se l'aspettava. L'aspettava come il bacio che avrebbe fatto identificare Cristo ai soldati. Aveva bisogno che qualcuno si prendesse il dubbio e la colpa di pensare: un capro espiatorio, perché fosse chiaro che non c'era scelta, che non si poteva decidere se essere dentro o fuori. La paranza doveva respirare all'unisono e il respiro sul quale tutti dovevano calibrare la propria necessità di ossigeno era il suo. "...Nico', ma non s'è mai visto che facciamo da soli una paranza, così, da subito. Adda murì mammà, Nico', dobbiamo chiedere il permesso. Proprio mo' che alla Sanità la gente pensa ca nun ce sta cchiù nisciun', se ci sappiamo fare ci danno una piazza, fatichiamo per loro." "Agosti', è gente come a te che non voglio, la gente come te se ne deve andare mo' mo'..." "Nico', forse non mi sono spiegato, sto solo dicendo che..." "Aggio capit' buon', Austi', staje parlann' malament'." Nicolas si avvicinò, tirò su col naso e gli sputò in faccia. Agostino non era un cacasotto e provò a reagire, ma mentre stava caricando la testa in direzione del setto nasale, Nicolas lo prevenne e si scostò. Si guardarono negli occhi. E poi basta, finito il teatro. A quel punto Nicolas continuò. "Agosti', io non voglio gente con la paura, la paura non deve venire nemmeno in mente. Se ti viene il dubbio, allora per me non sei più buono." Agostino sapeva di aver detto ciò che tutti temevano, non era l'unico a pensare che bisognasse trovare un'interlocuzione con i vecchi capi e quella sputata in faccia più che un'umiliazione fu un avvertimento. Un avvertimento per tutti. "Mò te ne devi andare, tu nella paranza non ci puoi stare più." "Siete solo una vrancata di merdilli," disse Agostino, paonazzo. Enzuccio 'o Rentill'si intromise, e cercò di placarlo. "Austi', va vattenne, che ti fai male..." Agostino non aveva mai tradito eppure, come tutti i Giuda, fu strumento utile per accelerare il compimento di un destino: prima di uscire dalla stanza regalò inconsapevolmente a Nicolas ciò di cui aveva bisogno per compattare la paranza. "E vuje vulesseve fa 'a paranz' cù tre curtiell'e doje scacciacani?" "Cù 'sti tre curtiell't'arapimm' sano sano." Esplose Nicolas. Agostino alzò il dito medio e lo fece roteare in faccia a quelli che un momento prima sentiva sangue del suo sangue. A Nicolas dispiaceva lasciarlo andare: non si butta via così una persona di cui conosci ogni giorno, ogni fratcucin', ogni zio. Agostino era con lui allo stadio, sempre, al San Paolo e in trasferta. Un brò lo devi tenere vicino, ma era andata così e cacciarlo serviva. Serviva una spugna che assorbisse tutte le paure del gruppo. Appena Agostino ebbe sbattuta la porta, Nicolas continuò. "Frate', 'o cacasott' ten' ragione... Non la possiamo fare la paranza con tre coltelli da cucina e due scacciacani." E quelli che un attimo prima erano pronti a combattere con le poche lame e i ferri vecchi che avevano, perché Nicolas li aveva benedetti, dopo l'autorizzazione al dubbio confermarono tutti la delusione: sognavano santebarbare ed erano ridotti a maneggiare giocattoli che nascondevano in cameretta. "La soluzione ce l'ho," disse Nicolas, "o m'accireno oppure torno a casa cù 'n arsenale. E se questo succede, qua adda cagnà tutte cose: con le armi arrivano pure le regole, perché adda murì mammà, senza regole simm' sule piscitiell' 'e vrachetta." "Le teniamo le regole, Nico', siamo tutti fratelli." "I fratelli senza giuramento non sono niente. E i giuramenti si fanno sulle cose che contano. "L'avete visto Il camorrista, no? Quando 'o Prufessor' fa il giuramento in carcere. Veritavell', sta 'ncopp a YouTube: noi dobbiamo essere così, una cosa sola. Ci dobbiamo battezzare coi ferri e colle catene. Amma essere sentinelle di omertà. È tropp' bell guagliu', veritavell'. Il pane, che se uno tradisce diventa piombo e il vino ca addivent' veleno. E poi ci deve uscire il sangue, amma ammiscà 'e sang' nuoste e non dobbiamo tenere paura di niente." Mentre parlava di valori e giuramenti, Nicolas aveva in mente una cosa sola, una cosa che gli creava disagio e gli svuotava l'addome. Le palle, se davvero ce le aveva ancora, dopo quella storia, una storia di niente, se le poteva appendere al collo come cravatta al prossimo sposalizio. Faceva caldo e c'era la partita, giocava l'Italia, ma lui tifava contro, perché lui e i compagni suoi non si sentivano italiani e per la partita avevano strafottenza. Tenevano una cosa da fare e pure urgente. Erano in sei su tre scooter. Il suo lo guidava Enzuccio 'o Rentill', gli altri due sfrecciavano dietro. Dal Moiariello era una strada sola in discesa. Vicoli stretti stretti - "il presepe", lo chiama la gente che ci vive. Se passi di là fai prima e per piazza Bellini, marciapiede marciapiede, eviti traffico e sensi unici, ci metti un attimo. A piazza Bellini c'era il contatto con l'Arcangelo e Nicolas doveva fare presto. È vero, si sentiva un padreterno, ma quel contatto gli serviva. E quella non è gente che aspetta. Dieci minuti e doveva stare là. L'ultimo tratto di via Foria, prima di arrivare al Museo, i tre scooter lo percorsero su marciapiedi larghie illuminati, zigzagando a clacson spiegati. Chi li guida a Napoli è un Minotauro: metà uomo e metà ruote. Si sorpassa ovunque, non c'è sbarramento o isola pedonale. Per loro valgono le regole dei pedoni e nessun'altra. Questa volta avrebbero potuto anche andare per strada, perché in giro non c'era anima viva e quei pochi che non si erano organizzati per la partita stavano fermi davanti agli schermi che a Napoli si trovano a ogni pizzo. Di tanto in tanto, se sentivano esultare, fermavano gli scooter e chiedevano il risultato. L'Italia era in vantaggio. Nicolas imprecò. Via Costantinopoli la imboccarono contromano. Salirono sui marciapiedi che questa volta erano stretti e bui e qui c'era più gente. Ragazzi, per lo più universitari e qualche turista. Stavano andando anche loro, ma con maggiore calma, a piazza Bellini, a Port'Alba, a piazza Dante, dove c'erano locali con televisori in strada. Andavano troppo veloci e non videro due passeggini fermi sul marciapiede, accanto adulti seduti al tavolino di un bar. Il primo scooter a frenare non ci provò nemmeno, il manico del passeggino più esterno arpionò lo specchietto dello scooter e il passeggino iniziò a muoversi veloce finché non si staccò, cadde di lato, sembrava come planare sul ghiaccio. Si fermò solo quando arrivò al muro: l'impatto fece un rumore sordo. Un rumore di sangue, di carne bianca e pannolini. Di capelli appena cresciuti, disordinati. Un rumore di ninnananne e notti insonni. Dopo un attimo si sentì il bambino piangere e la madre urlare. Non si era fatto niente, solo spavento. Il padre invece era impietrito, immobile. In piedi, guardava i ragazzi che nel frattempo avevano parcheggiato gli scooter e se ne stavano andando via con calma. Non si erano fermati. E nemmeno erano fuggiti in preda al panico. No. Avevano parcheggiato e si erano allontanati a piedi, come se tutto ciò che era accaduto rientrasse nella normale vita di quel territorio, che appartiene a loro e a nessun altro. Calpestare, urtare, correre. Veloci, strafottenti, maleducati, violenti. Così è e non c'è altro modo di essere. Nicolas però sentiva il cuore pompare sangue all'impazzata. Non era cazzimma la sua, ma calcolo: quell'incidente non doveva modificare il loro percorso. C'erano due macchine della polizia - da un lato e dall'altro di via Costantinopoli - ferme proprio dove i ragazzi avevano parcheggiato. I poliziotti, quattro in tutto, stavano ascoltando la partita alla radio e non si erano accorti di nulla. Erano a pochi metri dall'incidente ma quelle urla non li avevano strappati alle loro macchine. Cosa avranno pensato? A Napoli si urla sempre, a Napoli urla chiunque. Oppure: meglio stare alla larga, siamo pochi e qui non abbiamo alcuna autorità. Nicolas non diceva niente e mentre con lo sguardo cercava il suo contatto, pensava che avevano rischiato di farsi male, che a quel passeggino un calcio dovevano dare e non portarselo appresso per dieci metri. A Napoli tutto era loro e i marciapiedi servivano, la gente questo lo doveva capire. Eccolo il suo contatto con don Vittorio Grimaldi, cappello in testa e spinello in bocca. Si avvicinava lento, non si tolse il cappello e non sputò lo spinello: trattò Nicolas come il ragazzino che era e non come il capo che fantasticava di essere. "L'Arcangelo ha deciso che puoi andarlo a pregare. Ma per entrare nella cappella bisogna seguire bene le indicazioni." Indicazioni in codice che Nicolas seppe decifrare. Il boss l'avrebbe ricevuto a casa sua, ma che non gli venisse in mente di passare dall'entrata principale perché lui, don Vittorio, era agli arresti domiciliari e non poteva incontrare nessuno. Le telecamere dei carabinieri non si vedevano ma c'erano, ficcate nel cemento, da qualche parte. Ma non erano quelle che Nicolas doveva temere, piuttosto gli occhi dei Colella. Il contatto di piazza Bellini fu chiaro: "Se ti vedono i Colella, tu diventi un Grimaldi. E le botte che buttano su di noi, le buttano pure su di te. Punto. L'Arcangelo vuole che stai avvisato, poi fai tu". La verità era un'altra: Nicolas e il suo gruppo erano delle teste di cazzo e i Grimaldi non volevano che, per colpa loro, i sospetti di inquirenti e rivali si concentrassero sull'Arcangelo che era già pieno di guai. L'appartamento di don Vittorio, detto l'Arcangelo, era a San Giovanni a Teduccio. In via Sorrento, in un palazzone ocra con ferri alle finestre. San Giovanni ha le dimensioni di un paese e venticinquemila abitanti, ma è un quartiere di Napoli, un quartiere della periferia orientale. Una strada con case basse, paesane e qualche parallelepipedo. È tutto giallino a San Giovanni, pure il mare. Nicolas arrivò in scooter, tanto non era famoso come avrebbe voluto e lì, lontano da casa sua, nessuno dei guaglioni di Sistema lo conosceva. Di nome forse, ma la sua faccia poteva passare inosservata. Vedendolo, avrebbero pensato che era lì per comprare del fumo, e infatti si accostò col motorino ad alcuni ragazzi e subito fu accontentato: "Quant' 'e ave'?". "Cient' eur'." "Azz', buon'. Ramm' 'e sord'." Qualche minuto dopo il fumo era sotto il suo culo, sotto il sellino. Fece un giro e poi parcheggiò. Mise un lucchetto vistoso e andò a passo lento verso la casa dell'Arcangelo. I suoi movimenti erano chiari, decisi. Niente mani in tasca, gli prudeva la testa, stava sudando, ma lasciò perdere. Non s'è mai visto un capo grattarsi in un momento solenne. Citofonò all'appartamento sotto quello di don Vittorio, come da indicazioni. Risposero. Pronunciò il suo nome, ne scandì ogni sillaba. "Professore', sono Nicolas Fiorillo, aprite?" "Aperto?" "No!" In realtà era aperto ma voleva prendere tempo. "Spingi forte che si apre." "Sì, sì. Ora si è aperto." Rita Cicatello era una vecchia professoressa in pensione che dava ripetizioni private a prezzi che qualcuno definirebbe sociali. Andavano da lei tutti gli allievi dei professori amici suoi. Se andavano a ripetizione da lei e da suo marito, venivano promossi, altrimenti piovevano i debiti e poi da lei ci dovevano andare lo stesso, ma d'estate. Nicolas raggiunse il pianerottolo della professoressa. Entrò con tutta calma, come uno studente che non avesse voglia di sottoporsi all'ennesimo supplizio; in realtà voleva essere certo che la telecamera piazzata lì dai carabinieri riprendesse tutto. Come un occhio umano, la considerava capace di battere le palpebre e quindi ogni suo gesto doveva essere lento, che restasse impresso. La telecamera dei carabinieri, che sarebbe servita anche ai Colella, doveva vedere questo: Nicolas Fiorillo che entrava dalla professoressa Cicatello. E basta. La signora aprì la porta. Aveva un mantesino che la proteggeva dagli schizzi di salsa e olio. Nella piccola casa c'erano tanti ragazzi, maschi e femmine, in tutto una decina, seduti alla stessa tavola da pranzo rotonda, con i libri di testo aperti, ma con la testa nell'iPhone. A loro piaceva la professoressa Cicatello perché non faceva come tutte le altre, che prima di iniziare la lezione sequestravano i cellulari, costringendoli poi a inventare scuse fantasiose - mio nonno è in sala operatoria, mia madre se non rispondo dopo dieci minuti chiama la polizia - per poterli guardare, ché magari era arrivato un messaggio su WhatsApp o qualche like su Facebook. La professoressa glieli lasciava in mano e la lezione nemmeno la faceva, se li teneva in casa davanti a un tablet - regalo del figlio per l'ultimo Natale - collegato a un piccolo amplificatore da cui usciva la voce di lei che parlava di Manzoni, del Risorgimento, di Dante. Tutto dipendeva da cosa dovessero studiare i ragazzi; la professoressa Cicatello, nei tempi morti, preregistrava le lezioni e poi si limitava a urlare di tanto in tanto: "Basta cù 'sti telefonini e ascoltate la lezione". Nel frattempo cucinava, riordinava casa, faceva lunghe telefonate da un vecchio telefono fisso. Tornava per correggere i compiti di italiano e geografia, mentre suo marito correggeva quelli di matematica. Nicolas entrò, biascicò un saluto generale, i ragazzi nemmeno lo degnarono di uno sguardo. Aprì la porta di vetro e la varcò. I ragazzi vedevano spesso entrare e uscire gente che spariva, dopo un rapido saluto, dietro la porta della cucina. La vita oltre quella porta era loro sconosciuta e, siccome il bagno era sul lato opposto, della casa della professoressa conoscevano solo la stanza del tablet e il cesso. Sul resto non facevano domande, non era il caso di essere curiosi. Nella stanza del tablet c'era anche il marito, sempre dinanzi a un televisore e sempre con una coperta sulle ginocchia. Anche d'estate. I ragazzi lo raggiungevano sulla poltrona per portargli i compiti di matematica. Lui con una penna rossa che teneva nel taschino della camicia li correggeva, punendo la loro ignoranza. Bofonchiò verso Nicolas qualcosa che doveva somigliare a un "Buongiorno". Alla fine della cucina c'era una scaletta. La professoressa senza fiatare indicò verso l'alto. Una piccola e artigianale opera in muratura aveva realizzato un foro che collegava il piano di sotto al piano di sopra. Così, semplicemente, chi non poteva raggiungere don Vittorio dalla porta principale, andava dalla professoressa. Arrivato all'ultimo piolo, Nicolas batté il pugno un paio di volte sulla botola. Era lui stesso, don Vittorio, che quando sentiva i colpi si chinava lasciando che dalla sua bocca uscisse un gorgoglio di fatica che veniva dritto dalla spina dorsale. Nicolas era emozionato, don Vittorio non l'aveva mai incontrato di persona, ma visto solo sui giornali delle capuzzelle - così si chiamano in gergo quei giornali locali che pubblicano tutti i giorni le foto segnaletiche dei camorristi della zona. Quelli arrestati, quelli condannati, i latitanti e i morti uccisi. Vederlo da vicino non gli fece l'effetto che aveva creduto. Era più vecchio rispetto alla foto che conosceva, che risaliva al primo arresto. L'aveva visto poi al processo, ma da lontano. Don Vittorio lo lasciò entrare e con lo stesso gorgoglio di schiena richiuse la botola. Non gli strinse la mano, ma gli fece strada.  "Vieni, vieni..." disse solo, entrando nella sala da pranzo dove c'era un enorme tavolo d'ebano che in quella geometria assurda riusciva a perdere tutta la sua cupa eleganza per diventare un monolite vistoso e pacchiano. Don Vittorio si sedette alla destra del capotavola. La casa era piena di vetrinette con dentro ceramiche d'ogni tipo. Le porcellane di Capodimonte dovevano essere la passione della moglie di don Vittorio, di cui però in casa non c'era traccia. La dama col cane, il cacciatore, lo zampognaro: i classici di sempre. Gli occhi di Nicolas rimbalzavano da una parete all'altra, tutto voleva memorizzare; voleva vedere come campava l'Arcangelo e quello che vedeva non gli piaceva. Non sapeva dire esattamente perché provasse disagio, ma certo non gli sembrava la casa di un capo. C'era qualcosa che non tornava: non poteva essere, la sua missione in quel fortino, cosa tanto banale, scontata, facile. Un televisore a schermo piatto circondato da una cornice color legno e due persone con indosso pantaloncini del Napoli: in casa sembrava esserci solo questo. Non salutarono Nicolas, aspettando un cenno di don Vittorio che, presa posizione, indice e medio uniti come a scacciare tafani, fece loro un segno che inequivocabilmente interpretarono come "jatevenne". I due si spostarono e passò poco che, da un'altra stanza, si sentì arrivare la voce gracchiante di un attore comico - doveva esserci un altro televisore - e poi risate. "Spogliati" ordinò l'Arcangelo. 2016 Roberto Saviano. All rights reserved. Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano 2016

La paranza dei bambini. L'Arcangelo e il Marajà. Un'anticipazione dal prossimo romanzo di Roberto Saviano. "Sono vecchio, vero? Ma devi essere vecchio e brutto per fare paura. E tu infatti stai tremando, guaglio'...". Due generazioni criminali si confrontano sullo sfondo di una Napoli feroce, scrive Roberto Saviano il 7 agosto 2016 su “La Repubblica”. Nel gergo camorristico “paranza” significa gruppo criminale. Il termine ha origini marinaresche e indica le piccole imbarcazioni per la pesca che, in coppia, tirano le reti nei fondali bassi, dove si pescano soprattutto pesci piccoli per la frittura di paranza. L’espressione “paranza dei bambini”, fenomeno emerso relativamente di recente, indica invece una batteria di fuoco, ma restituisce anche l’immagine di pesci talmente piccoli da poter essere cucinati solo fritti: piscitiell’, proprio come i ragazzini protagonisti del prossimo romanzo di Roberto Saviano (“La paranza dei bambini”, appunto) che la casa editrice Feltrinelli pubblicherà a dicembre 2016. Domenica scorsa abbiamo anticipato in esclusiva la prima parte di uno dei capitoli de “La paranza dei bambini”, intitolato “Adda murì mammà”. Lì il giovanissimo Nicolas decide di mettere in piedi “una paranza tutta nostra” ma per farlo ha bisogno di armi. Le chiederà a Don Vittorio, boss di camorra agli arresti domiciliari. L’incontro tra le due generazioni criminali è quanto racconta questa seconda e ultima parte dello stesso capitolo.

Ora riconosceva la voce di un uomo abituato comandare. "Spogliati? E cioè?". Nicolas accompagnò la domanda con un'espressione di incredulità. Non si aspettava questa richiesta. Aveva per cento volte immaginato come sarebbe andato questo incontro e per tutte e cento le volte mai aveva preso in considerazione l'ipotesi di doversi spogliare. "Spogliati, guaglio', chi cazzo ti sa. Chi me lo dice che non tieni registratori, cimici e maronne...". "Don Vitto', adda muri' mammà, ma come vi permettete di pensare...". Usò il verbo sbagliato. Don Vittorio alzò la voce per farsi sentire dalla cucina, per sovrastare la voce del comico e le risate. Un boss è boss quando non ha limiti a ciò che si può permettere. "Qua abbiamo finito". I due con i pantaloncini del Napoli non fecero nemmeno in tempo a tornare indietro che Nicolas già aveva iniziato a sfilarsi le scarpe. "No, no, vabbuo', mi spoglio. Lo faccio". Tolse scarpe, poi pantaloni, poi la maglietta e rimase in mutande. "Tutto, guaglio', ché i microfoni pure nel culo te li puoi mettere". Nicolas sapeva che non era questione di microfoni, davanti all'Arcangelo doveva essere solo un verme nudo, era il prezzo da pagare per quell'appuntamento. Fece una piroetta, quasi divertito, mostrò d'essere senza microfoni e microtelecamere, ma di possedere autoironia, spirito che i capi perdono, per necessità. Don Vittorio gli fece il gesto di sedersi e senza fiatare Nicolas indicò se stesso, come a chiedere conferma di potersi sedere così, nudo, su sedie bianche e immacolate. Il boss annuì. "Così vediamo se ti sai pulire il culo. Se lasci sgommate di merda significa che sei troppo piccolo, non ti sai fare il bidet e ti deve ancora pulire mammà". Erano uno di fronte all'altro. Don Vittorio non si era messo a capotavola di proposito, per evitare simbologie: se l'avesse fatto sedere alla sua destra, il ragazzino avrebbe pensato chi sa cosa. Meglio uno di fronte all'altro, come negli interrogatori. E nemmeno volle offrirgli nulla: non si divide cibo sulla tavola con uno sconosciuto, né poteva fare il caffè a un ospite da vagliare. "Allora sei tu 'o Marajà?". "Nicolas Fiorillo...". "Appunto, 'o Marajà... è importante come ti chiamano. È più importante il soprannome del nome, lo sai? Conosci la storia di Bardellino?". "No. "Bardellino, guappo vero. Fu lui che fece, di bande di bufalari, un'organizzazione seria a Casal di Principe". Nicolas ascoltava come un devoto ascolta messa. "Bardellino aveva un nome che gli fu dato quando era piccolo e se lo portava appresso pure da grande. Lo chiamavano Pucchiacchiello ". Nicolas si mise a ridere, don Vittorio annuì con la testa, allargando gli occhi, come a confermare di star raccontando un fatto storico, non leggenda. Qualcosa che fosse agli atti della vita che conta. "Bardellino per non tenere la puzza di stalla e terra addosso, per non stare con le unghie sempre nere, quando scendeva in paese, si lavava, si profumava, si vestiva sempre elegante. Ogni giorno come fosse domenica. Brillantina in testa... capelli umidi". "E come uscì 'stu nomm'?". "All'epoca era pieno di zappatori in paese. A vedere nu' guagliunciello sempre accussì, in tiro, venne normale: Pucchiacchiello, come la pucchiacca di una bella donna. Bagnato e profumato come la fica". "Ho capito, 'nu fighetto". "Fatto sta che 'stu nomm' non era nomm' 'e chi po' cumanna'. Per comandare devi avere un nome che comanda. Può essere brutto, può non significare niente, ma non adda essere fesso". "Ma i soprannomi non li decidi tu". "Esattamente. E infatti quando divenne capo, Bardellino voleva che lo chiamassero solo don Antonio, chi lo chiamava Pucchiacchiello passava 'e guaje. Davanti nessuno lo poteva chiamare così, ma per i vecchi del paese sarebbe rimasto sempre Pucchiacchiello ". "Però è stato un grande capo, no? E allora, adda muri' mammà, si vede che il nome non è così importante". "Ti sbagli, ha passato una vita sana a toglierselo di dosso...". "Ma che fine ha fatto poi don Pucchiacchiello? " lo disse sorridendo e non piacque a don Vittorio. "È sparito, c'è chi dice che s'è fatto un'altra vita, una plastica facciale, che ha fatto finta d'essere morto e se l'è goduta alla faccia di chi 'o vulev' accis'o carcerat'. Io l'ho visto solo una volta, quando ero ragazzo, è stato l'unico uomo di Sistema che sembrava 'nu re. Nisciun'comm' a iss'". "E bravo a Pucchiacchiello" chiosò Nicolas come se parlasse di un pari suo. "Tu ci sei andato bene, ti hanno azzeccato il soprannome". "Me chiamman'accussì perché sto sempre al Nuovo Marajà, 'o locale 'ncopp Posillipo. È la centrale mia e fanno i meglio cocktail di Napoli". "La centrale tua? Eh bravo", don Vittorio fermò un sorriso "è 'nu buon'nomm', sai che significa?". "Ho cercato su internet, significa 're' in indiano ". "È 'nu nomm' e re, ma statt' accuort' che può fa' 'a fine ra canzon'". "Qua' canzone?". Don Vittorio, con un sorriso aperto, iniziò a canticchiarla dando sfogo alla sua voce intonata. In falsetto: "Pasqualino Marajà non lavora e non fa niente... fra i misteri dell'Oriente fa il nababbo fra gli indù. Ulla! Ulla! Ulla! La! Pasqualino Marajà ha insegnato a far la pizza, tutta l'India ne va pazza". Smise di cantare, rideva a bocca aperta, in maniera sguaiata. Una risata che finì in tosse. Nicolas aveva fastidio. Avvertì quell'esibizione come una presa in giro per provare i suoi nervi. "Non fare quella faccia, è 'na bella canzone. La cantavo semp' quann'ero guaglione. E poi ti ci vedo con il turbante a ffa' 'e pizz' 'ngopp Posillipo". Nicolas aveva le sopracciglia inarcate, l'autoironia di qualche minuto prima aveva lasciato il posto alla rabbia, che non si poteva nascondere. "Don Vitto', devo restare col pesce da fuori? " disse solo. Don Vittorio, seduto sulla medesima sedia, nella medesima posizione, fece finta di non aver sentito. "A parte 'ste strunzat', le figure di merda sono la prima cosa da temere per chi vuole diventare un capo". "Fino a mo', adda muri' mammà, 'a merda in faccia non ce l'ha messa ancora nessuno ". "La prima figura di merda è fare una paranza e non tenere le armi". "Fino a mo', con tutto quello che avevo, ho fatto più di quello che stanno facendo i guaglioni vostri, e parlo con rispetto don Vitto', io non sono niente vicino a voi". "E meno male che parli con rispetto, perché i guaglioni miei, se volessero, mo', in questo momento, farebbero di te e della paranzella tua quello che fa 'o pisciaiuolo quann'pulezz' 'o pesce". "Fatemi insistere, don Vitto', i vostri guaglioni non sono all'altezza vostra. Stanno schiattati qua e niente possono fare. I Colella vi hanno fatto prigioniero, adda muri' mammà, pure per respirare vogliono che gli chiedete il permesso. Con voi ai domiciliari e il casino che ci sta là fuori, simm' nuje a cumanna', con le armi o senza armi. Fatevene una ragione: Gesù Cristo, a Maronn'e San Gennaro l'hann'lasciat' sule sule all'Arcangelo". Quel ragazzino stava solo descrivendo la verità e don Vittorio glielo lasciò fare; non gli piaceva che mettese in mezzo i santi e ancora di più non gli piaceva quell'intercalare, lo trovava odioso, "adda muri' mammà"... deve morire mia madre. Giuramento, garanzia, per qualsiasi cosa. Prezzo per la menzogna pronunciata? Adda muri' mammà. Lo ripeteva a ogni frase. Don Vittorio voleva dirgli di smettere, ma poi abbassò lo sguardo perché quel corpo di ragazzino nudo lo fece sorridere, quasi lo intenerì e pensò che quella frase la ripeteva per scongiurare ciò che più teme un uccello che non ha ancora lasciato il nido. Nicolas dal canto suo vide gli occhi del boss guardare il tavolo, "per la prima volta abbassa lo sguardo", pensò e credette in un'inversione dei ruoli, si sentì predominante e forte della sua nudità. Era giovane e fresco e davanti aveva carne vecchia e curva. "L'Arcangelo, così vi chiamano miez' 'a via, in carcere, in tribunale e pure 'ncopp a internet. È nu buono nome, è un nome che può comandare. Chi ve l'ha dato?". "Patemo, mio padre, si chiamava Gabriele come l'arcangelo, pace all'anima sua. Io ero Vittorio che apparteneva a Gabriele, quindi m'hanno chiamato accussì". "E questo Arcangelo", Nicolas continuava a picconare le pareti tra lui e il capo, "con le ali legate, sta fermo in un quartiere che prima comandava e ora non gli appartiene più, con i suoi uomini che sanno solo giocare alla PlayStation. Le ali di questo Arcangelo dovrebbero stare aperte e invece stanno chiuse come quelle di un cardillo in gabbia". "E così è: ci sta un tempo per volare e un tempo per stare chiusi in una gabbia. Del resto, meglio una gabbia comm' a chest', che una gabbia a Poggioreale". Nicolas si alzò e iniziò a girargli intorno. Camminava piano. L'Arcangelo non si muoveva, non lo faceva mai quando voleva dare impressione di avere occhi anche dietro la testa. Se qualcuno ti è alle spalle e gli occhi iniziano a seguirlo, significa che hai paura. E che tu lo segua o no, se la coltellata deve arrivare arriva lo stesso. Se non guardi, se non ti giri, invece, non mostri paura e fai del tuo assassino un infame che colpisce alle spalle. "Don Vittorio l'Arcangelo, voi non avete più uomini ma tenete le armi. Tutte le botte che tenete ferme nei magazzini a che vi servono? Io tengo gli uomini ma la santabarbara che tenit' vuje me la posso solo sognare. Voi, volendo, potreste armare una guerra vera ". L'Arcangelo non si aspettava questa richiesta, non credeva che il bambino che aveva lasciato salire in casa sua arrivasse a tanto. Aveva previsto qualche benedizione per poter agire nel suo territorio. Eppure, se mancanza di rispetto era, l'Arcangelo non ne fu infastidito. Gli piaceva anzi quel modo di fare. Gli aveva messo paura. E non provava paura da tanto, troppo tempo. Per comandare, per essere un capo, devi avere paura, ogni giorno della tua vita, in ogni momento. Per vincerla, per capire se ce la puoi fare. Se la paura ti lascia vivere o, invece, avvelena tutto. Se non provi paura vuol dire che non vali più un cazzo, che nessuno ha più interesse ad ammazzarti, ad avvicinarti, a prendersi quello che ti appartiene e che tu hai preso a qualcun altro. "Io e te non spartiamo nulla. Non mi appartieni, non sei nel mio Sistema, non mi hai fatto nessun favore. Solo per la richiesta senza rispetto che hai fatto, dovrei cacciarti e lasciare il sangue tuo sul pavimento della professoressa qua sotto". "Io non ho paura di voi, don Vitto'. Se me le pigliavo direttamente era diverso e tenevate ragione". L'Arcangelo seduto e Nicolas in piedi, di fronte, le nocche delle mani chiuse in pugno e poggiate sul tavolo nella speranza che quel gesto dissimulasse il tremore che aveva alle gambe, tremore di nervosismo. Non voleva, Nicolas, regalare quell'emozione all'Arcangelo, un'emozione che avrebbe potuto rovinare tutto. "Sono vecchio, vero?" disse l'Arcangelo. "Non so che vi devo rispondere". "Rispondi, Marajà, sono vecchio?". "Come dite voi. Sì, se devo dire di sì". "Sono vecchio o no?". "Sì, siete vecchio". "E sono brutto?". "E mo' che c'azzecc'?". "Devo essere vecchio e brutto e ti devo fare pure molta paura. Si nun foss'accussì, mo' quelle gambe tue, nude, non le nasconderesti sotto al tavolo, pe' nun me 'e ffa verè. Stai tremando, guaglio'. Ma dimmi una cosa: se vi do le armi, cosa ci guadagno io?". Nicolas era preparato a questa domanda e si emozionò quasi a ripetere la frase che aveva provato mentre arrivava col motorino a San Giovanni. Non si aspettava di doverla pronunciare da nudo e con le gambe che ancora gli tremavano, ma la disse lo stesso. "Voi ci guadagnate che ancora esistete. Ci guadagnate che la paranza più forte di Napoli è amica vostra". "Assiettete", ordinò l'Arcangelo. E poi indossando la più seria delle sue maschere: "Non posso. È come mettere 'na pucchiacca n'man''e criature. Non sapete sparare, non sapete pulire, vi fate male. Nun sapite nemmeno ricarica' 'nu mitra". Nicolas aveva il cuore che gli suggeriva, battendo con ansia, di reagire, ma rimase calmo: "Datecele e vi facciamo vedere cosa sappiamo fare. Noi vi togliamo gli schiaffi dalla faccia, gli schiaffi che vi ha dato che vi considera azzoppato. L'amico migliore che potete avere è il nemico del vostro nemico. E noi i Colella li vogliamo cacciare dal centro di Napoli. Casa nostra è casa nostra". L'ordine attuale non gli stava più bene, all'Arcangelo: un ordine nuovo si doveva creare e, se non poteva più comandare, almeno avrebbe creato ammuina. Le armi gliele avrebbe date, erano ferme da anni. Erano forza, ma una forza che non si esercita fa collassare i muscoli. L'Arcangelo aveva deciso di scommettere su questa paranza di piscitielli. Se non poteva riprendere il comando, almeno voleva costringere chi regnava sulla sua zona a venire e trattare per la pace. Non ce la faceva più a ringraziare per gli avanzi, e quell'esercito di bambini era l'unico modo per tornare a guardare la luce, prima del buio eterno. "Vi do quello che vi serve, ma voi non siete ambasciatori miei. Tutte le cacate che farete con le armi mie non devono portare la firma mia. I debiti vostri ve li pagate da soli, il sangue vostro ve lo leccate voi. Ma quello che vi chiedo, quando ve lo chiedo, lo dovete fare senza discutere". "Siete vecchio, brutto e pure saggio, don Vitto'". "Marajà mo', come sei venuto, così te ne vai. Uno dei miei ti farà sapere dove andarle a prendere". Don Vittorio gli porge la mano, Nicolas la stringe e prova a baciarla, ma mentre lo fa l'Arcangelo la sfila schifato: "Ma che cazz' fai?". "Ve la stavo baciando per rispetto". "Guaglio', hai perso la testa, tu e tutti i film che ti vedi". E invece a Nicolas 'o Marajà, una volta diventato capo, la mano tutti gliela dovevano baciare, la mano destra, quella con al mignolo l'anello che lo faceva cardinale della camorra. L'Arcangelo si alzò appoggiandosi al tavolo: le ossa gli pesavano e gli arresti domiciliari l'avevano fatto ingrassare. "Mo' ti puoi rivestire e fai presto che tra poco c'è un controllo dei carabinieri". Nicolas indossò mutande, jeans e scarpe più in fretta possibile. "Ah, don Vitto', una cosa...". Don Vittorio si girò stanco. "Nel posto dove devo andare a prendere le imbasciate... no?". Non c'erano cimici eppure Nicolas su certe parole manteneva un istintuale riserbo. Le armi non si pronunciano mai. "Allora?" disse l'Arcangelo. "Mi dovete fare la cortesia di mettere dei guardiani che io posso leva' 'a miez'. Devo fare almeno due pezzi per far vedere che le armi me le sono fottute. Così io non ho avuto le armi da voi e tutto quello che fa la paranza mia non sono imbasciate vostre" "Mettiamo due zingari con le botte in mano, ma sparate in aria ché gli zingari mi servono ". "E quelli poi ci sparano addosso". "Gli zingari, se sparate in aria, scappano sempre... cazzo, v'aggia 'mpara' proprio tutte cose". "E se scappano che li mettete a fare?". "Quelli ci avvertono del problema e noi arriviamo ". "Adda muri' mammà, don Vitto', non dovete tenere pensiero, farò come avete detto ". I ragazzi accompagnarono Nicolas alla botola, mentre aveva già messo i piedi sul primo piolo, sentì don Vittorio: "Oh!", lo fermò. "Porta 'na statuetta alla professoressa per il disturbo. Va pazza per le porcellane di Capodimonte". "Don Vitto', ma veramente fate?". "Tie', piglia 'o zampognaro, è un classico e fa fare sempre bella figura". Roberto Saviano. Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano 2016

LATINA. LA QUINTA MAFIA.

La Quinta Mafia. Marco Omizzolo - Sociologo - La quinta mafia, Radici Future. 31 maggio 2019 su La Repubblica. Si chiama Quinta Mafia ed indica un modello d'organizzazione mafiosa, originaria della provincia di Latina ma in estensione in molte altre regioni italiane, in cui diversi clan appartenenti a diverse organizzazioni mafiose coordinano le loro attività legali ed illegali per mezzo di una governance unica in grado di garantire più agevoli processi di insediamento e radicamento nella vita sociale, politica ed economica del territorio. Un coordinamento che in provincia di Latina coinvolge Casalesi, ‘ndrangheta, mafia siciliana e Camorre che agiscono in collaborazione con la criminalità locale, a cui viene insegnato il “mestiere” o con criminali stranieri che imparano come “stare al mondo”. Ciò vale, ad esempio, con riferimento al clan Ciarelli o Di Silvio, come si vedrà, imparentati coi Casamonica e da tempo braccio operativo delle organizzazioni mafiose citate, ormai divenuti anche autonomi, oppure ad alcuni soggetti criminali indiani, come da tempo denunciato dalla cooperativa In Migrazione e Eurispes, al centro di un sistema di traffico internazionale di esseri umani e di caporalato che garantisce loro lucrosi profitti. È chiaro che il contesto socio-economico del territorio, la grande attrattiva di investimento che ancora offre la costa pontina insieme alle aree di maggiore pregio ambientale (sono da valutare con grande attenzione i progetti infrastrutturali, soprattutto portuali, proposti lungo la costa e all'interno, ad esempio, del lago di Paola) e un tessuto produttivo florido, a partire da quello agricolo e florovivaistico, con riferimento in particolare ad alcuni clan, “padroni” di aziende agricole avviate mediante l'impiego di denaro probabilmente illecito, come nel caso dei Di Girolimoni, hanno favorito un precoce radicamento delle varie mafie a partire da quelle campane, siciliane e calabresi. Aziende dove il grave sfruttamento lavorativo dei braccianti soprattutto stranieri è all'ordine del giorno, come denunciato da alcuni dossier come “Doparsi per lavorare come schiavi” ancora della cooperativa In Migrazione.

La presenza, in provincia di Latina, della criminalità campana, in particolare di persone strettamente legate al clan dei Casalesi, è sancito in via definitiva dalla sentenza emessa col procedimento istruito dalla DDA di Roma (c.d. “Anni 90” ) in cui si dà atto dell’esistenza, nel Comune di Castelforte, nel Sud Pontino, di un gruppo criminale autonomo ma collegato con il clan campano attraverso Beneduce Alberto e Michele Zagaria. Un “sistema” che è stato rilevato anche dalla Dia la quale afferma, ad esempio, la presenza, nel territorio, degli Alvaro di Sinopoli (RC) e dei reggini Bellocco e Tripodo ad Aprilia, nonchè dei vibonesi La Rosa-Garruzzo a Fondi. Con l’operazione “Acero Connection-Krupy”, conclusa nel 2015 con l’arresto di 54 persone (decreto di fermo emesso dalla DDA di Reggio Calabria ed eseguito dalla Polizia di Stato e dai Carabinieri di Latina), si è avuta conferma dell’operatività delle cosche Aquino-Colluccio di Marina di Gioiosa Ionica (RC) e Commisso di Siderno (RC). Il gruppo criminale aveva costituito una società, con sede legale a Roma e base operativa a Latina, attiva nel commercio florovivaistico con l’Olanda, funzionale ad occultare cocaina a bordo dei Tir utilizzati per il trasporto dei fiori (a marzo del 2018, il Tribunale di Latina ha confermato le accuse con condanne a carico di quasi tutti gli indagati). Nello stesso contesto investigativo, nel 2017, sono stati sequestrati beni per 30 milioni di euro. Rilievi e processi che sconfessano tutti coloro che ancora pensano che il territorio sia solo occasionalmente condizionato da mafie e dai loro interessi, volutamente dimenticando, ad esempio, l'omicidio per “incaprettamento” di Don Cesare Boschin, a borgo Montello, nel 1995, dopo aver denunciato i traffici illeciti di rifiuti gestiti da poteri industriali nel Nord del Paese e dai Casalesi, in particolare dagli Schiavone. Omicidio sul quale è calata ancora una nera coltre di silenzio.

Il litorale pontino rappresenta una zona di insediamento anche di altri sodalizi campani. Già l’operazione “Sfinge” del 2010, condotta dalla Polizia di Stato, aveva fatto luce su un’organizzazione camorristica, alleata con il clan dei Casalesi, che aveva riproposto il modello criminale tipico del casertano per il controllo del traffico di stupefacenti e delle estorsioni, nei territori di Latina e Roma (al termine dell’indagine venivano sequestrati beni per 4 milioni di euro tra cui una villa a Nettuno). Si ricorda anche la presenza, soprattutto sul litorale, dei gruppi campani dei Bardellino, Bidognetti, Giuliano, Mallardo e Licciardi (si ricorda, peraltro, l’arresto di un pericoloso latitante, reggente del clan camorristico napoletano dei Cuccaro, avvenuto nell’ottobre 2015 nella zona di Cisterna di Latina). Sintomatico del radicamento del territorio pontino è la confisca di circa 90 immobili e 5 complessi aziendali, per un valore complessivo di oltre 20 milioni di euro mentre contestualmente il Tribunale ha disposto nei confronti del relativo imprenditore l’applicazione della sorveglianza speciale, con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza per 3 anni, eseguita il 21 febbraio 2018.

L'imprenditore, vicino al clan dei Casalesi-gruppo Bidognetti, era impegnato in molteplici attività, quali la gestione di cave di marmo, il trasporto di merci su strada, lo smaltimento di rifiuti e il commercio di autoveicoli (questo criminale era gravato da numerosi precedenti, anche di natura associativa, relativi al traffico di stupefacenti, al riciclaggio, allo smaltimento di rifiuti illeciti e all’insolvenza fraudolenta). Nel semestre di riferimento sono stati, inoltre, arrestati diversi pregiudicati campani.

Nell’ordine, il 12 gennaio 2018 è stato individuato ed arrestato a Formia (LT), dopo un conflitto a fuoco con i Carabinieri, un latitante affiliato al clan Ranucci di Sant’Antimo (NA). Il successivo il 31 gennaio 2018, è stata invece tratta in arresto, a Gaeta (LT), una donna, madre di un affiliato al clan De Micco, del quartiere napoletano di Ponticelli. Per quanto attiene ad altri sodalizi, l’area pontina risente anche della presenza, come già accennato, delle famiglie di origine sinti come i Di Silvio e i Ciarelli, ormai stanziali sul territorio e in alleanza con importanti referenti istituzionali come l'ex deputato di Fratelli d'Italia, Pasquale Maietta. Ne è testimonianza l’operazione “Alba Pontina” della Polizia di Stato, che il 12 giugno 2018 ha arrestato 25 soggetti, appartenenti al clan Di Silvio, attivo nella zona di Campo Boario di Latina, noto anche per la parentela coi Casamonica. L’organizzazione si era specializzata nell’acquisizione, mediante intimidazioni, delle attività economiche del posto. L’operazione “Arpalo”, conclusa il 16 aprile 2018 dalla Polizia di Stato e dalla Guardia di finanza, ha invece fatto luce su un’associazione a delinquere che aveva realizzato frodi fiscali per circa 200 milioni di euro, utilizzando anche società fittizie costituite in Svizzera e a Latina, grazie al contributo di un commercialista, vicino alla famiglia dei Di Silvio. A promuovere questa associazione per delinquere, insieme all'ex deputato del partito della Meloni, quella della legalità ad ogni costo contro i profughi che scappano dall'inferno libico anche a costo di impegnare la Marina Militare, sarebbero stati anche gli imprenditori latinensi Paola Cavicchi e il figlio Fabrizio Colletti, impegnati anch'essi con il Latina Calcio ai tempi di Maietta e del campionato di serie B, tanto che per gli inquirenti lo stesso club sportivo sarebbe stato uno degli strumenti per compiere gli affari illeciti. Inchiesta avanzata per primo da Il Manifesto e che suscitò le ire del club, di Maietta e della tifoseria contro i due giornalisti che per primi denunciarono affari criminali di questa natura. Uno di questi due giornalisti è Roberto Lessio, ora assessore all'ambiente della nuova amministrazione comunale guidata dal sindaco Coletta che sta tentando di ristabilire legalità in un territorio devastato da anni di gestione criminale. Inchiesta peraltro costellata anche da casi di presunta corruzione, con l'arresto di due finanzieri, e da suicidi, il più eclatante quello del penalista Paolo Censi, che nel 2015 si è tolto la vita nel suo studio e che curava gli interessi di Cavicchi e Colletti.

Commercialisti e avvocati che insieme a consulenti del lavoro, notai e funzionari di banca corrotti rappresentano lo strumento per consentire a queste realtà criminali di evolvere, conquistare mercati sempre maggiori, anche internazionali, nascondere modalità operative e profitti milionari alle forze dell'ordine e al fisco. Sono i “colletti sudici” delle mafie, uomini senza onore che contribuiscono, per sete di profitto o di potere, a logorare la democrazia e la civiltà del Paese. L’interesse delle organizzazioni mafiose nel Pontino si è concentrato anche sulle attività collegate al mercato ortofrutticolo fondano (MOF) di Latina mentre non mancano investimenti negli stabilimenti balneari, nelle attività ricettive del litorale e nel settore del turismo. Sotto questo profilo si ricordano gli approfondimenti contenuti nei rapporti Agromafie di Eurispes che bene fotografano la situazione. L'analisi delle evidenze investigative sul territorio pontino, alcune delle quali trasfuse in provvedimenti giudiziari, hanno evidenziato investimenti imponenti anche nel settore delle costruzioni e nel commercio all'ingrosso nonché in quello al dettaglio, in particolare di autovetture, nell'attività di bar e ristorazione, nel settore delle onoranze funebri e nelle attività vivaistiche. Proprio il mercato fondano presenta evidenze con riferimento alla natura della Quinta Mafia grazie all'interessamento della camorra, prima, e della ‘ndrangheta, poi, nonché i convergenti interessi di Cosa Nostra. Nella relazione sulla 'ndrangheta approvata il 19 febbraio 2008 dalla Commissione parlamentare antimafia della XV legislatura, la situazione fondana viene portata ad esempio per la particolare connotazione in cui la ‘ndrangheta si è manifestata, registrando la sussistenza di vere e proprie joint-venture criminali, consistenti in accordi tra famiglie calabresi, di volta in volta alleate con cosche siciliane o campane. Questo è il cuore della Quinta Mafia. Allo stesso modo il procedimento cosiddetto “Damasco 2”, con sentenza definitiva il 4 settembre 2014, ha sancito il radicamento e l’operatività, fin dagli anni Novanta, ancora a Fondi, del clan mafioso Tripodo-Trani, che ha assunto “connotati di mafiosità in considerazione della sua stabile e perdurante operatività con metodi intimidatori, sin dai primi anni ‘90, in un territorio come quello di Fondi, in passato estraneo, per collocazione geografica, a vicende di criminalità organizzata e per questo più fragile ed esposto ad interventi e forzature esterne che, per il loro carattere infiltrante, hanno assunto con il tempo sempre maggiore caratura ed efficacia, con la finalità di commettere una serie indeterminata di delitti (traffico di droga, armi, usura, estorsioni) e di acquisire il controllo di interi settori di attività economiche anche grazie all’appoggio di fiancheggiatori esterni”.

Nel 2009, sono note le vicende relative allo scioglimento del Comune di Fondi, poi evitato a seguito delle intervenute dimissioni del sindaco e della giunta comunale in carica. In questo caso, all’esito delle conclusioni rassegnate dalla commissione di acceso disposto dal prefetto di Latina, Frattasi, che aveva concluso per lo scioglimento del Comune di Fondi, era sta avanzata una richiesta in tal senso al Ministro dell’Interno di allora, Maroni, che aveva disposto un supplemento di indagine, a cui aveva fatto seguito una nuova relazione del prefetto conclusasi con una nuova richiesta di scioglimento. Scioglimento evitato grazie alle dimissioni del sindaco e della giunta. Una trovata che ha condannato il territorio e la popolazione locale dentro un cono d'ombra grave che invece poteva essere evitata e sulla quale tutti i referenti politici locali di centrodestra, a partire dal Senatore Claudio Fazzone di Forza Italia, deus ex machina del partito di Berlusconi nel Sud Pontino, non hanno mai proferito parola se non nel senso di negare o sminuire il fenomeno. Un comportamento politicamente non condivisibile che ha lasciato ombre di ambiguità in un territorio che invece doveva essere liberato da ogni compromissione.

A gennaio 2017, nel corso dell’indagine “Tiberio”, è stata emessa un’ordinanza di custodia cautelare – poi riformata - nei confronti di 10 indagati, tra cui Armando Cusani, attuale sindaco di Sperlonga ed ex presidente della provincia di Latina, per i reati di associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta in relazione ad alcuni appalti pubblici. Per alcuni degli indagati è stato contestato anche il reato di corruzione. Lo stesso sindaco Cusani che definì i membri della Commissione d'acceso del Comune di Fondi dei “pezzi deviato dello Stato” e che ha recentemente minacciato giornalisti e redazioni di denuncia qualora scrivano di mafie, corruzione, compromissione del territorio.

Il sud pontino appare, dunque, sempre più l’avamposto di una sorta di grande camera di compensazione dei sistemi criminali. Tra Formia e Sperlonga investiva il re delle ecomafie, l'avvocato Cipriano Chianese ritenuto dalla DDA di Napoli la mente dei grandi traffici di rifiuti del cartello dei casalesi. Ingenti somme di denaro sono state sequestrate in pochi anni a pericolosi clan di camorra, come i Mallardo, gruppo che puntava alla provincia di Latina per riciclare e investire i proventi delle proprie attività illecite. Formia invece è stata definita la Las Vegas del sud pontino, in ragione dell’elevato numero di sale da gioco. In città risultano attive circa 16 sale da gioco, 32 esercizi commerciali in possesso di slot machine e video poker, con il rapporto all’incirca di una macchinetta da gioco ogni 70 abitanti. L’indagine della procura di Latina, più nota come sistema Formia, ha visto all’esito dell’udienza preliminare il rinvio a giudizio nei confronti di 13 imputati, tra cui politici, amministratori e imprenditori, accusati a vario titolo di corruzione, concussione, abuso d’ufficio e falso. Nella provincia di Latina, dunque, si rinvengono gli indicatori sintomatici di una pericolosa e radicata presenza di varie enclave criminali, attestata dall’aumento dei reati spia, quali incendi, attentati e intimidazioni ai danni di commercianti, imprenditori, giornalisti, ricercatori, sindacalisti e pubblici amministratori. Particolare allarme ha destato l’intimidazione che ha riguardato il giudice Aielli, presidente dei collegi penali che avevano celebrato i processi nei confronti di esponenti della criminalità organizzata del circondario, quali “Damasco 2” contro il clan Tripodo, e “Caronte” contro il clan Ciarelli-Di Silvio. Come noto, il 19 novembre 2014, nella città di Latina erano stati appesi dei manifesti funebri che annunziavano le esequie del giudice Lucia Aielli. Una grave forma di intimidazione e di sfrontata arroganza, sintomatica della convinzione di esercitare in posizione di forza un vero controllo sulla città. Un sistema complesso, ampio, articolato, da monitorare con attenzione e da denunciare nel merito, chiedendo alle forze dell'ordine e alla Procura di continuare la loro azione investigativa e repressiva e alla politica locale e nazionale di investire nella legalità e giustizia di quel territorio. Un impegno che ancora manca, considerando i tagli d'organico programmati dall'attuale Ministro Salvini alle forze di polizia locali. Un segnale grave che va nella direzione di rassicurare mafiosi e criminali.

LE MAFIE LAZIALI. MAFIA CAPITALE.

Mafia Capitale. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La locuzione "Mafia Capitale" è un termine usato per definire un sistema criminale presente a Roma, soprannominato anche "Mondo di Mezzo", dalle parole di Massimo Carminati, uno degli imputati.

Le indagini. Il 2 dicembre 2014 vengono arrestate 28 persone, tra le quali Massimo Carminati, un ex membro dei Nuclei Armati Rivoluzionari e Salvatore Buzzi. Le indagini riguardano corruzione, estorsione, usura e riciclaggio.

Il processo.

La sentenza di primo grado. Il 20 luglio 2017, in primo grado non viene accolta l'accusa di associazione di stampo mafioso, ma solo quella di corruzione. In seguito a questo, Massimo Carminati viene tolto dal regime di carcere duro, il 41 bis, riservato ai detenuti mafiosi e al quale era sottoposto dal dicembre del 2014.

Il processo d'appello. Il 6 marzo 2018 inizia il processo d'appello. I PM sostengono ancora che si tratta di un'associazione di stampo mafioso. L'accusa chiede la detenzione a 25 anni per Buzzi e 26 anni per Carminati, inoltre chiede il ripristino dell'articolo 416bis. L'11 settembre 2018 la terza sezione della Corte d'Appello di Roma ripristina il disposto dell'art. 416 bis c.p., riconoscendo la sussistenza del "metodo mafioso". La Corte d'Appello di Roma condanna Buzzi e Carminati a 18 anni e 4 mesi di reclusione per il primo e 14 anni e 6 mesi per il secondo.

Roma e la sua mafia che c'è e non c'è, scrive il 16 giugno 2018 su "La Repubblica" Raffaella Fanelli - Giornalista e scrittrice. Ascoltare il male, toccarlo, annusarlo. Lo faccio danni, da sempre.  Con un registratore e un mestiere che mi ha permesso e mi ha imposto di stare in mezzo ai fatti. Di raccontarli. Anche attraverso la voce di stragisti, di mafiosi, di pentiti e figli di boss, incensurati o condannati come i loro padri.  Perché sono loro a conoscere la verità. Loro a sapere i nomi dei mandanti. Per questo li ho cercati. E per questo ho cercato Maurizio Abbatino, l'ex boss della banda della Magliana. Perché il Freddo non è semplicemente un ex capo o un ex pentito, è l'ultimo boss vivente di un'associazione mafiosa che ha governato, ucciso e deciso. E non solo a Roma. Perché la Banda della Magliana non è stata soltanto una gang criminale ma la struttura importante di un'organizzazione ben più vasta che godeva di inquietanti protezioni in Italia e all'estero grazie ai rapporti con i servizi segreti, la mafia e la massoneria. Ne "La verità del Freddo", il libro intervista pubblicato da Chiarelettere, l'ex boss si racconta. Rivela fatti accertati e altri che meriterebbero nuove indagini. Come quelli svelati sull'omicidio di Pier Paolo Pasolini, sul sequestro di Aldo Moro, sulla morte di Franco Giuseppucci, sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.  Il Freddo della Banda della Magliana racconta la mafia a Roma nonostante sentenze passate e recenti abbiano fatto a gara per negarla: "Tutte le organizzazioni mafiose presenti sul territorio nazionale hanno da sempre interessi nella capitale. La mafia a Roma c'è, e c'è sempre stata".  Questo mi dichiara Maurizio Abbatino. Le sue confessioni si intrecciano con verbali e ricerche, con la storia di un uomo che sa e che risponde a domande non concordate né patteggiate. Mi sono seduta di fronte a lui e ho ripercorso la sua vita all'inizio con la sola ansia di sapere. Di farmi dire il più possibile. Perché da subito, per la giornalista, è stata l'ennesima sfida, l'ennesima ricerca di nomi e di verità che vuoi assolutamente scoprire. E il Freddo non è il vigliacco ex brigatista o il coniglio mafioso, l'ex boss pentito non ritratta, piuttosto omette, "perché di ogni cosa che scriverai ti verrà chiesto conto". Non credo che si riferisse a proiettili imbustati o peggio a lupare fumanti, ma a querele. Perché oggi un giornalista che scrive di fatti veri e verificabili, ma scomodi, non viene minacciato ma querelato.  Mi sono imposta di analizzarlo in freddezza, col bisturi, come ho sempre fatto, e davanti alle immagini di un passato di sangue ho visto l'indifferenza e la ferocia di un giovane boss mentre nella voce di chi raccontava ho toccato la delusione e la rabbia di un collaboratore di giustizia "scaricato" da uno Stato che avrebbe dovuto tutelarlo e proteggerlo. Questi erano i patti. Con le rivelazioni di Abbatino, il giudice Otello Lupacchini (che firma la postfazione de "La verità del Freddo") nel 1993 smantellò la banda della Magliana attraverso l'inchiesta "Operazione Colosseo". Il magistrato scrisse un fascicolo grosso come un elenco telefonico: cinquecento pagine zeppe di date, di nomi e di prove che consentirono di ridisegnare la mappa dell'organizzazione malavitosa romana e di stabilire con precisione ruoli e responsabilità dei vari componenti.  Dopo 22 anni il giudice Otello Lupacchini torna a scrivere di Abbatino. E' l'unico ad esporsi quando nel settembre del 2015 il collaboratore viene estromesso dal programma di protezione. Non perché abbia commesso dei reati, semplicemente perché per lo Stato Abbatino può reinserirsi nel tessuto economico e sociale, trovarsi un lavoro onesto, affittarsi una casa, tutto ovviamente col nome di Maurizio Abbatino, 63 anni, ex boss ai domiciliari per malattia. Una decisione che arriva quando a Roma è in corso il processo per Mafia Capitale con imputato Massimo Carminati, un uomo che Abbatino conosce benissimo. Fu il Freddo ad accusarlo dell'omicidio Pecorelli, sempre lui ad accusarlo di aver depistato le indagini sulla strage di Bologna... Da queste accuse Carminati è stato assolto, ancor prima del suo illustre coimputato, Giulio Andreotti. E quando Carminati il 3 aprile del 2017 ricorda il suo ex amico nell'aula bunker di Rebibbia nessuno muove un dito. Nessuno chiede e si chiede il perché il Nero abbia ancora così tanto astio nei confronti dell'ex boss, così tanta rabbia da ipotizzare un assurdo complotto ai suoi danni, ordito proprio da Abbatino. Non solo a chi scrive di mafia anche ai magistrati è ben chiaro l'importante ruolo dei collaboratori. Vanno tutelati. Non vanno lasciati alla mercé di chi hanno contribuito a mandare in carcere. I   pentiti sono stati fondamentali per la lotta alla mafia, e i magistrati questo lo sanno bene.  Giovanni Falcone lo ammise pubblicamente dopo aver messo nero su bianco le dichiarazioni di Tommaso Buscetta: " Prima di lui, non avevo - non avevamo - che un'idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro". Ad Abbatino è stata rifiutata anche la richiesta di mantenere la sua identità di copertura, gli hanno tolto anche il nome che è stato suo per quasi trent'anni, che gli ha permesso di allontanarsi dal Freddo e da quello che faceva prima. E lo hanno fatto quando Carminati lo ha ricordato nell'aula bunker di Rebibbia, durante il processo Mafia Capitale. Una inquietante contemporaneità che emerge dalle pagine de "La verità del Freddo" insieme a fatti e prove di una mafia che ha messo le sue radici anche a Roma. Il libro: “La verità del Freddo. La storia. I delitti. I retroscena. L'ultima testimonianza del capo della banda della Magliana”, Chiarelettere.

Tutte le mafie portano a Roma, scrive Andrea Palladino su "La Repubblica" il 17 ottobre 2017. Ha la forma di una raggiera, con divisioni in assi di potere. Non solo zone, ma corridoi che, alla fine, convergono tutti verso Roma. Partono dal litorale, dove gli stabilimenti balneari sono turbine che fanno girare milioni di euro. Dal sud pontino, con i locali à la mode, dove tra cene con vista sul Circeo si stringono alleanze imprenditoriali e criminali. Tavolini a tre o quattro gambe, accordi di spartizione. Dai Castelli romani, chiamati qualche anno fa la “porta del Venezuela”, il varco spalancato alle droghe. E, come dice il proverbio, alla fine tutte le strade portano a Roma. Sarebbe un errore pensare alle mafie del Lazio come ad uno scenario a macchie, con isole infelici e zone stagne. Lo cosche sono, da sempre, fluide, mobili, opportunistiche. Quando nel 2009 scoppiò il caso Fondi – la città in provincia di Latina che il prefetto Bruno Frattasi voleva sciogliere per mafia – l'allora pm antimafia della Dda di Roma Diana De Martino stava sviluppando l'indagine Damasco. Pochi anni dopo seguirono i sequestri dei beni, da leggere come una sorta di mappa economica. Se segui i soldi, trovi che gli investimenti arrivavano fino nel cuore borghese della capitale, con villette ai Parioli. Fondi era – e in parte ancora è – la tappa obbligata dei tour elettorali per le elezioni regionali. Qui i candidati del centrodestra passavano per i bagni di folla, controllati a vista da improbabili agenzie di security. E, tra Latina e Frosinone, nel sud del Lazio, dove comandano le cosche di 'ndrangheta e camorra si contano i voti decisivi per decidere chi governerà la regione. Se il cuore della 'ndrangheta che parla romano è sul litorale tra Anzio e Nettuno, il mercato della coca gestito dalle cosche calabresi segue la via delle grandi borgate della zona est della capitale. San Basilio, Alessandrino sono lo scenario dove si sono saldate alleanze storiche tra i Gallace – a capo della Locale nel sud della provincia di Roma – e la famiglia Romagnoli, romani doc. Scambi di favore, alleanze, cartelli per la gestione delle piazze di spaccio. Questa è “Cosca capitale”. Un omicidio apparentemente di periferia, che occupa poche righe sulle pagine di cronaca, può essere la spia di movimenti importanti. Era accaduto nel 2009, a Velletri, sessantamila abitanti, sede del secondo Tribunale per importanza del Lazio. Alle otto di sera un motorino avvicina Luca De Angelis, detto Tyson, noto spacciatore della zona. Uno tosto, scafato, che cambiava cellulare in continuazione, raccontano gli investigatori. Pochi colpi sul volto e cade a terra. Si scoprirà solo anni dopo che quell'omicidio era nato in un contesto mafioso ben chiaro. Era l'inizio di una lunghissima scia di sangue, con altri agguati, in una escalation che finirà solo molti mesi dopo. Ancora Velletri, 2013. Sempre una moto, sempre un’agguato, questa volta contro un giovane commerciante di verdure. Uno dei killer era un romano, Carlo Gentili, catturato questa estate in Kenia dopo una lunga fuga, con sulle spalle una prima condanna della corte di Assise per quell'omicidio. Il mandante era un trafficante albanese, pronto a far uccidere chi poteva contrastare la sua ascesa da pusher di alto livello. Episodi che mostrano come i confini territoriali sono labili, appena linee sulla carta. Se questo è il mondo di sotto, lo strato alto è la vera mafia romana e laziale. Le cosche sono sbarcate con il cemento, seguendo l'espansione edilizia partita negli anni '70. Parte della manovalanza era insediata da tempo, arrivata con le migrazioni del dopoguerra, in viaggio verso la capitale, occupando le aree periferiche con baracche di fortuna. A Roma arrivano i boss di peso, da Pippo Calò fino ai capi della 'ndrina dei Gallace-Novella. Sbarcano a Fondi i Tripodo, figli dal capobastone Mico, uscito perdente dalla prima guerra di mafia a Reggio Calabria. E, negli anni '80, i Bardellino aprono la via verso la futura Svizzera dei Casalesi, la zona tra Formia e Gaeta dove anche Cipriano Chianese inizierà ad investire. A Cassino la camorra punta alla creazione di una banca, bloccata dalle indagini della Criminalpol. Nella capitale la banda della Magliana – e soprattutto quella dei Testaccini, guidata da De Pedis – partono all'assalto della diligenza. Sono loro ad inaugurare la lunga stagione delle alleanze tra le famiglie mafiose sbarcate nella capitale con le batterie criminali autoctone. Il vero patto, però, è con il sistema Roma. Commercialisti, circoli esclusivi, logge massoniche molto coperte e difficili da stanare, pezzi importanti delle forze di polizia, funzionari di banche e ministeri. Un melting pot del potere. Una macchina burocratica e amministrativa volutamente lenta, impermeabile, dove tutti conoscono tutti, dove accedi solo se invitato. E poi la politica. Tutta indistintamente. Perché Roma assorbe, ingloba, smussa differenze, stimola le alleanze più improbabili. Cresce quell'area grigia, la borghesia mafiosa che oggi è in grado di muovere centinaia di milioni di euro, pezzi di Pil. Dalla capitale a Fondi, dalle vie di San Basilio ai bar di Anzio e Nettuno. Un'unica “Cosca capitale”.

Mafia Capitale, nel processo d’appello il giudice che nega i clan. Partirà a marzo il secondo grado del processo. Fra i giudicanti anche Claudio Tortora che definì «semplici criminali» i Fasciani di Ostia, versione sconfessata a dicembre dalla Cassazione, scrive Ilaria Sacchettoni il 16 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". La data non è ancora stata fissata, ma l’avvio del processo d’appello per Mafia Capitale è previsto a marzo. Quanto al collegio giudicante qualche certezza c’è già. Assieme al presidente della Terza sezione Claudio Tortora siederanno Raffaella Palmisano e Patrizia Campolo. Ma è Tortora il nome che infonde qualche ottimismo nello sterminato collegio difensivo del cosiddetto Mondo di mezzo: già presidente della seconda sezione il magistrato era a capo del collegio che, nel 2016, aveva escluso l’esistenza di una mafia a Ostia, sostenendo che difettasse «la prova della pervasività del potere coercitivo del gruppo Fasciani», versione sconfessata a dicembre dalla Cassazione. Ora, la sfida argomentativa della procura riguarda proprio la lettura del fenomeno mafioso. Non c’è mafia nella Capitale avevano concluso i giudici di primo grado il 20 luglio scorso, pur distribuendo condanne pesanti a Massimo Carminati (20 anni), Salvatore Buzzi (19) e agli altri imputati che avrebbero dato vita a una semplice organizzazione criminale. Per i pm romani invece, la città non è immune dal contagio mafioso. Basta guardare oltre gli stereotipi di una mafia «con la coppola e la lupara che spara e uccide, ovvero che parla calabrese o siciliano» per rintracciare un’organizzazione autoctona con poteri di intimidazione altrettanto efficaci di quelli di altre organizzazioni. Nel ricorso sul Mondo di mezzo l’aggiunto Paolo Ielo e i sostituti Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli invitano i giudici «a liberarsi da quel modello oleografico di associazione mafiosa stigmatizzato dalla giurisprudenza della Cassazione» e a rivalutare, ad esempio, le testimonianze esitanti o apertamente reticenti di alcuni imprenditori terrorizzati all’idea di deporre su Carminati. A margine di un dibattito pubblico estivo il procuratore capo Giuseppe Pignatone aveva detto la sua: «Carminati otteneva il controllo con il metodo mafioso in quanto aveva la disponibilità della violenza. Tutti lo sapevano: aveva alle spalle un pedigree noto a Roma. Riteniamo che ci fossero le condizioni per il riconoscimento del carattere mafioso».

La rivincita di Pignatone. Sentenza d’appello: «La mafia a Roma c’è». I giudici della Corte d’Appello di Roma ribaltano la sentenza di primo grado sul Mondo di Mezzo: l’associazione per delinquere che fa capo a Buzzi e Carminati è di tipo mafioso. Ma le pene vengono ricalcolate e ridotte, scrive Giulia Merlo il 12 Settembre 2018 su "Il Dubbio". L’associazione mafiosa c’è, ma le pene vengono ridotte. I giudici della Terza sezione della Corte d’Appello di Roma, Presidente dr. Claudio Tortora hanno letto ieri nell’aula bunker di Rebibbia (presente anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi) il dispositivo di una delle sentenze più attese degli ultimi anni, riuscendo di fatto a dare ragione sia all’accusa che alla difesa. La mafia a Roma c’è, ha stabilito il collegio ribaltando la decisione del luglio 2017 Tribunale Ordinario di Roma X sezione penale, III Collegio Presidente Rosanna Ianniello, Renato Orfanelli, Giulia Arcieri (che aveva riconosciuto solo l’esistenza di due associazioni per delinquere, che avevano i riferimenti in Massimo Carminati e Salvatore Buzzi). Eppure, anche condannando gli imputati per un diverso e più grave titolo di reato (dal 416 c. p. al 416 bis, ovvero l’associazione mafiosa), le pene sono state ridotte. Il manovratore del “Mondo di Mezzo” Carminati, condannato in primo grado a 20 anni, si è visto ricalcolare la pena a 14 anni e sei mesi. Il “ras delle coop” Buzzi doveva scontare 19 anni, ridotti a 18 e 4 mesi. I due hanno seguito la lettura del dispositivo in videoconferenza dai penitenziari di Opera e di Tolmezzo e non hanno voluto essere ripresi dalle telecamere. I giudici, inoltre, hanno riconosciuto l’associazione per delinquere di stampo mafioso, l’aggravante mafiosa o il concorso esterno anche per 18 dei 43 imputati. L’esito della camera di consiglio, se da una parte ha sposato la linea dell’accusa di chiedere il riconoscimento del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, dall’altra non ha invece accolto la richiesta di pena: 26 anni e mezzo per Carminati e 25 anni e 9 mesi per Buzzi (in primo grado, invece, la richiesta era stata di 28 anni per Carminati e per Buzzi di 26 anni e 3 mesi). «Massimo Carminati è un boss, così lo chiamano i criminali nelle intercettazioni, riconoscendolo come capo, obbediscono a lui perché riconoscono il suo potere criminale», aveva spiegato il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini nella sua requisitoria dello scorso 29 marzo. E ancora, «non si tratta di stabilire se a Roma c’è la mafia ma se questa organizzazione criminale rientra nel 416bis, se ha operato con il metodo mafioso che si riconosce dall’uso della violenza e intimidazione, dall’acquisizione di attività economiche e dall’infiltrazione nella pubblica amministrazione», ha spiegato la Procura, che nell’atto di appello aveva contestato solamente il mancato riconoscimento del 416 bis e dell’aggravante del metodo mafioso e dunque chiedeva una diversa lettura giuridica dei fatti ( riconoscendo non due divese associazioni per delinquere semplici ma una unica e di stampo mafioso) e non la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Linea che ha convinto la Terza Corte D’Appello. Ora ai difensori non resta che attendere il deposito delle motivazioni, per valutare gli estremi per un ricorso in Cassazione.

IL PRIMO GRADO. Nel luglio dello scorso anno, la Decima sezione penale del Tribunale di Roma aveva ritenuto che esistessero due associazioni: una coordinata da Carminati e dedita ad usura ed estorsioni; la seconda composta sempre da Carminati ma insieme a Salvatore Buzzi, che invece si occupava di corrompere funzionari per ottenere appalti in favore delle coop dello stesso Buzzi. Al termine del dibattimento, le condanne erano state 41, con 5 assoluzioni. Nelle motivazioni – rovesciate nella decisione d’Appello – si leggeva che «la mafiosità» individuata dalla procura nell’inchiesta sul Mondo di Mezzo non è quella «recepita dal legislatore nella attuale formulazione della fattispecie di cui all’art. 416 bis per la quale, non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione ed è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza della intimidazione». Non solo, il tribunale non aveva individuato «per i due gruppi criminali, alcuna mafiosità “derivata” da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose» e «le due associazioni non sono caratterizzate neppure da mafiosità autonoma». Nessun margine di equivoco, almeno per i giudici del primo grado, riguardo la non “mafiosità” delle condotte. Gli stessi giudici, però, avevano scelto una linea di severità nell’indicazione delle pene: 20 e 19 anni per Carminati e Buzzi e a nessuno dei 46 imputati il riconoscimento di alcuna attenuante generica. Tanto che l’avvocato di Carminati, Giosuè Naso, aveva parlato di «Pene date per compensare lo schiaffo morale che è stato dato alla procura» nel non riconoscere l’associazione per delinquere di stampo mafioso. La Corte d’Appello, invece, sembra aver optato per la linea opposta: riconosce l’associazione mafiosa, ma ricalcola le pene in senso favorevole agli imputati.

LE REAZIONI. «Le sentenze vanno rispettate. Lo abbiamo fatto in primo grado e lo faremo anche adesso. La Corte d’Appello ha deciso che l’associazione criminale che avevamo portato in giudizio era di stampo mafioso». Questo il commento a caldo del procuratore aggiunto Giuseppe Cascini, al quale ha fatto eco il Procuratore generale Giovanni Salvi, definendo la sentenza «il punto di arrivo di un intenso impegno e al tempo stesso di partenza. La consapevolezza dell’esistenza anche a Roma e nel Lazio di forze criminali in grado di condizionare la vita economica e politica e di indurre timore nella popolazione resta il centro di riferimento delle iniziative giudiziarie». Opposte, invece, le reazioni dei difensori dei due principali imputati, che in primo grado avevano ottenuto la vittoria dell’esclusione della “mafiosità” delle condotte. «È una bruttissima pagina per la giustizia del nostro Paese», ha commentato il difensore di Salvatore Buzzi, Alessandro Diddi, sottolineando il fatto che «i magistrati hanno avuto l’atteggiamento di Ponzio Pilato, quello del “mezza prova mezza pena”. Siccome sanno benissimo che il fenomeno mafioso nei fatti non è minimamente configurante si sono messi una mano sulla coscienza riducendo dove hanno potuto i trattamenti sanzionatori». Ancora più duro il difensore di Carminati, Bruno Giosuè Naso, che ha definito «una sorpresa» la sentenza: «L’insussistenza dell’accusa mafiosa mi sembrava inattaccabile: mi sbagliavo. Se persino questo collegio, che è uno dei migliori della Corte d’Appello, ha riconosciuto l’aggravante mafiosa o io dopo 50 anni di attività professionale non capisco più nulla di diritto, oppure è successo qualcosa di stravagante che ha influito sulla sentenza». Plauso per la decisione del giudici d’appello, invece, è stato espresso dal mondo politico, in particolare dal Movimento 5 Stelle e dal Partito Democratico. «Questa sentenza conferma che bisogna tenere la barra dritta sulla legalità. È quello che stiamo facendo», ha detto la sindaca di Roma Virginia Raggi, presente in aula. «È una sentenza storica che certifica l’esistenza di un’organizzazione criminale tollerata dalla vecchia politica capitolina», ha aggiunto Giulia Sarti, presidente della Commissione Giustizia di Montecitorio. Tra i dem, il primo a ringraziare la procura «per il grande lavoro» è Matteo Orfini. Il senatore Franco Mirabelli, invece, ha sottolineato come «dopo tanti anni il negazionismo di chi ha sostenuto che a Roma non ci fosse la mafia è stato sconfitto».

Roma, Mafia Capitale: era davvero mafia! La sentenza d'appello ribalta il primo grado: riconosciuta l'associazione a stampo mafioso, anche se pene ridotte per Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, scrive l'11 settembre 2018 Panorama. A Roma c'era davvero un'organizzazione mafiosa che ha controllato il territorio per anni, con infiltrazioni nel mondo istituzionale. Questo secondo la sentenza della Corte d'appello di Roma sull'inchiesta sul "Mondo di Mezzo - Mafia Capitale", che ribalta la sentenza di primo grado. Dimezza le pene ma riconosce l'aggravante mafiosa. Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, la cupola del sistema delle cooperative romane, sono condannati riconoscendo loro il 416 bis, cioè l'associazione mafiosa.

La sentenza d'appello. Il processo d'appello è iniziato il 6 marzo 2018. L'11 settembre 2018 la terza sezione della Corte d'appello di Roma, presieduta dal giudice Claudio Tortora, riconosce l'accusa di metodo mafioso, ancora rivendicata dai pm. Per alcuni degli imputati viene riconosciuta l'associazione a delinquere di stampo mafioso, prevista dall'articolo 416 bis del codice penale. Massimo Carminati è condannato a 14 anni e sei mesi (invece dei 20 anni in primo grado), Salvatore Buzzi a 18 anni e 4 mesi (invece dei 19 anni in primo grado). Oltre che per Carminati e Buzzi, i giudici hanno riconosciuto l'associazione a delinquere di stampo mafioso, l'aggravante mafiosa o il concorso esterno, a vario titolo, anche per Claudio Bolla (4 anni e 5 mesi), Riccardo Brugia (11 anni e 4 mesi), Emanuela Bugitti (3 anni e 8 mesi), Claudio Caldarelli (9 anni e 4 mesi), Matteo Calvio (10 anni e 4 mesi). Condannati anche Paolo Di Ninno (6 anni e 3 mesi), Agostino Gaglianone (4 anni e 10 mesi), Alessandra Garrone (6 anni e 6 mesi), Luca Gramazio (8 anni e 8 mesi), Carlo Maria Guaranì (4 anni e 10 mesi), Giovanni Lacopo (5 annu e 4 masi), Roberto Lacopo (8 anni), Michele Nacamulli (3 anni e 11 mesi), Franco Panzironi (8 anni e 4 mesi), Carlo Pucci (7 anni e 8 mesi) e Fabrizio Franco Testa (9 anni e 4 mesi). Il sindaco di Roma Virginia Raggi ha così commentato la sentenza su Twitter: "Criminalità e politica corrotta hanno devastato Roma, responsabili giusto che paghino. Noi proseguiamo il nostro cammino sulla strada della legalità".

Il primo grado. Il 20 luglio 2017, invece, la decima Corte del tribunale di Roma in primo grado aveva fatto cadere l'accusa di associazione mafiosa: una vicenda di mafia, in cui la mafia non c'era. Aveva condannato a 20 anni di reclusione comminata Massimo Carminati, l'ex membro dei Nuclei armati rivoluzionari considerato ai vertici dell'organizzazione che, secondo la Procura romana, per anni ha condizionato le istituzioni capitoline. A Salvatore Buzzi, il suo braccio destro, accusato di corruzione e turbativa d’asta con l’aggravante del metodo mafioso, 19 anni di carcere. 11 anni sia per Luca Gramazio che per Riccardo Brugia. A Franco Panzironi, accusato di corruzione aggravata dall’aver favorito la associazione mafiosa, 10 anni. Dure condanne, ma che non confermavano l'accusa del 416 bis, per nessuno dei 19 imputati (su un totale di 46) che la Procura romana aveva individuato come facenti parte di un'organizzazione criminale di stampo mafioso. Il processo era iniziato il 5 novembre 2015.

Come nacque l'indagine Mafia Capitale. Era fine 2014 quando partì il blitz. Un vero e proprio terremoto nella vita istituzionale della Capitale che da quel momento era diventata mafiosa. Il primo a essere bloccato nell'operazione "Mafia Capitale", il 2 dicembre, era stato il capo del clan, Massimo Carminati, ex Nar ed ex appartenente alla Banda della Magliana. Con Carminati all'epoca erano finiti in manette anche ex amministratori locali, manager di municipalizzate e imprenditori per associazione a delinquere di stampo mafioso. Tra le 36 persone arrestate c'era Salvatore Buzzi, considerato il braccio destro di Carminati. Nel tempo l'indagine ha coinvolto anche Gianni Alemanno, sindaco di Roma dal 2008 al 2013. Il 7 febbraio 2017 era stata archiviata l'accusa nei suoi confronti di concorso esterno in associazione mafiosa. Erano rimaste in piedi le accuse per corruzione e finanziamento illecito, l'altro filone di indagine. 

Mafia Capitale: sentenza Appello su Mondo di Mezzo. Le critiche: “Carminati e Buzzi? Cambiato il reato...” Mafia Capitale, oggi sentenza d'Appello: ultime notizie, ribaltate condanne per Carminati e Buzzi. Ridotti gli anni di carcere ma c'è "associazione a delinquere di stampo mafioso", scrive l'11 settembre 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Secondo Massimo Bordin, giornalista ed ex direttore di Radio Radicale, quanto avvenuto con la sentenza di Secondo Grado per Mafia Capitale è uno di quei dispositivi destinati a fare giurisprudenza. E non in positivo: «il giudice di primo grado, nelle motivazioni della sentenza, aveva fatto un discorso di questo tipo: “Cari pm, non ci avete convinto sull’associazione mafiosa perché, prima ancora dell’aggettivo, è il sostantivo singolare che non va. Doveva essere plurale, perché qui le associazioni a delinquere sono due. Hanno una persona in comune, Carminati, ma non basta secondo noi a unificarle e se sono divise sono due gruppi di associati che commettono reati magari anche gravi senza arrivare in nessuno dei due casi a rappresentarsi come fenomeni mafiosi”», scrive Bordin in un primo commento a caldo sul Foglio. È come se fosse stato “cambiato” il reato di mafia e dunque, riducendo tutto alle massime estremizzazioni, si potrebbe dire che d’ora in poi “tutto può essere mafia”. In conclusione Bordin sottolinea ancora un punto, «Il fatto che alcuni imputati, Carminati più di tutti, vedano ridotta la loro pena malgrado la condanna per una nuova imputazione, mostra come la sentenza di primo grado, pur non considerando la mafia, con gli imputati non era stata affatto tenera. Questa nuova sentenza sembra dire addirittura che aveva ecceduto». 

ECCO PERCHÈ LO SCONTO DI PENA PER CARMINATI E BUZZI. Come abbiamo accennato nel dare la notizia della sentenza in Corte d’Appello, le pene per i due massimi imputati nel processo Mondo di Mezzo, Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, sono state ridotte nonostante sia stata provata la loro “mafiosità”. Il motivo è semplice, come spiega l’Huffington Post dopo aver sentito gli avvocati Vasaturo (avvocato di Libera, costituitosi parte civile) e Diddi (legale di Buzzi): «Oltre a quello disciplinato dal 416 bis gli imputati erano accusati anche di una serie di altri reati, alcuni dei quali legati alla corruzione. Nel processo di primo grado l'accusa di associazione a delinquere era caduta mentre, invece, erano rimaste in piedi alcune delle altre. Il cumulo delle pene di quei reati, quindi, aveva portato a una condanna più pesante rispetto a quella dell'Appello, almeno per Buzzi e Carminati». Per quanto riguarda le altre condanne, riconosciuto l’associazione a delinquere di stampo mafioso anche per Riccardo Brugia (11 anni e 4 mesi per l’ex braccio destro di Carminati), Claudio Bolla (4 anni e 5 mesi), Emanuela Bugitti (3 anni e 8 mesi), Claudio Caldarelli (9 anni e 4 mesi), Matteo Calvio (10 anni e 4 mesi). 

LEGALE DI CARMINATI: “O NON CONOSCO DIRITTO O SENTENZA STRAVAGANTE”. Dopo la sentenza della terza sezione della Corte d'Appello di Roma, presieduta da Claudio Tortora, che ha riconosciuto l'aggravante mafiosa nell'indagine "Mondo di Mezzo" meglio nota come Mafia Capitale, a mostrare perplessità è l'avvocato difensore dell'ex Nar Massimo Carminati. Come riportato da La Repubblica, il legale Giosuè Naso ha dichiarato: "L'insussistenza dell'associazione mafiosa mi sembrava inattaccabile, mi sbagliavo. Questo collegio ha invece riconosciuto la sussistenza della mafia. Se anche questo collegio, che è uno dei migliori della corte d'appello, ha riconosciuto l'aggravante mafiosa e la mafiosità di questa associazione o io dopo 50 anni di attività professionale non conosco più nulla di diritto, il che ci può stare benissimo, oppure c'è qualcosa di stravagante che ha influito sulla sentenza". Sul procedimento ha poi ribadito: "E' un processetto". (agg. di Dario D'Angelo)

L'avvocato di Buzzi: "Da oggi pericoloso vivere in Italia": "Quanto accaduto è grave, è un fatto assolutamente stigmatizzabile l'aver riconosciuto in questa roba la mafia. Vedo che per molti cittadini da oggi è molto pericoloso vivere in Italia, è una bruttissima pagina per la giustizia del nostro Paese". Così l'avvocato difensore di Salvatore Buzzi, Alessandro Diddi, parlando a margine della lettura del dispositivo della sentenza d'appello. Diddi ha poi aggiunto: "Il collegio ha riconosciuto la associazione di stampo mafioso, ma ha ridotto il trattamento sanzionatorio che era stato applicato in primo grado. Noi abbiamo da sempre sostenuto che il tribunale fosse andato con la mano pesante su diverse condotte". Francesco Salvatore per repubblica.it 11 settembre 2018

RAGGI CONTRO IL PD. «La Corte d'Appello di Roma ha accolto l'impugnazione della Procura generale e della Procura della Repubblica di Roma e ha riconosciuto il carattere mafioso dell'associazione. Questo è il punto di arrivo di un intenso impegno e al tempo stesso di partenza. La consapevolezza dell'esistenza anche a Roma e nel Lazio di forze criminali in grado di condizionare la vita economica e politica e di indurre timore nella popolazione resta il centro di riferimento delle iniziative giudiziarie, che devono necessariamente essere accompagnate dalla crescita della coscienza civile e dal risanamento della struttura della pubblica amministrazione»: così ha spiegato il procuratore generale Giovanni Salvi dopo la sentenza d’Appello dal carcere di Rebibbia. Molto polemica invece il sindaco di Roma, Virginia Raggi, che senza “citarli” attacca a testa bassa il Partito Democratico della Capitale: «Questa sentenza conferma la gravità di come il sodalizio tra imprenditoria criminale e una parte della politica corrotta abbia devastato Roma», ha dichiarato la prima cittadina M5s che era presente ala lettura della sentenza. Non solo, «Conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che bisogna tenere la barra dritta sulla legalità. E' quello che stiamo facendo e continueremo a fare per questa città e i cittadini».

PM SODDISFATTI. La sentenza odierna della Corte d’Appello segna un punto importante nella vicenda giudiziaria conosciuta come Mafia Capitale dato che, rispetto al primo grado, c’è stato un vero e proprio ribaltamento, con gli imputati Massimo Carminati e Salvatore Buzzi che, pur vedendosi ridotte le pene, si sono pure visti attribuire l’aggravante mafiosa per le proprie condotte: “La Corte ha deciso che l’associazione criminale che avevamo portato in giudizio era di stampo mafioso” ha detto soddisfatto il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini circondato da un nugolo di giornalisti. “Un nostro successo? Non ho una visione agonistica dei processi” si è schernito invece il pm Luca Tescaroli a proposito di quello che è un successo dei pm in merito al processo a quello che nella vulgata giornalistica oramai era conosciuto come il Mondo di Mezzo che imperava a Roma: e facendo eco al suo collega si è detto pure lui soddisfatto che i giudici dell’Appello “abbiano riconosciuto il lavoro che abbiamo svolto”. (agg. di R. G. Flore)

Mafia Capitale, Pignatone: "Roma non è Palermo, il problema più grave resta la corruzione". "Sì, era mafia ma Roma non è Palermo". "Il problema più grave resta la corruzione". Così il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone sulle sentenza d'appello per Mafia capitale in due interviste a Il Corriere della Sera e a La Repubblica. Pur essendo il "Mondo di mezzo" "un gruppo che utilizzava il metodo mafioso, questo come gli altri gruppi inquisiti o condannati per associazione mafiosa, dai Fasciani agli Spada, ai Casamonica, non sono paragonabili a Cosa nostra, alla 'ndrangheta o alla camorra. E Roma - ha affermato parlando con il Corriere - non è Palermo, né Reggio Calabria né Napoli. L'abbiamo sempre sostenuto, anche nel parere contrario allo scioglimento del Comune per mafia", ha detto il procuratore. Quello che contraddistingue la mafosità del gruppo di Carminati e Buzzi "non è il controllo del territorio, ma il controllo di un ambiente sociale, di alcuni settori dell'imprenditoria". "La nostra elaborazione avanzata dell'associazione mafiosa era già basata su alcune pronunce della Corte suprema, che poi l'ha ribadita in altre sentenze. La corte d'appello ne ha preso atto e ha individuato un condizionamento di tipo mafioso". "Non tutti i traffici di droga si possono considerare mafiosi, così come non tutti le corruzioni. Ci dev'essere un condizionamento derivante dal vincolo associativo, ed è necessaria la "riserva di violenza" riconosciuta all'esterno. Detto questo, anche dopo questa sentenza, ripeto che a Roma il problema principale non è la mafia". E qual è? "Credo che si possa individuare in quell'insieme di reati contro la pubblica amministrazione e l'economia che va sotto il nome di corruzione ma comprende le grandi bancarotte, le grandi frodi fiscali, le grandi turbative d'asta e fenomeni correlati. La cifra di una metropoli come Roma è la complessità, anche sotto il profilo criminale. Mafia capitale è solo un tassello di un mosaico molto più grande e complicato". "Io fui il primo - ha detto Pignatone a Repubblica - dopo gli arresti, a esprimere parere contrario allo scioglimento per mafia dell'assemblea capitolina. Proprio perché sostenevo che la peculiarità di Mafia Capitale era tale che si poteva ritenere cessata l'associazione mafiosa nel momento in cui era stata disarticolata". Come è possibile che la Corte di Appello, pur riconoscendo il reato più grave di mafia, abbia poi ridotto le pene? "Le pene per il 416 bis sono state modificate in senso più afflittivo successivamente agli arresti del dicembre 2014. Noi abbiamo ritenuto che le nuove pene, più alte, potessero applicarsi perché ritenevamo che l'associazione a delinquere, formalmente, dovesse essere considerata "attiva" fino al pronunciamento della sentenza di primo grado. L'Appello, al contrario, penso abbia ritenuto che Mafia Capitale sia cessata al momento degli arresti e dunque che il calcolo delle pene andasse fatto con le vecchie norme". Agi 12 settembre 2018

 RICONOSCIUTA "AGGRAVANTE MAFIOSA". La sentenza è stata ribaltata ma le pene sono state ridotte: così il processo d’Appello si conclude con le importanti decisioni di questi minuti dall’aula bunker del Carcere di Rebibbia. Massimo Carminati condannato in Appello a 14 anni e sei mesi. Salvatore Buzzi 18 anni e 4 mesi: sono queste le prime condanne in Appello al processo per Mafia Capitale-mondo di mezzo che hanno due punti cruciali da segnalare subito. A differenza del Primo Grado, in questa sentenza viene riconosciuta “l’aggravante mafiosa” mentre le pene sono state ridotte, come ha spiegato l’avvocato di Carminati, perché sono state eliminate alcune recidive passate. «Nel primo processo l'aggravante mafiosa cadde perché, come si leggeva nelle motivazioni, l'applicazione letterale del 416bis non era possibile», scrive Repubblica: per le decisioni di oggi invece bisognerà attendere le motivazioni tra 100 giorni, ma intanto le rispettive difese di Buzzi e Carminati continuano a ribadire, «questo è un processino cui però vengono condannati con pene mostruose, altro che alte, i nostri assistiti». 

ATTESA PER BUZZI E CARMINATI. L’hanno chiamata Mafia Capitale fin da subito, eppure dopo le condanne in Primo Grado quell’appellativo andava abolito visto che i giudici della III sezione di Roma avevano esclusa l’aggravante del metodo mafioso e dell’associazione a delinquere di stampo mafioso per tutti i 41 condannati (sui 46 imputati, ndr). Nel 2017 venne riconosciuta l’esistenza di due associazioni a delinquere “semplici” che avevano in Massimo Carminati e Salvatore Buzzi i due punti di riferimento. Per l’ex Nar i giudici avevano sentenziato 20 anni di reclusione per “corruzione” ma non per “aggravante mafioso”; per il “re delle cooperative romane” invece il magistrato decise di condannarlo a 19 anni di reclusione per associazione a delinquere “semplice”. I giudici ora, dopo il Processo di Appello tenuto nell’ultimo anno, sono riuniti in Camera di Consiglio nell’Aula bunker del Carcere di Rebibbia: alle 13 è attesa la sentenza che potrebbe, viste le richieste dell’accusa, ribaltare completamente la decisione del Primo Grado.

MAFIA CAPITALE: LE RICHIESTE DELL’ACCUSA. Mafia Capitale-mondo di mezzo: bisognerà decidere a quale dei due “ambiti” appartengono gli imputati. Se infatti il terrorista “nero” Carminati e il ras delle cooperative avevano messo i piedi una organizzazione mafiosa, allora si concretizzerà la richiesta della accusa: per l'ex Nar il pg Pignatone ha chiesto una condanna a 26 anni e mezzo, mentre per Buzzi 25 anni e 9 mesi. Se invece viene confermata la tesi del Primo Grado, allora non si può parlare di “mafia capitale” ma di grande organizzazione criminale senza le aggravanti di rito, e senza dunque anche il regime di carcere duro (41Bis) per i condannati. Come riporta bene l’Ansa in attesa della sentenza d’Appello, «Secondo l'accusa negli anni il gruppo un tempo guidato dal solo Carminati sarebbe cresciuto, passando dalle semplici estorsioni al controllo di attività economiche, appalti e bandi pubblici. Dopo l'incontro con Buzzi, avvenuto nel 2011, ci sarebbe stato un'ulteriore salto di qualità, che avrebbe permesso all'organizzazione di condizionare politica e pubblica amministrazione». Oggi si attendono novità sulla presenza o meno di una “nuova mafia” che agiva nella Capitale.

Il fatto alternativo di Mafia capitale. Una bolla di fatti alternativi non la puoi sgonfiare, e così nel processo d’Appello si è deciso di convertire il senso di condanne già erogate nel significato simbolico che le bolle richiedono. Stavolta la mafia c’è. Ma la bufala resta lì ed è sempre grande, scrive Giuliano Ferrara l'11 Settembre 2018 su "Il Foglio". Mafia capitale è un classico “fatto alternativo”, un caso di scuola, la bolla informativa al posto del contenuto di fatto. Anche i bambini hanno capito quel che non era difficile divinare a tutta prima e che nessuna sentenza potrà mai smentire: due o tre associazioni per delinquere a scopo di lucro (appalti, corruzione della pubblica amministrazione e della politica capitolina per segmenti, prestito a strozzo) furono smantellate da indagini giudiziarie che, per comodità e aura mediatico-politica, furono condotte con ...

E’ stato cambiato il reato di mafia, e adesso tutto può essere mafia. La sentenza pronunciata dalla Corte di appello sul cosiddetto processo Mafia Capitale contro Massimo Carminati e l’associazione a delinquere, scrive Massimo Bordin l'11 Settembre 2018 su "Il Foglio". Ci sarà tempo per valutare più analiticamente il dispositivo della sentenza pronunciata dalla Corte di appello che ha accolto il ricorso della procura romana sul processo Mafia Capitale, ma il cuore del problema, l’elemento che ha spostato il giudizio nel suo secondo grado sta probabilmente nell’analisi del fatto piuttosto che nella sistemazione degli elementi e dei precedenti in punto di diritto. Qui si era avvertito il lettore, all’inizio del processo d’Appello, che, dalla sentenza di primo grado, le cose in Cassazione erano mutate sul tema della utilizzabilità del reato di mafia per associazioni a delinquere attive anche lontano dai luoghi tradizionali dell’insediamento mafioso e non necessariamente connotate da pratiche esplicitamente violente. Più di una sentenza definitiva della Suprema Corte aveva convalidato decisioni di alcune Corti di appello, non solo romane, che avevano applicato estensivamente il famoso articolo 416 bis anche a piccole associazioni criminali, in più di un caso formate neppure da italiani. La giurisprudenza della Cassazione, insomma, si era mossa in controtendenza rispetto alla sentenza del tribunale su Carminati e soci. Naturalmente nella discussione il fenomeno è stato valorizzato dalla pubblica accusa e analizzato criticamente dalle difese, che hanno cercato di sganciarlo dal merito del processo romano. Qui arriviamo al punto vero che non è, o almeno non è solo, una dotta disquisizione giuridica, ma principalmente è l’interpretazione dei fatti processuali. In soldoni il giudice di primo grado, nelle motivazioni della sentenza, aveva fatto un discorso di questo tipo: “Cari pm, non ci avete convinto sull’associazione mafiosa perché, prima ancora dell’aggettivo, è il sostantivo singolare che non va. Doveva essere plurale, perché qui le associazioni a delinquere sono due. Hanno una persona in comune, Carminati, ma non basta secondo noi a unificarle e se sono divise sono due gruppi di associati che commettono reati magari anche gravi senza arrivare in nessuno dei due casi a rappresentarsi come fenomeni mafiosi”. Non si diceva esplicitamente che anche la procura in fondo la pensava così, ma alla fine l’interpretare come artificiosa l’unificazione operata dall’accusa alludeva proprio a questo. Siccome ogni processo è fatto di persone, di storie, di comportamenti e intrecci, per parlare con cognizione di causa di questa sentenza occorre davvero aspettare di leggere come la Corte di appello li ha interpretati e combinati per contraddire sul punto di fatto decisivo la sentenza di primo grado. Comunque dal dispositivo si capisce nitidamente anche un’altra cosa. Il fatto che alcuni imputati, Carminati più di tutti, vedano ridotta la loro pena malgrado la condanna per una nuova imputazione, mostra come la sentenza di primo grado, pur non considerando la mafia, con gli imputati non era stata affatto tenera. Questa nuova sentenza sembra dire addirittura che aveva ecceduto.

Mafia Capitale, 20 anni a Carminati e 19 a Buzzi: la lettura della condanna. Dopo tre ore di camera di consiglio è arrivata la sentenza del maxiprocesso Mafia Capitale. Dopo 230 udienze la X sezione penale del Tribunale di Roma in primo grado di giudizio ha condannato Massimo Carminati a 20 anni di reclusione, mentre quelli che dovrà scontare Salvatore Buzzi sono 19. Cade invece l'accusa per associazione di stampo mafioso.

Mafia Capitale, il procuratore Ielo: ''Sentenza ci dà in parte torto, ma la delusione non ci appartiene''. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo commenta la sentenza della decima sezione del Tribunale di Roma del Processo Mafia Capitale che non ha riconosciuto le accuse di associazione mafiosa.

Mafia Capitale, legale Carminati: ''Sconfitta di Pignatone, sono solo quattro cazzari''. "Non so se questo processo ha dei vincitori, ma certamente ha uno sconfitto: Pignatone. Su questo non ci sono dubbi". Lo ha detto l'avvocato di Massimo Carminati, Bruno Giosuè Naso, commentando la sentenza del processo a Mafia Capitale nell'aula bunker di Rebibbia. Interrogato poi da una giornalista, l'avvocato conferma quanto detto tempo fa in merito a quella che lui stesso definisce "la banda del benzinaro": "Sono solo quattro cazzari".

Mafia Capitale, legale Buzzi: ''Provata l'inesistenza della mafiosità''. "Né Salvatore Buzzi né Massimo Carminati sono mafiosi. Questa è una pietra miliare, una lezione di diritto della quale qualcuno dovrà prendere atto". A dirlo è Alessandro Diddi, l'avvocato di Salvatore Buzzi, al termine della lettura della sentenza di Mafia capitale che ha condannato il ras delle cooperative a 19 anni di reclusione. "Erano i pubblici ufficiali a rivolgersi a Buzzi, e non lui a intimidirli", ha sottolineato il legale.

L'avvocato di Massimo Carminati Giosuè Naso, al termine della sentenza che ha visto decadere l'accusa per associazione mafiosa del suo assistito, nell'aula bunker di Rebibbia ingaggia una lite con un funzionario di polizia e viene portato via. La figlia Ippolita, anch'essa avvocata, chiede ironicamente se il padre sia stato arrestato. Contattato successivamente al telefono, l'avvocato Naso ha fatto sapere che si sarebbe trattato di "sciocchezze", senza fornire ulteriori spiegazioni.

Roma. “Mafia Capitale”…anzi no! Adesso bisognerà cambiare nome…?!? Scrive il 20 luglio 2017 Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno". Caduta l’associazione mafiosa richiesta dalla procura romana. E’ stata vana la inutile passerella del Sindaco di Roma Virginia Raggi. La decisione della 10ma sezione penale del Tribunale di Roma è la sconfitta delle etichette della informazione “forcaiola” e serva della pessima politica. Nella sentenza è stata esclusa sia la natura del sodalizio mafioso ex art 416 bis del codice penale, sia la presenza dell’aggravante del “metodo mafioso” prevista dall’art. 7 D.L. 152/1991 convertita con Legge 203/1991. In definitiva si è trattato il processo a due associazioni a delinquere semplici. Al termine del processo il Tribunale di Roma ha condannato Salvatore Buzzi a 19 anni di reclusione, 20 anni per Massimo Carminati, 11 per Luca Gramazio, ex capogruppo del Pdl in Comune. Caduta quindi l’accusa di associazione mafiosa a 19 imputati del processo a mafia capitale, tra cui i presunti capi Carminati e Buzzi. Per l’ex presidente dell’assemblea Capitolina Mirko Coratti la corte ha stabilito una pena di 6 anni di reclusione. Luca Odevaine, ex responsabile del tavolo per i migranti, è stato condannato a 6 anni e 6 mesi. Undici anni per Ricardo Brugia il presunto braccio destro di Carminati, 10 per Franco Panzironi l’ex Ad di Ama. L’ex minisindaco del municipio di Ostia, commissariato per infiltrazione mafiose, Andrea Tassone è stato condannato a 5 anni. Su 46 imputati tre sono stati assolti. Si tratta di Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, per i quali la Procura aveva chiesto 16 anni di carcere, e l’ex dg di Ama Giovanni Fiscon, per il quale erano stati chiesti 5 anni. Secondo l’accusa Rotolo e Ruggiero avrebbero garantito i contatti tra “Mafia Capitale” ed ambienti della ‘ndrangheta. I giudici della decima Corte presieduta da Rosanna Ianniello hanno inflitto oltre 250 anni di carcere, dimezzando di fatto le pene rispetto alle richieste della Procura che aveva proposto per tutti gli imputati 5 secoli di carcere. I giudici hanno detto che “la mafia a Roma non esiste, come andiamo dicendo da 30 mesi” ha dichiarato soddisfatto l’avvocato Giosuè Naso difensore di Massimo Carminati. “La presa d’atto della inesistenza dell’associazione mafiosa – ha aggiunto – ha provocato una severità assurda e insolita. Mai visto che a nessuno di 46 imputati non venissero date attenuanti. Sono pene date per compensare lo schiaffo morale dato alla procura”. I giudici della X sezione del Tribunale di Roma sono stati chiamati a giudicare i 46 imputati del processo denominato “Mafia Capitale”, l’associazione che avrebbe condizionato la politica romana, guidata da l’ex Nar Massimo Carminati e dal ras delle cooperative Salvatore Buzzi. Il presidente della Corte Rosanna Ianniello, prima di entrare in camera di consiglio, ha ringraziato il “personale amministrativo” del tribunale, “senza il quale non sarebbe stato possibile portare a compimento il processo” e i tecnici, che hanno “lavorato con competenze e dedizione”. Un ringraziamento, da parte del presidente, anche alla procura, in particolare al pm Luca Tescaroli, che “si è contraddistinto per la professionalità” ed agli avvocati difensori.

Mafia Roma: pm Ielo, sentenze si rispettano – “Questa sentenza riconosce un’associazione a delinquere semplice, non di tipo mafioso. Sono state date anche condanne alte. Rispettiamo la decisione dei giudici anche se ci danno torto in alcuni punti mentre in altri riconoscono il lavoro svolto in questi anni. Attenderemo le motivazioni”. Lo afferma il procuratore aggiunto Paolo Ielo dopo la sentenza della X sezione penale del Tribunale di Roma.

Carminati a legale, “avevi ragione tu, sono soddisfatto” – “Avevi ragione tu, sono soddisfatto”. Queste le parole pronunciate da Massimo Carminati parlando con la sua legale Ippolita Naso, commentando la sentenza che lo condanna a 20 anni, anziché a 28 anni, non essendo stata riconosciuta l’associazione mafiosa. L’avvocato era convinto che l’associazione mafiosa non sarebbe stata riconosciuta e così è stato. “Avevi ragione tu”, le ha quindi detto Carminati. “Ora mi devono togliere subito dal 41 bis”. E’ la prima richiesta che Massimo Carminati ha rivolto al suo avvocato subito dopo la lettura delle sentenza della X sezione penale del tribunale di Roma che non ha riconosciuto l’esistenza dell’associazione mafiosa. “Non me lo aspettavo – ha aggiunto l’ex Nar al telefono con l’avvocato – avevi ragione tu ad essere ottimista”. “Carminati temeva – ha detto l’avvocato Naso – che le pressioni mediatiche avessero portato ad un esito negativo per lui”.

Buzzi a legali, ora quando esco da carcere? – “Ora quando esco?”: questo il primo commento di Salvatore Buzzi dopo la lettura della sentenza per i 46 imputati di mafia capitale, esprimendo felicità per l’esito del processo. “Mi auguro – ha aggiunto parlando con il suo avvocato – che alla luce di questa decisione la mia permanenza in carcere stia per finire”. Condanne esemplari per tutti gli imputati per alcuni anche superiore alle richieste del pm ma non si tratta di un’associazione mafiosa. In 41 sono stati condannati e in 5 assolti.

Ecco tutte le condanne: Massimo Carminati 20 anni; Salvatore Buzzi anni 19 anni; Riccardo Brugia 11 anni; Fabrizio Testa 11 anni; Luca Gramazio 11 anni; Franco Panzironi 10  anni; Cristiano Guarnera 4 anni; Giuseppe Ietto 4 anni; Claudio Caldarelli 10 anni; Agostino Gaglianone 6 anni e 6 mesi; Carlo Pucci 6 anni; Roberto Lacopo 8 anni; Matteo Calvio 9 anni; Nadia Cerrito 5 anni; Carlo Maria Guarany 5 anni; Paolo Di Ninno 12 anni; Alessandra Garrone 13 anni e 6 mesi; Claudio Bolla 6 anni; Emanuela Bugitti  6 anni; Stefano Bravo 4 anni; Mirko Coratti 6 anni; Sandro Coltellacci 7 anni; Michele Nacamulli 5 anni; Giovanni De Carlo 2 anni e 6 mesi; Antonio Esposito 5 anni; Giovanni Lacopo 6 anni; Franco Figurelli 5  anni; Claudio Turella 9 anni; Guido Magrini  5 anni; Sergio Menichelli 5 anni; Marco Placidi  5 anni; Mario Schina  5 anni e 6 mesi; Mario Cola 5 anni; Daniele Pulcini 1 anno; Angelo Scozzafava 3 anni; Andrea Tassone 5 anni; Giordano Tredicine 3  anni; Luca Odevaine  6 anni e  6 mesi; Pierpaolo Pedetti  7 anni; Tiziano Zuccolo  3 anni e 3 mesi; Pierina Chiaravalle  5 anni.

Questi gli assolti: Giovanni Fiscon assolto; Rocco Rotolo assolto; Salvatore Ruggero assolto; Giuseppe Mogliani assolto; Fabio Stefoni assolto.

Mafia Capitale non esiste. 20 anni per Carminati ma è un "delinquente abituale". Il verdetto della Corte d’Assise di Roma mette la parola fine al maxi processo durato due anni. Condanne pesanti ma non per 416 bis. Nervi tesi per l'avvocato Naso che dà in escandescenze e viene portato via dalla polizia, scrive Giovanni Tizian e Federico Marconi il 20 luglio 2017 su "L'Espresso". Mafia Capitale non esiste. La storia si ripete. Come ai tempi della banda della Magliana, per il tribunale di Roma non esiste organizzazione mafiosa locale nella città eterna. Svanisce in mezz’ora, il tempo della lettura del verdetto. La Corte d’Assise ha condannato Massimo Carminati a 20 anni e Salvatore Buzzi a 19 ma non per 416 bis, cioè il reato di associazione mafiosa. Il verdetto della Corte d’Assise di Roma mette così la parola fine al maxi processo durato due anni e 240 udienze. I giudici riconoscono due associazioni, semplici, con a capo Carminati. In una di queste hanno confermato il ruolo centrale di Salvatore Buzzi, braccio economico della “banda”. Secondo i giudici, inoltre, il “Cecato” è un delinquente abituale. Dopo tre ore di camera di consiglio è arrivata la sentenza del maxiprocesso Mafia Capitale. Dopo 230 udienze la X sezione penale del Tribunale di Roma in primo grado di giudizio ha condannato Massimo Carminati a 20 anni di reclusione, mentre quelli che dovrà scontare Salvatore Buzzi sono 19. Cade invece l'accusa per associazione di stampo mafioso. La sentenza è arrivata poco dopo le 13, in un aula gremita di giornalisti. Nelle gabbie di Rebibbia una decina gli imputati detenuti. Tre, tra cui Carminati, erano collegati dal 41 bis in videoconferenza. In fondo all’aula parenti e amici degli imputati. Tra loro Il fratello di Massimo Carminati, Sergio, e il leader di Militia Maurizio Boccacci. Alla lettura delle prime pesanti condanne alcune donne hanno pianto, altre hanno gioito per le assoluzioni. Tra i banchi delle parti civili, invece, era presente anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi. “È una giornata importante” ha commentato la sindaca appena entrata in aula, una ventina di minuti prima dell’ingresso della Corte. Raggi che oggi scopre di governare una città in cui la mafia non c’è mai stata. Dai tempi della Banda della Magliana, nessun processo ha mai riconosciuto l’associazione mafiosa ai gruppi criminali imputati. Tra i 41 condannati, pene pesanti anche per Alessandra Garrone (13 anni e 6 mesi), Fabrizio Testa (12), Luca Gramazio (11), Luca Brugia (11), Franco Panzironi (10), Luca Odevaine (8), Mirko Coratti (6 anni) e Giordano Tredicine (3). Condannato, inoltre, Andrea Tassone, ex presidente del municipio di Ostia, poi sciolto per mafia, e Luca Odevaine, il regista del business dei migranti, a 8 anni complessivi. La pena di 9 anni è stata inflitta a Matteo Calvio, detto “Spezza pollici”, ritenuto il tirapiedi del capo dell’associazione Massimo Carminati. Paolo Ielo, procuratore aggiunto di Roma, ha dichiarato: «La sentenza in parte ci dà torto ma aspettiamo di leggere le motivazioni». Era evidente la delusione negli sguardi di chi ha condotto le indagini sul gruppo Carminati. Le difese, invece, nonostante le pene comunque alte, si ritengono soddisfatte della decisione della corte. Alcuni degli imputati a piede libero hanno esultato, uno di loro rivolgendosi all’inviato di Repubblica ha chiesto: «E mo che vi inventate?». Mezz’ora dopo la lettura della sentenza, la tensione non è calata. Nervi tesi per l’avvocato di Carminati, Domenico Naso. Dopo la soddisfazione per il verdetto che cancella il reato di mafia, l’avvocato ha avuto un diverbio con i poliziotti di guardia. I toni si sono accesi e c’è stato un battibecco con l’agente, che ha chiesto a Naso di seguirlo al posto di polizia. L'avvocato Naso, legale di Carminati va in escandescenza alla fine della sentenza. Ha avuto un diverbio con i poliziotti di guardia. I toni si sono esasperati e l'avvocato è stato portato al posto di polizia. Alla fine il dirigente della polizia ha calmato la situazione.

Perché "Mafia Capitale" è stata archiviata. Tra i 113 prosciolti anche Alemanno e Zingaretti. Ecco chi erano gli indagati e perché sono stati scagionati, scrive l'8 febbraio 2017 Chiara Degl'Innocenti su Panorama.  Mafia Capitale è stata archiviata. Non sono emersi "elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio" e così la posizione di 113 indagati nell'inchiesta viene, appunto, archiviata perché il reato al centro di tutte le indagini, l’associazione di stampo mafioso regolata dall’articolo 416 bis, non sussiste. L'ex sindaco Gianni Alemanno, scagionato. L'ex amministratore delegato di Eur S.p.A, Riccardo Mancini, scagionato. E scagionati anche gli avvocati Michelangelo Curti, Domenico Leto e Pierpaolo Dell'Anno. Idem per il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il suo ex capo di gabinetto Maurizio Venafro. Disposta in camera di consiglio la restituzione degli atti al pubblico ministero di Salvatore Forlenza, Salvatore Buzzi, Carminati e Giovanni Fiscon, all'epoca direttore generale della municipalizzata, dell’ex presidente della commissione Bilancio del comune, Alfredo Ferrari e dell’ex consigliere comunale della lista civica “Marino sindaco” Luca Giansanti. L'elenco è lungo, i nomi si sprecano. Le accuse, no. Il blitz era partito nel 2014 con gli arresti delle prime 37 persone. Un vero e proprio terremoto nella vita istituzionale della Capitale che da quel momento era diventata mafiosa. Il primo ad essere bloccato infatti nell'operazione "Mondo di mezzo" era stato il già citato capo del Clan, Massimo Carminati, ex Nar ed ex appartenente alla Banda della Magliana, sotto processo per il 416bis, e ora invece scagionato dalla contestazione di associazione per delinquere finalizzata a rapine e riciclaggio (come per Ernesto Diotallevi e Giovanni De Carlo, che erano sospettati di essere a Roma i referenti di Cosa Nostra, oggi salvi). Con Carminati all'epoca erano finiti in manette anche ex amministratori locali, manager di municipalizzate e imprenditori per associazione a delinquere di stampo mafioso. Tra quei nomi c'era anche quello di Gianni Alemanno. In particolare per l'ex sindaco di Roma le accuse erano più di una: corruzione e illecito finanziamento. Ma nei suoi confronti dell'ex sindaco i pm contestavano anche il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, appunto, e quello di aver ricevuto somme di danaro per il compimento di atti contrari ai doveri del suo ufficio, attraverso la fondazione Nuova Italia di cui era presidente. In ballo, 125 mila euro per i fondi illeciti ricevuti tra il 2012 ed il 2014. Alemanno poi avrebbe preso anche 75 mila euro camuffati da finanziamento per cene elettorali, 40 mila euro che gli sarebbero stati erogati per la Nuova Italia, più altri 10 euro ma senza una causale. Ma, se di mafia non si può più parlare, per lui restano ancora in piedi le accuse per corruzione e finanziamento illecito, l'altro filone di indagine per cui andrà a processo a maggio prossimo. Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, era saltato fuori invece come indagato per sospetto concorso in corruzione per due episodi risalenti 2011 e nel 2013 e per turbativa d'asta a causa delle dichiarazioni di Salvatore Buzzi, fondatore della cooperativa di ex carcerati “29 Giugno” a capo anche lui di un’organizzazione di tipo mafioso. Principale imputato nell'inchiesta, Buzzi avrebbe raccontato alla magistratura ciò che c'era dietro il nuovo palazzo della Provincia dell'Eur, ossia che l'amministratore Zingaretti avrebbe acquistato prima della sua costruzione. In archivio alcune accuse anche per Maurizio Venafro, indagato per corruzione, la ex presidente del primo municipio della capitale, Sabrina Alfonsi, indagata per concorso in corruzione, l'ex consigliere comunale della lista Marchini, Alessandro Onorato, anche lui indagato per concorso in corruzione, il presidente del Consiglio regionale Daniele Leodori, per turbativa d'asta, e per l'ex delegato allo sport della Giunta Alemanno Alessandro Cochi. Nell'elenco dei prosciolti figurano anche i nomi degli imprenditori Luca Parnasi, Luigi Ciavardini, Fabrizio Pollak e Gianluca Ius, e poi Leonardo Diotallevi, figlio di Ernesto, l'allora capo della segreteria personale di Alemanno Antonio Lucarelli e l'ex consigliere di Roma Multiservizi Stefano Andrini. Resta accusato di mafia invece il consigliere regionale di Forza Italia, Luca Gramazio che il gip Flavia Costantini, nell'ordinanza che ha portato al suo arresto nel 2015 sosteneva: "Mette al servizio dell'organizzazione le sue qualità istituzionali, svolge una funzione di collegamento tra l'organizzazione la politica e le istituzioni, elabora, insieme a Testa, Buzzi e Carminati, le strategie di penetrazione della Pubblica Amministrazione, interviene, direttamente e indirettamente nei diversi settori della Pubblica Amministrazione di interesse dell’associazione". Niente mafia insomma, o quasi. Perché, come scrive Andrea Feltri su La Stampa, la Piovra che ha stritolato Roma è solo un moscardino.

L'insano sollievo. L'editoriale di Mario Calabresi del 21 luglio 2017 su “La Repubblica". La sentenza sul processo Mafia Capitale porta a 250 anni di condanne ma i giudici hanno bocciato l'aggravante sull'associazione mafiosa. Quando la politica di una città, di fronte a condanne per 250 anni di carcere, festeggia ci sarebbe da essere contenti. Ma se si ascolta meglio e si scopre che non si festeggia perché giustizia è stata fatta bensì perché i criminali che dominavano la scena sono riconosciuti delinquenti però non mafiosi, allora c’è davvero da avere paura. Quando ci si sente sollevati perché i Palazzi erano infiltrati fino al midollo da un’associazione criminale che non può essere definita mafiosa, allora si è perduti. Amare Roma significa fare pulizia, non continuare a nascondere la spazzatura della corruzione, del malaffare e della criminalità organizzata dietro una rivendicazione d’orgoglio posticcio. Significa fare i conti davvero e fino in fondo con una città che è diventata capitale dello spaccio di cocaina, in cui il crimine controlla gangli economici vitali. Le sentenze si rispettano ma la sensazione di sollievo che si è diffusa ieri sembra portare le lancette del tempo molto indietro, a quegli anni in cui si negava la ‘ndrangheta in Piemonte o in Emilia, in cui si scuoteva la testa indignati all’idea che i clan stessero conquistando tutto l’hinterland milanese. E sappiamo quali danni abbiano fatto decenni di sottovalutazione politica dei fenomeni mafiosi. Ora a Roma si stabilisce che è la geografia a definire i fenomeni e non i fenomeni a riscrivere la geografia. La mafia è tornata ad essere cosa siciliana, nessuno si permetta più di immaginare che sopra il Garigliano nuovi clan autoctoni possano utilizzare modalità che sono proprie delle associazioni di stampo mafioso. Possiamo andare a dormire tranquilli, magari dopo aver fatto un brindisi. Ma chiudete bene la porta e assicuratevi che i ragazzi siano in casa.

Mafia Capitale da oggi è Mazzetta Capitale: la sconfitta della Procura e l’esultanza dei condannati. La sentenza di primo grado stabilisce che non si è trattato di associazione mafiosa, ma di associazione «semplice». Resta da capire, e dovranno spiegarlo le motivazioni, l’apporto dell’ex estremista nero Carminati al sistema corruttivo del rosso Buzzi, scrive Giovanni Bianconi il 20 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Non era un’associazione mafiosa, bensì un’associazione per delinquere «semplice». Anzi, due: una più piccola, quella del benzinaio di corso Francia, dedita per lo più alle estorsioni; l’altra più grande e strutturata, messa in piedi per corrompere la pubblica amministrazione. Entrambe incarnate da Massimo Carminati, l’ex estremista nero divenuto criminale comune di peso ma non un boss, evidentemente. Non più Mafia Capitale, insomma, ma Mazzetta capitale. Un sistema nel quale più dell’assoggettamento e dell’intimidazione imposta dalla caratura del bandito con un occhio solo ha inciso la compravendita dei politici esercitata da Salvatore Buzzi, il capo delle cooperative sociali. Un «mondo di mezzo» diverso da quello disegnato dall’accusa, che aveva sommato la «riserva di violenza» garantita dagli ex picchiatori degli anni Settanta divenuti malavitosi di strada alla corruzione praticata sistematicamente da imprenditori spregiudicati; la prima metà del sodalizio è caduta, lasciando in piedi la seconda che rientra in un contesto molto più «normale», accettabile e digeribile da una città come Roma. È il motivo per cui gli imputati esultano, insieme ai loro avvocati, a dispetto di pene molto severe inflitte dalla X sezione del Tribunale di Roma: vent’anni di carcere per Carminati, 19 per Buzzi e a scendere quasi tutti gli altri (solo 5 dei 46 accusati sono stati assolti), con una scala di responsabilità che dal punto di vista dei ruoli attribuiti ai singoli personaggi sembra seguire l’impostazione dei pubblici ministeri. Ma la vera posta in gioco era un’altra: la scommessa di una nuova associazione mafiosa, originale e originaria, autoctona e autonoma, diversa da tutte le altre contestate finora, che da oggi non è più nemmeno presunta. Semplicemente non c’è, perché così hanno deciso i giudici del Tribunale, dopo che altri giudici l’avevano invece riconosciuta: il gip che ordinò gli arresti a fine 2014, il tribunale del Riesame che li confermò e persino la Cassazione, che aveva ribadito come non fosse necessario il controllo del territorio né l’esercizio della violenza; bastava la minaccia, anche implicita, e la corruzione del sistema politico che era da considerarsi l’arma principale a disposizione di una nuova mafia. Questo impianto, dopo un anno e mezzo di dibattimento e 250 udienze, non ha retto. Il tribunale composto da tre magistrati ha ritenuto (probabilmente a maggioranza, due contro uno, ma sono solo rumors non verificabili che non tolgono nulla al peso della decisione) che la minaccia insita in una personalità dal passato turbolento come quella di Carminati non fosse sofficiente a configurare neanche quel «metodo mafioso» che ormai da tempo ha superato i confini siciliani o calabresi, dove viene praticato da decenni. Era la sfida della Procura guidata da Giuseppe Pignatone, il magistrato che dopo aver contrastato Cosa nostra e ’ndrangheta ha applicato (insieme ai suoi aggiunti e sostituti, e ai carabinieri del Ros che molto hanno creduto e investito su questa indagine) quel metodo investigativo e quel reato a questo frammento di criminalità romana che ha aggredito la pubblica amministrazione. Sfida persa. Resta da capire, e dovranno spiegarlo le motivazioni della sentenza, quale apporto ha portato l’ex estremista nero all’associazione corruttiva del rosso Buzzi, se non la «riserva di violenza» negata dai giudici. Nell’attesa, ci si dividerà tra l’esultanza di chi ha sempre definito tutta questa costruzione nient’altro che una fiction a vantaggio di qualche carriera, una «mafia all’amatriciana» inventata a tavolino per i motivi più disparati, e il rammarico di chi dirà che Roma sconta un ritardo culturale nella lotta al crimine e ha perso un’occasione storica per impedire che tutto prima o poi si annacqui, finisca sotto la sabbia o si perda nelle nebbie mai completamente diradate. Divisioni inevitabili di fronte a un’accusa tanto clamorosa quanto inedita, che ha tenuto banco per quasi tre anni e ha avuto indiscutibili ricadute politiche. Finendo per travolgere le due precedenti giunte comunali e mettendo qualche premessa per l’avvento di quella nuova (non a caso ieri la sindaca Raggi s’è presentata in aula per assistere personalmente all’ultimo atto). Ma è evaporata in meno di un’ora, il tempo necessario a leggere il dispositivo della decisione; polemiche e letture contrapposte sono garantite. Tuttavia al di là della sconfitta subita dai pubblici ministeri — parziale e non definitiva, ché le condanne ci sono comunque state e per il resto ci saranno gli altri gradi di giudizio — restano l’importanza e il peso di un’inchiesta e di un verdetto che hanno scoperchiato il grande malaffare di Roma. Con pene molto pesanti che, se da un lato aumentano il valore per l’assoluzione dall’accusa di mafia, dall’altro hanno il sapore del contrappeso confermando la gravità di quanto scoperto: dai 10 anni di carcere inflitti a uno dei principali collaboratori dell’ex sindaco Alemanno (a sua volta imputato per corruzione in un processo parallelo) ai 10 per l’ex presidente del Consiglio comunale con la giunta Marino. Sintomo di un’infiltrazione criminale, seppure non mafiosa, che non aveva confini politici e ha condizionato l’amministrazione della Capitale d’Italia.

Cari giudici di Mafia capitale, è l’ora di rileggere Sciascia, scrive Tommaso Cerno venerdì 21 luglio 2017 su "L'Espresso". «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma… ». Abbiamo risentito la frase italiana per eccellenza: la mafia non esiste. Quella dei tempi d’oro. Quando la politica mangiava con loro e i giornalisti venivano ammazzati. Lo dicono ridacchiando mentre uno ‘Stato cecato’ ha inflitto oltre 280 anni di carcere a un’organizzazione criminale guidata da er Cecato vero, Massimo Carminati. Con una sentenza che ripulisce Roma dal lordume. Fra le risatine di avvocati entusiasti per avere mandato in galera i loro assistiti. Ridono perché questa è una sentenza pesante, ma che mostra una visione vecchia della mafia. E fa sembrare loro dei giuristi. Mentre ripetono quello che i mafiosi dicono dal carcere: la mafia non c’è. Un limite culturale dello Stato. Pur con sostanziali passi avanti rispetto agli anni delle assoluzioni choc, degli indulti a comando. Diciamo che qualcuno dovrebbe rileggersi Leonardo Sciascia. Se si ricorda chi sia. Denunciava già nel 1961 questa tendenza italica, quella di non sapere o volere adattare alla modernità la criminalità organizzata che cambia metodi e modi con maggiore velocità rispetto al codice penale: «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma… ». A distanza di mezzo secolo da questa profezia, il tribunale infligge pene severissime ai criminali che avevano messo le mani su Roma, ma non cancella la parola “Forse” dalla più celebre citazione de “Il Giorno della Civetta”. E la mafia certamente ha ascoltato dalle sue lorde tane e dalle sue latitanze. Perché può stare certa che in un Paese come il nostro, invischiato in decine di scandali e omicidi, attovagliato spesso con loschi figuri, affermare in nome del popolo italiano che non solo non siamo riusciti a sconfiggere le mafie storiche, ma siamo stati capaci di farne crescere una nuova, nel cuore di Roma, già graziata ai tempi della Banda della Magliana, è roba troppo grossa per il nostro Stato. Lo sappiamo da anni. Una cosa buona c’è. L’organizzazione criminale di er Cecato, di quel Massimo Carminati, ex terrorista nero, viene smantellata da una condanna pesantissima. È un passo avanti. Ma non basta. L’organizzazione messa sotto i riflettori dall’Espresso nel 2012, quando Roma faceva finta di non conoscere quel signore che se ne stava seduto in un distributore di benzina facendo piedino a un pezzo di politica di tutti i colori, con lo stesso sguardo immobile che tenne durante il processo Pecorelli al fianco di Andreotti, va dietro le sbarre. Va detta una cosa: in Italia erano in molti a volersi levare di torno Carminati, come è stato, ma a non voler scoperchiare il marcio che nasconde quel suo mondo di mezzo. Sembra che la giustizia vada avanti, però a piccoli passi. Stavolta le pene ci sono, ma c’è pure l’ennesimo rinvio della grande questione che tiene impalata l’Italia. Siamo in grado di capire che la mafia non porta più la coppola, non usa i pizzini né carica la lupara? Non è facile. Per questo dico senza paura che questa condanna non è il migliore regalo di Stato alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nell’anniversario delle stragi. E ci costringe a rileggere parole che risuonano come una oscura profezia, anche se stentano a prendere vita dentro un’aula di giustizia. La mafia non è un demone, è normalità. Non è sangue, è aria che respiriamo: «Una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza». Lo scrisse Sciascia, appunto, nel 1957. Quando quei giudici erano bambini o nemmeno erano nati. Lo scrisse in nome suo. Incurante di loro. Prima o poi lo riscriveranno anche i giudici in una sentenza. In nome del popolo italiano. Quello che può vincere contro gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraqua. «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sul giornale gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma». Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, 1961

Non era Mafia Capitale (e qualcuno osò dirlo). Dure condanne ma nessuna conferma del 416 bis. Già nel 2015 Panorama aveva sollevato dubbi sulla coerenza giuridica dell'associazione mafiosa, scrive Maurizio Tortorella il 20 luglio 2017 su Panorama. Fin dal gennaio 2015, quando ormai da un mese in tutte cronache giudiziarie aveva fatto la sua comparsa quel nome impegnativo e sinistro, “Mafia Capitale”, Panorama aveva mostrato qualche perplessità tecnica sulla coerenza giuridica della principale accusa rivolta contro una sequela d’indagati e arrestati nell’inchiesta romana su corruzione e appalti pubblici. Oggi il processo si è concluso in primo grado con dure condanne, ma senza che la decima corte penale del Tribunale confermasse l’accusa del 416 bis, per nessuno dei 19 imputati (su un totale di 46) che la Procura romana aveva individuato come facenti parte di un’organizzazione criminale di stampo mafioso.

Quindi non è mafioso il neofascista Massimo Carminati, che pure è stato condannato a 20 anni di reclusione, e non lo è nemmeno Salvatore Buzzi, l’ex ergastolano per omicidio, poi redentosi e divenuto alfiere di alcune cooperative sociali (rosse) che a Roma e circondario facevano affari d’oro con gli immigrati (19 anni di carcere). Tra i condannati, sebbene anch’egli assolto dall'imputazione di mafia, compare anche Luca Odevaine, già capo di segreteria del sindaco Walter Veltroni e poi divenuto responsabile del “tavolo per i migranti”: 6 anni e 6 mesi di reclusione. Adesso, come sempre in questi casi, dovremo aspettare le motivazioni della sentenza per capire dove e perché gli inquirenti hanno sbagliato, o esagerato prospettando una specie di "416 bis alla romana". Certo, oggi tornano alla mente le parole del difensore di uno dei condannati, il consigliere regionale del Pdl Luca Gramazio (11 anni); intervistato da Panorama nell’ottobre 2015, l’avvocato Giuseppe Valentino aveva negato tutte le accuse, ma sull’associazione mafiosa si era inalberato con forza particolare: “Che mafia è quella che non usa le pistole ma il denaro per persuadere e corrompere? Qui c’è tutt’al più un sottobosco romano, un autentico suk, dove pullulano chiacchieroni e millantatori”. È evidente che l'avvocato Valentino almeno su quel punto aveva ragione: di certo, Cosa nostra, la 'ndrangheta e la camorra napoletana, cioè le associazioni mafiose che tutti noi purtroppo conosciamo, usano mezzi intimidatori molto più violenti di quelli utilizzati dagli imputati di Mafia Capitale. Ma oggi, dopo l'assoluzione da quell'accusa, tornano alla mente anche i fischi con i quali alcuni giornali-bandiera del populismo giudiziario avevano accolto quanti (su Panorama, ma anche sul Foglio o sul settimanale Tempi) a suo tempo mostravano perplessità per l’ipotesi “mafia a Roma”. Contro chi aveva osato scrivere che “l’associazione criminale che gravitava attorno a Salvatore Buzzi e a Massimo Carminati non può essere neppure lontanamente paragonata alla mafia. Non ci sono le pistole, l’omertà, l’organizzazione verticistica, il vincolo associativo…”. Nessuna polemica. Leggeremo le motivazioni. Solo il tempo di ricordare che in un altro primo grado, il 3 novembre 2015, c’era stata una sentenza anticipata, pronunciata in uno stralcio di processo per un imputato minore della grande inchiesta Mafia Capitale: Emilio Gammuto, accusato dalla Procura di Roma di corruzione e di associazione mafiosa, era stato condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione per entrambi i reati. In quel caso, i giornali-bandiera di cui sopra avevano brindato alla condanna, sbeffeggiando i garantisti d'accatto che si ostinavano a non vedere quanta mafia ci fosse nell'inchiesta. Gammuto era stato processato in anticipo rispetto al gruppone dei suoi colleghi imputati perché aveva scelto la formula del procedimento abbreviato. E la sua condanna (arrivata quasi un anno dopo l’emersione dell’inchiesta) era parsa confermare in pieno l’impianto accusatorio. Invece, lo scorso gennaio, in Corte d’appello Gammuto era stato assolto dal 416 bis. Si vedrà per tutti in Cassazione. Si vedrà anche se domattina, su certi giornali-bandiera, la sentenza della decima sezione penale di Roma verrà "rispettata e non criticata": sarebbe una delle auree (ed eccessive) leggi del populismo giudiziario. Ma si sa come finiscono certe cose...

L'eroe della sesta giornata. Mafia capitale e quegli esponenti del Pd rimasti immobili di fronte a anni di malaffare, scrive Giorgio Mulè il 12 dicembre 2014 su Panorama. Non ho letto tutti i documenti giudiziari a sostegno dell’operazione Mafia capitale. Ne ho letti a sufficienza, però, per farmi un’idea piuttosto circostanziata della vicenda. Dirò subito che, avendo compulsato decine di ordinanze di custodia cautelare su Cosa nostra, mi lascia molto perplesso l’attribuzione del marchio di mafia ai soggetti arrestati o indagati. Ci sono alcune vicende che fanno a cazzotti con la pretesa di avere a che fare con un’organizzazione sovrapponibile a Cosa nostra o che si vorrebbe pericolosa tanto quanto gli efferati delinquenti siciliani: a Roma, secondo quanto contestato nei capi di imputazione, ci sono presunti boss che si agitano per recuperare due assegni scoperti da 300 e 600 euro, addirittura colui che si vorrebbe come braccio destro di Massimo Carminati mette su un putiferio per far saldare un debito da 670 euro. Ora, va bene che c’è la crisi e siamo disposti a credere che il quartier generale di Mafia capitale sia presso un benzinaio, però c’è anche un minimo di dignità criminale da salvaguardare se bisogna dar retta alle stime che indicano in oltre 10 miliardi il fatturato di Mafia spa: insomma, Leoluca Bagarella (braccio destro di Totò Riina) non rischiava di finire in galera e sputtanare la "famiglia" per 670 euro, suvvia. L’avrebbero ucciso i suoi stessi compari per questa leggerezza. Transeat, i tempi cambiano e magari sono io a dovermi aggiornare. C’è però un punto del ragionamento degli inquirenti che mi appare così debole da non poter credere che abbia avuto l’avallo di una toga espertissima come il procuratore Giuseppe Pignatone. I magistrati sostengono infatti che Mafia capitale sia una sorta di gemmazione della Banda della Magliana, la stessa finita al cinema e in televisione con la superba trasposizione di Romanzo criminale. Ma stabilire in un atto giudiziario alla base di decine di arresti un nesso diretto tra lo share e la realtà significa conferire alla fiction carattere di verità oggettiva, il che a mio giudizio è una follia oltre che un pericolosissimo vulnus in sede di valutazione degli indizi da parte dei giudici. Eccoci a pagina 33 dell’ordinanza di custodia cautelare: "Il collegamento con la Banda della Magliana è, infatti, solo uno degli elementi su cui si fonda la forza di intimidazione della organizzazione che ci occupa (Mafia capitale, ndr), che si avvale di quella derivazione come strumento di rafforzamento della caratura e della immagine criminale dei suoi associati, sfruttando anche il 'successo mediatico' di quella organizzazione, successo che ne ha indubitabilmente sancito, almeno nell’immaginario collettivo (che però è ciò che conta in questo tipo di delitti), il carattere di mafiosità". Dopo aver letto questo ragionamento, per assurdo, un pubblico ministero particolarmente su di giri potrebbe perfino formulare un’ipotesi di reato di concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti di sceneggiatori, registi e attori di Romanzo criminale che con la loro opera avrebbero dato un contributo occasionale a questa Cosa nostra all’amatriciana. Sopportata questa dissertazione giuridica, è il caso di fare altre considerazioni intorno alla vicenda. I reati contestati, i soggetti coinvolti e le dimissioni a catena seguite all’esplosione degli arresti all’interno della giunta di Roma imporrebbero un atto unilaterale di dignità politica da parte del sindaco Ignazio Marino: le dimissioni. Perché è questa l’unica strada percorribile rispetto all’ipotesi accusatoria (difficile da smontare in quanto a ruberie e deviazioni finanziarie) secondo la quale Carminati & c. facevano il bello e il cattivo tempo all’interno del Comune di Roma contando perfino sull’asservimento del funzionario che il sindaco aveva voluto come cerniera con il commissario Anticorruzione. Intendiamoci, sarebbe possibile anche uno scioglimento d’autorità da parte del ministero dell’Interno. A scorrere i decreti che dal Piemonte alla Sicilia hanno portato in un recentissimo passato a spazzare via giunte e consigli comunali senza tenere minimamente conto della presunzione di innocenza, non si comprende in verità come e perché Roma dovrebbe godere di un regime specialissimo di valutazione degli indizi. In realtà lo sappiamo perfettamente ed è questione squisitamente politica. Di opportunismo politico, meglio. Come potrebbe mai il Pd di Matteo Renzi accettare questo schiaffo planetario? Siamo alle comiche, ne converrete: c’è un sindaco che fino al momento della grande retata era bollato (giustamente) come inadeguato dai massimi dirigenti del suo partito, il Partito democratico, al punto da essere stato commissariato su due piedi. Scoppiata la bufera, pur di tenerlo in vita e non andare a elezioni, lo stesso Pd ha la faccia tosta di commissariare il commissario con un nuovo commissario. Inarrivabili. D’altronde ci tocca vivere il tempo degli eroi della sesta giornata, quello in cui – ricordate le Cinque giornate di Milano? – gli opportunisti mostrano il petto accaparrandosi meriti che non hanno. Come Marino, appunto. E come Renzi, il quale, pur di non prendere atto del fallimento di un partito che non ha saputo rifondare dal Veneto alla Sicilia, butta la palla altrove. Sarà allora arrivato il momento, dopo aver letto le malefatte contestate a Roma al cooperatore Salvatore Buzzi così coccolato dall’ex capo della Lega delle cooperative e attuale ministro del Lavoro Giuliano Poletti, di accendere un faro in tutta Italia sul business della misericordia sociale. E cioè su questo enorme calderone in cui – nel nome di un fine nobile come l’accoglienza degli immigrati, l’assistenza dei nomadi o il reinserimento dei detenuti – le coop la fanno da padroni. Si verifichino le convenzioni, le procedure di appalto, i contributi elargiti alle feste di partito e a manifestazioni di "impegno sociale". Il Pd si è dimostrato incapace di fare pulizia al suo interno nonostante sei mesi fa Renzi avesse invitato i suoi a denunciare il malaffare, a "salire i gradini dei palazzi di giustizia". La verità e che in quei palazzi molti esponenti del Pd i gradini li salgono, ma solo dopo che il malaffare è stato scoperto. E spesso per rispondere ad accuse gravissime. Infamanti, direi. Non solo per un partito, ma per una intera classe politica. 

Mafia Capitale non esiste: e questa è la condanna senza appello per la politica romana. E così scopriamo che la politica romana è stata messa sotto scacco non dalla versione romana del Padrino, ma da una banale associazione di trafficoni. Serviva la procura per fermarli? O bastavano occhi aperti e un po’ di coraggio? Ci fossero stati, forse Roma non sarebbe nello stato in cui è ora, scrive Flavia Perina il 21 Luglio 2017 su "L'Inkiesta". Approfitta dei tassi più bassi dell'estate. Tuffati nell'offerta speciale che celebra i 40 anni di Mercedes-Benz Financial: TAN fisso di 0,90% o 1,90%, TAEG variabile a seconda del modello e un anno di RC Auto incluso.... Adesso lo sappiamo per sentenza: era Febbre da Cavallo, non il Padrino. E così, il verdetto di primo grado al processo di Mafia Capitale (che d'ora in poi converrà chiamare Non-Mafia Capitale) ha tra i suoi primi effetti collaterali la necessità di riconsiderare il rapporto tra la città di Roma, i principali partiti cittadini e le bande affaristiche che si muovevano (si muovono?) negli uffici capitolini. Qualificare queste bande come “mafia” ha salvato, in qualche modo, tutti quelli che a vario titolo si sono distratti davanti ai traffici di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. La mafia è cattivissima, la mafia uccide, contro la mafia fior fiore di classi dirigenti si sono squagliate perché nessuno è tenuto ad essere eroe: naturale che alti dirigenti, signori delle tessere, persino sindaci, a Roma come in passato a Palermo, si siano girati dall'altra parte e abbiano fatto finta di non vedere per non trovarsi – chissà – un Luca Brasi alla porta. Ma se non era mafia, se erano solo Mandrake, Er Pomata e Manzotin, il discorso cambia. Ed è molto più difficile spiegare perché ci siano voluti i magistrati per levare di mezzo questa ordinaria, banale associazione di trafficoni, provocando il terremoto che sappiamo. Non erano così spaventosi e minacciosi, quelli di Non-Mafia Capitale. E nemmeno così ricchi da potersi permettere le famose offerte “che non si possono rifiutare”. Mettendo insieme gli appalti del consorzio di Cooperative della “29 Giugno” (98 milioni in dieci anni, tra il 2003 e il 2013) con i bonifici effettuati e le intercettazioni si è arrivati a un valore di corruzione pari più o meno a 500 mila euro. Per un solo filone degli scandali milanesi di Expo, l'imprenditore vicentino Enrico Maltauro ha denunciato la richiesta di un milione e duecentomila euro di mazzette (poi ne versò 600mila). Per il Mose veneziano, secondo l'accusa, alcuni dirigenti del Consorzio Nuova Venezia, assegnatario esclusivo dell'appalto da 5,5 miliardi, avrebbero pagato in tangenti la colossale cifra di 22 milioni di euro. Insomma, Mandrake, Er Pomata e Manzotin, all'approdo del processo di primo grado, non solo risultano poco temibili ma anche piuttosto modesti nelle loro possibilità corruttive. Mettendo insieme gli appalti del consorzio di Cooperative della “29 Giugno” con i bonifici effettuati e le intercettazioni si è arrivati a un valore di corruzione pari più o meno a 500 mila euro. Per il Mose veneziano, secondo l'accusa, alcuni dirigenti del Consorzio Nuova Venezia, assegnatario esclusivo dell'appalto da 5,5 miliardi, avrebbero pagato in tangenti la colossale cifra di 22 milioni di euro. Ora che il tribunale ci ha restituito nelle giuste proporzioni il ritratto delle bande affaristiche del Comune di Roma, due sono le considerazioni. La prima riguarda la Procura romana che ha perseguito fino in fondo la “pista mafiosa”, e la scansiamo: ne parleranno altri, più esperti in questioni giudiziarie. La secondachiama in causa il sistema politico capitolino, tutto, la destra, la sinistra e pure il M5S, perchè le redini di questa città negli anni d'oro della coppia Buzzi&Carminati le hanno tenute tutti, da posizioni di governo o di opposizione, e col senno di poi è naturale chiedere: ma davvero vi siete fatti mettere nel sacco da questi? Davvero serviva la Procura per fermarne, o quantomeno denunciarne, i modesti traffici? Siete scemi o cosa? La città ha pagato un prezzo altissimo per lo scandalo e tutto ciò che ne è seguito. Il commissariamento del Pd, la fuga di molti suoi militanti disgustati, e dall'altra parte lo sputtanamento della destra con un analogo distacco di chi ci aveva creduto, il suo declino elettorale, l'eclissi politica di uno come Gianni Alemanno, che pure in città contava qualcosa. E poi, i nove mesi di calvario di Ignazio Marino, i cui uffici furono devastati dall'indagine e dagli arresti. L'imbarbarimento del confronto politico in città, la revoca della fiducia al sindaco da parte della sua maggioranza, il caos che ne è seguito con la parallela e inarrestabile ascesa del Movimento Cinque Stelle, che ha potuto proporsi come unica forza di moralizzazione in una Capitale che a un certo punto sembrava la Palermo di Ciancimino, o la Miami di Scarface. Non era vero. Era la solita Roma di sempre. La Roma dei «politici pezzenti», come Vittorio Sbardella chiamava i sottopanza che si sporcavano direttamente le mani con gli affari. La Roma del «Fra' che te serve», nella geniale sintesi di Franco Evangelisti, che pre-esiste a qualsiasi formula di governo cittadino e che è stata il sottotesto inespresso di ogni amministrazione. La solita Roma nella sua versione più basic, più elementare, la «mafia del benzinaro» come ha detto Massimo Carminati in aula, con il modesto potere di scambio di qualche spiccio per la campagna elettorale, di qualche centinaia di tessere comprate per vincere un congresso. Che la destra e la sinistra capitoline non siano riusciti a fermare neanche questi modesti delinquenti, a liberarsene, a tenerli nella regola in qualche modo, fa cadere le braccia. Per molti versi, sarebbe stato più consolatorio immaginarle distrutte da Don Vito Corleone piuttosto che da Er Pomata.

«Sì, li condanniamo, però non era mafia», scrive Simona Musco il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio".  L’ex sindaco Marino attacca: “Senza Mafia capitale e l’inchiesta sugli scontrini io sarei ancora in Campidoglio”. Ma Orfini: “Lo dico da romano innamorato della mia città: a Roma la mafia c’è. Ed è forte e radicata”.

IL PROCESSO. Non c’era mafia a Roma, ma solo due associazioni a delinquere che si sono presi la città con corruzione e malaffare. Il processo “Mafia Capitale” dunque regge a metà: 41 le condanne e cinque le assoluzioni, ma con l’esclusione del metodo mafioso, quello che ha dato il nome all’intero processo. Il calcolo finale delle pene dimezza così il complessivo chiesto in aula dai magistrati. Quelle più alte sono andate ai due protagonisti dell’inchiesta: Massimo Carminati, l’ex Nar, condannato a 20 anni, contro i 28 chiesti dall’accusa, e Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative, condannato a 19 anni a fronte dei 26 richiesti. L’ex vicepresidente della sua cooperativa, la “29 giugno”, Carlo Guaray, per il quale avevano chiesto 19 anni, è stato condannato a cinque. Il X collegio penale presieduto da Rossana Ianniello ha iniziato a leggere la sentenza alle 13, dentro un’aula bunker stracolma di giornalisti, dopo una camera di consiglio durata 4 ore. In aula anche i parenti degli imputati, assiepati dietro la ringhiera. Il grande assente, poi definito dai legali lo «sconfitto», è stato il procuratore capo Giuseppe Pignatone. A presidiare l’aula c’erano i tre pm che hanno condotto le 240 udienze, Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini. Dieci minuti prima della lettura della sentenza è toccato agli imputati fare l’ingresso in aula, sistemati nei gabbiotti numerati dall’ 1 al 4. Alcuni sono rimasti seduti, altri appesi alle sbarre con lo sguardo fisso sull’altare di legno dal quale poco dopo sono spuntati i giudici. Non è un mafioso, dunque, Massimo Carminati, ma un «delinquente abituale». Per lui, a pena espiata, il tribunale ha stabilito l’affidamento ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro per almeno due anni. Nel frattempo gli sono stati confiscati i beni: dai gemelli d’oro custoditi in casa, alle opere d’arte, ma soprattutto le armi, una katana, due machete e un’accetta. Le condanne sono arrivate anche per i politici coinvolti: sei anni – due in più rispetto alla richiesta – per Mirko Coratti (Pd), ex presidente del consiglio comunale di Roma ed esponente; 11 anni per Luca Gramazio, ex consigliere regionale Pdl; 10 anni a Franco Panzironi, ex ad dell’Ama, otto per Luca Odevaine, ex componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale; cinque ad Andrea Tassone (Pd), ex presidente del municipio di Ostia. Assolti, invece, Giovanni Fiscon, ex sindaco di Castelnuovo di Porto, Fabio Stefoni, Giuseppe Mogliani, Salvatore Ruggiero e Rocco Rotolo. «La mafia a Roma non esiste», ha sentenziato il legale di Carminati, Bruno Giosuè Naso. «C’è stata una severità assurda: non si è mai visto che su 46 imputati nemmeno uno meriti le circostanze attenuanti generiche. Sono quindi delle pene date per compensare lo schiaffo morale che è stato rivolto alla Procura – ha affermato – Non so se questo processo ha dei vincitori, ma certamente ha uno sconfitto: Pignatone. Su questo non ci sono dubbi». E la sconfitta, in parte, l’ha ammessa anche l’aggiunto Ielo. «È una sentenza che in parte ci dà torto, per quanto riguarda la qualificazione giuridica, ed in parte riconosce la bontà del nostro lavoro – ha detto – La sentenza riconosce l’esistenza di un’associazione a delinquere semplice ed aggravata. È stato un fenomeno di criminalità organizzata ma non di tipo mafioso. Sono state riconosciute due distinte organizzazioni criminali che non avevano però il carattere della mafiosità. Ma la dinamica della delusione non appartiene a chi fa il mio mestiere». L’ex Nar ha seguito tutto da lontano, in videoconferenza. «Era convinto che sarebbe andata male. Temeva che tutte le pressioni mediatiche avrebbero portato a un responso negativo per lui. Mi ha anche detto che adesso lo devo togliere dal 41 bis, questo è il suo primo pensiero e la sua prima preoccupazione», ha spiegato l’avvocato Ippolita Naso al termine del colloquio telefonico con Carminati. Più soddisfatto, invece, Buzzi. «Ora quando esco? questo il suo primo commento Mi auguro che alla luce di questa decisione la mia permanenza in carcere stia per finire». La sentenza ha certificato l’esistenza di un grande sistema corruttivo ma nulla a che vedere con la pesantezza delle accuse mosse dalla Procura. Una «mafia costruita» secondo Alessandro Diddi, legale di Buzzi. «Credo che oggi Buzzi sia stato creduto perchè altrimenti certe condanne che si basano esclusivamente sulle sue dichiarazioni il Tribunale non le avrebbe potute fare. Per questo motivo credo che la Procura debba rifare da capo il processo al “mondo di mezzo”. Abbiamo dato una grande lezione alla Procura che ha investito tutto sul 416 bis impedendo di accertare le corruzioni in questa città».

LE REAZIONI.

MARINO – “Senza Mafia capitale e l’inchiesta sugli scontrini io sarei ancora in Campidoglio”. Lo dice l’ex primo cittadino di Roma, Ignazio Marino in un’intervista alla Stampa. “Contro di me – spiega – ci fu una convergenza opaca di interessi. Non so se qualcuno abbia voluto o tentato di condizionare la magistratura. Ma so che i giudici non sono condizionabili”. Marino quindi si lascia andare a un giudizio ultimativo sul Pd: “Soffro per l’agonia a cui è sottoposto il partito che ho contribuito a fondare. Oggi mi sembra difficile dire che il Pd renziano esista ancora”.

ORFINI – “Possiamo reagire in tanti modi alla sentenza di ieri, tutti ovviamente comprensibili e legittimi. Ma il più sbagliato è quello forse più diffuso in queste ore: sostenere che si dovrebbe chiedere scusa a Roma perchè Roma non è una città mafiosa. Lo dico da romano innamorato della mia città: a Roma la mafia c’è. Ed è forte e radicata”. A scriverlo in un articolo pubblicato sul sito della rivista Left Wing è Matteo Orfini, presidente del Pd. “Basta fare una passeggiata in centro e contare i ristoranti sequestrati perchè controllati dalla mafia. Basta passeggiare nei tanti quartieri in cui le piazze di spaccio sono gestite professionalmente, con tanto di vedette sui tetti e controllo militare del territorio. Basta spingersi a Ostia e seguire le attività degli Spada, o andare dall’altra parte della città dove regnano i Casamonica. Basta leggere le cronache per trovare la mafia ovunque”, aggiunge. “Ma quella di Carminati non è mafia, dice il processo. Vedremo cosa stabiliranno i prossimi gradi di giudizio, ma come scrissi mesi fa, cambia davvero poco. A Roma la mafia c’è e ha dilagato usando la corruzione come grimaldello. Oggi Roma è gestita da più clan che hanno evidentemente trovato un equilibrio tra di loro e si sono spartiti la città. A chi ha iniziato a sgominare questo sistema bisogna solo dire grazie, soprattutto se si pensa che in passato la procura di Roma era nota come il “porto delle nebbie”. Farebbe piacere anche a me – continua Orfini – poter dire che la mafia a Roma non c’è. Ma sarebbe una bugia. Io sono orgoglioso di essere romano. Ed è proprio l’orgoglio che mi fa dire che – di fronte a quello che oggi è diventata Roma – bisogna reagire e combattere, non affidarsi a tesi di comodo. Roma non è stata umiliata da chi indaga. Roma è stata umiliata da chi l’ha soggiogata. E da chi non ha saputo impedirlo. Invertire l’ordine delle responsabilità significa continuare a tenere gli occhi chiusi”, conclude.

RAGGI – “Quello che la sentenza ha comunque accertato è che c’è stato un pesantissimo e intricatissimo sistema che per anni ha tenuto sotto scacco la politica. Questo significa che quando parlo di bandi, di seguire le procedure di legge, vuol dire andare verso un nuovo corso, quello che i cittadini ci hanno chiesto. Io non vedo altra strada se non quella di continuare in questa direzione”. Così la sindaca di Roma Virginia Raggi interpellata a margine di una conferenza stampa torna a commentare la sentenza di ieri sul processo “Mafia Capitale” che pur infliggendo pesantissime condanne per corruzione ha escluso l’associazione mafiosa, mantenendo l’associazione semplice.

Roberto Saviano, dito medio a chi lo insulta, scrive il 22 Luglio 2017 “Libero Quotidiano”. Dito medio agli insulti e un consiglio: "Se vi infastidiscono le mie parole state alla larga da questa pagina. Non sarà insultando che mi ridurrete al silenzio". Così Roberto Saviano in un post su Facebook risponde a chi lo attacca e a chi vuole metterlo a tacere. "Se parlo di Napoli, meglio che stia zitto. Se parlo di infiltrazioni mafiose al Nord, meglio che parli di Napoli. Se parlo di riciclaggio a Londra, meglio che parli di Italia. Se parlo di una parte politica, ma non parli mai degli altri? Più mi invitate al silenzio, più capisco di colpire nel segno, di centrare il bersaglio". E poi c'è chi è convinto che io non capisca ciò che accade perché non vivo più a Napoli, perché non vivo più in Italia. Vivrei, invece, come dice un senatore di Ala, in un attico a Manhattan. Triste constatazione: alla politica si dà ormai credito solo quando diffonde bufale".  "Ed ecco quindi un messaggio chiaro e inequivocabile per chi mi insulta - prosegue lo scrittore - mi dispiace, perdete il vostro tempo. Continuerò a studiare, ad analizzare, a mettere insieme tasselli e a farne un racconto comprensibile (soprattutto) per i non addetti ai lavori. Perché è questo il mio obiettivo: condividere ciò che imparo".

Saviano critica se le sentenze non sono le sue, scrive Annalisa Chirico il 22 luglio 2017 su "Il Foglio". Sgombriamo il campo dagli equivoci: il tribunale non dice che Roma è la culla della legalità, che Carminati e Buzzi sono due stinchi di santo; né le toghe ritengono che le soavi minacce al telefono fossero una candid camera per burlarsi dei poliziotti all' ascolto, che mattacchioni. La verità è che le decisioni dei giudici paiono incontestabili quando coincidono con le proprie opinioni e attese, possono essere invece aspramente criticate quando contrastano con il nostro dover essere della giustizia. Se ne faccia una ragione Roberto Saviano il quale replica alla sentenza che ha condannato gli imputati di Mazzetta capitale (Mafia, non scherziamo) annullando l'imputazione dell'associazione mafiosa. Eppure la speculazione a uso e consumo dei mafiologi nostrani prosegue, del resto sulla mitologia mafiosa si costruiscono lucrose carriere. Saviano paragona la Roma, covo di cravattari e corruttori, alla Palermo delle stragi mafiose che trucidarono Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e numerosi altri uomini dello Stato. Ma se tutto è mafia, nulla è mafia. «A Roma la mafia non esiste. Anche a Palermo non esisteva», cinguetta su Twitter lo scrittore napoletano. Come se non bastasse, l'autore di Gomorra, che vive sotto scorta, si spinge fino ad auspicare una modifica della stessa fattispecie criminosa: «È ora di rivedere un reato applicabile solo a gruppi capeggiati da meridionali». Ecco il Saviano legislatore che dà consigli al Parlamento per adattare la legge dello Stato alle sue personali convinzioni, e nel far ciò, senza sprezzo per il ridicolo, egli finge di non sapere, o forse non sa. C' è da sperare che il Saviano pensiero non contempli la retroattività della legge penale, ma soprattutto vorremmo sapere se nei suoi auspici il progetto rivoluzionario comporterebbe pure l'introduzione di una nuova fattispecie: la mafia etnica senza mafiosità. Ponendo la questione in termini di appartenenza geografica, come se i giudici smentissero l'aggravante mafiosa per una pura circostanza di accento siculo o calabrese mancante, Saviano auspica che i nuovi confini del metodo mafioso siano definiti su base linguistica. Sono mafiosi pure i romani doc, brianzoli e venessiani chi lo avrebbe mai detto. Nessuno nega che la ndrangheta si sia radicata saldamente a Roma come a Milano, ma la sconfitta della procura capitolina nasce dalla ostinata volontà, questa sì fallace, di dimostrare l'esistenza di una Cupola all' ombra del Cupolone, retta da er Cecato, vertice di un sistema fondato non su sangue e violenza, intimidazione e sacralità associativa, ma sulla elargizione di mazzette.

Corrotti e mafiosi. Il ladrone di Roma era il Pd, ma i pm chiusero mezzo occhio, scrive Franco Bechis il 21 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". Con la sentenza della decima sezione penale del tribunale di Roma guidata dal giudice Rossana Iannello non solo è stata cancellata nei confronti di molti imputati- a cominciare da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi l’accusa di associazione mafiosa, sconfiggendo la tesi principale della procura guidata da Giuseppe Pignatone (che titolò l’inchiesta “Mafia Capitale”). Ma i pm hanno avuto dalla corte anche un’altra correzione sostanziale: avevano chiuso un pizzico di occhio sul Pd, cercando di andare con la mano leggera sul partito guidato da Matteo Renzi. Nella sua impostazione, e nell’eco mediatico avuto fin dal primo giorno la responsabilità politica di Mafia capitale era stata addossata più al centro destra che al centro sinistra. E infatti la procura aveva chiesto 46 anni e 6 mesi di pena nei confronti di politici del Pdl e 20 anni di pena nei confronti di politici del Pd. La sentenza ribalta i rapporti: a tutti gli imputati del Pd sono state aumentate le pene rispetto alle richieste, e alla fine le condanne sono state a 28 anni invece dei 20 proposti. Nello specifico Mirko Coratti, presidente consiglio comunale di Roma è stato condannato a 6 anni quando i pm ne chiedevano 4 anni e 6 mesi, (differenza + 1 anno e 6 mesi). Pier Paolo Pedetti, consigliere comunale Roma è stato condannato a 7 anni quasi raddoppiando la richiesta dei Pm che chiedevano 4 anni, (differenza + 3 anni). Andrea Tassone, presidente municipio di Ostia è stato condannato a 5 anni contro i 4 chiesti dal Pm (+1 anno). Sergio Menichelli, sindaco di Sant’Oreste di Roma è stato condannato a 5 anni invece dei 4 chiesti dalla procura (+1 anno). Michele Nacamulli, consigliere municipio Ostia è stato condannato a 5 anni invece dei 3 anni e 6 mesi chiesti dal pm (+ 1 anno e 6 mesi). Nei confronti degli imputati del Pdl (il centrodestra dell’epoca) invece sono stati comminati 24 anni di carcere invece dei 46 anni e 6 mesi che erano stati richiesti dalla procura. Uno di quegli imputati, l’ex sindaco di Castelnuovo di Porto, Fabio Stefoni, per cui erano stati chiesti 4 anni di carcere, è stato assolto. E il finale racconta una storia un po’ diversa: con 28 anni di condanna ad esponenti del Pd e 24 ad esponenti del Pdl, la storia della corruzione a Roma si tinge molto di più di Nazareno. Anche se non si tratta di Mafia capitale, ma di grande scasso della capitale, l’inchiesta di Roma resta clamorosa. E le decisioni della corte sono certo pesanti. Dei 46 imputati 41 sono stati condannati. Solo in due casi però è stata accolta la richiesta della procura, mentre in 30 casi la pena comminata è inferiore a quella proposta e in 14 cosi invece è stata aumentata rispetto alle richieste. Complessivamente sono stati inflitti 288 anni e 8 mesi di carcere, oltre alle pene accessorie. Ma le richieste dei pm erano molto più alte: 519 anni e 5 mesi, e lo sconto di pena effettuato dalla corte non è irrilevante: 230 anni e 9 mesi, pari al 44,5% di quanto era stato richiesto.

Mafia Capitale, lite tra Abbate e avvocato di Carminati. Mentana: “È adrenalina da sentenza”, scrive il 21 luglio 2017 "Trendinitalia". Polemica al calor bianco a Bersaglio Mobile (La7) tra Lirio Abbate, giornalista dell’Espresso, e Ippolita Naso, avvocato difensore di Massimo Carminati. La legale accusa Abbate di essere “ossessionato” dall’ex Nar. Il giornalista sorvola e racconta il colpo messo a segno da Carminati nel 1999 al caveau della Banca di Roma all’interno del Palazzo di Giustizia, con la complicità di quattro carabinieri corrotti. Ma Naso lo interrompe: “Non è così, sono stati i carabinieri ad aver organizzato il furto e hanno chiesto aiuto a Carminati, perché non erano in grado di farlo da soli. Quindi, si sono rivolti ai “cassettari” romani. Sta dando dati errati. Lo vede che non si legge le carte processuali?”. “Ma non è così! Questo lo racconti ai ragazzini! Lei rilegga bene le sentenze e tutte le carte”, ribatte Abbate. E a intervenire è Enrico Mentana, che, scettico, chiede all’avvocato: “Ma questi carabinieri come hanno trovato Carminati? Sulle Pagine Gialle?”. Abbate spiega che il furto fu organizzato su commissione perché richiesto da alcuni avvocati per ricattare dei magistrati romani. Ma l’avvocato di Carminati ribadisce: “Lei sta calunniando dei magistrati romani”. “E’ tutto scritto nelle carte” – replica il giornalista – “Se dico una falsità, lei ha tutti gli strumenti penali per ricorrere nei miei confronti”. “No, non ne ho bisogno”, risponde Naso. Abbate poi si sofferma sul teste Roberto Grilli, che, per paura di Carminati, ritrattò durante il dibattimento la propria testimonianza resa nella fase preliminare. “Quello che dice mi conferma che non legge le sentenze di cui poi parla”, commenta, piccata, Ippolita Naso. “Invece le sue parole mi confermano che, quando il suo cliente minaccia di spaccarmi la faccia, lei non ha mosso un dito”, controbatte Abbate, che fa riferimento alle note telefonate intercorse tra Carminati e al suo braccio destro, Riccardo Brugia. In quell’occasione, l’ex terrorista dei Nar, infastidito da un articolo pubblicato nel 2012 da Abbate, si sfogò: “Non so chi è sto Lirio Abbate, infame pezzo di merda. Se lo trovo gli fratturo la faccia”. Naso insorge e accusa il giornalista di essersi procurato le intercettazioni delle conversazioni tra lei e Carminati: “Le conversazioni tra me e il mio cliente lei non le avrebbe dovute neanche leggere, le ha lette perché forse qualche suo amico carabiniere gliele ha date. Lei ha fatto un autogol clamoroso”. E ripete più volte: “Si vergogni”. Abbate ribatte: “Veramente le telefonate tra lei e il suo cliente sono rimaste coperte dal segreto. E’ lei che è caduta nella trappola. Lei sa benissimo che non sono come voi che “ho qualcuno”. Si vergogni lei”. A sedare la bagarre è Mentana che osserva: “Io capisco che c’è l’adrenalina da sentenza, ma Lirio Abbate non ha certamente ascoltato le telefonate tra lei e il suo cliente”.

I lapsus del giornalismo embedded, scrive Valerio Spigarelli il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". Certe volte, nella cronaca giudiziaria, la fantasia supera la realtà, nel senso etimologico del termine. Quel che è avvenuto oggi, prima durante e dopo la lettura della sentenza che ha stabilito, per ora, che Mafia Capitale è un esperimento giudiziario andato male, nella migliore delle ipotesi – o un bluff sostenuto proprio da una stampa che ha da tempo rinunciato al suo ruolo, nella peggiore – lo dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio. Vediamo i fatti. Attorno alle 9,30, il collegio del Tribunale di Roma si ritira in camera di consiglio indicando per le ore 13 il momento in cui leggerà il dispositivo della sentenza. Per i giudici non c’è mafia per Rai e Ansa invece sì. L’aula è gremita di avvocati, familiari e rappresentanti della stampa. Decine di giornalisti e operatori video, cespugli di telecamere montate sui treppiedi, che pare di stare in un film hollywodiano degli anni Cinquanta. Clima delle grandi occasioni giornalistiche, insomma. Il pienone di giornalisti, a dirla tutta, è una novità, visto che non se ne vedevano così tanti dai tempi del debutto del processo. Nel corso delle 250 udienze la presenza dei cronisti s’era fatta sempre più rada; spesso i giornalisti era assenti del tutto, soprattutto quando a parlare era la difesa. Talmente assenti che alcune cronache comparse sui giornali non avevano raccontato quel che realmente era avvenuto nel corso dell’una o dell’altra udienza, ma avevano liberamente ripreso gli avvenimenti dagli atti di qualche anno prima contenuti nelle informative di polizia giudiziaria. Insomma, visto che non avevano tempo di venire, i giornalisti ascoltavano il processo su radio radicale, il più delle volte, e qualche volta neanche quello: invece di udire quello che aveva detto il teste convocato per una certa udienza, andavano a sfogliare le informative e riportavano quello che la stessa persona aveva raccontato nel chiuso di un ufficio di polizia qualche anno prima. In ogni caso ieri no, tutti presenti, attenti ed informati. Talmente informati che neppure un’oretta dopo il ritiro in camera di consiglio dei giudici, alle 10,15 l’ANSA, cioè la più grande e prestigiosa agenzia giornalistica italiana, lancia un breve takesubito ripreso da molte testate dal titolo shock “MAFIA ROMA: CARMINATI CONDANNATO A 28 ANNI”. Il testo specificava “Massimo Carminati è stato condannato a 28 anni al termine del processo a Mafia Capitale. La decima corte del Tribunale di Roma ha accolto le richieste della Procura riconoscendo l’ex Nar come capo dell’associazione mafiosa che avrebbe condizionato la politica romana”. La notizia, ovviamente, cade come una bomba tra gli avvocati presenti. È una balla, evidentemente, visto che i giudici non sono ancora usciti, ma, si sa, gli avvocati sono sospettosi e malfidati, e dunque si scatena immediatamente una ridda di ipotesi e commenti: “avranno avuto la notizia dell’esito e gli è sfuggita” “certamente hanno parlato con qualcuno” “forse hanno visto una bozza del dispositivo” “chi sarà la talpa?”. I più allenati a verificare la fisiognomica giudiziaria – cioè quella scienza inesatta molto in voga nei tribunali che pretende di preconizzare l’esito delle cause a seconda delle espressioni dei giudici, dei pm o del personale amministrativo (e che di solito non ci azzecca mai) – subito pretendono di trarre conferme della verità della notizia dal fatto che uno dei tre pm, non precisamente un giovialone, fin dalla prima mattina dispensa sorrisi a destra e a manca. Anche la circostanza – di suo comunque non troppo elegante – che al seguito dei procuratori si è presentato il ROS che aveva seguito le indagini praticamente al completo, capo, sottocapo e militi in polpa e delegazione, viene subito collegata alla bufala per accreditarla: “se stanno qui è perché sanno qualcosa; ‘sto giornalista dice la verità!” è la conclusione dei più smart tra i commentatori. Neppure quando, una manciata di minuti dopo, la stessa agenzia ANSA dichiara che si è trattato di uno spiacevole incidente pregando di “annullare la notizia” in quanto “andata in rete per errore”, i commenti preoccupati si acquietano: “figurarsi, erano obbligati a farlo! E poi una smentita è una notizia data due volte”. I più addentro ai misteri della stampa nazionale dopo un po’ ricostruiscono l’accaduto millantando le più diverse fonti, dall’amico giornalista vaticano alla fidanzata occulta di un capo redattore. Secondo questa versione è semplicemente accaduto che un cronista un po’ sbadato ha inserito in rete una bozza, una sorta di coccodrillo giudiziario tanto per usare termini da redazione, che aveva predisposto per portarsi un po’ avanti col lavoro. Tutto qui. Spiacevole incidente, appunto. “Spiacevole, sì” – pensa qualcuno dei più scaramantici, come il sottoscritto – anche il fatto che il coccodrillo sia quello: chissà se ne hanno fatto uno che dice LA PROCURA DI ROMA SMENTITA etc etc”. Di commento in commento si arrivava alle 13. La tensione sale quando entra il Tribunale, la gloriosa stampa nazionale è tutta coi cellulari in mano che registrata l’evento. Anche su Radio Rai Uno sono sul pezzo, vanno in diretta interrompendo il notiziario delle 13: “Carminati condannato a 20 anni, Buzzi a 19, riconosciuta l’associazione di tipo mafioso che era la questione centrale del processo, il perno attorno al quale ruotava l’inchiesta” dice il giornalista. È la seconda balla della giornata, ancora più clamorosa della prima, visto che il cronista non sta al desk di una redazione dislocata chissà dove, ma proprio nell’aula bunker di Rebibbia, tanto che si scusa perché deve parlare a bassa voce. Sta lì, sicuramente col cellulare in mano, ma col cervello sintonizzato chissà dove, visto che non capisce quel che succede. Anche qui, a stretto giro ed in diretta, segue canonica smentita: un po’ come a tutto il calcio minuto per minuto, il reporter si ricollega e dice “scusa (Bortoluzzi?) devo precisare che è in realtà caduta l’accusa di associazione mafiosa. La notizia non è vera, il cronista s’è sbagliato”!. E due. Ora, perché racconto quella che può sembrare solo la cronaca impietosa di un paio di topiche giornalistiche? Perché non sono topiche, sono lapsus freudiani che dicono tutto sulla gloriosa stampa nazionale, embedded sul carro delle Procure da troppo tempo, e oggi ancor più comodamente assisa sulle alfette delle agenzie investigative. Una stampa che sbaglia perché non gli sembra vero, proprio no, che possa sbagliare una Procura, o il ROS, e dunque scrive coccodrilli forcaioli, quando non copia veline giudiziarie o intercettazioni illegittimamente diffuse, oppure fraintende una cosa semplice come un dispositivo di una sentenza proprio perché ha smesso di abbaiare al potere giudiziario, come dovrebbe fare un vero cane da guardia del potere, ma azzanna solo chi finisce dentro gli ingranaggi giudiziari. Poi magari si scusa, “spiacevole incidente”, “scusa Ameri mi dicono che non è gol”. Eppure oggi la notizia, quella su cui dovevano fare attenzione, era una sola: se c’era o non c’era la Mafia a Roma, ci voleva poco. Naturalmente anche il resto dell’universo giornalistico inizia a parlare e commentare, e non sono pochi quelli che, al succo, dicono: “la mafia non c’è ma le condanne, e pure toste, invece sì: dunque che cambia? La Procura ha vinto lo stesso”. E magari sono quelli che da qualche anno in qua l’hanno menata su e giù per le colonne dei giornali proprio sul fatto che di epocale, in questo processo, c’era la Mafia, Capitale per di più, non certo la corruzione che è vecchia come il mondo. Quella era la notizia “vera” ma a molti, troppi, giornalisti italiani non gli va giù che quella “notizia”, su cui si sono cullati per anni, alla fine sia stata dichiarata ufficialmente “una balla” e allora fanno diventare realtà la fantasia. Come volevasi dimostrare. Ma che c’entra col giornalismo?

Intervista a Franco Gabrielli: «Mafia, reato da cambiare», scrive Massimo Martinelli il 23 luglio 2017 su "Il Messaggero". Dobbiamo convincerci tutti che la corruzione è l’incubatrice delle mafie. E invece vedo un atteggiamento da scampato pericolo nei confronti della sentenza sul Mondo di Mezzo, come a dire: la corruzione è una cosa e la mafia è un’altra. E questo, secondo me, è un approccio molto pericoloso». Pochi mesi dopo la grande retata di Mafia Capitale Franco Gabrielli fu nominato prefetto di Roma, con due grane da sbrigare sulla scrivania: il Giubileo alle porte e la relazione della Commissione d’accesso nominata dal Viminale che doveva valutare il livello di infiltrazione mafiosa in Campidoglio. Oggi Gabrielli è il capo della Polizia e sull’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso contestata ai principali imputati - e caduta in dibattimento - ha un’idea precisa: «Dal mio punto di vista, l’accusa da cui muove questa inchiesta rappresenta una sorta di interpretazione avanzata del rapporto tra la corruzione e la mafia. Leggeremo le motivazioni della sentenza per vedere se questa interpretazione è troppo avanzata: Ma se viene considerata troppo avanzata, a questo punto questa inchiesta interroga il legislatore».

Significa che sarebbe opportuno modificare l’articolo 416 bis che punisce appunto l’associazione a delinquere di stampo mafioso?

«Intanto bisogna chiarire che parliamo di una sentenza di primo grado di cui peraltro conosciamo solo il dispositivo; deve intervenire ancora una sentenza di merito e poi la Cassazione. Bisogna ricordare che sono già intervenute sentenze del Riesame e di Cassazione che si sono espresse in maniera difforme sugli stessi imputati. Detto questo, credo che se non ci sono le condizioni affinché un giudice - nella sua legittima autonomia - non aderisca a questa interpretazione avanzata delle procura di Roma, vada cambiato lo schema legale del 416 bis. Se la sentenza non coglie la modernità dell’impostazione dell’accusa e la correlazione tra corruzione e mafia, bisogna rimodellare la formulazione del reato di 416 bis».

Quindi lei non pensa che Pignatone e gli altri magistrati della procura di Roma siano usciti sconfitti da questo processo?

«Invito tutti a una grande cautela sui giudizi di questo tipo. Ho letto sui giornali che Pignatone sarebbe stato sconfitto e mi consenta una digressione: quando arrivai a fare il prefetto di Roma mi trovai subito alle prese con due questioni complesse e delicate: la macchina organizzativa del Giubileo da preparare e gli imminenti esiti della commissione d’accesso che avrebbe potuto portare allo scioglimento per mafie del Comune di Roma. Siccome mi capita spesso di trovarmi un po’ da solo, l’unica persona con la quale ebbi a interloquire e che rappresentò per me un punto di riferimento ineliminabile fu Giuseppe Pignatone, che con la sua capacità di essere prima di tutto un uomo delle istituzioni mi disse che secondo lui non c’erano gli estremi per arrivare allo scioglimento del comune di Roma per mafia. Sottolineo che questo avvenne in un paese in cui troppo spesso gli interessi di bottega prevalgono su interessi generali: in fondo in quel momento ad un povero prefetto che arrivava nella Capitale, un procuratore interessato a conseguire un risultato immediato avrebbe consigliato altro. Perché è ovvio che lo scioglimento per mafia avrebbe costituito un punto di riferimento forte per la procura, una sorta di punto fisso che avrebbe avuto i suoi effetti anche nei successivi sviluppi del dibattimento processuale. E invece, con onestà intellettuale, mi disse che Roma non andava sciolta. Mi piace ricordarlo oggi in un momento in cui qualcuno parla di sconfitta della procura, perché in quell’occasione si è visto lo spessore dell’uomo e del magistrato».

Quindi nessuna sconfitta?

«Non credo che sia una sconfitta. Soprattutto perché non è vero che a Roma e nel Lazio non ci sono le mafie. Purtroppo ci sono e ci sono sentenze che lo dicono. Ma questa vicenda, che io non ho mai chiamato Mafia Capitale ma indagine sul Mondo di Mezzo, dovremmo leggerla con un occhio diverso e da una prospettiva diversa».

Quale prospettiva?

«La stessa con la quale la procura di Roma, fin dall’inizio aveva individuato il fenomeno. Disse che eravamo in presenza di un qualcosa di originale e di originario. Che proprio per la sua caratteristica particolare, questo tipo di organizzazione aveva i profili dell’associazione mafiosa, che però si caratterizzava per alcune peculiarità diverse da quelle delle mafie storiche. Insomma, è l’interpretazione avanzata del rapporto che lega in maniera indissolubile la corruzione alla mafia».

Un’interpretazione avanzata che, tuttavia, il tribunale non sembra avere colto?

«Non vorrei che si risolvesse tutto in una disputa da stadio, sono contrario all’approccio manicheo secondo il quale o ci sono i pm che non hanno capito niente o giudici che non hanno colto questa interpretazione. A volte la verità sta nel mezzo, c’è una procura più sensibile che ha buttato il cuore oltre l’ostacolo e c’è un giudice che non ha interpretato alla stessa maniera».

E come se ne esce?

«Se ci sono le condizioni affinché questa interpretazione possa essere sostenuta anche in un successivo giudizio, allora la giurisprudenza colmerà il gap. Se questa interpretazione non troverà accoglimento pieno nella giurisprudenza, credo che sia maturo il tempo perché un certo tipo di corruzione sia letta come una forma di incubazione delle mafie e quindi in qualche modo debba essere trattata alla stessa stregua del contrasto alle organizzazioni mafiose».

Lei ritiene che questa visione del reato di mafia sia legata al mutamento di pelle della mafia stessa, da organizzazione dedita a traffico di droga, racket, delitti, a holding interessata agli appalti pubblici?

«Una delle regole che ci hanno insegnato sui banchi di Giurisprudenza è che la legge segue il fatto. Quindi la capacità dei tribunali per un verso e della legge per l’altro deve essere anche quella di cogliere i mutamenti che avvengono nelle forme criminali. Io credo che nel caso in questione distinguere tra corruzione e mafia sia una errore esiziale, quasi a voler dire che la mafia è una cosa seria e la corruzione è qualche cosa che può essere anche fisiologicamente tollerato. Dobbiamo fare un salto di qualità: c’è stata una stagione nel nostro Paese in cui la mafia era relegata a fenomeno territoriale, anche a un qualcosa che aveva a che fare con modalità di lotta politica, per cui si accusava l’avversario di essere mafioso immaginando che la sola etichettatura fosse un marchio di infamia e che nulla più si avesse a pretendere. Poi ci si è resi conto che la mafia era qualcosa di più serio, che non era limitato solo a contesti geografici, che era un fenomeno pervasivo, che attentava pesantemente anche all’economia».

Mafia Capitale ha dimostrato tutto questo?

«Credo che l’importanza storica di questa inchiesta sia quella di aver sottolineato in maniera forte e originale come un certo tipo di corruzione pervasiva, che attacca le istituzioni sia un’espressione della mafiosità».

Una delle caratteristiche del reato di associazione mafiosa è la forza intimidatrice del sodalizio. Nel caso di Mafia Capitale, la procura l’aveva individuata in quella “riserva di violenza” fornita dalla figura di Carminati. Ma se un imprenditore si limita a corrompere un dirigente pubblico con una busta piena di contanti - senza minacciarlo - si può parlare di mafia?

«La procura di Roma ha dovuto necessariamente trovare un addentellato sulla forza intimidatrice dell’associazione, perché lo schema legale del 416 bis prevede questo. Ecco perché io dico che se gli ambiti interpretativi consentono di far refluire queste forme di corruzione sempre più pervasive nel reato di mafia, bene così. Se ciò non è, e magari il giudice nelle sue motivazioni ci spiegherà che ciò non può essere - ma non perché sia meno sensibile, ma perché la norma non può essere interpretata in quella maniera, allora credo che sia arrivato il tempo per una modifica dello schema legale del 416 bis».

Lei pensa che cambiare in maniera estensiva il reato previsto dal 416 bis possa diventare una priorità del Parlamento?

«Intanto parliamo di un Parlamento che volge alla sua fase finale. Non ci sarebbero nemmeno i tempi tecnici per approcciare un problema così importante. Mi auguro che il prossimo Parlamento, qualunque maggioranza esprimerà, metta tra i primi punti dell’ordine del giorno la lotta vera e senza quartiere alla corruzione».

Basterà cambiare lo schema legale del 416 bis?

«Nessuno è così ingenuo da pensare che la corruzione sparirà. Io sono dell’idea che non sparirà la corruzione come non spariranno le altre forme criminali, perché attengono al profilo degli essere umani. La sfida è far sì che i fenomeni patologici siano relegati ad una eccezionalità e non ad una disarmante fisiologia. La strada più indicata, secondo me, è quella di arrivare all’emissione di pene severe, come quelle stabilite dal tribunale di Roma per il Mondo di Mezzo, e soprattutto pene certe».

Pignatone: "E' vero, ho perso, ma a Roma i clan esistono e io non mi rassegnerò mai". Parla il capo della procura: "Non mi sento responsabile dell'effetto mediatico dell'inchiesta e delle strumentalizzazioni politiche", scrive Carlo Bonini il 22 luglio 2017 su "La Repubblica". Il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone si è preso una notte. "Perché le cose si vedono meglio con la testa fredda". 

E il giorno dopo la fu "Mafia Capitale" cosa vede, dunque?

"Che la sentenza del Tribunale ha riconosciuto che a Roma ha operato una associazione criminale che si è resa responsabile di una pluralità di fatti di violenza, corruzione, intimidazione. Che l'indagine di questo ufficio ha svelato un sistema criminale capace di infiltrare il tessuto amministrativo e politico della città fino al punto di avere a libro paga amministratori della cosa pubblica. Questo vedo. E questo dice tre cose. La prima: che abbiamo lavorato bene e che hanno lavorato bene i carabinieri del Ros, che per questo ringrazio. La seconda: che la sentenza apre uno spazio per una riflessione non solo giudiziaria su questa città, che però non spetta a me. La terza: non si è trattato di una fiction". 

Procuratore, questo è il bicchiere mezzo pieno. Converrà che la notizia è quello mezzo vuoto. Il suo ufficio perde il processo sulla questione dirimente. La mafiosità di quel sistema criminale. 

"Non c'è dubbio. È il dato negativo di questa sentenza". 

Quindi ha ragione chi dice che questo processo ha un solo sconfitto e che quello sconfitto è lei?

"Io non ho una concezione agonistica della giustizia. Né, aggiungo, una cultura dell'insulto. Osservo che ogni giorno, in questo palazzo, ci sono giudici che trattano, con grandissimo impegno procedimenti che hanno ad oggetto fatti di 416 bis o in cui si contesta l'aggravante mafiosa. Accade di vedere accolte le proprie tesi e di vederle respinte. Insomma, per quanto importante, questa sentenza di primo grado non riassume una stagione giudiziaria e quello che ha fotografato in questa città in materia di criminalità organizzata". 

Non può negare che su "Mafia Capitale" lei e il suo ufficio avete giocato una scommessa ambiziosa. Il che rende questo processo diverso, non fosse altro per le risorse che ha assorbito.

"Mondo di Mezzo, come l'abbiamo chiamata noi, non è stata una scommessa. Perché sono un magistrato e non scommetto sulla libertà delle persone. Detto questo, è vero. Con questa indagine intendevamo proporre un ragionamento avanzato sul rapporto tra mafia e corruzione. Per altro, muovendoci nel solco della più recente giurisprudenza di Cassazione sull'articolo 416 bis. Ora, il tribunale ha espresso un parere diverso e dunque aspettiamo le motivazioni per comprendere quale è stato il percorso logico della decisione. Se si tratta di questioni che riguardano l'interpretazione del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, o, al contrario, di una diversa lettura e qualificazione del fatto storico che il dibattimento ha provato. Dopodiché, se il tribunale ci convincerà, non faremo appello, altrimenti impugneremo". 

E va bene. Ma, con il senno di poi, tornerebbe a qualificare l'associazione criminale di Buzzi e Carminati come mafia?

"Non ho cambiato idea stanotte. E sa perché? Perché la nostra imputazione di mafia, sin qui, ha trovato il conforto di due pronunce della Cassazione nella fase incidentale dei ricorsi alla custodia cautelare di alcuni degli imputati, di un gip, di un tribunale del Riesame. Quanto alla "sconfitta", mi lasci dire che, premesso il profondo rispetto che ho per l'informazione, ho letto stamani semplificazioni che ci attribuiscono cose che non abbiamo mai detto e conseguenze dei nostri atti che esulano dalla nostra disponibilità". 

Quali?

"Ho sempre detto in tutte le sedi ufficiali, da ultimo, nel luglio 2015 nella mia audizione in Commissione antimafia, che "Mafia Capitale" era una "piccola mafia". Che non dominava Roma. Che Roma non è né Palermo, né Reggio Calabria. Inoltre, ed è un atto ufficiale anche questo, ho messo per iscritto nel parere che mi venne chiesto quando si pose il problema dello scioglimento o meno del Consiglio Comunale per infiltrazioni mafiose che non c'erano le condizioni. Quindi, dire che con le nostre inchieste abbiamo cambiato il corso politico degli eventi a Roma, che abbiamo esposto la città al ludibrio del mondo, significa attribuirci un uso politico della giustizia penale che non abbiamo in alcun modo esercitato. Insomma, non penso debba rispondere il mio ufficio di chi ha usato politicamente i fatti che la nostra inchiesta ha fatto emergere". 

È successo però.

"È successo. Ma non siamo noi i responsabili dell'effetto mediatico di un'inchiesta. E, come magistrato, non lavoro per il plauso o il consenso dell'opinione pubblica. Mi permetto, piuttosto, di proporre al dibattito qualche elemento diverso. Oggettivo e meno ozioso". 

Cioè?

"A Roma le mafie esistono. E lavorano incessantemente nel traffico di stupefacenti, nel riciclaggio di capitali illeciti, nell'usura. Solo lo scorso giugno abbiamo sequestrato beni di provenienza mafiosa per 520 milioni di euro. Sono mafie che incidono pesantemente nella qualità della vita dei cittadini, nella libertà delle loro scelte. Non solo. Roma ha un'emergenza altrettanto grave, se non più grave della mafia. E sono la corruzione e i reati economici. Noi trattiamo bancarotte per centinaia di milioni di euro. Frodi all'erario ed evasioni fiscali per miliardi. E su questo vorrei fosse chiaro a tutti che il mio ufficio non accetta, né intende rassegnarsi all'idea che tutto questo sia normale. Faccia parte del paesaggio. Addirittura ne sia componente necessaria". 

A proposito di "paesaggio", quanto crede abbia pesato o pesi la resistenza culturale di questa città ad accettare l'idea, per dirla con le sue parole, di una mafia "autoctona", "originale" e originaria"? Insomma, il "Mondo di Mezzo" è Roma. E se lei dice che il "Mondo di Mezzo" è mafia, sta dicendo che Roma è mafia.

"Un'affermazione del genere sarebbe assurda. Però il problema mafia esiste ed esiste da tempo. Basterebbe ricordare che sulla mafiosità della Banda della Magliana esistono due sentenze della Cassazione che giungono a conclusioni opposte. E comunque, in questi anni dei passi avanti nella consapevolezza che la mafia non sia un fenomeno soltanto meridionale ci sono stati in tutta Italia. Anche a Roma, come ho detto prima". 

Luca Odevaine è stato l'unico degli imputati di Mafia Capitale ad aver collaborato con la Procura. Avevate per questo chiesto una condanna mite, di poco superiore ai due anni. Il tribunale ha fissato una pena superiore ai 6. Che messaggio arriva a una città dove, storicamente, nessuno si pente?

"È un altro dei punti su cui il Tribunale ha espresso una visione diversa. Anche qui, dunque, leggeremo le motivazioni. Posso solo dire che sono convinto che nella lotta alla corruzione si debba utilizzare ogni strumento consentito dalla legge. Riconoscere un trattamento sanzionatorio diverso a chi ha ammesso le proprie responsabilità, sia pure parzialmente, e aiutato l'indagine a fare dei passi avanti è uno di questi strumenti".

La mafia è cosa seria: non lasciamola all’antimafia…, scrive Piero Sansonetti il 22 luglio 2017 su "Il Dubbio". Diceva Georges Clemenceau, statista francese di inizio novecento: «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari». Già, aveva ragione. Con la mafia – anzi, con la lotta alla mafia – più o meno è la stessa cosa. È roba troppo seria per lasciarla all’antimafia. La mafia è una organizzazione criminale potente e strutturata che ha dominato – nelle sue varie espressioni l’economia, e in parte anche la politica, nel Mezzogiorno d’Italia, per almeno per un secolo. Negli anni ottanta fu combattuta a fondo da un gruppo coraggiosissimo di magistrati e da settori onesti e seri della politica, e subì una sconfitta dalla quale non si è ripresa. Oggi la mafia non è più la feroce e potente organizzazione che era trent’anni fa, tuttavia esiste ancora e controlla la parte maggiore dell’attività criminale in quasi tutte le regioni del Sud. Ha perso molto del suo potere militare e della sua egemonia culturale, gode di protezioni assai più limitate di un tempo, ha difficoltà a permeare la società civile. La mafia è una cosa seria, non lasciamola all’antimafia. Però è viva, è pericolosa, funziona ancora molto bene e ancora dispone di legami sociali forti e anche di agganci politici. Sarebbe una follia smettere di combatterla. Sul piano giudiziario e sul piano politico. È possibile oggi combattere la mafia, così come negli anni ottanta la combatterono Falcone e Borsellino? È possibile, ma c’è un ostacolo nuovo: l’antimafia. Capisco che è un paradosso, ma è così. Esiste un settore molto largo dell’intellighenzia, dell’informazione, della politica, della magistratura, della Chiesa, e anche della società civile, che da una ventina d’anni ha messo in piedi un apparato ramificato di organizzazioni antimafia, le quali hanno trasformato in un grande affare il lavoro di quelli che trent’anni fa erano in prima linea. Oppure lo hanno trasformato in ideologia, o in un’occasione di lotta politica. Questa antimafia, che pure trae origine dalla lotte aspre e coraggiose combattute tanti anni fa, è diventata il primo ostacolo alla lotta alla mafia, perché ha smesso di occuparsi della mafia come fenomeno sociale e criminale, e l’ha trasformata in “bersaglio ideologico”, da usare per finalità del tutto diverse dalla lotta per ristabilire la legalità. La stessa legalità è diventata una specie di feticcio, oppure di clava, che si adopera per lo svolgimento di battaglie politiche puramente di potere. Il primo a denunciare questo fenomeno, in tempi non sospetti, e molto prima che il fenomeno assumesse le dimensioni larghissime e di massa che ha oggi, fu Leonardo Sciascia. E Leonardo Sciascia era stato precedentemente l’intellettuale italiano che aveva lanciato nel deserto, nel silenzio generale, i primi anatemi contro Cosa Nostra. «Il Giorno della civetta» è un romanzo che Sciascia scrisse nel 1961. In quel periodo i giornali non parlavano mai di mafia. Molti negavano che esistesse. Molti politici e molti magistrati avevano la stessa posizione: la mafia è un’invenzione della letteratura. Leonardo Sciascia, che la Sicilia la conosceva bene, sosteneva il contrario e, come sempre nella sua vita, era ascoltato quasi da nessuno. Il suo libro diventò un film solo sette anni dopo la sua pubblicazione, per merito di un regista come Damiano Damiani. Il film ebbe successo, ma come film di avventura non come film di denuncia. Beh, è stato proprio Sciascia, quasi trent’anni più tardi, a indicare il fenomeno emergente dei professionisti dell’antimafia. E, quando lo fece, rimase di nuovo isolato. Oggi esistono due modi sbagliati per fare antimafia. Il primo è politico, il secondo è giudiziario. L’antimafia politica è quella della retorica e della criminalizzazione. Ci sono dei gruppi che si autoproclamano sacerdoti del tempio, e dispensano condanne e assoluzioni. Pretendono l’esclusiva dell’autografo antimafia. Se ne infischiano della necessità di colpire l’organizzazione mafiosa e usano la lotta alla mafia per ottener vantaggi politici, per colpire gli avversari, per scomunicare, per guadagnare potere. Qualche esempio? Basta seguire l’attività dell’antimafia della Bindi, che non ha niente a che fare con una commissione d’inchiesta parlamentare e appare sempre di più un gruppo politico d’assalto, molto spregiudicato. Com’era l’Inquisizione. L’antimafia giudiziaria è quella di chi usa la “mafiosi- tà” come reato politico per dare peso e spettacolarità alle indagini, oppure, semplicemente, per renderle più facili. Il caso più clamoroso, naturalmente, è quello dell’eterno processo di Palermo alla cosiddetta trattativa stato- mafia. Un processo che sul piano giudiziario non sta in piedi neppure con il vinavil, ma che ha reso celebri i Pm che ne sono stati protagonisti e ne ha irrobustito le carriere. Il processo sulla trattativa inesistente, per anni, fino ad oggi, ha preso il posto alle grandi e vere inchieste antimafia. Che sono scomparse. Se pensate alle inchieste di Falcone e Borsellino, costruite sul lavoro duro, e che portarono alla condanna di tutto il gotha di Cosa Nostra, e le confrontate con la messa in scena dello Stato- Mafia, capite bene quale è la differenza tra un’inchiesta giudiziaria e la giustizia- spettacolo. E qual è la differenza tra la lotta alla mafia e l’antimafia- Barnum. Poi c’è un secondo modo sbagliato di usare l’antimafia. Certo più sostanzioso, meno vanesio, ma anche questo scorretto. È l’abitudine di usare comunque l’aggravante mafiosa, anche in processi alla delinquenza comune, per la semplice ragione che così si possono applicare norme e leggi speciali che altrimenti sarebbero inutilizzabili. È la famosa questione del doppio binario della giustizia. L’abbiamo vista bene anche in occasione del processo di Roma (mafia capitale), quello che si è concluso l’altroieri con molte condanne ma con la proclamazione che la mafia non c’entra. Il fine giustifica i mezzi? No, almeno nel campo del diritto, il fine non giustifica i mezzi. Se non ci convinciamo della necessità di farla finita con l’antimafia professionale, non riusciremo mai più a riprendere in mano la lotta alla mafia. Cioè alle cosche reali. Quelle che esistono, che operano, che si organizzano, che inquinano l’economia e la vita civile. Per riprendere questa battaglia bisogna avere il coraggio di dire apertamente che l’antimafia professionale va spazzata via – nelle Procure, nei partiti e soprattutto nel giornalismo – e che l’uso dell’antimafia come strumento per lotte politiche di potere è un atteggiamento devastante per la società, più o meno come lo è l’atteggiamento della mafia. A chi tocca aprire questa battaglia? Alla politica. Toccherebbe alla politica e all’intellettualità. Voi vedete in giro qualche esponente politico che abbia il coraggio di avviare una battaglia di questo genere? O qualche intellettuale?

Mafia Capitale, storia e protagonisti del "Mondo di mezzo". Le tappe e i protagonisti dell'inchiesta su Mafia Capitale che ha scoperchiato il "Mondo di mezzo" della politica romana, scrive Giovanni Neve, Giovedì 20/07/2017, su "Il Giornale". Ben 240 udienze celebrate nell'aula bunker di Rebibbia e diluite in 20 mesi; 46 imputati, molti dei quali accusati di associazione di stampo mafioso e ancora in carcere (da Massimo Carminati al 41 bis detenuto a Parma, a Salvatore Buzzi nella struttura di massima sicurezza a Tolmezzo); 80mila intercettazioni telefoniche e ambientali trascritte; 10 milioni di carte e altri 4 milioni di pagine di brogliaccio. Sono questi alcuni numeri del processo Mafia Capitale che si è concluso oggi con la sentenza di primo grado. Queste le tappe più significative:

2 dicembre 2014 - 37 persone arrestate (28 in carcere e 9 ai domiciliari) e decine di perquisizioni eccellenti, tra cui quella nei confronti dell'ex sindaco Gianni Alemanno, indagato per associazione di stampo mafioso: sono i primi risultati dell'operazione Mondo di Mezzo, poi mediaticamente denominata Mafia Capitale. La Procura ritiene che negli ultimi anni nella capitale e nel Lazio abbia agito un'associazione di stampo mafioso che ha fatto affari (leciti e no) con imprenditori collusi e con la complicità di dirigenti di municipalizzate ed esponenti politici di ambo gli schieramenti, per il controllo delle attività economiche e per la conquista degli appalti pubblici. Lunga la lista dei reati contestati: estorsione, corruzione, usura, riciclaggio, turbativa d'asta e trasferimento fraudolento di valori. A guidare questa organizzazione - secondo chi indaga - sono il presidente della cooperativa "29 giugno" Salvatore Buzzi e l'ex terrorista di destra, Massimo Carminati, ritenuto colui che "impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti".

4 giugno 2015 - Nuova ondata di arresti per Mafia Capitale: 19 persone in carcere, 25 ai domiciliari, altre 21 indagate a piede libero e altrettante perquisizioni. Provoca l'ennesimo terremoto. Ancora una volta, l'ex terrorista dei Nar Massimo Carminati e il presidente della cooperativa 29 giugno Salvatore Buzzi risultano i pezzi da novanta dell'ordinanza di custodia cautelare del gip Flavia Costantini, eseguita all'alba dai carabinieri del Ros. La novità è che sono stati chiamati in causa anche esponenti delle istituzioni, di destra e di sinistra (al Comune e alla Regione Lazio), risultati a libro paga dell'organizzazione di stampo mafioso che a Roma faceva affari di ogni tipo (business degli immigrati 'in primis') e si aggiudicava i migliori appalti (tra i quali punti verde e piste ciclabili). In carcere finisce anche Luca Gramazio, ex consigliere capogruppo Pdl (poi Fi) in consiglio comunale e poi in Regione: è ritenuto il volto istituzionale di Mafia Capitale per aver messo le sue cariche al servizio del sodalizio criminoso con cui avrebbe elaborato "le strategie di penetrazione nella pubblica amministrazione".

5 novembre 2015 - Comincia il processo davanti ai giudici della decima sezione penale del tribunale. Autorizzate le riprese televisive in aula "alla luce dell'interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento in relazione alla natura delle imputazioni, ai soggetti coinvolti e alla gravità dei fatti contestati".

7 febbraio 2017 - Finiscono in archivio le posizioni di 113 indagati su 116 coinvolti nel procedimento stralcio di Mafia Capitale per imputazioni più o meno residuali, rispetto al processo principale. Accogliendo le richieste avanzate dalla Procura di Roma nell'agosto 2016, il gip Flavia Costantini ha firmato il decreto di archiviazione con un provvedimento di 82 pagine che riguarda esponenti della politica, imprenditori, professionisti, ex militanti di destra e amministratori. Molti di loro, però, sono già a giudizio (o sono stati già processati) per altre imputazioni. Due i motivi principali che hanno spinto il giudice ad accogliere l'impostazione della Procura: per alcune posizioni, "le indagini sin qui portate avanti non hanno consentito di individuare elementi sufficienti per sostenere l'accusa in giudizio"; per tutte le altre, non sono state riscontrate o ritenute credibili le dichiarazioni accusatorie fatte da Salvatore Buzzi. E così, per il reato di associazione di stampo mafioso escono definitivamente di scena, ad esempio, l'ex sindaco Gianni Alemanno (che però è sotto processo per corruzione e finanziamento davanti ai giudici della seconda sezione penale), gli avvocati Pierpaolo Dell'Anno, Domenico Leto e Michelangelo Curti, l'ex capo della segreteria politica di Alemanno Antonio Lucarelli, l'ex responsabile di Ente Eur Riccardo Mancini ed Ernesto Diotallevi, che era finito nel mirino dei pm perchè sospettato di essere a Roma il referente di Cosa Nostra. Archiviazione anche per il presidente Pd della Regione Lazio Nicola Zingaretti (indagato per due episodi di corruzione e uno di turbativa d'asta), per il suo ex braccio destro Maurizio Venafro (che era accusato di corruzione, mentre è in attesa del giudizio di appello dopo essere stato assolto in primo grado da un'accusa di turbativa d'asta) e per una serie di altri esponenti della politica come l'ex presidente del primo municipio della capitale, Sabrina Alfonsi (corruzione), il consigliere comunale della Lista Marchini, Alessandro Onorato (corruzione), il parlamentare ex Pdl, poi passato al Gruppo Misto, Vincenzo Piso (finanziamento illecito), il presidente del Consiglio Regionale del Lazio, Daniele Leodori, (turbativa d'asta) e Alessandro Cochi, ex delegato allo sport della giunta Alemanno (turbativa d'asta). Accolta pure la richiesta di archiviazione, per un episodio di abuso d'ufficio, per Luca Gramazio, l'ex capogruppo Pdl alla Regione Lazio ancora detenuto in carcere per il filone principale e per Massimo Carminati che rispondeva di associazione per delinquere finalizzata ai delitti di rapina e riciclaggio contestata anche a Luigi Ciavardini, Fabrizio Pollak, Stefano Massimi e Gianluca Ius.

27 aprile 2017 - la procura chiede la condanna di tutti e 46 imputati per complessivi 515 anni di reclusione. Le pene più elevate sono state sollecitate dai pm nei confronti di coloro che sono ritenuti gli organizzatori o semplici partecipi dell'associazione di stampo mafioso. Il primo della lista è Massimo Carminati (28 anni perché capo oltre che promotore), seguito da Salvatore Buzzi (26 anni e 3 mesi).

20 luglio 2017 - Arriva la sentenza: Salvatore Buzzi condannato a 19 anni, Massimo Carminati a 20. Per Mirko Coratti, ex presidente del Consiglio comunale di Roma ed esponente del Partito democratico, 6 anni di carcere. Per Gramazio la pena è di 11 anni. Dieci anni a Franco Panzironi, ex ad dell'Ama. Riccardo Brugia a 11 anni. Luca Odevaine, ex componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale, è stato condannato a sei anni e sei mesi di reclusione.

Storia kafkiana di un condannato che non è stato mai imputato, scrive Paolo Delgado il 17 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Era un operaio della coop di Buzzi, lo hanno rovinato senza un processo e gli hanno tolto il lavoro. Franco La Maestra è un ex brigatista che avendo rifiutato sia il pentimento che la dissociazione, ha scontato per intero la sua condanna. Una volta libero diventa socio della Cooperativa 29 giugno fondata da Salvatore Buzzi. La Maestra non è uno dei capi della cooperativa: fa l’operaio addetto al recupero rifiuti. Ma il giorno in cui Buzzi finisce in manette, 2 dicembre 2014, La Maestra è nella sede della cooperativa e sulla porta incrocia Buzzi. Il presidente della cooperativa gli rivolge qualche parola che poi, debitamente intercettata, assume una valenza poco proporzionata. Da quel momento, almeno secondo l’Ufficio Misure di Prevenzione del Tribunale, La Maestra diventa il braccio destro di Buzzi. L’uomo non verrà mai inquisito né indagato, eppure il Tribunale dispone la sua sospensione dal servizio «per motivi di ordine pubblico». Per valutare l’inchiesta che ha fatto tremare Roma sin dalle fondamenta bisognerà aspettare la sentenza di primo grado e forse non basterà neppure quella. Ma che la corte d’assise accetti o meno l’azzardato impianto accusatorio del processo Mafia Capitale, quello che ha trasformato in storia di criminalità organizzata quella che all’apparenza sembrerebbe una vicenda di ‘ normale’ corruzione, non sarà indifferente, anche se solo dopo il terzo grado di giudizio si potrà definitivamente avvalorare quell’impianto che in quel caso finirebbe senza dubbio per fare scuola. Però non c’è bisogno di aspettare la sentenza per rendersi conto che quel capo d’imputazione incandescente ha prodotto alcuni esiti nefasti, dei quali bisognerebbe tenere conto, per evitarli in circostanze simili, indipendentemente dal fatto che la corte accetti o meno l’impostazione della procura di Roma. Un caso esemplare è quello di Franco La Maestra, ex brigatista rosso che avendo rifiutato sia il pentimento che la dissociazione, ha scontato per intero e sino all’ultimo giorno la sua condanna a 14 anni e mezzo di carcere. Una volta libero, la maestra diventa socio della cooperativa 29 giugno fondata da Salvatore Buzzi, il perno stesso dell’inchiesta Mafia Capitale. La Maestra non è uno dei capi della cooperativa. Fa l’operaio addetto al recupero rifiuti. In un’intercettazione si sentono lui e un compagno di lavoro lamentarsi senza mezzi termini perché «ci trattano come bestie da soma». Il giorno in cui Buzzi finisce in manette, 2 dicembre 2014, La Maestra è nella sede della cooperativa per una vertenza sindacale di quelle dure, con tanto di scioperi, e sulla porta incrocia Buzzi in manette. Il presidente della cooperativa gli rivolge qualche parola che poi, debitamente intercettata, assume una valenza poco proporzionata. Buzzi invita a «non litigare» e ordina di tenere lontano Giovanni Campennì, indicato dagli inquirenti come uomo della ‘ ndrangheta e elemento di raccordo tra il clan Mancuso e la super cooperativa di Buzzi: «Non lo voglio tra i piedi». Buzzi aggiunge alla raccomandazione di non litigare una frase, «Adesso il capo sei tu», che secondo l’Ufficio Misure di Prevenzione del Tribunale di Roma sarebbe rivolta proprio a La Maestra e che secondo quest’ultimo era invece indirizzata al gestore del servizio. Essendo poco credibile il salto repentino da operaio semplice addetto alla raccolta differenziata dei rifiuti a ‘capo’ è probabile che La Maestra dica la verità. Anche perché, capo o non capo, è un fatto che Franco La Maestra non solo non verrà mai inquisito per i fatti di Mafia Capitale ma neppure indagato. Ciò nonostante quasi un anno più tardi, il 30 ottobre 2015, la sezione Misure di Prevenzione dispone la sua sospensione dal servizio e dalla retribuzione «per motivi di ordine pubblico», che diventa operativa il giorno seguente. Da questo momento si configura una di quelle situazioni proverbialmente definite ‘kafkiane’. La Maestra, pur non essendo oggetto di alcun provvedimento penale, è indicato come persona che mantiene «rapporti con la ‘ ndrangheta» e svolge un «ruolo di primo piano nella gestione criminale della cooperativa». Dovrebbe difendersi, ma non essendo né inquisito né indagato mica è facile. Non può accedere al fascicolo, non può spiegare e chiarire durante un interrogatorio, non sa a chi rivolgersi. In compenso è privo di stipendio, non gode di alcun ammortizzatore sociale e a rigore non è neppure un disoccupato, essendo stato solo «sospeso» e non licenziato. Potrebbe licenziarsi da solo, ma sospetta che con sulle spalle una sospensione spiegata con quelle motivazioni trovare un nuovo lavoro non gli sarebbe facile. Quindi prova a impugnare la sospensione. Solo che in questi casi a decidere sull’impugnazione è il presidente della stessa sezione Misure di Prevenzione che ha disposto l’ordinanza, e ci mancherebbe solo che non si desse ragione da solo. Quindi respinge, è la motivazione rende ancora più surreale il quadro: «Si deve rilevare che i provvedimenti del giudice delegato in un procedimento di prevenzione sono provvedimenti sostanzialmente amministrativi / autorizzativi / dispositivi emessi per la gestione dei beni sequestrati nell’ambito del procedimento di prevenzione e non rientrano tra i provvedimenti di prevenzione espressamente previsti dal Dlvo 159/ 2011… Si tratta, dunque, di atti liberi, che non sono e non possono essere inquadrati in ipotesi tipizzate come misure di prevenzione». In questo modo, per il soggetto in questione, il non essere indagato diventa per magia giuridica un punto di massima debolezza invece che un sostegno. Non essendo indagato e non essendo quindi sottoposto ai «provvedimenti di prevenzione espressamente previsti» non può fare altro che sperare in qualche miracolo, nel frattempo cercando di cavarsela senza reddito di sorta.

Mafia Capitale, Odevaine alla sbarra: "Ecco perché prendevo 5000 euro al mese da Buzzi". L'interrogatorio dell'ex vicecapo di gabinetto di Veltroni, confermato per tre mesi nel 2008 quando la capitale incoronò Alemanno: "Da fine 2011 al novembre 2014 sono stato remunerato dal gruppo Buzzi per la mia attività di 'facilitatore'. Semplificavo i suoi rapporti con la pubblica amministrazione", scrive Federica Angeli l'1 febbraio 2017 su "La Repubblica". "Ho percepito cinquemila euro al mese da Salvatore Buzzi da fine 2011 al novembre del 2014. Per lui risolvevo i problemi, facilitavo gli interessi di Buzzi. Ho preso soldi anche dalla cooperativa La Cascina". Soldi da Salvatore Buzzi (5mila euro mensili, di cui una parte in nero) e soldi dalla cooperativa “La Cascina” (10mila euro al mese che potevano arrivare anche a 20mila). Per anni, almeno dal 2011 al 2014, Luca Odevaine, anni prima vicecapo di gabinetto vicario del sindaco Veltroni, incarico proseguito per altri tre mesi con l'arrivo del sindaco Alemanno, ha intascato fior di tangenti mettendo a frutto il suo lavoro di componente del Tavolo di coordinamento sugli immigrati del Viminale (struttura creata nell'estate del 2014 ma informalmente esistente due anni prima) e di presidente della Fondazione IntegraAzione, che curava e coordinava eventi politici, religiosi e sociali. Sentito dal tribunale nel processo Mafia Capitale in corso nell'aula bunker di Rebibbia, Odevaine ha ammesso quanto già dichiarato alla Procura nei mesi scorsi: "Venivo remunerato dal gruppo Buzzi per la mia attività di facilitatore. Semplificavo i suoi rapporti con la pubblica amministrazione. Svolgevo un funzione di raccordo tra le sue cooperative, il ministero degli Interni e i funzionari della Prefettura, un mondo con il quale le coop faticavano ad avere un dialogo costante. Io mettevo a disposizione l'esperienza acquisita nel Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, conoscevo molte persone ma non è vero che io orientassi i flussi degli immigrati, non avrei potuto farlo. Il Tavolo discuteva su temi generali e non decideva". Odevaine è stato poi interpellato sui soldi ricevuti dai vertici della Cascina (segmento giudiziario già definito davanti al gup con un patteggiamento di pena a due anni e 8 mesi di reclusione per corruzione e la restituzione di circa 250mila euro, più o meno l'equivalente della somma incassata in modo illecito), per agevolare l'assegnazione dell'appalto per la gestione del Cara di Mineo dopo aver concordato con loro il contenuto del bando di gara. "Anche in questo caso - ha spiegato Odevaine - ricevevo soldi per il mio lavoro di raccordo col Ministero dell'Interno". Molte domande dei pm Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini hanno riguardato il commercialista Stefano Bravo, anche lui sotto processo per corruzione perchè sospettato di aver curato la predisposizione della documentazione fittizia che avrebbe dovuto giustificare l'ingresso delle somme illecite nella casse della Fondazione e delle società riferibili a Odevaine. "Era il mio commercialista personale e della famiglia, si occupava della contabilità della Fondazione. A lui ogni tanto chiedevo consiglio, gli dissi che avevo soldi in contanti ma lui certe cose preferiva non saperle. Io gli presentai i rappresentanti della Cascina e poichè con questa cooperativa avevo in piedi un affare che non aveva nulla a che vedere con la questione immigrati, gli chiesi se voleva occuparsene. Cominciavo ad avere numerose attività fuori dall'Italia e avevo bisogno di una persona che seguisse le mie cose in Italia". "Con la giunta Alemanno sì stabili un accordo per cui ad ogni consigliere comunale vennero dati 400mila euro da spendere per eventi culturali. L'accordo fu preso dal sindaco Alemanno e dal capogruppo di minoranza Umberto Marroni", ha spiegato Odevaine, che, vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni, fu confermato per i tre mesi successivi nel 2008 quando la capitale incoronò Alemanno ma dopo un mese fu messo di fatto all'angolo. "Alemanno - ha poi aggiunto - mise nuove figure in base ad appartenenze politiche nei posti chiave dell'amministrazione: Gianmario Nardi, che era stato allontanato da Veltroni perché troppo vicino a imprenditori che facevano manifestazioni pro suolo pubblico fu nominato vicecapo gabinetto. Marra fu spostato al Patrimonio". "Alemanno mi disse che per tutto il periodo della mia permanenza al Comune le due sue persone di assoluta fiducia a cui avrei dovuto far riferimento per qualunque cosa erano Riccardo Mancini e l'onorevole Vincenzo Piso che era stato in carcere con lui negli anni Ottanta e aveva finanziato la sua campagna elettorale. Quando a capo dell'Ufficio Decoro venne nominato Mirko Giannotta, segretario storico del Movimento Sociale di Acca Larentia e responsabile della tentata rapina nel maggio 2006 da Bulgari in via Condotti, e distrusse tutti gli archivi del materiale di pubblica sicurezza da me raccolto, decisi di lasciare Palazzo Senatorio e mi spostai in una stanza a piazza San Marco". 

Buzzi parla ancora: «Ho dato 875mila euro a Panzironi e finanziato la campagna di Veltroni», scrive Vincenzo Imperitura il 29 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Vergogna per aver foraggiato la destra? «Diceva Deng Xiaoping: non devi guardare se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo». «Camerata io? Io so’ comunista». Suona più o meno come la famosa battuta del grande Mario Brega, la risposta fulminante che Salvatore Buzzi si lascia sfuggire in aula, rispondendo al difensore dell’ex ad di Ama, Franco Panzironi, che gli chiede se non provava vergogna ad aver finanziato le campagne elettorali della destra. «Rispondo in termini marxiani e citando Deng Xiaoping: non devi guardare se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo. Io avevo 300 persone da mantenere. Non ho mai votato Pdl», replica Buzzi (considerato il braccio finanziario del “mondo di mezzo”) nel corso della settima e ultima udienza di Mafia Capitale dedicata alla sua deposizione. «A Franco Panzironi, complessivamente, abbiamo dato 875mila euro», racconta in collegamento video con l’aula bunker di Rebibbia. «A lui restavano i soldi in nero per vincere le gare Ama, quelli in chiaro andavano alla Fondazione Nuova Italia e quindi certo che andavano a Gianni Alemanno. Panzironi è un delinquente, chiedeva sempre soldi». Soldi che, racconta sempre Buzzi, sarebbero andati all’ex Ad di Ama (imputato nello stesso processo) anche fuori dal circuito elettorale: «Quando gli abbiamo dato i primi 100mila euro non c’era nessuna campagna elettorale e neppure quando gli abbiamo dato i secondi 120mila o i terzi 100mila». Buzzi poi parla del sostegno ai tempi di Walter Veltroni: «Il sistema delle cooperative tirò fuori circa 150mila euro. Non erano soldi per vincere le gare. Era un riconoscimento all’attività dell’amministrazione Veltroni che aveva affidato alle cooperative sociali la manutenzione del verde dei parchi di Roma». E se ieri si è chiusa la lunghissima deposizione di Buzzi, oggi nell’aula bunker di Rebibbia, è il turno dell’imputato numero uno del processo, Massimo Carminati. L’ex membro della destra eversiva degli anni di piombo parlerà in video collegamento dal carcere di Parma ma, contrariamente a quanto successo fino a ora, il “cecato” già protagonista di un “saluto romano” durante un udienza non potrà venire ripreso dalle telecamere che dalle prime battute seguono il processo agli imputati di Mafia Capitale. È stato lo stesso Carminati a revocare l’autorizzazione. Secondo l’avvocato Ippolita Naso, uno dei difensori dell’imputato, il “nero” della banda delle Magliana «solo in parte parlerà del suo passato, lui intende rispondere a domande ben precise su fatti che gli sono stati contestati in questo dibattimento».

Vi racconto la vera storia di Salvatore Buzzi, scrive Lanfranco Caminiti i 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". In carcere fondò la 29 giugno, cooperativa nata per il recupero dei detenuti. E lui stesso divenne «carne e sangue» di quella possibilità di un percorso di riabilitazione. Salvatore Buzzi è un criminale italiano. Dice così Wikipedia, e nella sua laconicità sembra non possa restare altro da dire. Eppure, d’essere «un criminale italiano», lo si potrebbe dire d’uno qualunque delle migliaia di detenuti, senza che la cosa faccia una piega. A Buzzi invece, Wikipedia resta stretto. È il 29 giugno 1984. I giornaloni italiani parlano della sinistra socialista all’attacco ma senza dichiarare guerra a Craxi; di un’intervista dell’onorevole Tina Anselmi in cui parla delle trame della P2 che fanno pensare al fascismo; di mille miliardi stanziati in Parlamento per ristrutturare in cinque anni gli aeroporti di Fiumicino e della Malpensa; del giallo del Dams, a Bologna, in cui è stata orrendamente assassinata, un anno prima, Francesca Alinovi critica d’arte emergente; dell’ex cancelliere Helmut Schmidt, ritiratosi da mesi dall’attività politica, che ha preso la parola al Bundestag per presentare un suo progetto sull’Europa. Non parlano di carcere. Nessuno scrive di carcere. «Le misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna». È il 29 giugno 1984, e questo è il titolo del convegno a Rebibbia. A ascoltare Salvatore Buzzi parlare del recupero di chi ha sbagliato ma non deve essere dimenticato ci sono sul palco il sindaco di Roma Ugo Vetere, il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli e Nicolò Amato, direttore generale delle carceri. C’è lo Stato, insomma. In pompa magna. Nacque così la cooperativa 29 giugno, che è poi la data da cui per loro tutto ebbe inizio. 29 giugno 1984. Quel fatidico convegno. La prima cooperativa di detenuti in Italia ( e già Buzzi era stato il primo detenuto a laurearsi in cella: Lettere e filosofia, tesi su Vilfredo Pareto, 110 e lode). Un fiore all’occhiello, quella cooperativa, per l’amministrazione penitenziaria. Negli anni, centinaia di detenuti sono usciti dal carcere e hanno trovato forme di sussistenza e reinserimento per mezzo della cooperativa. La cooperativa che è stata al centro dell’indagine giudiziaria più comunemente nota come Mafia-Capitale. Nacque facendo bottiglie di pomodoro da rivendere, e poi pulendo gli spazi di Rebibbia e poi allargandosi piano piano. Una gran mano gliela diede Angiolo Marroni, comunista, che allora era vicepresidente della Provincia e che si costruì il resto della carriera politica, e anche quella del figlio, Umberto, poi deputato Pd – i carcerati hanno un sacco di familiari da far votare – su quelle iniziative dei detenuti, fino a diventare il loro Garante per la Regione Lazio, vita natural durante. Ruolo centrale per la destinazione di congrui fondi. La cooperativa 29 giugno entrò a far parte della rete della Lega delle cooperative, quella dove imperò Poletti, ora ministro del Lavoro. Un fiore all’occhiello per la Lega. Buzzi non viene dalla strada, non era un delinquentello di quartiere, anche se è nato alla Magliana, che ha imparato presto la dura legge della vita – mangia o sarai mangiato – e che è progressivamente cresciuto di rango e di reato. È figlio di una maestra e di un grande invalido: a vent’anni è già in banca a lavorare. È un mestiere d’oro, in quegli anni, il lavoro in banca: si guadagna tanto, rispetto i salari medi, un sogno. Ci facevano le canzoni, i nostri cantautori, per dire di come ci si potesse vendere l’anima, di come ci si potesse ridurre in mezzo a quel fiume di denaro. Ma per Buzzi le cose non sono esattamente così: in quel tenore di vita ci sguazza, anzi prova a accrescerlo con qualche “manovrina”. Un gioco di assegni rubati che passa a un pischello di vent’anni ma già svelto di mano e d’ingegno: solo che il pischello si mette a ricattarlo – quella macchinona di Buzzi, come avrà fatto a comprarsela? E tutti quei regali e quelle cene con la giovane brasiliana, come può permettersele? I due si incontrano per un chiarimento definitivo, il pischello ci va armato – almeno è così che la racconta poi Buzzi – una colluttazione, e Buzzi che colpisce e colpisce e colpisce. Trentaquattro coltellate, risultano tante quando le contano. Una storiaccia. Pena complessiva: anni 14 e mesi 8 di reclusione per i reati di omicidio e calunnia. È il 26 giugno 1980. Tre anni dopo, si laurea. E un anno dopo organizza il convegno di Rebibbia. Deve avere del sale in zucca, Buzzi, oltre a essere «un criminale italiano». Per capire il convegno di Rebibbia e tutto quello che venne dopo bisogna capire cosa succedeva dentro le carceri negli anni Ottanta del secolo scorso. Una massa di detenuti politici (che tali non furono mai considerati) e di detenuti politicizzatisi, attraverso le rivolte degli anni Sessanta e Settanta e il lavoro della sinistra extraparlamentare prima e dei Nap dopo, e condizioni di vita sempre più restrittive, a fronte di una popolazione detenuta che aumentava. Si evadeva, si progettavano rivolte, si sparava per le strade. Persino agli architetti delle carceri sparavano. Eppure, invece di puntare a una maggiore militarizzazione e con una opinione pubblica sgomenta e disponibile forse a un discorso ancora più repressivo, ci fu un parlamentare, uno spirito cattolico inquieto e fermo, che riuscì a ribaltare il punto di vista: si chiamava Mario Gozzini. Bisognava allentare la presa, non c’era altro modo per uscire da quella spirale viziosa, più repressione più violenza più repressione. C’era tutta un’area di detenuti politici – quelli dell’Area omogenea di Rebibbia, che cercavano di sfuggire alla tenaglia Brigate rosse/ Stato – che si incontravano con parlamentari di vario segno politico, producevano documenti per convegni, ragionavano sulle possibilità di “socializzare il carcere”. Gozzini non voleva «l’umanizzazione del carcere» – un concetto orrendo –, piuttosto puntava a dare valore e attuazione all’articolo 27 della Costituzione, laddove dice che la pena è rieducativa. E così, la Gozzini (legge 10 ottobre 1986, numero 663), intervenne su permessi premio, l’affidamento al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la libertà condizionale, la liberazione anticipata. Insomma, allentò la presa. È nella formazione di questo quadro normativo e istituzionale che nacque la cooperativa 29 giugno di Salvatore Buzzi. Lui stesso divenne «carne e sangue» di quella possibilità di un percorso di riabilitazione. Il resto è cronaca giudiziaria e politica.

Massimo Carminati, il non-boss della non-mafia, scrive Paolo Delgado il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio".  Di “materiale” contro l’ex Nar ce n’è in abbondanza, ma del tutto insufficiente per chiamare in causa l’onorata società e presentarlo come un capo clan. No, Massimo Carminati non è la versione borgatara di don Totò Riina. La condanna comminata a Roma è pesantissima, sul quanto reggerà al secondo e terzo grado si accettano scommesse. Ma sta di fatto che la vera posta in gioco di questo processo, che non erano le condanne scontate in partenza ma la conferma della “mafiosità” degli associati la porta a casa il Cecato. In aula Carminati ha fatto e anche un po’ strafatto con la palese intenzione di dipingersi come un qualsiasi coatto della serie “teneteme che l’ammazzo”, un tipo pericoloso certo, ma niente a che vedere con i don di Cosa nostra e con il loro ben diverso stile. Era anche quella una recita. Carminati non viene dai casermoni della periferia romana ma dalle palazzine bene di Roma nord, e proprio per questo nella banda della Magliana c’era chi lo guardava storto. Fabiola Moretti, compagna prima di Danilo Abbruciati poi di Antonio Mancini, raccontava che a lei quel ragazzo per bene che non aveva scelto il crimine per bisogno ma per ideologia proprio non andava giù. Qualcosa di ideologico, nella biografia del ragazzo di buona famiglia che già sui banchi del liceo confidava al compagno di classe Valerio Fioravanti di voler «violare tutti gli articoli del codice penale», c’è davvero: quella sorta di non- riconoscimento dello Stato democratico, che soprattutto nei ‘ 70, aveva portato al formarsi di una vera area di sovrapposizione nella quale s’incontravano fascisti affascinati dal crimine e banditi doc ma col cuore nero, come lo stesso Abbruciati, o come il solo vero capo della “bandaccia”, Franco Giuseppucci “er negro”. I pentiti della Magliana, Mancini e Maurizio Abbatino, sono stati negli ultimi anni tra i più decisi nell’accreditare la versione della procura di Roma. Hanno rilasciato interviste a raffica accusando Carminati di essere proprio quel boss dei boss che emergeva dalle migliaia di pagine dell’atto d’accusa. Elementi concreti però non ne hanno mai prodotti e i loro racconti confermano quel che già si sapeva. Massimo Carminati era certamente limitrofo alla Banda, soprattutto tramite Giuseppucci di cui era amico, e si è trovato di conseguenza coinvolto in una serie di fattacci: indipendentemente dalle condanne i pentiti hanno parlato del tentato omicidio di Mario Proietti “Palle d’oro”, per vendicare l’uccisione di Giuseppucci, di un’esecuzione, dell’intervento del Cecato per tirare fuori dai guai il fascista Paolo Andriani, reo di aver “perso” un carico d’armi della banda. Ma è il quadro appunto di un irregolare vicino alla banda, non di un associato e ancora meno di un boss. La stessa cosa si può dire dei Nar, l’altra banda, in questo caso terrorista, che figura a lettere fluorescenti nel pedigree di Carminati. Che fossero amici e camerati è certo. La contiguità non ha bisogno di essere provata e in fondo l’occhio perso che gli è valso il soprannome, il Cecato lo deve proprio alla vicinanza con i Nar. Gli agenti appostati al valico del Gaggiolo, il 20 aprile 1981, aprirono il fuoco contro la macchina nella quale viaggiavano, diretti clandestinamente in Svizzera, Carminati e i due neri Mimmo Magnetta e Alfredo Graniti proprio perché convinti che su quell’auto ci fosse Francesca Mambro. Lo ammisero candidamente al processo e la giustificazione valse un’assoluzione piena. Ma di vere e proprie azioni con i Nar agli atti ne risulta una sola, la rapina miliardaria alla Chase Manhattan Bank del 27 novembre 1979. Ma l’aspetto più sbalorditivo della «straordinaria caratura criminale» del non- boss della non- mafia romana va cercato, più che nelle molto citate frequentazioni dei ruggenti anni ‘ 70, nel silenzio dei decenni successivi. Carminati esce di scena fino al 1999, quando organizza la rapina al caveau del palazzo di giustizia di Roma. Il colpo frutta 18 mld di vecchie lire ma vengono svaligiate anche 147 cassette di sicurezza. Secondo i giornalisti corifei della procura di Roma il vero obiettivo del colpaccio erano proprio quei documenti, che avrebbero permesso a Carminati di ricattare mezzo palazzo di Giustizia. A prenderla sul serio bisognerebbe concludere che nella Capitale il marcio alligna soprattutto da quelle parti: 150 magistrati con segreti tali da essere esposti a ogni sorta di ricatto meriterebbero in effetti l’avvio di una maxi- inchiesta Mafia- Palazzaccio. Complotti a parte, tutto indica che in quei decenni di silenzio, prima e dopo il colpo al caveau, Carminati abbia continuato a percorrere la strada che si era scelto da ragazzo. Le intercettazioni ambientali squadernate nel processo indicano senza dubbio una fiorente attività di “recupero crediti”. Confermano che l’ex fascista con un occhio solo ha sempre continuato a bazzicare la malavita romana, nella quale è altrettanto indiscutibilmente una figura di rispetto. Molto probabilmente è entrato in contatto con l’una o l’altra delle organizzazioni criminali propriamente dette che convivono nella Capitale, qualche volta rischiando la collisione, più spesso accontentandosi della spartizione. Materiale abbondante per parlare di un bandito, come del resto Carminati non esita a definirsi. Insufficiente per chiamare in causa l’onorata società e per fare di Massimo Carminati, già fascista, sodale della banda della Magliana, miliziano con la destra maronita in Libano, più volte detenuto, il gemello diverso di don Corleone.

Le tre vite di Massimo Carminati. Il Nero militante nei gruppi eversivi dell'estrema destra. Il bandito della Magliana autore del colpo al caveau della Banca di Roma. E infine il re del Mondo di mezzo. L'ascesa e la caduta di un criminale che ha attraversato quarant'anni della storia d'Italia. E i suoi misteri, scrive Carlo Bonini il 21 luglio 2017 su "la Repubblica".  Si dice che nei numeri sia scritto un destino. Ed è il Tre che accompagna quello di Massimo Carminati. Tre vite. Tre maschere. Tre mondi.  "Di Sopra". "Di Mezzo". "Di sotto". Le terzine della Divina Commedia, Canto XXIV dell'Inferno. Quelle con con cui l'avvocato Giosuè Naso apre l'arringa nell'ultima difesa nel processo "Mafia Capitale". Le stesse, spese nell'agosto del 1999, di fronte alla Corte di Assise di Perugia. Il collegio che avrebbe assolto Carminati dall'accusa di essere l'esecutore materiale dell'omicidio di Mino Pecorelli, il direttore di Op, foglio di ricatti e veline dell'Italia di Giulio Andreotti, di Gladio, dell'eversione armata, del Paese a sovranità limitata. Un altro secolo per davvero. Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo, salimmo sù, ei primo e io secondo, tanto ch'ì vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle. Ma chi è dunque e davvero Massimo Carminati?

PROLOGO. IL NERO. O DELLA PRIMA VITA. 20 Aprile 1981 - Valico del Gaggiolo. Confine italo- svizzero. La Renault 5 azzurra si avvicinò al valico a fari spenti. Nel bagagliaio, una sacca con 25 milioni di lire in contanti e tre diamanti. All'interno dell'abitacolo, si indovinavano a malapena tre sagome scure. Tre camerati. Chi li aspettava nascosto nel buio, pensò che, forse, il momento fosse davvero arrivato. Quella notte, i poliziotti della Digos di Roma avrebbero chiuso la partita con quel che restava dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), la sigla dell'eversione nera che, in quattro anni, si era macchiata del sangue di trentatré innocenti e cancellato (2 agosto 1980) le vite di ottantacinque tra donne, bambini, uomini nella strage alla stazione di Bologna. Sì, quella notte sarebbe stata la notte. O, almeno, di questo era convinto chi osservava quelle tre ombre nell'auto. Cercavano una donna e due uomini in fuga. Francesca Mambro, Giorgio Vale, Gilberto Cavallini. Quel che restava della testa dell'organizzazione dopo l'arresto di Valerio Fioravanti, "Giusva", il capo dei Nar, e il pentimento di suo fratello Cristiano. Ma non sarebbe andata così. Su quella Renault erano sì tre "neri". Ma di ben altro peso specifico. Sui sedili anteriori, Domenico Magnetta e Alfredo Graniti. Su quello posteriore, Massimo Carminati. Aveva solo 23 anni. Ma il cuore indurito di un vecchio. Perché aveva visto uccidere, perché aveva dimestichezza con il piombo e la violenza. E perché, avrebbe detto tredici anni dopo qualcuno che lo conosceva bene, Antonio Mancini, l'" Accattone" della Banda della Magliana, anche lui aveva dato la morte. " Fu Massimo Carminati a sparare a Mino Pecorelli insieme ad Angiolino il biondo (il mafioso siculo Michelangelo La Barbera, ndr.). Il delitto era servito alla Banda della Magliana per favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari, finanziari, romani. Quelli che detenevano il potere". Massimo Carminati era nato borghese, il 31 maggio del 1958 a Milano. Ed era cresciuto nelle strade di Roma. Le scuole private nel quartiere di Monteverde, l'amicizia indissolubile con chi - Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi, Valerio Fioravanti - insieme a lui si divideva tra le aule dell'Istituto paritario monsignor Tozzi, le sedi del Movimento sociale italiano, la militanza nel Fuan, il fronte studentesco della destra missina. Tra scontri di piazza, pestaggi, rapine di autofinanziamento. In nome dell'Idea. Ammesso si potesse chiamare così. Carminati scappava, in quella notte di aprile. Da un mandato di cattura per partecipazione a banda armata. Il primo della sua vita. Da una storia, la sua, ancora acerba eppure già intrisa di violenza, che il Paese avrebbe conosciuto un po' alla volta. E mai fino in fondo. Nella sua relazione di servizio, la Digos annotò che vennero esplose raffiche di mitra - oltre centoquaranta colpi - che investirono il fianco sinistro della Renault, risparmiando Magnetta e Graniti. Non Carminati. Un proiettile perforò uno dei finestrini e continuò la sua corsa verso il cranio di quel ragazzo. Gli entrò nell'orecchio e gli portò via l'occhio sinistro. Sostiene oggi l'avvocato Giosué Naso che non andò così. Che aspettavano proprio lui, quella notte. Il "ragazzino di Monteverde". Che doveva essere un'esecuzione utile a mettere a posto uno dei tanti doppi fondi di un Paese a sovranità limitata, intossicato da apparati dalla doppia obbedienza, non necessariamente repubblicana. "Ma quale conflitto a fuoco. Quella notte gli spararono in faccia mentre era armato di una patente falsa. Carminati scese dalla macchina con le braccia alzate. I poliziotti gli andarono di fronte e a bruciapelo gli spararono in faccia. Ecco come andarono le cose. Era caduto nel trabocchetto che gli aveva teso Cristiano Fioravanti. Si era pentito e aveva indicato ai camerati i passaggi per il valico del Gaggiolo, facendogli credere che non fosse controllato. In realtà, Cristiano Fioravanti parlava su indicazione degli agenti della Digos di Roma che si sarebbero fatti trovare là. E che gli avrebbero sparato. E sapete perché? Perché Massimo Carminati doveva morire. E sapete perché doveva morire? Perché doveva diventare, da morto, l'autore materiale della strage di Bologna. Questa è la verità. Quella vera. Se volete cercare rapporti equivoci con le Istituzioni e quant'altro, cercate in quella direzione".

Il BANDITO. O DELLA SECONDA VITA. 1977-1981, Roma. Eppure è una creatura anfibia, Massimo Carminati. La notte dell'aprile 1981 in cui perde l'occhio sinistro e la libertà non è già più soltanto il Nero. Ma un'altra cosa. Perché la maschera del militante dell'eversione armata ha il suo reciproco nella tracotanza del bandito di strada. Nel più banale, forse, ma assai più concreto, "se pijamo Roma" della Banda che ha messo insieme Franco Giuseppucci. Il "Negro". "Libano", se si preferisce, o per chi avesse più dimestichezza con l'epica di Romanzo Criminale piuttosto che con gli atti dei processi di quel tempo lontano. Perché la Banda, la Banda della Magliana, se non altro, vive dell'equità della "stecca para", del bottino di rapine diviso in parti uguali. Di belle macchine, belle fiche, di rispetto e, soprattutto, di una montagna di grano. E non, come pretende qualche sacerdote dell'ortodossia nera, che a chi infila la testa in un passamontagna e una 7.65 nei jeans spetti un'elemosina, mentre il grosso della torta serva a finanziare l'Idea. Per carità, lui, Carminati, oggi la smoscia. In un album di famiglia da ragazzi della via Pal. "Io facevo politica. Ma poi la politica ha smesso di essere politica ed è diventata criminalità politica. Perché c'era una guerra a bassa intensità. Prima con la Sinistra e poi con lo Stato. Il "Negro" era il Capo. Era l'unico vero della Banda della Magliana. Era un mio caro amico. Abitava davanti a casa mia. Ci conoscevamo da una vita. Lui ce rompeva er cazzo. Se pijiavamo per culo tutto il giorno. Me faceva: "E daje, vieni cò noi". E io: "Ma sai che cazzo me frega". Insomma, c'era un grande rapporto di amicizia e io conoscevo tutti gli altri. Quando l'hanno ammazzato m'è dispiaciuto. Insomma, ho avuto rapporti cò tutti 'sti altri cialtroni. Ma loro vendevano la droga e io la droga non l'ho mai venduta. Io schioppavo dieci banche al mese". "Sai che cazzo me ne frega", dunque. Sarà. Antonio Mancini, l'Accattone in quella Banda, la ricorda in un altro modo. Oggi ha settant'anni, vive a Jesi, ha chiuso i conti con la giustizia penale e assiste disabili. "Carminati? Era un tipo taciturno. Sapeva parlare l'italiano. Era istruito. Mica uno sbruffone come quegli altri fascistelli dei fratelli Fioravanti. Renato De Pedis lo portava in palmo di mano. E non solo lui. Carminati era diventato l'armiere della Banda. Era l'unico del gruppo dei Testaccini che poteva entrare e uscire dal deposito di armi che avevamo nei sotterranei del ministero della Sanità all'Eur". Quello, tanto per dire, da cui sarebbe uscito il lotto di proiettili Gevelot utilizzati per uccidere Mino Pecorelli il 20 marzo 1979. Nonché uno dei due mitragliatori Mab che verranno ritrovati su un treno Taranto-Milano dove, per ordine degli allora ufficiali del Sismi (il Servizio segreto militare) Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, entrambi iscritti alla loggia P2, erano stati collocati per indirizzare le indagini sulle responsabilità della strage di Bologna verso una fantomatica, quanto artefatta, "pista estera". Già. "Sai che cazzo me ne frega". Può darsi. E può anche darsi che il 13 settembre del 1980, giorno in cui i Proietti, "il clan dei Pesciaroli" di Monteverde, ammazzarono Franco Giuseppucci, er Negro, Carminati "si dispiacque molto" e basta. Ma anche qui, Mancini ha altri ricordi. "Ero stato messo in squadra con Carminati. Dovevamo prendere vivo uno dei fratelli Proietti e torturarlo per farci dire come erano andate le cose con Giuseppucci. Non riuscimmo. Ma Carminati li inseguì per strada con la pistola in pugno". Per la cronaca: i due Proietti che avevano ammazzato in piazza San Cosimato il Negro finirono anche loro agli alberi pizzuti. Il 16 marzo del 1981, Maurizio, "Il Pescetto". Il 30 giugno del 1982, Ferdinando, il "Pugile". E chi del clan ebbe la fortuna di sopravvivere perse la voglia di coltivarne anche solo la memoria.

PORTE GIREVOLI. O DELL'IMPUNITÀ. 1987-2001, Roma. Se è vero che, in quella seconda metà degli anni '70, la Banda della Magliana è un'agenzia del crimine che un pezzo dello Stato e dei suoi apparati deviati utilizzano per i lavori sporchi, per l'indicibile, beh è esattamente allora che Massimo Carminati l'anfibio, il "Nero" e il "Bandito", afferra le chiavi della sua impunità. Getta le fondamenta su cui costruisce l'Epica che diventerà lo specchio del suo narcisismo. Acquisisce il carburante della forza di intimidazione che la semplice pronuncia del suo nome produce sul marciapiede e nei Palazzi. Non fosse altro perché nella grana di ricatti, di verità impronunciabili anche solo plausibili o immaginabili, l'allusione vale quanto e più di una minaccia. Soprattutto, le cambiali non possono non essere onorate. E lui, dunque, sono gli anni '80 e '90, attraversa le patrie galere con la strafottente leggerezza di chi è certo di non dovervi trascorrere un tempo poi così lungo. Nell'aprile del 1987 viene condannato in via definitiva a tre anni e mezzo di reclusione per la rapina alla filiale della Chase Manhattan Bank di Roma (27 novembre del 1979), di cui sconta le briciole. Grazie a due indulti e ad una "riconosciuta rieducazione". Nel 1988, a Milano, la Corte di Appello lo sfiora appena con otto mesi di reclusione per ricettazione. Coperti dall'indulto del 1991. In quello stesso anno, a Roma, prende un anno e sei mesi per rapina, detenzione e porto illegale di armi. Ma non ne sconta un giorno per l'indulto intervenuto nell'anno precedente. È un uomo fortunato, Massimo Carminati. Non c'è che dire. La giustizia, quando arriva, arriva tardi. Dopo un indulto, appunto. Ricorrente come i condoni fiscali ed edilizi. O a babbo morto. Quando i ricordi di chi lo accusa si fanno improvvisamente sfocati e le fonti di prova si scoprono friabili, il che aiuta la generosa tolleranza di chi lo giudica senza chiedersi mai come sia possibile che quel tipo con un solo occhio salti fuori ovunque. Succede con il maxi processo che, nel 1995, trascina nelle gabbie chi della Banda della Magliana (sessantanove imputati) ha fatto parte e le è sopravvissuto. Per Carminati, l'accusa chiede venticinque anni di reclusione per associazione mafiosa. Ne prende meno della metà: dieci. Che diventano sei anni e sei mesi in Appello, quando l'aggravante mafiosa cade. E lui, è il 2006, quando gli viene revocata anche la libertà vigilata, con quella pagina di storia può serenamente dire di aver dunque definitivamente chiuso. Nell'aprile del 1999, da imputato a piede libero, nell'aula bunker del carcere di Capanne, ascolta la pubblica accusa chiedere la sua condanna all'ergastolo quale esecutore materiale dell'omicidio di Mino Pecorelli. A settembre di quell'anno, la Corte di Assise di Perugia lo assolve dall'accusa "per non aver commesso il fatto". Un anno dopo, dicembre del 2000, si libera anche del fantasma dell'omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, "Fausto e Iaio", due militanti della sinistra extraparlamentare uccisi a Milano il 18 marzo del 1978. Di quell'omicidio, alla fine di un'inchiesta durata soltanto 22 anni, è accusato di essere l'esecutore materiale insieme a due ex camerati. Claudio Bracci e Mario Corsi, detto "Marione". Un tipo che, quando l'aria si è fatta greve, ha svernato nell'esilio inglese dove negli anni '80 e '90 molti neri hanno trovato rifugio e impunità e che si è reinventato opinion maker, si fa per dire, nel mondo delle radio libere romane che campano di Roma, intesa come As Roma calcio, usando il microfono come un manganello. Anche per "Fausto e Iaio" viene assolto, come i suoi due compari. Perché è vero che gli indizi sono "significativi", ma restano pur sempre indizi che il tempo, un quarto di secolo, rende incapaci di farsi prova. Il 21 dicembre del 2001, poi, evapora anche il coinvolgimento nel depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna. La storia del Mab uscito dall'arsenale del ministero della Sanità. Per quella faccenda, è accusato di calunnia aggravata, detenzione e porto di armi clandestine ed esplosivi. Ebbene, la Corte di Assise di Appello di Bologna conclude che dalla prima debba essere assolto "perché il fatto non sussiste". E dalle seconde - sono passati ormai 20 anni - perché la prescrizione è arrivata prima di una sentenza definitiva.

IL FURTO AL CAVEAU. O DELLA NUOVA VITA. Roma-Perugia. Estate 1999 - Aprile 2010. Si capisce, dunque, perché nell'estate del 1999 Carminati si rimetta al lavoro. Per ricostruire il suo capitale. Di denaro, da cui è ossessionato, e di ricatti. Nella notte tra il 16 e il 17 luglio, con una banda di scassinatori che conta anche qualche vecchio arnese della Magliana e, soprattutto, la complicità di quattro carabinieri addetti alla sorveglianza degli uffici giudiziari di Piazzale Clodio, svuota le cassette di sicurezza della filiale interna della Banca di Roma. Ma non tutte. Di 900 che ne conta il caveau, ne vengono aperte solo 147. Quelle scelte da Massimo Carminati e che Carminati ha annotato su un appunto che porta con sé. Spariscono almeno 18 miliardi tra valori contanti e gioielli. Una fortuna. Spariscono, soprattutto, carte che in quelle cassette erano custodite. E che appartengono a magistrati (se ne contano ventidue), avvocati (cinquantacinque), cancellieri (cinque), oltre a dipendenti del tribunale (diciassette), imprenditori, liberi professionisti. E di cui nessuno, curiosamente, si affanna a chiedere o chiederà mai conto. Né nella fase delle indagini preliminari, né in quella del processo quando, una volta accertati i responsabili, non una delle vittime del furto si costituirà parte civile. E per una sola plausibile ragione. Che non si chiede conto di qualcosa di cui è meglio si ignori l'esistenza o di cui si farebbe fatica a giustificare la provenienza. "Ma quale lista? Ma quale ricatto? Furono aperte solo le cassette di sicurezza che non reggevano al primo impatto. Banalmente, chi fece la rapina aveva fretta. Non c'era tempo per aprirle tutte", ricostruisce l'avvocato Giosué Naso raccontando quel colpo come una scampagnata, per altro funestata da un cambio di programma - "Il piano prevedeva di svuotare l'agenzia interna della Corte di Cassazione e si ripiegò sugli uffici del tribunale, perché lì i turni di guardia, almeno quelli in programma, consentivano di avere più tempo. Cosa che per altro poi non si verificò " - e di cui, soprattutto, non si comprenderebbe la suggestione. "Vogliamo forse dire che tra i derubati vi fossero persone che consentono di avere il sospetto che si trattasse di uomini ricattabili o che custodissero segreti inconfessabili? Vogliamo forse dire questo di quel galantuomo che sarebbe stato il futuro presidente della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi? O dell'ex commissario antimafia Domenico Sica? Vogliamo scherzare?". Nessuno ha voglia di metterla all'ingrosso, né di scherzare. Sicuramente non ne aveva Massimo Carminati. Sicuramente non lo presero come uno scherzo alcune delle vittime di quel furto. Magistrati come Orazio Savia, per dirne una, ex pm che nel 1997 sarebbe stato arrestato e condannato per corruzione. E forse neppure lo stesso Sica. Che fu, certo, Commissario antimafia, ma anche il magistrato che scippò l'indagine P2 alla Procura di Milano per condurla sul binario morto degli uffici giudiziari di Roma. Il "Porto delle nebbie", come era stato ribattezzato per lustri. L'approdo sicuro, la stanza di compensazione, che godeva di un "rito alternativo", non scritto, compatibile con le alchimie del Potere. E che aveva visto amministrare giustizia magistrati come Claudio Vitalone, pm dal 1966 al 1979, quindi sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello, creatura di Giulio Andreotti, con cui avrebbe condiviso, da deputato, l'appartenenza alla Dc e, da imputato, il processo per l'omicidio Pecorelli. Da cui, come Andreotti e come Carminati, sarebbe uscito assolto. È un fatto che il processo per i responsabili del colpo al caveau, a cominciare da Carminati, il suo architetto, abbia una curiosa parabola. Si celebra a Perugia, tribunale competente perché tra le vittime del reato figurano appunto magistrati del distretto di Corte di Appello di Roma. Ma qui, molti testimoni smarriscono la memoria. Il principale e unico reo confesso, il "cassettaro" Vincenzo Facchini, si rifiuta di fare persino il nome di Carminati. "Ma che domande mi fa? Lei mi vuole forse far mettere la testa sulla ghigliottina", dice allora al giovanissimo pm Mario Palazzi che lo interroga. Per giunta, per almeno un mese, i carabinieri effettuano indagini sui responsabili del furto lasciando all'oscuro i pubblici ministeri. E per ragioni che non verranno mai chiarite in nessuna sede. La storia finisce, dunque, come è scritto che finisca. E come, in un recente libro (La Lista: il ricatto alla Repubblica di Massimo Carminati, Rizzoli), ha ricostruito nel dettaglio Lirio Abbate. Il 2 aprile del 2005, Massimo Carminati viene condannato a quattro anni di reclusione. Sentenza che diventa definitiva nell'aprile del 2010 e che di fatto viene cancellata dall'indulto votato l'anno successivo dal Parlamento. Carminati salda i conti con sei mesi di affidamento in prova ai servizi sociali. Nel 2012, la sua pena è estinta. Una nuova vita può cominciare.

DI SOPRA, DI SOTTO, DI MEZZO. O DEI TRE MONDI. Roma, 2012-2014. Nel 2012, l'aria che Massimo Carminati respira da uomo liberato dalla sua ultima coda giudiziaria, deve apparirgli luminosa, frizzante. È "un bell'incensurato", dice. Gli hanno restituito il passaporto. Può viaggiare. E andare a Londra "per incontrare vecchi amici che non vedevo da secoli". Non ha nemmeno sessant'anni ed è pronto per la sua terza vita. Che è la sintesi sublime delle prime due. Con il vantaggio della maturità, del prestigio del Capo, del disincanto. Che oscilla incessantemente tra cinismo e narcisismo. Che gli consente di guardare dritto negli occhi campioni delle nuove e vecchie mafie, come il boss di Camorra Michele Senese, un altro che la galera, dove pure dovrebbe stare, non sa cosa sia. Il '900 è finito e ha divorziato dall'Idea, Massimo Carminati. E anche dall'obbligo di sporcarsi le mani. Perché qualcun altro lo fa per lui. Ma non ha mollato la strada, né deroga dalle sue regole ferree. Coltiva piuttosto l'ambizione canuta di immaginare una vita diversa per suo figlio, e un reimpiego dei soldi che ragionevolmente nasconde in Inghilterra, investiti nel mattone e garantiti da vecchi camerati che da quel Paese non sono più tornati. Ha soprattutto un patrimonio di relazioni, quello dei "vent'anni", della sua prima vita, da spendere. Perché i camerati di allora non si sono soltanto fatti vecchi come lui. Hanno camminato e rimontato il vento della Storia. Sono usciti dalle "fogne". E il purgatorio del post-fascismo è stata tutto sommato una passeggiata. Come indossare le grisaglie del Potere. Le porte del governo del Paese si sono aperte presto, molto prima di quanto potesse immaginare. E ora sono lì, con le leve del comando strette tra le mani. Nelle grandi aziende di Stato, come Finmeccanica. Nel governo della Capitale e del Paese. Quindi ora tocca a lui. Anche a lui. Che ha un vantaggio. Non potranno negargli una sedia al tavolo imbandito. Perché ha diritto a sfamarsi quanto gli altri. E soprattutto perché lui ha afferrato prima degli altri la regola millenaria che governa le cose degli uomini. Sicuramente quelle di Roma. Dalla notte dei tempi. La parabola dei tre Mondi. Non fosse altro perché di uno di quei mondi, il più importante, è padrone. "Ci stanno i vivi sopra, e i morti sotto. E poi ci siamo noi, che stiamo nel mezzo. Un mondo in cui tutti si incontrano. E tu dici: "Cazzo, com'è possibile che quello... Che un domani io posso stare a cena con Berlusconi.... Capito? Il Mondo di Mezzo è quello dove tutto si incontra... Si incontrano tutti là... Allora, nel Mezzo, anche la persona che è nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non può fare nessuno... E tutto si mischia". L'assunto ha un corollario. "Noi dobbiamo intervenire prima. Non si può fare più come una volta. Che noi arriviamo e facciamo i recuperi. A noi non ci interessa più. Cioè, questi devono essere nostri esecutori... Devono lavorare per noi. Deve essere un rapporto paritario. Dall'amicizia deve nascere un discorso che facciamo affari insieme. Perché tanto, nella strada, comandiamo sempre noi. Non comanderà mai uno come loro sulla strada. Avranno sempre bisogno di me". È un esito, quello di Massimo Carminati, che suggerisce a Otello Lupacchini, magistrato, giudice istruttore del processo al Banda della Magliana, considerazioni dotte e insieme fulminanti. Che consegna al suo blog sul Fattoquotidiano.it. Scrive Lupacchini: "Werner Sombart, economista e sociologo, capocorrente della nuova scuola storica tedesca e uno tra i maggiori autori europei del primo quarto del XX secolo nel campo delle scienze sociali, a proposito dei "magnati dei grandi trust americani", diceva: "Sono filibustieri e calcolatori furbissimi. Signorotti feudali e speculatori insieme". Questa definizione può valere, mutatis mutandis, anche per Massimo Carminati. Che con i super imprenditori capitalisti sembra condividere l'abito mentale fondato su uno strano spostamento di posizione dell'uomo. Infatti, l'uomo vivo, con il suo bene e il suo male, con le sue esigenze e i suoi bisogni, è stato respinto dal centro dell'interesse e il suo posto è stato preso da un paio di astrazioni: il guadagno e l'affare (...) Per Massimo Carminati, ogni attività viene ridotta a pura e semplice agenzia di servizi, finalizzata a implementare le reti clientelari che sono la vera fonte dell'arricchimento speculativo". Dall'Agenzia del Crimine a quella di Servizi. In una coerenza che non ha smarrito per strada la forza dell'intimidazione. Piuttosto l'ha messa a reddito.

BUZZI, MANCINI&CO. O DEL NUOVO PANTHEON. Roma. 2012-2014. Nel nuovo Pantheon di Massimo Carminati non c'è dunque bisogno - e non c'è spazio, soprattutto - per figure eroiche. Il Mondo di Mezzo non chiede né Epica, né il nichilismo dell'Idea. Al contrario. Chiede mani svelte, furbizia, menzogna, ferocia. Chiede un tipo come Salvatore Buzzi. Il "Rosso", si fa per dire. Assassino riabilitato. Esempio luminoso di una Giustizia e di un carcere che recupera e non affida a una discarica. Un insostenibile logorroico, spesso petulante, millantatore, pecora con i lupi e lupo con le pecore. Campione, con la sua cooperativa sociale XXIX Giugno, di un terzo settore senza il quale il welfare del nostro tempo e delle nostre città va a sbattere. Alloggi e assistenza ai migranti. Campi Rom. Servizio di manutenzione dei giardini, assistenza ai disabili. "Un business che rende più della droga". Quella che Carminati non tocca. Ma con cui, se capita, Carminati fa felice qualche amico che ci lavora, che se la pippa o che semplicemente ci guadagna. Il rapporto tra il "Rosso" e il "Nero" è impari. E non soltanto perché Buzzi è un debole, un adulatore, un cane pastore che si crede furbissimo, ma furbissimo non è. E che sempre di un padrone ha bisogno, Massimo Carminati. Ma perché nel vincolo tra i due è scritto il codice genetico di Mafia Capitale. La sua ragione sociale. L'uno, Buzzi, mette lavoro, capitale umano e finanziario, vent'anni di commesse all'ombra di antichi padrini politici che non contano più come un tempo, fondi neri per ungere le ruote di una politica vorace e di un'amministrazione pubblica tanto fradicia quanto miserabile nelle sue richieste pitocche (un'assunzione in cooperativa, un appartamentino, un posto da impiegati allo zoo comunale) e che, per giunta, vorrebbe continuare a "mungere la mucca" (Buzzi) senza "farla magna'". L'altro, Carminati, mette il peso del suo nome. Quello che evoca e che può muovere sulla strada. La sua rete di relazioni. I camerati che non gli possono dire di "no". E che a Buzzi servono come l'aria, se non vuole morire annaspando. Se vuole lavorare. "Quattro ladri di polli che sparavano cazzate ai tavolini di un bar", dice l'avvocato Giosué Naso. "La Mafia del benzinaro" di Corso Francia, chiosa sarcastico lui, Carminati. Che aggiunge: "Io sono solo un vecchio fascista degli anni '70. Contento di esserlo. Perché noi, quelli della comunità degli anni '70, la pensavamo in un certo modo e continuiamo a pensarla allo stesso modo. Non accannare la gente in mezzo alla strada. Non accannare gli amici. Sono i valori di quando eravamo ragazzi e sono i migliori che ci sono rimasti". Chi sa cosa ne pensa Riccardo Mancini. Il "camerata Mancini". Compagno di batterie e di rapine nei "magnifici '70", è il primo alla cui porta bussa il riabilitato Carminati dopo essersi liberato della seccatura della condanna per il caveau. Lo deve far lavorare. E farlo lavorare significa saldare le pendenze con la cooperativa di Buzzi, che ora è suo "socio". Non è un piacere quello che chiede. È un ordine. Perché lui, Mancini, può far credere al mondo intero quello che vuole. Magari di essere diverso soltanto perché è stato la tasca di Gianni Alemanno, nuovo sindaco di Roma, e con Alemanno è arrivato in Paradiso. Tesoriere della Fondazione Nuova Italia, amministratore delegato dell'ente Eur spa. Ma lui sa bene che non è mai cambiato. Che è rimasto quello dei 20 anni. Un tipo che bussa a quattrini per l'appalto cui la Breda Menarini concorre per la fornitura di filobus. E, soprattutto, che sa che a Massimo "no" non glielo dici. Altrimenti, quello, "ti fa strillare come un'aquila". Riccardo Mancini, Salvatore Buzzi. E non solo. Nel Pantheon della terza vita Massimo Carminati incrocia un variopinto campionario di tipi umani che condividono la stessa dannazione del Capo a cui si sono fatti subalterni e a cui baciano l'anello. Ma senza spartirne l'orizzonte. Sono tutti "amici", dicono di loro. "Si vogliono bene", e chi sa se davvero lo hanno mai pensato. Perché la verità è che sul proscenio di Mafia Capitale, Riccardo Brugia, Franco Testa, Luca Gramazio, Franco Panzironi, Luca Odevaine, Roberto Lacopo, Matteo Calvio sono comparse fungibili di un canovaccio dove la parola "amicizia" conosce sempre una sola declinazione e significato: "Ritorno". Dove nessuno si muove per nulla. E ce ne deve essere per tutti. Perché, e questo lo dice quel saggio di Buzzi, "una mano lava l'altra e due lavano il viso".

L'ESAME DELL'IMPUTATO. O DELLE MASCHERE. 29-30 Marzo 2017 - Roma Aula Bunker Carcere di Rebibbia. Per due anni, dall'isolamento del 41 bis del carcere di Parma, Massimo Carminati, nella presenza silenziosa in video-collegamento con l'aula bunker del carcere di Rebibbia, ha parlato solo il linguaggio del corpo. Una silhouette nera. A tratti sfocata. Ora seduta. Ora impegnata nell'ossessivo e disperato andirivieni dei detenuti, di ogni detenuto, negli spazi angusti. Una gabbia, o la sala dei collegamenti. Doveva sciogliere un'alternativa del diavolo. Tacere. Tenendo fede al mito costruito in trent'anni. O sciogliersi in un fiume di parole. Posare da Padrino, consegnandosi definitivamente al suo mito. O contorcersi da guitto, in una aggiornata "Febbre da Cavallo". Ha scelto di parlare per due giorni interi rimanendo tuttavia prigioniero in quel guado. Un po' Padrino. Un po' guitto. Raramente sincero (solo lì dove non aveva davvero nulla da perdere), spesso posticcio. Anche a costo di suonare svampito. Con un effetto. Apparire improvvisamente vecchio. Ingiallito. Non per questo innocuo. Collerico e vanaglorioso. In una recita della romanità che vuole i figli dell'urbe fanfaroni, chiacchieroni, spesso "cazzari". Sarcastici e feroci. Ma non "diversi", come forse lui avrebbe voluto, immaginando che il criterio "geografico" si traduca in un principio di eccezione nell'interpretazione e applicazione del codice penale. "Questo esame lo sto facendo perché me lo avete chiesto voi. Mi avete così perseguitato... Che se fosse stato per me non lo avrei mai fatto. E quindi, se mi scappa la frizione, avvocato, mi fermi. Ci pensi lei". In quei due giorni, Massimo Carminati ha soprattutto posato a vittima. Si è detto prigioniero di una macchinazione giornalistica, giudiziaria, letteraria, cinematografica, che gli avrebbe cucito addosso un abito non suo. Una presunzione di colpevolezza incostituzionale. In forza di un mito e un'epica con cui non avrebbe nulla a che vedere. "Una cosa ridicola. Magari fossi il Samurai del libro Suburra. Che mo' Netflix ci fa pure la serie. La katana che mi hanno regalato e che mi hanno sequestrato quando mi hanno arrestato me l'avevano regalata per prendermi per il culo dopo che era uscito il libro. Non era una vera spada da Samurai. Serviva per sfilettare il tonno". Insomma, Carminati con un qualunque signor Malaussene che ha attraversato quarant'anni di storia repubblicana per fare da parafulmine. In un mantra dell'autocommiserazione che, del resto, persino nelle alluvionali intercettazioni telefoniche e ambientali di due anni di indagine ricorreva come un esorcismo. O, magari, come la precostituzione, a futura memoria, di un argomento a difesa. "Hanno scritto su di me che sono stato il killer della P2, il killer dei Servizi. Che sono stato tutto e il contrario di tutto. Che sono stato qualunque cosa. Dalla strage di Bologna a qualunque cosa. Tutto quello che mi potevano accollare me l'hanno accollato". Al punto da immaginare una fine che cancelli ogni traccia fisica di sé, quando sarà il momento di congedarsi da questo mondo. "Tanto mi faccio cremare. Mi faccio buttare nel cesso. Lascio in giro soltanto un pollice. Sì, voglio lascià in giro solo quello. Un pollice. Così, dopo che sono morto, fanno qualche ditata su qualche rapina. Su qualche reato. E così dicono che sono ancora vivo. Tanto a me non mi frega un cazzo della vita". Quella che è cominciata ieri. La quarta. E che si annuncia molto diversa dalle altre.

Roma 20 luglio 2017 - Aula bunker del carcere di Rebibbia. "In nome del popolo italiano, il Tribunale, ritenuta la sussistenza di due distinte associazioni.... Esclusa l'aggravante mafiosa di cui all'articolo 7.... Dichiara Carminati Massimo colpevole dei reati di cui ai capi di imputazione.... E lo condanna ad anni 20 di reclusione e 14 mila euro di multa...". L'accusa di mafia era caduta. I 28 anni e sei mesi chiesti dalla pubblica accusa si riducevano di un terzo. La silhouette nera in video collegamento dal carcere di Parma non mosse un muscolo. Poi, conclusa la lettura del dispositivo, sul banco della difesa squillò il telefono che collegava agli imputati in ascolto dalle carceri esterne. L'avvocato Ippolita Naso sollevò il ricevitore. "Massimo, Massimo, eccomi. E allora? Hai capito? Niente mafia. Niente mafia!".

"Niente mafia!".

"Eh. Sì. E quindi, ora, quando esco?".

E già, le terzine del cantico.

Lo duca e io per quel cammino ascoso

intrammo a ritornar nel chiaro mondo;

e sanza cura aver d'alcun riposo,

salimmo sù, ei primo e io secondo,

tanto ch'i' vidi de le cose belle

che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

Lo show di Carminati: «Io sono un vecchio fascista degli anni 70», scrive Vincenzo Imperitura il 30 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Mafia capitale, il protagonista del “mondo di mezzo” a ruota libera in tribunale: «Ho sempre saputo di essere controllato, ho un solo occhio ma ci vedo benissimo». Seduto su una sedia di plastica, attorniato dal mare di carte del maxi processo su “Mafia capitale” che lo vede alla sbarra come imputato principale, e ripreso da una telecamera fissa che fa un po’ serie poliziottesca, Massimo Carminati è un fiume in piena. Così impaziente di rispondere, per la prima volta nella sua lunga “carriera” processuale, che si infuria quando il collegamento dal carcere di Parma crea qualche imbarazzo. Ha il senso dello spettacolo Carminati: è consapevole delle decine di giornalisti che affollano l’aula bunker del carcere di Rebibbia (e che non lo possono riprendere per la prima volta in 180 udienze), e non si fa mancare qualche colpo di teatro, in una deposizione, dice l’avvocato Ippolita Naso introducendo l’interrogatorio «che sarà limitata, come limitato è stato il diritto alla difesa del mio imputato, tuttora rinchiuso in regime di carcere duro». Nel lungo racconto dell’ex terrorista nero ci sono almeno un paio di punti fermi. Punti sui quali il presunto capo del “mondo di mezzo”, torna più volte durante la prima delle due giornate che lo vedranno impegnato in prima persona: la rivendicazione (quasi tronfia) della propria storia fascista, e la “persecuzione” giudiziaria di cui sarebbe stato vittima negli anni. «Io sono un vecchio fascista degli anni ’ 70, e sono contento e felice di quello che sono. Non ho niente da nascondere, niente di cui vergognarmi» dice sicuro Carminati, mentre Salvatore Buzzi, dal carcere di Tolmezzo, lo osserva in piedi, sgranando gli occhi e passeggiando stancamente lungo la stanzetta del video collegamento. «Io sono un vecchio fascista, non c’entro niente con i servizi. Qui sostenete che abbia collegamenti con i servizi segreti ma la verità è che quando mi associano ai servizi, io in realtà mi offendo. Mi accusano di avere ricevuto notizie relative all’inchiesta da due poliziotti del commissariato di Ponte Milvio e da un vecchio maresciallo in pensione. Ma io sono un pregiudicato ed è normale che fossi conosciuto dai poliziotti di quartiere che venivano a controllarmi continuamente, soprattutto durante il periodo in affido. Ma – dice senza mai perdere la calma e con gran senso dei tempi scenici – mettiamoci d’accordo. Questi, ma che potevano fa’? Le cose sono due, o io sono Fantomas come mi descrivete e quindi mi relaziono con chi dite voi, o sono un cretino, che parla con degli sfigati che non mi possono aiutare». Per contrastare l’ipotesi di avere ricevuto segnalazioni sull’indagine che lo riguardava poi, il “cecato”, ha anche dato lezioni di investigazione in aula, raccontando di essersi accorti immediatamente dei pedinamenti, ma di averli associati alla perquisizione subita qualche giorno prima. «Sono sempre stato sotto controllo, ma dopo la perquisizione le cose sono peggiorate. Ma i pedinamenti erano visibilissimi, cioè era impossibile non vederli. Una volta – ha detto ancora l’imputato – si sono fermati in due in una macchina davanti a una banca, e la polizia che è passata più volte lì davanti non si è mai fermata. Cose che se mi ci mettevo io lì davanti a una banca, in due minuti arrivava l’esercito». Carminati poi è certo di essere stato usato come cardine per dare “forza” all’intero procedimento e, incurante dei 32 capi d’imputazione che gli vengono contestati, dall’associazione mafiosa alla corruzione, passando per l’usura e la violenza, ripete più volte di essere stato descritto come il male in persona. «Senza di me questo processo sarebbe stato ridicolo – affonda – invece c’è Carminati in mezzo e quindi cambia tutto. Ma forse – dice ancora – questo pensiero è solo figlio del mio Ego ipertrofico. Sulla figura del perseguitato Carminati ritorna più volte, intervallando il racconto con piccole frasi prese dalla strada. «Io c’ho un occhio solo, ma ci vedo benissimo» oppure, raccontando di quando avrebbe “fiutato” l’indagine che lo riguardava «La preda sa sempre che il cacciatore è in agguato». Ma sono i giornalisti le vittime preferite degli affondi di Carminati: «Io sono diventato una macchietta, chi mi conosce sa che sono una macchietta. Mi hanno dato del “Nero” di Romanzo Criminale, del samurai, mi hanno rotto tutti le palle. Ma queste cose che in un certo tipo di mondo ti rende ridicolo, non sono cose che ti danno potere, sono cose che ti fanno diventare deficiente. Tutti quelli che mi conoscono mi prendevano per il culo su questa cosa, sono diventato una macchietta, questa è la verità. Non sto dicendo che sono una mammoletta. Ma non c’entro nulla con Romanzo criminale, con i samurai e con tutte queste puttanate».

Banditello comune o boss de noantri? Ecco chi è Carminati…, scrive Paolo Delgado il 31 Marzo 2017 su "Il Dubbio". “Mafia capitale”, biografia di Carminati: la prima pistola se la procurò a 16 anni, più per sparare ai compagni che per rapinare le banche. È un bandito come tanti (non tantissimi però e ci tiene a rimarcarlo, con quel passato politico rivendicato in partenza e i continui riferimenti al senso dell’onore) oppure è il Totò Riina de noantri, il capo dei capi nella Capitale? Che la personalità e il ruolo dell’imputato pesino in un processo penale è consueto, ma che l’intera architettura dell’accusa dipenda dalla risposta a quegli interrogativi è invece inusuale. Trattasi anzi di un caso forse unico. «Senza di me questo processo è ridicolo»: almeno in questo Massimo Carminati ha senz’altro ragione. Se si tratti di una volgarissima storia di mazzette come in Italia se ne contano a mucchi o se invece ci si trovi di fronte a un modello nuovo e diverso, ma non meno pericoloso, di mafia dipende solo da questo: dal chi è davvero Massimo Carminati. E’ solo la sua presenza che giustifica l’accusa di mafia rivolta a una cooperativa abituata a distribuire tangenti e a una banda dedita essenzialmente al recupero crediti. Senza Pirata lo storico processo non va oltre un fattaccio di corruzione spiccia e cravattari di mano pesante. Criminale Massimo Carminati lo è di sicuro, e non fa nulla per nasconderlo. Al contrario rivendica: «Nel mondo di sotto ci sono pochi comandamenti, magari solo 3 ma li si rispetta. Le anime belle che stanno di sopra ne hanno dieci ma non ne rispettano nemmeno uno». La prima pistola se la procura a 16 anni, più per sparare ai compagni che per rapinare banche. «Sono un vecchio fascista degli anni ‘ 70 e sono contentissimo di esserlo», spiega ai giudici di Mafia Capitale nella sua prima deposizione dopo una quarantina d’anni di mutismo in numerose aule di giustizia. Nei ‘ 70 frequenta il Tozzi, scuola privata di Monteverde. In classe ci sono Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi e Valerio Fioravanti, il nucleo centrale dei primi Nar, e c’è Maurizio Boccacci, futuro naziskin. Rispetto ai Nuclei armati rivoluzionari, Carminati è in realtà una figura anomala. Più che i bar di Monteverde bazzica il Fungo dell’Eur, altro luogo di ritrovo fisso del neofascismo romano, dove conta tra gli amici intimi i fratelli Bracci, che come lui sembrano subire il fascino della delinquenza pura oltre che della politica armata. A differenza degli altri Nar non viene dal Msi, e si configura già come una sorta di lupo solitario. Il ruolo visibilmente lo compiace, tanto da vantarsene ancora adesso: «Fanno la fila per ammazzarmi ma io posso stare solo contro tutti». Quando nel corso della prima rapina dei Nar, quella all’armeria di Monteverde Centofanti, Anselmi viene ammazzato dal proprietario, Carminati, per vendetta, piazza una bomba nel negozio. Fioravanti, che con i Nar sta pianificando l’omicidio del bottegaio, vede sfumare la rappresaglia e si risente. Tra i due, in realtà, non corre ottimo sangue e ancora oggi entrambi parlano dell’altro con un filo di disprezzo. Il futuro don capitolino coinvolge infatti nei suoi rapporti con la criminalità comune Alessandro Alibrandi e Fioravanti, che in materia è piuttosto moralista, non gliela perdona. Essendo quella dei Nar soprattutto una sigla a disposizione di chiunque avesse voglia di adoperarla, è difficile dire chi abbia davvero fatto parte della più famosa banda armata di estrema destra in Italia. Però Francesca Mambro è tassativa: Massimo non era dei Nar. Il particolare non è solo pittoresco. Proprio la militanza sia nei Nar che nella famigerata “banda” è infatti la fonte di quella “straordinaria caratura criminale” che nell’ordinanza della procura di Roma viene segnalata più volte e che, sola, giustifica l’accusa di associazione mafiosa. Franco Giuseppucci, Er Negro, Carminati lo conosce al bar che entrambi, vicini di casa, frequentano. Il primo capo della banda della Magliana è un fascistone, si tiene in casa il busto di Benito, il ragazzino fascista e determinato gli sta simpatico. Il rapporto tra i due vale a Carminati l’arruolamento d’ufficio nella banda resa celebre dal Romanzo di De Cataldo, con annesso film e due fortunatissime serie tv. In realtà il rapporto con la bandaccia non è diverso da quello con i Nar: Carminati è contiguo, mai davvero interno. Er Negro chiede qualche favore e secondo i pentiti, non suffragati però da sentenze di condanna, si tratta di favori sanguinosi, incluso l’omicidio Pecorelli. Qualche favore concede in cambio: Carminati gli affida i frutti delle rapine, Giuseppucci li presta a strozzo e poi gli consegna i cospicui interessi. A conti fatti per la lunga scia di sangue che la banda si porta dietro, la sola condanna che colpirà anche il fascista sarà per il deposito di armi della banda nei sotterranei del ministero della Salute. Leggenda vuole che Carminati fosse l’unico ad avere accesso a quell’arsenale oltre ai pezzi da novanta della banda. In realtà, a spulciare le testimonianze, viene fuori che se l’ingresso non era certo libero, non era neppure così riservato e limitato. La menomazione a cui deve il piratesco soprannome è conseguenza di un’imboscata in piena regola. il 20 aprile 1981. Alle origini ci sono probabilmente le confessioni di Cristiano Fioravanti che, arrestato pochi giorni prima, indica alla polizia il varco di frontiera che i Nar usano di solito per passare in Svizzera. L’appostamento mira a catturare Francesca Mambro, ammetteranno al processo i poliziotti, e quando passa la macchina sospetta mitragliano 145 colpi. Dentro, invece, ci sono Carminati, altri due fascisti, una ventina di milioni ma nessuna arma. I camerati restano illesi. Carminati perde l’occhio. «Da allora – ha detto ieri in aula l’imputato numero 1 – tra me e il mondo c’è una guerra che non è ancora finita». Da allora Carminati ha deposto i modi da ragazzo di buona famiglia che i compari della bandaccia ricordano adottando il tipico romanesco della coatteria locale. Da allora ci sono stati una sfilza di processi e un congruo numero d’anni passati in galera. La sola condanna seria arriva però per il furto al caveau del palazzo di Giustizia di Roma, nel 1999. Secondo alcune fantasiose belle penne il colpo gli permise di trafugare documenti riservati tanto deflagranti da tenere in stato di perenne ricatto un cospicuo numero di magistrati. Se fosse vero risulterebbe lievemente inquietante sapere che i giudici della Capitale sono in buona quantità ricattabili. Se fosse vero, peraltro, si capirebbe fino a un certo punto come mai il ricattatore soggiorna da oltre due anni nelle patrie galere in regime di 41bis, ormai unico o quasi a godere di quelle delizie ancora prima della prima condanna. Massimo Carminati sa perfettamente che in questo processo tutto dipende non da cosa ha fatto ma da chi è: senza dubbio si adopera per sminuire il proprio stesso ruolo. E’ certo che le frequentazioni e la dimestichezza con i boss della Capitale indicano un ruolo meno marginale di quanto voglia far sembrare. Ma, almeno agli atti, prove della sua sovranità sulla Roma criminale e quindi della sua primazia mafiosa proprio non sembrano esserci.

Mafia Capitale. Una Repubblica Ricattabile. I segreti della lista Carminati. Il ricatto alla Repubblica parte nell'estate del 1999 quando Massimo Carminati penetra nel caveau della banca a palazzo di Giustizia di Roma, e sceglie 147 cassette eccellenti. Adesso l'Espresso rivela la lista. E i suoi segreti. È un furto su commissione diretto a ricattare qualcuna delle vittime. Fra loro si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. E poi avvocati. Sono persone connesse con i più grandi misteri d’Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all’omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura. Di Lirio Abbate il 20 ottobre 2016 su Espresso TV

Gli avvisi di Carminati e i segreti ancora potenti. Cosa vuole dire e a chi parla il boss di mafia Capitale sotto processo a Roma, scrive Lirio Abbate il 28 novembre 2016 su "L'Espresso". Massimo Carminati sembra ossessionato dalle inchieste dell’Espresso. Un chiodo fisso che lo porta a svelare segreti mai confessati prima. Così, al tavolo giudiziario attorno al quale si sta giocando la partita processuale di mafia Capitale, il “re di Roma” ha calato il jolly: la vicenda dei documenti riservati rubati nel caveau della Banca di Roma nel 1999. Per 17 anni Carminati non ne aveva parlato: ha deciso di farlo dopo l’inchiesta di copertina dell’Espresso, “Ricatto alla Repubblica”. Nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999 il “nero” guidò un commando nel sotterraneo blindato della filiale di piazzale Clodio, all’interno della cittadella giudiziaria di Roma, svaligiando 147 cassette di sicurezza, selezionate da 900, con la complicità di alcuni carabinieri di sorveglianza. Mai nessuna delle vittime ha denunciato la sottrazione di quei documenti, perché - come scrivono i magistrati nella sentenza con cui è stato condannato Carminati - era difficile che qualcuno in possesso di questo materiale riservato fosse disposto a denunciarne la scomparsa. Eppure uno dei temi del processo che si è svolto a Perugia su quel furto era questo: il colpo di Carminati e soci poteva servire proprio ad acquisire documenti segreti. Da quasi due anni Carminati è in carcere. Ora parla in aula e ammette per la prima volta di aver rubato quei documenti. "È ovvio dal 2002 da dove proviene la mia disponibilità economica. Se c'erano tutti questi dubbi sulla mia partecipazione al colpo del caveau a piazzale Clodio (avvenuto nel luglio del 1999 ndr) potevano dirlo subito così mi assolvevano invece di condannarmi. C'erano tanti documenti in quel caveau, ma anche tanti soldi e io qualche soldo l'ho preso". Carminati è uomo attento e meticoloso. È uno stratega. Proprio come lo sono i boss delle mafie tradizionali. Per questo motivo martedì 22 novembre non gli possono essere sfuggite per caso frasi che rimandano a ricatti e intimidazioni. Ha detto espressamente: «È vero, c’erano molti documenti, e così fra un documento e l’altro ho preso pure qualche soldo». Un’affermazione che serve solo in apparenza a spiegare l’origine del suo patrimonio («qualche soldo»): il riferimento importante è invece quello ai documenti. In un dibattimento nel quale accusa e difesa si stanno scontrando sul sistema Carminati: sul fatto se sia o no mafia. Sono in molti ad ascoltare le parole di Carminati. Ma pochissimi danno il giusto peso a questa affermazione del “nero” sui documenti. Eppure proprio in questo passaggio è nascosta la “nuova mafia” romana. Meglio, il metodo mafioso. Oggi abbiamo la certezza che in alcune delle cassette aperte c’erano documenti importanti su cui Carminati voleva mettere le mani, grazie a questa ammissione fatta in aula. Il nostro titolo era “Ricatto alla Repubblica”, appunto. Perché il “nero” ha potuto godere a lungo di protezione grazie anche a queste carte. Oggi la storia può essere diversa perché diverse da allora sono le persone nei posti chiave della magistratura e delle istituzioni. Ma c’è sempre la possibilità che qualcuno abbia qualcosa da temere da quelle carte. Ed è per questo motivo che in aula Carminati ora ricorda di aver preso tanti documenti scottanti. Si tratta di un avviso ai naviganti. A quei marinai che con lui hanno solcato i mari in tempesta. E adesso stanno a guardare. I boss mafiosi come Riina e Bagarella non hanno bisogno di impugnare una pistola per incutere terrore: a loro basta uno sguardo, un gesto, una parola, per minacciare e intimidire. È ciò che accade anche con Carminati. Aver ricordato adesso i documenti sottratti durante il “furto del secolo”, come venne definito nel 1999, è un gesto di minaccia tipico della mafia e del metodo mafioso, ma anche un segnale che mostra il salto di qualità di questa mafia romana. Non accade per caso, ma alla vigilia di una importante sentenza - e dopo la nostra inchiesta che tanti fastidi ha provocato al “cecato”. Ora abbiamo la conferma che siamo davanti a una persona in grado di parlare a pezzi del Paese che ancora non conosciamo. E lo fa attraverso annunci che consegnano messaggi precisi a chi sa. Questo è il metodo, ed è mafioso.

Il ricatto di Massimo Carminati: ecco la lista dei derubati nel furto al caveau del 1999. Il Cecato svuotò 147 cassette, colpendo magistrati, avvocati, funzionari della Giustizia. Connessi con i più grandi misteri d'Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all'omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biodani il 24 ottobre 2016 su "L'Espresso". Il colpo del secolo, era stato definito. Ma non era solo un furto clamoroso: il movente era un grande ricatto. Allo Stato e alla Giustizia. Nelle sentenze definitive i giudici scrivono di un bottino "eccezionale": «Almeno 18 miliardi di vecchie lire», mai recuperati. Sottolineano «l’audacia» di un’azione criminale «spettacolare»: un commando di banditi che riesce a svaligiare in tutta calma il caveau della banca più sorvegliata d’Italia, senza sparare, senza forzare neppure un lucchetto, senza far scattare il doppio sistema d’allarme. Vanno a colpo sicuro: hanno in mano una lista selezionata di cassette di sicurezza da svuotare. È un furto «pluriaggravato» che spinge i magistrati di ieri e di oggi a evidenziarne la «carica intimidatoria». Per «la valenza simbolica del luogo violato»: il palazzo di giustizia di Roma, in piazzale Clodio, presidiato giorno e notte da militari armati. Per «l’inquietante capacità di penetrazione corruttiva fin dentro l’Arma dei carabinieri». Per la qualità delle vittime: decine di alti magistrati, avvocati, cancellieri, consulenti, professionisti e imprenditori. E per il «potere di ricatto» che, secondo le sentenze, era il vero obiettivo di quell’assalto al cuore della giustizia italiana. Organizzato e diretto da Massimo Carminati, l’ex terrorista nero che proprio da allora diventa «un intoccabile». Un «boss carismatico» che, mentre è sotto processo con Giulio Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, svuota le cassette di sicurezza di una lista di magistrati e avvocati romani di cui vuole spiare i segreti. La genesi di "mafia Capitale" si concretizza nell’estate 1999, con questo grande colpo, mentre l’Italia s’illude di aver chiuso il libro nero della Prima Repubblica. Stragi di destra, terrorismo di sinistra e guerra fredda sono ricordi sbiaditi. A capo del governo c’è Massimo D’Alema, il primo premier post-comunista. Mentre Carminati s’infila di notte nel caveau, sul Paese c’è l’ombra della crisi e del "governo tecnico": D’Alema è preoccupato per il rinascere di un Grande centro che possa spingere la sinistra all’opposizione. Dopo decenni di debito pubblico, crisi e svalutazioni, i conti sono in ordine e l’euro alle porte sembra annunciare un’Europa forte e unita. L’economia cresce, l’euforia spinge i capitani coraggiosi della finanza a scalare ex monopoli statali come Telecom. Perfino Tangentopoli pare archiviata: nonostante le oltre mille condanne per corruzione e fondi neri del 1992-94, l’intesa bicamerale con la destra di Berlusconi ha partorito una riforma costituzionale, ribattezzata «giusto processo», in grado di annientare perfino i verbali d’accusa già raccolti dalla magistratura. Che non era mai arrivata così in alto: a Milano si processano anche i giudici corrotti della capitale, a Roma i boss impuniti della Banda della Magliana, tra Palermo e Perugia siede sul banco degli imputati addirittura il senatore a vita Giulio Andreotti per mafia e omicidio. L’attacco alla fortezza giudiziaria della capitale si consuma nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999. La "città giudiziaria" è interamente recintata da alte mura sorvegliate notte e giorno da carabinieri. All’interno c’è l’agenzia 91 della Banca di Roma. Carminati e i suoi complici arrivano dopo le 18, dentro un furgone identico a quello in uso ai carabinieri, che in questo modo evita i controlli. A mezzanotte e mezza almeno otto banditi entrano nel caveau sotterraneo, senza scassinare nulla, usando le chiavi e le combinazioni fornite da un complice: un impiegato della banca rovinato dai debiti. A guidare il commando è Carminati in persona. In mano ha un foglio di carta con una lista di nomi, scritti a penna, in rosso: sono magistrati, avvocati, cancellieri. «Queste cassette sono roba mia», intima ai complici, tutti scassinatori molto esperti. «Tutto il resto è vostro» aggiunge il "Cecato". Le sentenze spiegano che Carminati, con quel colpo, «è alla ricerca di documenti per ricattare magistrati» e «aggiustare processi»: su 900 cassette ne vengono aperte solo 147. Aperture su indicazione. Gli altri banditi puntano ai soldi: sventrano intere file di cassette, arraffano contanti, gioielli e riempiono una quindicina di borsoni sportivi. Carminati invece ha «una mappa con i numeri delle cassette»: sono quelle che gli interessano, ritrovate aperte «in ordine sparso, a macchia di leopardo». Di fronte ai carabinieri, i criminali comuni scappano. L’ex terrorista nero invece ne ha corrotti almeno quattro, reclutati da un sottufficiale cocainomane: tre accompagnano la banda nel caveau, il quarto spalanca il cancello esterno della cittadella fortificata. Alle 4 di notte la razzia è terminata: i banditi se ne vanno con calma, sul furgone con i colori dei carabinieri, con un bottino pari a oltre nove milioni di euro, di cui verranno recuperati meno di 150 mila euro. Alle 6.40 di sabato 17 luglio l’addetta alle pulizie dà l’allarme. I primi agenti di polizia trovano nel caveau gli attrezzi da scasso e un caotico cumulo di cassette svuotate. Le prime notizie raccontano di una refurtiva miliardaria, tra oro, gioielli e denaro contante, ma anche di due chili di cocaina, di cui però negli atti del processo non c’è traccia. La Roma che conta trema: le cassette di sicurezza servono a custodire non solo gioielli, ma anche pacchi di denaro nero, che è rischioso depositare sui normali conti bancari. E spesso nascondono documenti e foto scottanti. Tra i clienti di quella banca ci sono decine di magistrati, avvocati e dipendenti del tribunale. L’elenco completo non era stato mai reso pubblico. Le indagini dei pm di Perugia ipotizzano che il colpo abbia subito un’accelerazione. Quella banca restava aperta anche di sabato. Se Carminati ha agito venerdì notte, significa che aveva fretta. C’è il fondato sospetto che l’ex terrorista avesse saputo che qualche cliente eccellente, la mattina seguente, progettava di ritirare qualcosa di molto importante. I giudici dei successivi processi, celebrati a Perugia proprio «per la massiccia presenza di magistrati tra le vittime», concludono che un furto del genere era sicuramente «finalizzato alla sottrazione di documenti scottanti, utilizzabili per ricattare la vittima o terzi». Le indagini non sono riuscite a chiarire se Carminati abbia raggiunto il suo obiettivo, soprattutto perché «nessuno ha denunciato la sottrazione di documenti». Il tribunale però non ci crede, osservando che «quanti per avventura avessero detenuto siffatto materiale, ben difficilmente sarebbero poi disposti a denunciarne con entusiasmo la scomparsa». Oltre al buon senso, un indizio è il ritrovamento, tra i resti fracassati delle cassette, di lettere e altre carte private, abbandonate dai banditi sul pavimento del caveau perché appartenevano a cittadini qualunque. Quindi anche quel caveau custodiva documenti. E un mare di contanti di oscura provenienza. L’assicurazione della banca ha risarcito solo il bottino documentabile: cinque miliardi di lire su un totale di «almeno 18». Eppure a Perugia nessuna vittima si è costituita parte civile nel processo a Carminati. Quel furto nasconde un quadro criminale che le sentenze definiscono «inquietante». Proprio l’identità delle vittime giudiziarie può misurare la capacità intimidatoria di chi oggi è accusato di essere il capo di Mafia Capitale. Ciò nonostante, neppure i magistrati riuscivano a ritrovare l’elenco completo dei derubati, mentre le sentenze finali citano solo pochi nomi, pur chiarendo che la banda del caveau ha svuotato le cassette di almeno 134 persone. Adesso "l’Espresso" ha recuperato le copie degli atti più importanti, da cui emergono dati e fatti rimasti inediti e così a distanza di diciassette anni dal furto vengono svelati. Sono atti che identificano due categorie opposte di vittime. Da una parte giudici onestissimi, rigorosi, preparati, spesso con ruoli di vertice nelle corti e nei ministeri, insieme a grandi avvocati, impegnati anche come difensori di parti civili in processi per mafia o terrorismo nero, compresi casi in cui era imputato lo stesso Carminati. Dall’altra, magistrati e legali con un passato imbarazzante, in qualche caso addirittura arrestati e condannati per corruzione. La toga più famosa è il titolare della cassetta svaligiata numero 720: «Domenico Sica, magistrato, prefetto». Per tutti gli anni Settanta e Ottanta, Sica è stato il più importante pm italiano, preferito a Giovanni Falcone come primo Alto commissario antimafia. Per i giudici amici era "Nembo Sic", l’attivissimo magistrato che ha guidato tutte le indagini più scottanti della procura di Roma, dal terrorismo politico agli scandali economici. I detrattori invece lo chiamavano "Rubamazzo", da quando una sua indagine parallela permise di sottrarre ai giudici di Milano l’inchiesta sulla P2 di Licio Gelli, chiusa a Roma dopo un decennio con risultati nulli. Sica è morto nel 2014, senza che nessuno pubblicamente lo avesse mai segnalato come vittima di Massimo Carminati. È stato lui ad occuparsi anche dell’omicidio Pecorelli, del caso Moro, dell’attentato al Papa e della scomparsa di Emanuela Orlandi. Giorgio Lattanzi, intestatario con la moglie di un’altra cassetta svuotata, oggi è il vicepresidente della Corte costituzionale. Per anni è stato uno dei più autorevoli giudici della Cassazione: come presidente della sesta sezione penale, in particolare, guidava i collegi chiamati a rendere definitive (o annullare) tutte le condanne per corruzione emesse in Italia. Contattato dall’Espresso, il giudice Lattanzi, tramite un portavoce, conferma di «aver denunciato subito il fatto» e precisa che «all’epoca non aveva nessun elemento per ipotizzare qualcosa di diverso da un semplice furto, anche perché in quel periodo non trattava processi di particolare rilevanza e nella cassetta non custodiva alcun documento, mentre il reato gli causò un danno economico molto rilevante, poi risarcito dall’assicurazione». Tra i legali spiati e derubati spicca Guido Calvi, ex senatore del Pds-Ds dal 1996 al 2010, quando fu eletto al Csm. Calvi è stato avvocato di parte civile in molti processi contro il terrorismo di destra: il suo nome compare anche nell’ultimo ricorso in Cassazione contro l’assoluzione di Carminati per il più grave depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna (2 agosto 1980, 85 vittime), organizzato per evitare la condanna definitiva di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, come lui neofascisti dei Nar. Calvi è stato avvocato di Massimo D’Alema e ora presiede un comitato per il No. Il suo studio legale è parte civile nel processo a mafia Capitale. «Che il furto al caveau avesse una finalità ricattatoria è qualcosa di più che un sospetto», spiega l’avvocato Calvi, il quale aggiunge: «Il colpo al Palazzo di giustizia era chiaramente finalizzato a colpire avvocati e alti magistrati, a trovare carte segrete... Nella mia cassetta però tenevo solo gioielli di famiglia, nessun documento. Mi manca soprattutto la mia collezione di penne, di valore solo affettivo: sono un avvocato di sinistra, difendo anche clienti poveri, che poi per sdebitarsi mi regalano una Montblanc con il mio nome inciso. Erano i più bei ricordi della mia carriera. Lo dico sempre all’avvocato Naso: almeno le penne il tuo cliente potrebbe restituirmele...». Giosuè Naso è il difensore di Carminati. Il furto al caveau ha colpito anche altri prestigiosi avvocati, come Nino Marazzita, amico di Guido Calvi, che ricorda: «Abbiamo lavorato più volte insieme, anche contro la destra romana. Con Nino presentammo la prima denuncia per riaprire l’inchiesta sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, dove ero stato parte civile, nel tentativo di identificare i complici neofascisti di Pino Pelosi». Alla domanda se ritenga possibile che Carminati, con il colpo al caveau, abbia raggiunto l’obiettivo di intimidire qualche giudice, l’avvocato Calvi risponde così: «I processi sulle stragi nere e sui depistaggi dei servizi, da piazza Fontana a Bologna, sono pieni di assoluzioni assurde firmate da magistrati collusi o intimiditi. Prima del maxiprocesso di Falcone e Borsellino, anche i processi di mafia finivano sempre con l’insufficienza di prove». I primi rapporti di polizia identificano, tra le vittime del furto, 17 magistrati, 55 avvocati, 5 cancellieri, altri 17 dipendenti del tribunale, un carabiniere e un perito giudiziario. I principali danneggiati sono quattro imprenditori romani che si sono visti rubare l’equivalente in lire di 500 mila euro e un milione ciascuno. Decine di denunce risultano però presentate in ritardo, dagli effettivi proprietari di beni custoditi in cassette intestate ad altri: familiari o amici fidati. Negli atti completi, quindi, si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. Nella procura di Roma, competente a indagare su Carminati, la banda del caveau ha preso di mira tra gli altri l’aggiunto Giuseppe Volpari, capo dei pm di Tangentopoli nella capitale, spesso in contrasto con i magistrati milanesi di Mani Pulite. Stando agli atti risulta forzata ma non aperta anche la cassetta di sicurezza di Luciano Infelisi, il controverso ex pm che incriminò i vertici della Banca d’Italia, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, che nel 1979 si rifiutarono di salvare Michele Sindona, il banchiere della mafia e della P2, poi condannato per l’omicidio dell’"eroe borghese" Giorgio Ambrosoli: uno scandalo giudiziario ricostruito nel processo Andreotti. Il giudice della stessa istruttoria era Antonio Alibrandi: il padre del terrorista nero Alessandro Alibrandi, uno dei fondatori dei Nar (con Fioravanti e Carminati), ucciso nel 1981 in una sparatoria con la polizia. Tra le vittime del furto ci sono poi diversi avvocati della banda della Magliana (ormai divisa) e altri legali collegati alla P2, come Gian Antonio Minghelli, registrato nella loggia segreta di Gelli insieme al padre, un generale della Pubblica sicurezza. Oltre a derubare giudici e avvocati integerrimi, la banda di Carminati ha svuotato le cassette di magistrati già allora inquisiti. Come Orazio Savia, pm di alcune tra le più contestate indagini romane, come il caso Enimont o il misterioso suicidio nel 1993 del dirigente ministeriale Sergio Castellari. Savia nel 1997 è stato arrestato e condannato per corruzione. Svaligiati anche due forzieri di Claudio Vitalone, ex pm romano, poi senatore e ministro andreottiano, defunto nel 2008, e una terza cassetta intestata al fratello Wilfredo, avvocato, che ha presentato diverse denunce a Perugia. Al momento del furto, Carminati attendeva la sentenza di primo grado del processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, insieme ad Andreotti, lo stesso Claudio Vitalone e tre boss di Cosa nostra. Due mesi prima, i pm di Perugia avevano chiesto l’ergastolo. Il giornalista che conosceva i segreti della P2 era stato ucciso nel 1979 con speciali pallottole Gevelot, dello stesso lotto di quelle poi sequestrate nell’arsenale misto Nar-Magliana, allora gestito proprio da Carminati. Sembrava incastrato da tre pentiti della Magliana, in grado di riferire le rivelazioni di Enrico De Pedis, il boss sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, e Danilo Abbruciati, ammazzato a Milano mentre tentava di uccidere Roberto Rosone, il vicepresidente del Banco Ambrosiano. La sentenza su Pecorelli viene emessa a settembre, due mesi dopo il furto: tutti assolti. In appello addirittura la corte condanna Andreotti (poi assolto in Cassazione), ma non Carminati. Negli stessi mesi l’ex terrorista nero ha un’altra emergenza giudiziaria: è imputato di aver fornito a due ufficiali piduisti del Sismi (già condannati con Licio Gelli) il mitra e l’esplosivo che i servizi segreti fecero ritrovare su un treno, per depistare l’inchiesta sulla strage di Bologna, fabbricando una falsa «pista internazionale». Per questa vicenda nel giugno 2000 Carminati viene condannato a nove anni di reclusione. Ma nel dicembre 2001 i giudici d’appello di Bologna lo assolvono con una motivazione a sorpresa: è vero che ha prelevato dal famoso arsenale un mitra Mab modificato, ma non è certo fosse proprio identico a quello usato per il depistaggio, per cui il reato va considerato prescritto. Tutte le sentenze meritano rispetto perché il codice impone che vengono confermate o smentite dalla Cassazione. Ma in questo caso non succede. La procura generale di Bologna non ricorre contro l’assoluzione di Carminati. L’avvocatura generale, che all’epoca rappresenta il governo Berlusconi, non si presenta in udienza. Contro Carminati rimane solo il ricorso dei familiari delle vittime, ma la Cassazione lo dichiara «inammissibile»: i parenti possono piangere i morti, ma «non hanno un interesse giuridico» a contestare i depistaggi, anche se organizzati per garantire l’impunità agli stragisti. Per il furto al caveau, Carminati viene arrestato il 29 dicembre 1999, grazie alle confessioni di tre carabinieri corrotti, e torna libero il 18 gennaio 2001, con il suo bottino ancora intatto. Da quel momento c’è uno spartiacque nei suoi processi. Nel marzo 2001, prima dell’assoluzione di Bologna, la Cassazione annulla le condanne per mafia inflitte in primo e secondo grado alla Banda della Magliana. Carminati si vede dimezzare la pena, interamente scontata con la detenzione per le altre accuse ormai cadute. A Roma la mafia, almeno per la Cassazione, non c’è più. Anzi non c’è mai stata. A Perugia, nel 2005, a conclusione di un dibattimento che riserva udienza dopo udienza molte sorprese a favore dell’imputato, il boss nero viene condannato a quattro anni per il furto al caveau e la corruzione dei carabinieri. Le sentenze denunciano reticenze dei testimoni, rifiuti di deporre, depistaggi, falsi alibi accreditati perfino da un notaio e dal capo della gendarmeria di San Marino. Salta fuori che i carabinieri avevano interrogato il noleggiatore del furgone un mese prima della polizia, senza essere titolari dell’indagine e senza dire niente alla procura. Tre alti ufficiali dell’Arma vengono indagati per omessa denuncia: il tribunale di Perugia osserva «con stupore» che si sono rifiutati di testimoniare «benchè già archiviati». In aula l’unico scassinatore che aveva confessato, Vincenzo Facchini, interrogato dal pm Mario Palazzi, si rifiuta perfino di pronunciare il nome di Carminati: «Io questo signore non lo conosco, non lo voglio conoscere», risponde terrorizzato. E poi aggiunge: «Con questa domanda lei mi mette la testa sotto la ghigliottina!». La condanna per il colpo al caveau diventa definitiva il 21 aprile 2010. Ma Carminati evita il carcere grazie all’indulto Prodi-Berlusconi, che gli cancella tre anni di pena. Quindi ottiene l’affidamento nella cooperativa sociale di Salvatore Buzzi. E, secondo l’accusa, fonda Mafia Capitale.

Lista Carminati, l'elenco delle vittime del furto. Avvocati, magistrati, dipendenti del tribunale, carabinieri e ctu. Per la prima volta l'Espresso è in grado di rivelare di chi erano le cassette di sicurezza violate dal Cecato nel colpo al palazzo di Giustizia del 1999, scrive L'Espresso" il 24 ottobre 2016.

NOME – PROFESSIONE - NUMERO CASSETTA

Aldo Ambrosi Avvocato 188

Virginio Anedda Magistrato 274

Maria Luisa Arzilli Cancelliere 379

Giuseppe Altobelli Dipendente Tribunale 691

Mirella Antona Dipendente Tribunale 714

Silvio Bicchierai Commercialista 90

Giuseppina Bragagnolo Commercialista 115

Giulia Brizzi Dipendente Tribunale 125

Luigi Bartolini Cancelliere 191

Marisa Bondanese Dipendente Tribunale 985

Gualtiero Cremisini Avvocato 393

Francesco Caracciolo di Sarno Avvocato 421

Guido Calvi Avvocato 445

Giuseppe Castaldo Dipendente Tribunale 718

Enzo Carilupi Avvocato 721

Michele Caruso Avvocato 113

Silvia Castagnoli Magistrato 123

Claudia Cannarella Dipendente Tribunale 133

Giuseppe Crimi Avvocato 137

Annamaria Carpitella Avvocato 145

Maurizio Calò Avvocato 174

Cesare Romano Carello Avvocato 177

Leonardo Calzona Avvocato 233

Dario Canovi Avvocato 240

Giovanni Casciaro Magistrato 261

Antonio Cassano Magistrato 282

Carla Cochetti Dipendente Tribunale 382

Francesco De Petris Avvocato 30

Anna Maria Donato Avvocato 127

Giovanni De Rosis Morgia Avvocato 189

Lucio De Priamo Avvocato 192

Francesco d'Ajala Valva Avvocato 237

Assunta Bruno De Santis Dipendente Tribunale 385

Generoso Del Gaudio Dipendente Tribunale 693

Serapio De Roma Avvocato 713

Alessandro Fazioli Avvocato 52 e 212

Maria Frosi Avvocato 120

Torquato Falbaci Magistrato 209

Giuliano Fleres Avvocato 255 e 257

Efisio Ficus Diaz Avvocato 285

Giorgio Fini Avvocato 692

Maria Grappini Avvocato 15

Ivo Greco Magistrato 235

Giuseppe Cellerino Magistrato 126

Adalberto Gueli Magistrato 141

Aurelio Galasso Magistrato 213

Giuseppe Gianzi Avvocato 259

Francesco Giordano Avvocato 391

Vito Giustianiani Magistrato 403

Angelo Gargani Dipendente Tribunale 543

Fabrizio Hinna Danesi Magistrato 715

Michele Imparato Cancelliere 248

Maria Elisabetta Lelli Ctu 114

Stefano Latella Carabiniere 121

Giorgio Lattanzi Magistrato 215

Antonio Liistro Magistrato 258

Mauro Lambertucci Avvocato 324

Michelino Luise Avvocato 741

Antonio Loreto Avvocato 65

Vanda Maiuri Dipendente Tribunale 35

Simonetta Massaroni Avvocato 183

Nicola Mandara Avvocato 277

Antonio Minghelli Avvocato 280

Caterina Mele Avvocato 297

Luigi Mancini Avvocato 333

Giancarlo Millo Magistrato 378

Alberto Oliva Avvocato 446

Bruno Porcu Avvocato 12

Liliana Pozzessere Dipendente Tribunale 202

Francesco Palermo Avvocato 343

Enrico Parenti Magistrato 368

Valeria Rega Cancelliere 74

Bruno Riitano Avvocato 110

Agostino Rosso Di Vita Avvocato 178

Filomena Risoli Dipendente Tribunale 394

Domenico Ruggiero Avvocato 451

Gisella Rigano Dipendente Tribunale 738

Francesco Rizzacasa Avvocato 743

Antonietta Sodano Avvocato 149

Domenico Sica Magistrato 720

Vincenzo Taormina Avvocato 94

Cesare Testa Avvocato 181

Wilfredo Vitalone Avvocato 81

Claudio Vitalone Magistrato 304 e 306

Bruno Villani Avvocato 164

Fortunato Vitale Avvocato 50

Giuseppe Volpari Magistrato 281

Paolo Volpato Avvocato 380

Umberto Zaffino Avvocato 199

Edmondo Zappacosta Avvocato 236 e 322

Maurizio Zuccheretti Avvocato 252 

Per ricattare magistrati e avvocati in cambio di alleggerimenti di sentenze o sconti di pena. Furto al caveau del tribunale. A caccia di soldi e documenti. E i pm perugini adesso accusano: "I carabinieri non hanno collaborato", scrive il 10 luglio 2000 “La Repubblica. Perquisizioni e arresti per il furto nel caveau della filiale della Banca di Roma, all'interno del tribunale della capitale. In una notte, quella tra il 16 e il 17 luglio scorso, vennero saccheggiate 147 cassette di sicurezza di "proprietà" di dipendenti del palazzo. Un furto che apparve come uno schiaffo: a una banca e nel cuore del tribunale. Ma anche un colpo non semplice da mettere a segno, riuscito grazie a una infinita serie di complicità dentro e fuori il Palazzo di giustizia. E con più di un obiettivo: ricavare soldi ed entrare in possesso di documenti compromettenti per poi ricattare magistrati e avvocati. Una trama sulla quale per un anno hanno indagato la Procura della repubblica di Perugia e la Squadra mobile della capitale, che stamattina hanno dato il via a una serie di arresti e perquisizioni. Un'indagine che ha messo in luce l'esistenza di una banda a più teste: carabinieri, ex della banda della Magliana, esponenti dell'estrema destra, dipendenti dell'istituto di credito e del tribunale. E il furto nel caveau assume contorni diversi: ladri alla ricerca di soldi e gioielli ma anche di documenti compromettenti da usare come armi di ricatto verso i clienti dell'istituto, per lo più magistrati e avvocati. Un'indagine, si apprende adesso, che sarebbe andata avanti più velocemente se l'esito degli accertamenti compiuti dai carabinieri della capitale fosse stato comunicato per tempo. Questa almeno è l'accusa dei pm perugini che esprimono anche diverse "perplessità" per alcuni atti svolti dei militari. Nella loro ordinanza si parla infatti di "mancati approfondimenti investigativi" sulle notizie acquisite dai militari e la "mancata comunicazione" delle stesse alla procura del capoluogo umbro. Nonostante la mancata cooperazione, tuttavia, sotto accusa è finito Marco Vitale, 51 anni, reduce della banda della Magliana, già in carcere. Complice del furto anche un dipendente della Banca di Roma, Orlando Sembroni, 49 anni. Nella banda anche Lucio Smeraldi, 61 anni, gestore dell'edicola interna del tribunale. Gli arresti riguardano poi altri "cassettari", ricettatori, complici e basisti. Confermato, anzi aggravato, il ruolo di quattro carabinieri in servizio a Piazzale Clodio (Mercurio Digesu, di 41, Feliciano Tartaglia, di 37, Adriano Martiradonna, di 48, Flavio Amore di 30 anni, mentre un quinto militare, Roberto Cozzolino è accusato solo di concorso in furto aggravato). Il tramite con l'Arma dei carabinieri era il capo dei "cassettisti" storici romani, Stefano Virgili, 49 anni, apparentemente uscito dal giro e boss dei parcheggiatori dell'Eur con la società Mutua Nova. Nei guai un esponente dell'estrema destra Massimo Carminati, 42 anni, anch'egli interessato al contenuto delle cassette di sicurezza. Tra gli arrestati un dipendente della Corte d'appello di Roma, Reginaldo Velocchia, 64 anni. Insieme a un avvocato penalista romano Antonio Iuvara (sottoposto alla misura dell'obbligo di dimora) avrebbe fatto pressione su un presidente della Corte d'appello di Roma Tommaso Figliuzzi con un preciso motivo: alleggerire in secondo grado la condanna di Vitale nel processo per la banda della Magliana. Ottenendone magari la scarcerazione, perché proprio il Vitale avrebbe partecipato dal carcere all'operazione "cassette di sicurezza". La banda dei "cassettieri" (trenta persone coinvolte, venti arrestate e dieci indagate), cercava così di arrivare al controllo del palazzo di giustizia e stavano organizzando un nuovo colpo, secondo quanto dichiarato dagli inquirenti. Questa volta l'obiettivo era l'ufficio corpi di reato della Procura della repubblica di piazzale Clodio, dove sono custoditi i reperti sequestrati nell'ambito delle indagini giudiziarie: armi e droga. Materiale che sarebbe servito sia per ricavare denaro (dalla vendita di droga), sia per compiere azioni criminali. 

Mafia Capitale, Carminati e i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive l'11 dicembre 2014 Sabino Labia su "Panorama". In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo, vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’ sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile il ruolo di Carminati a Roma. E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20 gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e, alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174 cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati; rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi, cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco, ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato, e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.

Mafia Capitale, Massimo Carminati svaligiò la superbanca per ricattare i giudici, scrive l'08/06/2015 "Giornalettismo". Una delle rapine più misteriose della capitale d'Italia venne commessa proprio dal "Cecato": Salvatore Buzzi sa tutto, o quasi. Quali i mandanti? Quali le coperture politiche? Mafia Capitale, così Massimo Carminati svaligiò il caveau della Banca di Roma a Piazzale Clodio, una delle filiali più inespugnabili della Capitale d’Italia e meno frequentate dai “cassettari” dell’Urbe proprio per l’alto rischio necessario a “trattarla”. Ma Carminati, nel lontano 1999, riuscì a svuotare le cassette di sicurezza: per rapinare valori, oro, gioielli? No, o meglio, anche: ma principalmente documenti. Documenti importanti che potevano essere utili per ricattare proprio i giudici del Palazzaccio. Questo fu l’unico crimine per cui Massimo Carminati, detto il “cecato”, fu effettivamente condannato. La storia del colpo la racconta Salvatore Buzzi, sodale di Massimo Carminati nell’organizzazione criminale che le inchieste del Mondo di Mezzo stanno portando alla luce, nelle intercettazioni riportate dal Messaggero. Vennero svaligiate 147 cassette di sicurezza su 900. A distanza di anni, dopo indagini, arresti e tre gradi di giudizio, sono gli atti dell’inchiesta Mafia capitale a confermare quella che è sempre sembrata l’unica vera ragione del colpo: acquisire documenti per ricattare giudici e avvocati. È proprio Salvatore Buzzi, che del Nero conosce fama e misteri, a tirare in ballo la vecchia storia, mentre con l’ex brigatista Emanuela Bugitti discute su quale sia il modo più rapido per recuperare atti riferibili alla locazione di un complesso immobiliare, di nuova costruzione, a Nerola. La chiave di tutto è ancora una volta Carminati, a lui nessuno è in grado di dire di no. Ricorda Buzzi: «Lui fa na…na rapina alle cassette di sicurezza della…(furto al caveau della Banca di Roma, ndr)…trovano de tutto e de più». Aggiunge Bugitti: «Sono i giudici che mettono le cose». Allora Buzzi spiega: «Eh, qualcuno è ricattabile. Secondo te perché non è mai stato condannato. A parte questo reato, tutto il resto sempre assolto…». Sempre assolto, Carminati, tranne che nel 1999: quattro anni di galera, più volte indultati. Dal colpo la banda di Carminati porta via ingenti quantità d’oro che prova a piazzare, raccontano testimoni e pentiti interrogati dai magistrati. [Parla] Giuseppe Cillari, le cui vicende giudiziarie sono legate all’omicidio Casillo e alle attività della Banda della Magliana. «Una sera – riferì ai pm – vennero da me Pasquale Martorello, Piero Tomassi e Stefano Virgili che volevano disfarsi dell’oro. È avvenuto dopo l’arresto dei carabinieri». All’incontro erano presenti l’ex cassettaro e neo-imprenditore Virgili, che di lì a poco verrà colpito da mandato di cattura, e altri complici del colpo. Ricorda ancora Cillari: «Mi hanno parlato di 5 quintali d’oro da piazzare e io ho detto che quell’oro valeva il prezzo di mercato meno il dieci per cento. Complessivamente 50 miliardi. Mi è stato detto che c’erano anche altri 5 miliardi di certificati, più un miliardo e 200 milioni in contanti. L’oro è stato sepolto prima nei pressi di Viterbo, poi a Montalto di Castro. Martorello sa dov’è». Ma a nessuno interessa l’oro di Carminati, men che meno al “Nero” della banda della Magliana. La rapina nel caveau della Banca di Roma di Piazzale Clodio ha tutt’altra ragione. Una storia oscura, fatta di mandanti nella Roma bene e di intrecci con i servizi segreti, secondo le testimonianze. Il vero scopo – rivela il ricettatore – non erano i soldi, ma i documenti che valgono molto più dei gioielli. So che hanno documenti importanti. Il motivo per cui è stato fatto il furto è stato quello di prendere dei documenti che potessero servire a ricattare i magistrati e so che i documenti sono stati trovati. Mi è stato riferito che il furto sarebbe stato commissionato a Virgili da alcuni avvocati, due romani. So che l’interesse era rivolto a documenti di magistrati, in modo da poterli ricattare per la gestione dei processi importanti che hanno su Roma. Uno di questi si trova a Montecarlo con Tomassi e tale Giorgio Giorgi, dei servizi segreti. Ed è proprio riguardo i presunti mandanti di Carminati che il terreno per i testimoni, o comunque per chi sceglie di parlare, si fa immediatamente scivoloso. Su Carminati e presunti ispiratori “politici”, poi, nessuno ha voluto aggiungere nulla. Nemmeno Vincenzo Facchini, uno dei complici nel colpo che ha scelto di collaborare. Davanti a quel nome ha manifestato addirittura un atteggiamento ostruzionistico, e al pm Mario Palazzi che gli ha chiesto dei suoi rapporti con il Nero, ha risposto: «Dottore, questa domanda mi mette sotto la ghigliottina. Io questo signore non lo conosco e non lo voglio conoscere».

Un paese fondato sui dossier. Le liste di Sindona, Gelli, Calvi, le rivelazioni a sfondo sessuale. Così ricattare è stato, nella storia d’Italia, un modo di comandare, scrive Bruno Manfellotto su "L'Espresso" il 24 ottobre 2016. Non c’è cronista della mia generazione che non abbia sognato di mettere le mani sulla mitica lista dei 500 esportatori di capitali della Finabank di Michele Sindona, amorevolmente salvati e rimborsati dalla super andreottiana Banca di Roma un attimo prima che la bancarotta li travolgesse. Almeno toccarli, quei fogli, darci un’occhiata... Niente. Anche perché la lista è esistita, certo, ma non c’è più, solo pochi l’hanno letta, e comunque qualcuno l’ha fatta sparire. Di Ferdinando Ventriglia, dominus della Banca di Roma e della politica economica dalla metà degli anni Settanta, si raccontava addirittura che non l’avesse nemmeno voluta vedere, anzi che se la fosse letteralmente data a gambe quando gliene parlarono. Chissà. Comunque, che spettacolo vedere sulla scena il meglio di politici, imprenditori, alti prelati, barbe finte (molti riempiranno la P2 di Licio Gelli) impegnati a difendersi minacciando. Storia finita però in un nulla di fatto, senza colpevoli e senza verità, come tante altre sordide faccende di veline. E di generale omertà. Ma in fondo, quel che conta per chi alimenta le centrali della diffamazione, non è come va a finire, ma cosa succede nel frattempo, cioè dopo che la bomba è esplosa. E il dopo dura sempre molto. Una Repubblica fondata sul ricatto. Con radici antiche. Giolitti e Crispi, fine Ottocento, si fecero la guerra minacciando rivelazioni intorno al crac della Banca Romana; Fanfani e Piccioni, anni Cinquanta, si giocarono la successione a De Gasperi al vertice della Dc a colpi di memoriali sul caso di Wilma Montesi, trovata morta sul litorale di Torvajanica; i primi vagiti del centrosinistra, anni Sessanta, furono accompagnati dalle 157 mila schedature del Sifar del generale De Lorenzo, quello del “tintinnar di sciabole” di un colpo di Stato sventato. E del resto, molti anni prima, anche Mussolini aveva fatto largo uso degli archivi dell’Ovra, e li temeva perfino per se stesso e per la sua Claretta. Poi sfornare dossier è diventato abitudine, dall’artigianale agenzia “Op” di Mino Pecorelli agli otto computer di Pio Pompa, l’agente del Sismi ingaggiato contro i nemici del Cav. A ciascuno il suo dossier. Una lista pronta all’uso finiscono per farsela in casa pure Diego Anemone, cricca degli appalti pubblici, e perfino il Madoff dei Parioli. Non si sa mai. Gli argomenti cari ai fabbricanti di ricatti sono sempre le banche, cioè i soldi, e il sesso, eterno metronomo della politica. Al primo appartiene, appunto, la lista dei 500 resa nota perché chi doveva sapere sapesse quanti erano gli amici potenti alla corte di Sindona. Per arrivare al processo ci vorranno dieci anni, ma la lista non si troverà più e chi l’aveva nascosta non sarebbe stato perseguibile per intervenuta amnistia. Amen. Poi c’è il romanzo dello Ior, da Marcinkus a Gotti Tedeschi, passando per Calvi, Mennini e Pazienza, e pure la banda della Magliana di Renatino De Pedis, ogni volta con larga diffusione di carte e allusioni. E naturalmente ci sono le cassette di sicurezza del Palazzo di Giustizia di Roma opportunamente svuotate da Massimo Carminati, boss di Mafia Capitale, di cui racconta qui Lirio Abbate. Non può mancare Piero Fassino crocifisso (e poi assolto) per un’intercettazione - «Abbiamo una banca» - arrivata, ma guarda un po’, nelle mani di Berlusconi che, felice, esclama rivolto al suo pusher: «Come posso sdebitarmi per questo prezioso regalo?». Poi c’è il sesso, e funziona, anche se Roma non è Washington. E qui Berlusconi e il suo cerchio magico danno il meglio. La memoria corre ai dossier che costringono alle dimissioni il direttore di Avvenire Dino Boffo, reo di eccesso di critiche al Cav.; alla incredibile vicenda di Piero Marrazzo, vigilia delle primarie del Pd, sorpreso tra coca e trans da carabinieri-agenti provocatori che filmano un video offerto poi alla Mondadori per 200mila euro, che B. sfrutta da par suo: «Se fossi in te, Piero, cercherei di farlo sparire...»; all’odissea di Stefano Caldoro, candidato poco gradito alla guida della Regione Campania (il Pdl voleva il più potente Nicola Cosentino), al quale Denis Verdini, allora indimenticabile factotum berlusconiano, fa sapere che circolano brutte notizie sulle sue abitudini sessuali... Ma nel buco nero era finito anche Silvio Sircana, portavoce di Romano Prodi premier, paparazzato in una strada popolata di prostitute; per Gianfranco Fini, in rotta di collisione con il Capo, era bastato evocare antiche vicende “a luci rosse”; di Veronica Lario, moglie umiliata che osa ribellarsi, sono spuntate dal nulla foto a seno nudo e allusioni su un amante... La macchina del fango non si ferma mai. Oggi la cronaca ci regala il milione e 700 mila euro in un controsoffito dell’appartamento di Fabrizio Corona: arrestato per qualcosa che assomiglia all’evasione fiscale. Forse nell’Italia dei ricatti è l’unico finito in galera. In attesa del prossimo condono...

Di Lello: «C'era un teorema: la mafia non esiste. Noi lo smontammo». Intervista di Giulia Merlo del 19 ottobre 2016 su "Il Dubbio. «Nessuno si accorse che Buscetta aveva cominciato a parlare. Si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto i boss si resero conto che era sparito nel nulla». «Con quel processo smontammo la retorica de "La mafia non esiste"». A dirlo è Giuseppe Di Lello, uno dei quattro giudici istruttori del pool di Falcone e uno dei protagonisti del maxiprocesso di Palermo Sono passati trent'anni da quel 10 febbraio 1986, dal teorema Buscetta e dai 260 imputati condannati in primo grado. Un processo che ancora anima i dibattiti e che ha visto - sulle pagine di questo giornale - contrapposte le tesi dell'ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna e Tiziana Maiolo.

«La storia del maxiprocesso è anche la storia di una relazione nuova tra giustizia e informazione», ha scritto Cisterna. Da parte in causa, condivide?

«Condivido il fatto che il processo di Palermo è stato un punto di incontro tra stampa e giudici. Per la prima volta, infatti, c'è stata una vera e propria divulgazione mediatica degli eventi processuali. Niente a che vedere con il rapporto di oggi, però».

In che senso?

«Tanto per cominciare, non abbiamo mai fatto una sola conferenza stampa. Né, tantomeno, c'è mai stata una fuga di notizie dagli uffici di noi giudici istruttori. Pensi che il pentito Buscetta parlò in segreto con Falcone per tre mesi interi e nessuno, dico nessuno, ne era al corrente».

Nessuna soffiata alla stampa?

«Assolutamente no, si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto la mafia si rese conto che Buscetta era come sparito nel nulla, dopo l'arresto in Brasile. Non lo trovavano né in carcere né in ospedale e allora capirono».

Oggi sarebbe assolutamente impensabile...

«Oggi, se un pentito parla, come per magia lo sanno tutti il giorno dopo e leggono tutti i dettagli sulle pagine dei giornali».

Si è anche scritto che, in quel processo, si processò la Mafia con la M maiuscola, prima ancora che i singoli individui. Lei è d'accordo?

«All'epoca era necessario stabilire, per la prima volta nel nostro ordinamento, se l'associazione mafiosa esisteva in sé, al di sopra dei reati commessi dai singoli individui. Non dimentichiamo che alcuni, in quel periodo, continuavano a ripetere che la mafia non esisteva».

Eppure, Tiziana Maiolo ha sostenuto che sia stato un errore «pensare che il processo non sia solo il luogo dove confermare l'ipotesi accusatoria nei confronti del singolo imputato, ma l'arma con cui si combattono fenomeni sociali trasgressivi». Avete davvero processato la Mafia e non i mafiosi?

«Che assurdità. Per noi era assolutamente necessario stabilire il contesto in cui si svolgevano i fatti, non bastava vagliare solo i singoli reati. Dovevamo individuare preliminarmente se il fenomeno mafioso e il contesto in cui prendeva forma davano vita ad una associazione per delinquere. Certo, è ovvio che al banco degli imputati sedevano i singoli mafiosi, ma per ottenere il risultato dovevamo prima di tutto affermare o smentire il principio della mafia come associazione per delinquere».

Oggi la mafia come la avete conosciuta e combattuta voi è ancora presente in Sicilia?

«La mafia è fatta di tradizione, continuità e innovazione. Queste tre caratteristiche fanno sì che il fenomeno non sia più identico a quello che abbiamo conosciuto trent'anni fa».

Diversa ma non sconfitta?

«Oggi la mafia è sicuramente indebolita: tutti i boss - con eccezione di Matteo Messina Denaro - sono in carcere con la pena dell'ergastolo. Inoltre ormai è una costante il fatto che i beni proventi di mafia vengano sequestrati. Questo è un colpo durissimo, ma attenzione: Cosa Nostra non è ancora vinta».

Immagina, oggi, che si possa istruire un processo come quello di Palermo?

«Non credo sia pensabile, anzitutto perché è cambiato il rito da inquisitorio ad accusatorio. Inoltre i mafiosi da processare sono molti meno, si pensi soprattutto al fatto che da allora non si è più ricostituita una vera e propria "cupola" come quella di Riina, Provenzano, Greco e Pippo Calò».

E quindi dove e come germina oggi la mafia?

«La mafia continua ad essere molto pervasiva sul territorio ed ha grande connessione soprattutto con i singoli poteri locali. Sottolineo però anche il grande lavoro di repressione portato avanti dallo Stato e dalle forze dell'ordine che operano nelle aree più a rischio».

Oggi il concetto di "antimafia" viene utilizzato nei contesti più diversi e in alcuni casi si è rivelata un paravento per situazioni opache. Come considera l'utilizzo di questo termine?

«Certo, esiste il pericolo che l'antimafia venga brandita come arma contundente, ma io ritengo che vadano sempre fatti i dovuti distinguo».

Italia, dalla Repubblica dello spread a quella dei bonus, scrive il 26.05.2015 Marco Fontana. Uno sport molto in voga tra gli opinionisti politici è quello di identificare per titoli le discontinuità storiche del Parlamento italiano. Un esempio classico è la distinzione tra Prima e Seconda Repubblica, che sintetizza il cambio di assetto istituzionale avvenuto nel 1992-94 dopo che sui partiti politici si abbatté lo tsunami Tangentopoli. Originale la più recente spartizione ideata dall'editorialista dell'Espresso, Marco Damilano, che nel suo ultimo saggio afferma: C'è stata la Repubblica dei partiti, che aveva come religione la Rappresentanza. Poi è arrivata la Repubblica del Cavaliere, fondata sulla rappresentazione. Quella che sta nascendo è la Repubblica dell'Auto-rappresentazione. Una Selfie-Repubblica, con un'unica bandiera: l'Io. Riteniamo che la classificazione di Prima, Seconda e Terza Repubblica sia uscita pesantemente sconfitta dai colpi della cronaca giudiziaria. In sostanza, niente è davvero cambiato dal ‘92 ad oggi. Che differenza c'è tra l'inchiesta Mafia Capitale (con le presunte commistioni tra sistema delle cooperative e partiti), le operazioni Minotauro e Quadrifoglio (che hanno svelato le infiltrazioni mafiose al Nord e negli appalti di Expo 2015), i casi Monte dei Paschi — Unipol/Sai e le "mazzette" di Tangentopoli? La corruzione continua a dilagare dentro e fuori dalla politica: intanto sarà lievitato il prezzo da pagare, ma nulla è mutato. La percezione della corruzione nelle istituzioni da parte dei cittadini sfiora il 90%, un vero record tra i paesi dell'Ocse. Secondo un recente studio di Unimpresa, è un fenomeno che costituisce una pesante zavorra per l'Italia: ha fatto diminuire gli investimenti stranieri del 16% e aumentare del 20% il costo complessivo degli appalti; ha divorato in dieci anni circa 100 miliardi di euro di PIL; le imprese sotto lo scacco della corruzione sarebbero cresciute in media un 25% in meno rispetto alle concorrenti che operano in un'area di legalità. Sono cifre terribili che l'Italia non riesce a combattere efficacemente, anche perché il sistema giudiziario sembra colpire soltanto i comprimari, le zampe di quella bestia che è il sistema clientelare, senza andarne a recidere la testa. E negli ultimi anni anche la fiducia dei cittadini nella magistratura è crollata. In un contesto del genere, dove tutto sembra uguale ai tempi prima di Tangentopoli, pare fuori luogo parlare di Prima e Seconda o Terza Repubblica. Il passato è tornato d'attualità, dimostrando che sotto il profilo etico possono cambiare i personaggi, ma il copione rimane il medesimo. Sulla classificazione di Damilano non v'è nulla da eccepire, se non che tale visione è figlia di un'ideologia radical chic che preferisce per la sua classe politica grigiore e anonimato rispetto all'identificazione con un leader forte e carismatico. D'altra parte non si comprende il motivo per cui tale fervore critico, molto generoso nei giudizi in patria, non si abbatta con lo stesso impeto su politici stranieri quali Clinton, Obama o Tsipras, individui dall'Io forte che vengono innalzati ad icone senza neppure aspettare che ottengano successi reali per i propri cittadini. Personalmente, credo sarebbe molto più semplice concentrarsi sugli ultimi anni della politica italiana, che hanno visto alternarsi tre governi non votati dal popolo e che hanno prodotto risultati nefasti per la qualità della vita e per le aspettative sul futuro delle persone. L'Italia ha visto tramontare la sua forma di governo conosciuta e ha abbracciato un nuovo modello, la Repubblica dello Spread, nella quale la democrazia si piega a parametri economici soggettivi ed esterni. Dopo le rivelazioni di Alain Friedman è ormai palese che nel 2011 elementi al di fuori del nostro Paese abbiano agito per piegare il Parlamento italiano ad accettare rappresentanti più graditi alla Troika. Non è fantapolitica, altrimenti avremmo visto partire smentite e querele. Nessuno fiata neppure di fronte a inchieste giudiziarie di cui si parla poco, ma di cui media si dovrebbero occupare, perché hanno determinato un'ingerenza esterna alla nostra democrazia. Dal caos venuto dalla finta austerity di Monti e Letta si sarebbe scatenata prima o poi una reazione. La richiesta di continui sacrifici senza poter vedere l'uscita dal tunnel ha necessariamente portato ad aggrapparsi a chiunque racconti belle favole di speranza. Ed ecco che la parabola di ascesa di Renzi ha trovato il suo terreno fertile. In Italia è tornato il tempo di chi promette mirabolanti soluzioni ai problemi quotidiani. E non importa se in realtà sta solo concedendo una parte del dovuto, anche in termini costituzionali. Si è così passati alla nuova fase: la Repubblica dei bonus. Una continua elargizione dello Stato magnanimo, prima con gli 80 euro, poi coi bonus bebè e infine il bonus pensioni. Chissà che un domani, dopo un paio di anni di nuova local tax, non arrivi anche il bonus casa. Perchè quando in Italia si parla di bonus, è meglio coprire con le mani il portafoglio e assicurarsi che sia ancora in tasca.

Totti Spa, ville, affari (e debiti) del Capitano. Mentre la stampa sportiva e romana suona la fanfara per l’abbandono al calcio di Totti, ecco un’esemplare inchiesta giornalistica del 30 maggio 2017 di Gianni Dragoni, giornalista del SOLE24Ore. Ville per lui e famiglia, e perdite per la sua scuola calcio. Fatti e numeri su cui molti tacciono. Troppi. Numero Dieci per sempre. Il “Dieci” continuerà ad essere un punto di riferimento importante per Francesco Totti, anche se l’ex “Capitano” ha dato l’addio all’As Roma ed a questa maglia. Ruota attorno al numero dieci infatti il grappolo di sette società, tutte del tipo “a responsabilità limitata” (Srl) che il Pupone ha costruito nel tempo, con lungimiranza, per reinvestire i soldi (tanti) guadagnati nel calcio. Il settore preferito è l’immobiliare, con investimenti nel centro di Roma, nella zona Sud della capitale, ma anche nell’estrema periferia, a Tor Tre Teste. Poi c’è la scuola calcio a Ostia. Non hanno dato invece risultati positivi i tentativi di diversificare l’attività con la vendita online di oggetti con il marchio del campione, il merchandising.

Numberten Srl, ovvero “numero dieci”, è la società che fa da holding, la capogruppo dell’impero economico di Totti. Numberten è stata costituita il 4 aprile 2001 dal notaio Maurizio Misurale. Totti aveva 24 anni e mezzo e stava guidando il club giallorosso alla conquista dello scudetto, il terzo (e, per ora, ultimo) nella storia della squadra di calcio più amata dai romani. I soci della Srl in origine erano la mamma del calciatore, Fiorella Marrozzini, con il 60% delle quote e il fratello del Capitano, Riccardo Totti, di sei anni più grande, è nato nel 1970. Dal 2009 le quote societarie sono cambiate, adesso Francesco Totti possiede l’83,19% del capitale, il resto è diviso tra mamma Fiorella (10,08%) e il fratello Riccardo (6,72%). La Numberten è classificata nella categoria “Agenzie ed agenti o procuratori per lo spettacolo e lo sport”.  Si occupa di comunicazione, eventi, gestisce i diritti d’immagine di Totti, di cui il fratello Riccardo è stato anche il procuratore, da quando più di 16 anni fa il Pupone ha interrotto i rapporti con Franco Zavaglia, che era legato alla Gea. Questa era la società di procuratori creata dai figli di potenti esponenti del calcio e della finanza, da Alessandro Moggi a Chiara Geronzi, in sodalizio con alcuni tra i figli di Sergio Cragnotti e Calisto Tanzi. Riccardo Totti è il presidente di Numberten ed ha la stessa carica, o quella di amministratore unico, nelle altre sei società che, direttamente o indirettamente, sono controllate dalla holding capogruppo. Il Capitano non ha incarichi nei consigli di amministrazione delle sue società. La società di famiglia è entrata direttamente in campo anche nei rapporti con la Roma. Quando il 31 maggio 2005 il club, all’epoca ancora di proprietà di Franco Sensi, annunciò il prolungamento del contratto con il “Capitano” (nel comunicato scritto con la C maiuscola, come “Calciatore”) fino al 30 giugno 2010. L’accordo prevedeva per il giocatore uno stipendio lordo di 10,4 milioni di euro, per ciascuna stagione sportiva. La Roma annunciò inoltre di aver definito con Numberten un accordo di licenza esclusiva per l’uso dei diritti d’immagine di Totti per 520mila euro a stagione, una somma che si aggiungeva al già sontuoso stipendio. Nella fase finale della carriera lo stipendio di Totti è sensibilmente diminuito. Per quest’ultima stagione si è parlato di circa 100mila euro netti al mese o poco più, anche se la cifra non è stata resa nota ufficialmente. La Numberten è partita nel 2001 con ricavi per 1,11 milioni. La somma è aumentata fino al picco di 3,29 milioni nel 2006, l’anno in cui ha raggiunto l’utile record di 806.446 euro al netto delle tasse. Poi i ricavi sono gradualmente diminuiti, negli ultimi tre anni Numberten ha avuto ricavi per 1,27 milioni nel 2013, 2,019 milioni nel 2014, 1,156 milioni nel 2015. Il bilancio 2016 non è ancora disponibile. Dal 2001 al 2015 la Numberten ha chiuso 12 bilanci in attivo e tre in perdita. Solo negli ultimi anni ci sono stati bilanci in rosso, -3.426 euro nel 2012, -33.310 nel 2013, – 61.481 euro nel 2015. A fine 2015 la società aveva un attivo netto pari a 14,65 milioni, composto da immobilizzazioni materiali per 5,66 milioni (in sostanza immobili e terreni), un valore pari al costo di acquisto, immobilizzazioni finanziarie (cioè valore delle partecipazioni in altre società controllate) per 2,357 milioni, crediti per 6,92 milioni, liquidità per 696.243 euro depositata in banca. La società, pur avendo un capitale di soli 119mila euro, ha un patrimonio netto molto più consistente, pari a 7,4 milioni, comprendente utili non distribuiti degli anni precedenti pari a 4,28 milioni e riserve di rivalutazione degli immobili e terreni per 3,039 milioni (la rivalutazione è stata fatta nel 2008). La società ha un indebitamento non trascurabile, pari a 7,18 milioni, tra cui debiti verso soci “per finanziamenti” pari a 3,467 milioni.

La holding controlla direttamente cinque società. La più importante è la Immobiliare Dieci, posseduta al 100%, iscritta in bilancio per un valore di poco superiore a due milioni. Nel 2015 aveva ricavi pari a 956.415 euro e un utile netto di 33.268, in forte contrazione rispetto agli anni precedenti (l’utile era stato di 182.568 euro nel 2013 e 95.541 nel 2014). A fine 2015 aveva liquidità per 1,235 milioni e un patrimonio netto di 1,1 milioni. I debiti totali ammontavano a 3,567 milioni, quasi interamente erano “debiti verso soci per finanziamenti” (cioè verso la società madre, Numberten). Questa Srl possiede il 100% di un’altra società, la settima dell’impero Totti, Immobiliare Ten (non c’è molta fantasia nei nomi), il cui bilancio 2015 mostra ricavi pari a 1,008 milioni con un utile netto di 101.891 euro, liquidità pari a 969.510 e debiti per 1,47 milioni.

Tra le altre società c’è Longarina, posseduta al 100% dalla Numberten. Gestisce il Centro sportivo As Longarina di Ostia, che la famiglia Totti ha comprato nell’estate 2001 da Angelo Orazi, un altro ex calciatore della Roma, insieme a un parcheggio di 4.000 metri quadrati. Qui c’è la Totti Soccer School, la scuola calcio I conti dell’esercizio al 30 giugno 2016 mostrano ricavi per 47.356 euro e una perdita netta di 16.797. La Longarina ha un patrimonio immobiliare valutato in bilancio 2,29 milioni. Numberten possiede inoltre il 100% di Immobiliare Acilia, società che si è svuotata, i ricavi sono crollati da 775.000 euro del 2013 a 235.000 nel 2014 e appena 4.560 nel 2015. L’ultimo bilancio si è chiuso in rosso per 20.305 euro.

Nel portafoglio della Numberten ci sono infine due piccole società. Skins srl che nel 2015 era inattiva (zero ricavi e 694 euro di perdita), posseduta al 51% (il 49% è di Roberto Maltoni). Infine la Ft. 10 Srl, posseduta al 60%, ci sono altri due soci, doveva vendere online prodotti legati al marchio Totti ma non è decollata, l’ultimo bilancio disponibile indica un fatturato di 7.500 euro e una perdita di 5.783 nel 2014.

Non c’è un bilancio consolidato che metta insieme i conti di tutto l’impero Totti, eliminando le partite contabili infragruppo, come ad esempio i finanziamenti tra la società madre e le controllate, che rappresentano crediti per la prima e debiti per le altre. Facendo una somma algebrica di tutte le voci principali, si ottiene un bilancio aggregato, che dà comunque un’idea complessiva.

Nel 2015 le sette società di Totti hanno espresso ricavi aggregati per 3,17 milioni, la somma algebrica del risultato netto (due società sono in attivo, cinque in rosso) dà un utile netto aggregato di appena 30.099 euro, la liquidità totale è di 2,9 milioni. I debiti aggregati ammontano a circa 8,6 milioni, escludendo le partite di dare e avere reciproche tra le società. Oltre agli immobili di proprietà, nelle società di Totti ci sono tre immobili acquisiti in leasing, i contratti sono tutti con una sola banca, il gruppo Monte dei Paschi di Siena (Mps Leasing and Factoring), a fine 2015 il “valore attuale” delle rate ancora da pagare era pari a 17 milioni circa. Anche questo è un debito implicito, che si aggiunge ai debiti indicati nei bilanci.

Nel libro “I Re di Roma – Destra e sinistra agli ordini di Mafia Capitale” (2015, editore Chiarelettere), i giornalisti Lirio Abbate e Marco Lillo hanno raccontato che la società Immobiliare Ten di Totti ha ottenuto dal Comune di Roma più di 5 milioni di euro in sei anni, per l’affitto di 35 appartamenti arredati in un residence nell’estrema periferia, in via Tovaglieri a Tor Tre Teste. Il Comune ha pagato 75.000 euro al mese per l’affitto come case popolari, dal 2008 al 2014, un canone definito elevato dagli autori del libro. Abbate e Lillo hanno scritto che il capo della commissione di gara del Comune era Luca Odevaine, ex vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni. Arrestato nelle indagini per Mafia Capitale, Odevaine è stato successivamente condannato a complessivi tre anni e due mesi di reclusione, per vicende legate alla gestione degli immigrati per il Cara di Mineo, in Sicilia. Una condanna è per turbativa d’asta e falso (2 anni e 8 mesi), l’altra per corruzione (6 mesi). Per l’affitto delle case di Totti al Comune nessuno è indagato. Nel libro “Mafia Capitale” Abbate e Lillo raccontano che due palazzi di via Rasella, nel centro di Roma, posseduti dalla Immobiliare Dieci di Totti, sono stati uniti e ristrutturati e ospitano gli uffici amministrativi dei servizi segreti. Da una visura che ho fatto nella banca dati Cerved emerge inoltre che nel Catasto Francesco Totti risulta proprietario di sette fabbricati, a Roma Sud, tutti in regime di separazione dei beni. Il principale è la villa di 21 vani nella quale Francesco abita con la moglie Ilary Blasi e i tre figli, nella zona del Torrino (ometto la via per rispettare la riservatezza). Inoltre Totti possiede un villino di 30 vani in via Lisippo, del valore stimato al Catasto 1,425 milioni, nella zona di Axa, vi abitano la madre e la famiglia del fratello Riccardo. Poi c’è la villa sul lungomare di Sabaudia di 9,5 vani. Ancora, c’è un’abitazione di 4 vani in viale Giorgio Ribotta, all’Eur, con garage di 18 metri quadrati e un locale di 5 metri quadrati della categoria “magazzini e locali di deposito”. Nel Catasto viene stimato il valore di cinque fabbricati, per un valore di 2,39 milioni. Non è stimato il valore della villa al Torrino con 21 vani. Quest’abitazione ha un garage di 150 metri quadrati, che secondo il Catasto vale 333.750 euro.

LE MAFIE LAZIALI. LA BANDA DELLA MAGLIANA.

Banda della Magliana. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Banda della Magliana è il nome attribuito ad una organizzazione criminale italiana, di stampo mafioso, operante nella città di Roma nel Lazio, con diverse ramificazioni. Il nome, attribuito alla banda dalla stampa dell'epoca, deriva da quello del quartiere romano della Magliana, nel quale risiedeva una parte dei fondatori. Nata nella seconda metà degli anni settanta del XX secolo, la banda fu la prima organizzazione criminale romana a unificare in senso operativo la frastagliata realtà della malavita di Roma, costituita fino ad allora dalle cosiddette "batterie" o "paranze" (piccoli gruppi di criminali dediti a crimini specifici), imponendo ai propri membri un vincolo di esclusività (che vietava potessero dedicarsi a imprese criminali che non fossero concordate con gli altri) e di reciprocità (i proventi delle attività venivano divisi "a stecca para", ovvero in parti uguali, e venivano retribuiti anche i membri che non partecipavano). Il vasto ambito di attività delinquenziali andava dai sequestri di persona, al controllo del gioco d'azzardoe delle scommesse ippiche, alle rapine e al traffico di droga. La Banda non mancò di estendere la propria rete di contatti alle principali organizzazioni criminali italiane, da cosa nostra alla camorra, nonché a esponenti della massoneria in Italia, oltre a numerose collaborazioni con elementi della destra eversiva, della finanza e fu coinvolta in presunti rapporti tra servizi segreti italiani e criminalità. La storia dell'organizzazione, fatta anche di legami mai del tutto chiariti con politica e apparati istituzionali statali, vide la banda coinvolta in alcune vicende quali l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli, il coinvolgimento nel Caso Moro, i depistaggi nella strage di Bologna, i rapporti con l'Organizzazione Gladio e con l'omicidio del banchiere Roberto Calvi, fino alla sparizione di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori e all'attentato a Giovanni Paolo II. Secondo alcune dichiarazioni rilasciate nel 2012 da Antonio Mancini - uno degli elementi di spicco e attuale pentito - la banda sarebbe ancora in attività.

La nascita. Il contesto. «Per cogliere la genesi di questa associazione occorre andare indietro nel tempo, sino all'ultimo scorcio degli anni settanta. A quel tempo, a Roma, si registrò la tendenza degli elementi più rappresentativi della malavita locale a costituirsi in associazione. Sino ad allora, i Romani, dediti ai reati contro il patrimonio, quali furti, rapine ed estorsioni, avevano consentito, di fatto, a elementi stranieri, quali, ad esempio i Marsigliesi, di gestire gli affari più lucrosi, dal traffico degli stupefacenti ai sequestri di persona. Una volta presa coscienza della forza derivante dal vincolo associativo, fu agevole per i Romani riappropriarsi dei commerci criminali, abbandonando definitivamente il ruolo marginale al quale erano stati relegati in precedenza». (Ordinanza di rinvio a giudizio). La struttura della malavita romana storicamente era sempre stata priva di un'organizzazione verticistica o piramidale, mantenendo costantemente nel tempo la dispersione dei suoi componenti in una moltitudine di piccoli gruppi da quattro o cinque membri al massimo, ognuno padrone del proprio territorio, le cui entrate finanziarie erano dovute a piccoli traffici, riciclaggio, gioco d'azzardo, sfruttamento della prostituzione, contrabbando di sigarette, furti e rapine. Tale consuetudine cambiò solo all'inizio degli anni settanta quando, con l'avvento del clan dei marsigliesi di Albert Bergamelli, Maffeo Bellicini e Jacques Berenguer trasferitisi nella capitale per dare vita a un redditizio business dello spaccio di eroina e, soprattutto, dei sequestri di persona, si determinò un deciso cambiamento dei rapporti di forze all'interno della piccola e frammentata malavita capitolina che vide i Marsigliesi imporre la loro legge ed esercitare un certo controllo sul territorio, facendo fare così un notevole salto di qualità alla piccola delinquenza di borgata romana. Nel 1976 gli arresti dei principali boss del clan francese sancirono la definitiva uscita dalla scena criminale romana dei Marsigliesi. Tale vuoto rese possibile l'avvento di piccoli boss romani che, fiutato l'affare, iniziarono a organizzarsi in alleanze (chiamate in gergo “paranze” o “batterie”, un nucleo di quattro o cinque elementi che si occupava di controllare la propria zona, nella quale era detenuto il potere esclusivo) coinvolgendo malavitosi provenienti dai vari quartieri capitolini come Trastevere, Testaccio, Ostiense e Magliana. Fu questa la situazione nella quale Franco Giuseppucci, detto er Fornaretto e in seguito ribattezzato er Negro, un buttafuori di una sala corse di Ostia con molte conoscenze nell'ambiente della mala romana, doti di leadership e grande carisma, iniziò a compiere i primi piccoli reati e a comparire nei verbali della polizia. Vista la sua intraprendenza, considerato persona affidabile dai malavitosi più esperti, spesso e volentieri le varie batterie di rapinatori affidavano proprio a lui la custodia delle loro armi, che Giuseppucci custodiva all'interno di una roulotte di sua proprietà parcheggiata al Gianicolo, sulla riva del fiume Tevere. Quando però, il 17 gennaio 1976, tale nascondiglio venne scoperto dai Carabinieri, Giuseppucci fu arrestato ma, grazie al vetro rotto della roulotte, in sede processuale venne a mancare il presupposto probatorio della sua consapevolezza che all'interno della roulotte fossero nascoste delle armi e la pena fu contenuta a qualche mese di detenzione. «Negli anni settanta, nella zona dell'Alberone si riunivano varie "batterie" di rapinatori, provenienti anche dal Testaccio. Ne facevano parte, oltre ad alcune persone che non ricordo, Maurizio Massaria, detto "rospetto", Alfredo De Simone, detto "il secco", i tre "ciccioni", cioè Ettore Maragnoli, Pietro "il pupo", e mi sembra Luciano Gasperini - questi tre, persone particolarmente riconoscibili per la mole corporea, svolgevano più che altro il ruolo di basisti e di ricettatori - Angelo De Angelis, detto "il catena", Massimino De Angelis, Enrico De Pedis, Raffaele Pernasetti, Mariano Castellani, Alessandro D'Ortenzi e Luigi Caracciolo, detto "gigione". Tutti costoro affidavano le armi a Franco Giuseppucci, chiamato allora "il fornaretto", ancora incensurato e che godeva della fiducia di tutti. Questi le custodiva all'interno di una roulotte di sua proprietà che teneva parcheggiata al Gianicolo. All'epoca frequentavo l'ambiente dei rapinatori della Magliana, del Trullo e del Portuense. Nel corso del tempo si erano cementati i rapporti tra me, Giovanni Piconi, Renzo Danesi, Enzo Mastropietro ed Emilio Castelletti, ma non costituivamo quella che in gergo viene chiamata "batteria", cioè un nucleo legato da vincoli di esclusività e solidarietà, in altre parole non ci eravamo ancora imposti l'obbligo di operare esclusivamente tra noi, né di ripartire i proventi delle operazioni con chi non vi avesse partecipato. In particolare, negli anni precedenti il 1978, ognuna delle suddette persone operava o da sola ovvero aggregata in gruppi più piccoli o diversi.» (Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 13 dicembre 1992).

L'unione delle batterie. Giuseppucci, una volta scarcerato, riprese la sua attività di "custode" per conto di terzi, ma subì il furto del suo Volkswagen maggiolone Cabrio, a bordo del quale si trovava una borsa piena di armi appartenente a Enrico De Pedis (detto Renatino, un passato da scippatore per poi passare, molto presto, alle rapine a capo di una batteria di malavitosi del Marconi). Marucco, a seguito di alcune ricerche, venne a sapere che le armi erano entrate in possesso di Gabriele Savo, un rapinatore che all'epoca operava in una batteria che aveva come punto di ritrovo un bar sito in via Carlo Marino, nel quartiere Borgo Sabotino, capeggiata da Andrea Franzoni (detto Er Gobbo per la sua gobba pronunciata e una nota somiglianza con il gobbo), e fu a Matteo Marucco che si rivolse per reclamarne la restituzione. «Era accaduto che Giovanni Tigani, la cui attività era quella di scippatore, si era impossessato di un'auto Vw "maggiolone" cabrio, a bordo nella quale Franco Giuseppucci custodiva un "borsone" di armi appartenenti a Enrico De Pedis. Il Giuseppucci aveva lasciato l'auto, con le chiavi inserite, davanti al cinema "Vittoria", mentre consumava qualcosa al bar. Il Tigani, ignaro di chi fosse il proprietario dell'auto e di cosa essa contenesse, se ne era impossessato. Accortosi però delle armi, si era recato al Trullo e, incontrato qui Emilio Castelletti che già conosceva, gliele aveva vendute, mi sembra per un paio di milioni di lire. L'epoca di questo fatto è di poco successiva a una scarcerazione di Emilio Castelletti in precedenza detenuto. Franco Giuseppucci non perse tempo e si mise immediatamente alla ricerca dell'auto e soprattutto delle armi che vi erano custodite e lo stesso giorno, non so se informato proprio dal Tigani, venne a reclamare le armi stesse. Fu questa l'occasione nella quale conoscemmo Franco Giuseppucci il quale si unì a noi che già conoscevamo Enrico De Pedis cui egli faceva capo, che fece sì che ci si aggregasse con lo stesso. La "batteria" si costituì tra noi quando ci unimmo, nelle circostanze ora riferite, con Franco Giuseppucci. Di qui ci imponemmo gli obblighi di esclusività e di solidarietà» (Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 13 dicembre 1992). Dall'incontro tra Giuseppucci, Abbatino e De Pedis nacque l'idea di abbandonare definitivamente sia il ruolo marginale al quale erano stati relegati in passato, che le divisioni di quartiere, allo scopo di unire le sorti e appropriarsi delle attività criminali capitoline. Quella che in un primo tempo nacque come una semplice "batteria", una volta presa coscienza della propria forza, si trasformò molto velocemente in una vera e propria "banda" per il controllo dei traffici illeciti romani che, da li' a poco, verrà conosciuta come Banda della Magliana. «L'aver costituito una "batteria" - parlo di "batteria" perché in un primo momento ci dedicavamo quasi esclusivamente alle rapine - comportò che ognuno di noi apportasse le armi di cui disponeva, che venivano custodite inizialmente da incensurati ai quali ci rivolgevamo per questioni di sicurezza e di fiducia o da familiari o in appartamenti disabitati di cui alcuni di noi avevano la disponibilità. Nel frattempo la "batteria" si trasformò in "banda" e si allargò, come ho già riferito, integrando altri partecipi - come ad esempio Marcello Colafigli, Giorgio Paradisi e Claudio Sicilia e altri gruppi come quello di Acilia e i "testaccini", talché si rese necessario provvedere altrimenti alla custodia delle armi. La differenza tra "batteria" e "banda", oltre che nel diverso numero dei partecipi, minore nella prima rispetto alla seconda, sta anche nel ventaglio più ampio di interessi criminosi della "banda", rispetto alla "batteria", la quale si dedica alla commissione di un unico tipo di reati, ad esempio le rapine. La "banda", peraltro, comporta l'esistenza di vincoli più stretti tra i partecipi, vincoli che si traducono in obblighi maggiori di solidarietà tra gli associati, i quali sono, pertanto, maggiormente impegnati e tenuti a prendere in comune ogni decisione, senza possibilità di sottrarsi dal dare esecuzione alle stesse. Ad esempio, tutti gli omicidi di cui ho parlato, riconducibili alla banda, in quanto funzionali ad assicurarsi il rispetto da parte delle altre organizzazioni operanti su Roma e a imporre un predominio il più possibile incontrastato sul territorio, vennero di volta in volta decisi da tutti coloro che facevano parte della banda nel momento dell'esecuzione, di volta in volta affidata a chi aveva maggiori capacità per assicurarne il successo con il minor rischio sia personale che collettivo, soprattutto sotto il profilo preminente di assicurarsi l'impunità. Questo comportava che tutti si era parimenti compromessi, quindi tutti parimente motivati ad aiutare chi fosse stato colto in flagranza o comunque arrestato o incriminato, sia a limitare i danni processuali, sia ad avere la tranquillità di assistenza a sé e ai familiari. Inoltre, una volta costituiti in banda, sempre al fine di garantirsi l'impunità, ci imponemmo l'obbligo di non avere stretti legami di tipo operativo con gruppi esterni, che non fossero funzionali all'accrescimento dei profitti e dello sviluppo delle attività programmate, il che, unitamente alla pari compromissione, assicurava la massima impermeabilità della nostra banda, nel senso che nessuno poteva agevolmente venire a conoscere i particolari delle azioni a noi riconducibili» (Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 13 dicembre 1992). Ognuno dei tre portò nella nuova banda, oltre che la propria esperienza nel crimine, le proprie conoscenze, nonché le armi da utilizzare nelle azioni, oltre a tutta una serie di fidati sodali e compagni di vecchie batterie che andarono così a formare le varie anime della Banda. Nei testaccini di Giuseppucci e De Pedis, batteria che si muoveva tra i quartieri di Trastevere e Testaccio, per esempio, operavano l'amico di sempre Raffaele Pernasetti detto er Palletta, Ettore Maragnoli e Danilo Abbruciati, mentre tramite Maurizio Abbatino, che invece faceva capo proprio alla zona della Magliana, arrivarono nel gruppo Giovanni Piconi, Renzo Danesi, Enzo Mastropietro, Emilio Castelletti e in seguito anche Marcello Colafigli, Giorgio Paradisi e Claudio Sicilia. A questi due gruppi se ne aggiunse poi un terzo, quello proveniente dalla zona di Ostia e Acilia capeggiato da Nicolino Selis, detto il Sardo, che già da qualche anno aveva subito varie detenzioni ed era già una figura di spicco nel panorama criminale della zona Sud della Capitale, vantando numerosi contatti con elementi di spicco della malavita organizzata e una stretta amicizia con il boss campano Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, conosciuto durante la detenzione in carcere. Proprio tra le sbarre di Regina Coeli, dov'era recluso per tentato omicidio e furto nel 1975, assieme a un altro detenuto comune, Antonio Mancini (detto Accattone), Selis pensò di mettere in pratica per Roma lo stesso tipo di operazione che Cutolo stava realizzando a Napoli con la NCO. Un grande progetto criminale, un'organizzazione malavitosa ben strutturata per la gestione dello spaccio delle sostanze stupefacenti, con lo scopo ulteriore di escludere dal territorio infiltrazioni di altre bande di diversa provenienza e gettare così, dall'interno dell'istituto carcerario, le basi della trasformazione organizzativa della mala romana, cosa che poi effettivamente avvenne, una volta liberi, con quel "patto" che, assieme agli altri due gruppi criminali, diede forma alla banda. «Intorno al 1975, mentre ero detenuto, insieme a Nicolino Selis, Giuseppe Magliolo e Gianni Girlando, nel carcere di Regina Coeli, si parlava del fatto che a Napoli, tal Raffaele Cutolo - allora il personaggio non era noto come poi lo sarebbe divenuto in seguito - stava mettendo in piedi un'organizzazione criminale, allo scopo di escludere dal territorio infiltrazioni di altre organizzazioni di diversa estrazione territoriale. Con il Selis, Magliolo e Girlando erano presenti, ma non si tenevano in altissima considerazione le loro opinioni - si decise di tentare su Roma la stessa operazione che Raffaele Cutolo stava tentando su Napoli... Nicolino Selis, il quale aveva una grande stima per Raffaele Cutolo e per questo era portato a emularlo, aveva trascorso diversi anni in carcere, pertanto, sebbene godesse di una notevole reputazione all'interno del mondo penitenziario, non aveva, però, grandi conoscenze all'esterno. Da parte mia, io venivo da tre anni d'intensa attività criminale e le mie conoscenze all'esterno del carcere erano più fresche e attuali, sicché, progettando un'organizzazione similare a quella che stava mettendo in piedi Raffaele Cutolo, avevo maggiori possibilità di indicare persone che potessero essere in grado e disposte a farne parte.» (Interrogatorio di Antonio Mancini del 29 aprile 1994). Diversi uomini della batteria di Selis furono naturalmente coinvolti in questo nuovo sodalizio, come per esempio suo cognato Antonio Leccese, Giuseppe Magliolo detto il Killer, Fulvio Lucioli (detto il Sorcio), Giovanni Girlando (il Roscio), Libero Mancone, i fratelli Giuseppe (il Tronco) e Vittorio Carnovale (detto il Coniglio) e Edoardo Toscano (Operaietto). Ognuno di loro riunirà le proprie conoscenze e, una volta usciti dal carcere, essi si uniranno ai testaccini e ai maglianesi per realizzare così il progetto criminale ideato dal "Sardo" per la conquista di Roma.

Provenienza geografica dei gruppi.

Gruppo della Magliana.

Maurizio Abbatino, detto Crispino. Nato nel cuore della Magliana Vecchia, prima dell'incontro con Giuseppucci era già a capo, pur giovanissimo, di una batteria di malavitosi di quartiere specializzata in rapine. Arrestato nel 1972 e nel 1974, prima per furto e resistenza a pubblico ufficiale e poi per duplice omicidio (assolto per insufficienza di prove).

Marcello Colafigli, detto Marcellone. Amico fraterno di Giuseppucci, con cui spesso si ritrova in una batteria dedita alle rapine, è introdotto da quest'ultimo nel nucleo originario della banda.

Claudio Sicilia detto il Vesuviano. Originario di Giugliano in Campania (NA) e nipote del boss Alfredo Maisto, si stabilisce a Roma nel 1978 e diviene ben presto l'anello di congiunzione della banda con la Camorra di Corrado Iacolare, Michele Zaza e Lorenzo Nuvoletta.

Giorgio Paradisi, detto Er Capece. Attivo nel settore delle rapine ai camion, entra nella banda attraverso la conoscenza di Giuseppucci, con cui divide la comune passione per i cavalli e la frequentazione di ippodromi, sale corse e bische.

Antonella Rossi, arrestata già diverse volte per aver commesso vari omicidi su commissione e donna di fiducia di Giuseppucci.

Renzo Danesi, detto El Caballo. Originario del Trullo, fa parte del gruppo di malavitosi dediti alle rapine che gravita attorno ad Abbatino, il quale poi non manca, sin dall'inizio, di coinvolgerlo nel progetto criminale della banda.

Enzo Mastropietro, detto Enzetto. Anche lui frequenta l'ambiente dei rapinatori della Magliana di Abbatino per poi entrare a far parte del nucleo storico della banda.

Emilio Castelletti. Rapinatore, assieme ad Abbatino partecipa, tra le altre cose, al tentato sequestro Pratesi che si conclude con la fuga dell'ostaggio.

Giovanni Piconi. Era legato al nucleo originario della banda che ruotava intorno ad Abbatino.

Roberto Giusti. Cognato di Mastropietro, entra a far parte della banda in un secondo momento e in maniera autonoma, occupandosi della vendita di sostanze stupefacenti.

Gianfranco Sestili. Introdotto da Colafigli insieme al quale, in seguito, gestisce il controllo del mercato degli stupefacenti alla Garbatella e a Tor Marancia. Più tardi opera anche come fiancheggiatore, curando il trasporto delle armi a disposizione della banda e la loro riconsegna, dopo le azioni, nel deposito presso il Ministero della Sanità.

Gruppo di Testaccio-Trastevere.

Franco Giuseppucci, detto Er Fornaretto e poi Er Negro. Buttafuori in una bisca clandestina a Ostia, grande appassionato di scommesse e assiduo frequentatore di ippodromi e sale corsa romane, muove i primi passi nel mondo della mala a capo di una batteria di criminali del Trullo dedita soprattutto a furti e rapine. Fascista convinto e tramite del gruppo con gli esponenti dell'eversione nera e dello spontaneismo armato dei Nuclei Armati Rivoluzionari. È il primo a percepire la possibilità di unificare operativamente la frastagliata realtà della criminalità romana.

Enrico De Pedis, detto Renatino. Nasce come scippatore per poi passare, molto presto, alle rapine legandosi a una batteria di malavitosi dell'Alberone. Nel 1977 viene arrestato, uscendo di prigione tre anni dopo. Rappresenta il lato "imprenditoriale" della banda, nel tentativo di smarcamento dal crimine di strada per potersi sedere ai tavoli del potere, grazie anche ai suoi legami con i poteri occulti, il mondo del riciclaggio e i servizi segreti.

Danilo Abbruciati, detto Er Camaleonte. Figlio di Otello Abbruciati, si lega prima a una batteria di rapinatori (la Gang dei Camaleonti) specializzata in furti nelle abitazioni, per poi entrare nel giro delle bische clandestine controllate dal Clan dei marsigliesi di Albert Bergamelli. È uno dei leader del nucleo storico della banda, cui porta in dote la sua conoscenza con Giuseppe Calò, "ambasciatore" di Cosa nostra a Roma e boss del clan palermitano di Porta Nuova, e dalla quale, tuttavia, mantiene sempre una certa indipendenza, coltivando rapporti di collaborazione con politici corrotti, estremisti di destra, mafiosi, spie e massoni.

Raffaele Pernasetti, detto Er Palletta. Da giovane lavora come commerciante di frattaglie all'ingrosso, prima di fare il proprio ingresso nel crimine organizzato, introdotto da De Pedis, di cui diviene in breve uomo di fiducia e spietatissimo "braccio armato".

Pietro Sanna, nato in provincia di Oristano nel '53. A causa della premutura morte del padre, ucciso in una faida di famiglia in Sardegna che portò la madre a trasferirsi nel Lazio, passa l'infanzia in un collegio romano. Fin da giovane inizia a frequentare gli ambienti malavitosi romani, dapprima come faccendiere poi man mano con ruoli sempre più importanti. In particolare, negli anni '70 e primi '80, gestisce l'area di Latina (estorsioni, rapine, speculazioni sulla compravendita di terreni, riciclo di denaro nell'edilizia). Amico di Giuseppucci e di Selis, dopo la loro morte inizia a prendere le distanze da quanto deciso da De Pedis. A metà anni '80 lascia la banda e si trasferisce a Genova.

Ettore Maragnoli. Truffatore e usuraio, si inserisce nella banda dove opera nel settore della gestione del racket del gioco d'azzardo, del prestito a usura e dei videopoker.

Ernesto Diotallevi. Faccendiere legato agli ambienti dell'estrema destra, già intorno alla metà degli anni settanta è conosciuto per la sua attività di usuraio. Viene poi introdotto nella banda da Abbruciati come suo tramite con la mafia siciliana (per via della sua amicizia con Pippo Calò), verso altre associazioni malavitose e verso il mondo economico/finanziario, nel quale vanta notevoli entrature. Col tempo, poi, va a costituire l'anima finanziaria del gruppo di Testaccio-Trastevere, oltre che a occuparsi di riciclare e investire i capitali della Magliana.

Paolo Frau, detto Paoletto. Nato a Roma ma sempre vissuto ad Ostia, con precedenti per detenzione di sostanze stupefacenti, opera come guardaspalle di Renatino De Pedis. Comincia a gravitare intorno alla banda poco prima dell'omicidio di Giuseppucci e gestisce per lui il commercio di droga sul litorale romano.

Giuseppe De Tomasi, detto Sergione. Noto, intorno alla metà degli anni '70, per la sua attività di usuraio a Campo de' Fiori. È il Mario che, il 28 giugno 1983, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi, telefona a casa della famiglia della ragazza.

Francesco Zumpano e Domenico Zumpano (detto Mimmo il biondo). Introdotti nella banda da Giuseppucci che poi affida loro la gestione, per conto della banda stessa, del commercio della cocaina nella zona di viale Marconi, a Trastevere.

Angelo Cassani, detto Ciletto. Amico dei fratelli Zumpano che lo presentano alla banda, cui si unisce a tutti gli effetti nel 1981 in occasione dell'omicidio di Roberto Faina, commesso dallo stesso Ciletto e da Giorgio Paradisi. Anch'egli si occupa del commercio di cocaina nelle zone di Testaccio e Trastevere.

Enrico Nicoletti. Ex carabiniere e poi usuraio e truffatore, conosce De Pedis nel carcere di Regina Coeli e diviene prima l'anima finanziaria del gruppo di Testaccio-Trastevere (attorno al quale girano anche esponenti dell'eversione nera del tempo), poi il cassiere dell'intera banda, che lo considera un personaggio presentabile e con le conoscenze giuste (come, per esempio, l'allora giudice e senatore Claudio Vitalone). Tramite lui, il gruppo reinveste i proventi delle attività illecite in attività commerciali e immobiliari, incrementando enormemente il capitale dei boss della Magliana.

Gruppo di Ostia-Acilia.

Nicolino Selis, detto Il Sardo. Nato in Sardegna, a Nuoro, ben presto si trasferisce nella capitale divenendo, in poco tempo, uno dei padroni incontrastati del traffico di droga e delle rapine nella zona di Ostia. Si occupa principalmente di tenere i contatti tra l'organizzazione e la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, da lui conosciuto anni prima in carcere e di cui diviene il referente su Roma per il traffico di droga, il riciclaggio e la vendita di armi.

Antonio Leccese. Personaggio di rilievo, ma certamente non di particolare spicco nella malavita romana, marito di Anna Paola Selis, sorella di Nicolino. Controlla per conto del cognato il traffico di droga nei quartieri di Casal Bruciato e Tiburtino, oltre che adoperarsi come suo guardaspalle.

Giuseppe Magliolo, detto Il Killer. Arrestato già diverse volte per aver commesso vari omicidi su commissione e uomo di fiducia di Selis, che aveva conosciuto da ragazzino. Nel 1975, durante un periodo di detenzione, i due sono protagonisti con Edoardo Toscano di un'evasione dal carcere di Regina Coeli.

Giuseppe Carnovale e Vittorio Carnovale, detti rispettivamente Il Tronco e Il Coniglio. Cognati di Toscano (che sposò la loro sorella Antonietta), sono operativi nel gruppo di Nicolino Selis che agiva ad Acilia.

Edoardo Toscano, detto Operaietto. Arrestato per rapina e tentato omicidio nel 1975, lo stesso anno evade dal carcere romano di Regina Coeli assieme a Selis e Magliolo. Tornato libero, si unisce alla batteria del Sardo, per poi aderire al progetto criminale della banda.

Giovanni Girlando, detto Gianni il Roscio. Luogotenente di Toscano, si unisce alla batteria di Selis con cui, nel 1976, realizza una serie di furti e rapine a mano armata in banche e uffici postali. Arrestato dopo la rapina al treno Chiusi-Siena, è condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere. Una volta libero si dedica al traffico di droga, attività che prosegue anche all'interno della banda.

Fulvio Lucioli, detto Il Sorcio. Nel 1976 entra a far parte della batteria capeggiata da Selis che, per i seguenti due anni, fino al suo arresto, mette a segno un incredibile numero di rapine a mano armata. Durante la carcerazione accetta la proposta di Toscano di entrare a far parte della neonata banda ricevendo, ancora tra le sbarre, una stecca di trecentomila lire alla settimana.

Antonio Mancini, detto l'Accattone. Originario del quartiere San Basilio, inizia la propria carriera criminale fin da giovanissimo, in una batteria specializzata nell'assalto ai treni. Nel 1976, durante uno dei suoi tanti soggiorni nel carcere di Regina Coeli, ha modo di stringere ulteriormente i rapporti con Selis e di sposare appieno il suo progetto di tentare su Roma la stessa operazione di controllo del territorio che il camorrista Raffaele Cutolo stava realizzando sulla piazza di Napoli. Cosa che poi effettivamente avviene, una volta liberi, con quel patto che, assieme agli altri due gruppi criminali, dà forma alla banda della Magliana.

Libero Mancone. Primo arresto nel 1970 per furto aggravato, anche lui coinvolto nella banda da Selis.

Gianfranco Urbani, detto Er Pantera. Uomo "più di parole che di pistole" e basista della batteria di Selis, è anche ben inserito nel traffico degli stupefacenti, grazie anche ai suoi contatti con grossi spacciatori thailandesi. Ancora carcerato, accetta la proposta di entrare a far parte della neonata banda, ricevendo fin dall'inizio una "stecca" di trecentomila lire alla settimana. Punto di contatto e tramite con esponenti di primo piano della 'Ndrangheta come Paolo De Stefano, Giuseppe Piromalli e Pasquale Condello.

Angelo De Angelis, detto Er Catena. Pregiudicato, con diversi precedenti penali a suo carico, si vantava di far parte di un gruppo massonico per il quale agiva e da cui riceveva protezione a livello poliziesco e processuale. Trafficante di stupefacenti, attività che prosegue anche nella banda, è accusato dai componenti della stessa di tagliare la cocaina che era incaricato di vendere e per questo ucciso.

Gianni Travaglini. Gestore di una stentata attività di commercio d'auto che, una volta diventate più floride le situazioni economiche del gruppo di Acilia, ha immediatamente un notevole incremento grazie ai prestiti e agli acquisti di auto dei componenti della banda. Ne diviene il fornitore ufficiale, fornendo assistenza logistica (auto ai familiari dei detenuti per recarsi ai colloqui, auto blindate all'occorrenza) e garantendo così libertà di movimento, riducendo i pericoli di controllo e di individuazione, perché non effettua i passaggi di proprietà. Inoltre, disponendo di autorimessa, occulta talvolta mezzi predisposti o utilizzati per le operazioni.

Roberto Frabetti, detto il Ciccione. Titolare di una tintoria ad Acilia che gli consente di giustificare all'occorrenza la disponibilità di ragguardevoli somme di denaro liquido. Inizialmente opera come autista per conto di Mancone e, pur non partecipando mai ad azioni violente della banda, svolge attività di supporto, specie per quel che concerne gli aiuti ai detenuti e alle loro famiglie, di favoreggiamento ai latitanti e di custodia e trasferimento degli stupefacenti.

Emidio Salomone. Cresce all'ombra di Vittorio Carnovale, e quando quest'ultimo è ucciso si impadronisce del traffico di stupefacenti, del gioco clandestino e dell'usura nel quadrante di Ostia.

Bruno Tosoni, detto er Capoccione. Gestisce l'usura per conto del gruppo.

Personaggi minori.

Roberto Fittirillo. Uno dei sicari della banda, per cui gestisce anche il controllo del traffico di stupefacenti della zona del Tufello. Alessandro D'Ortenzi (detto Zanzarone). Malavitoso con precedenti per associazione per delinquere, rapina, furti, ricettazione, detenzione di armi, ricopre una posizione marginale all'interno della banda ma, dati i suoi trascorsi giudiziari e una certa familiarità con specialisti in psichiatria, è utilizzato per ottenere perizie psichiatriche compiacenti. Costituisce, in particolare, il punto di contatto tra la banda e il professor Aldo Semerari

Alvaro Pompili. Introdotto nella banda da Colafigli, vista l'esigenza dell'organizzazione di avvalersi di personaggi "puliti" in grado di far riciclare i loro capitali. Guardia giurata in servizio presso il Ministero della sanità, fece da tramite con Biagio Alesse, custode e centralinista presso il Ministero stesso, convincendolo a custodire un deposito di armi all'interno dello stabile dell'ente.

Il sequestro del duca Grazioli. Il debutto come banda vera e propria, che fino a quel momento aveva vissuto essenzialmente solo di rapine, fu il sequestro del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere. «Fu Franco Giuseppucci a proporci il sequestro del duca Massimiliano Grazioli, operazione alla quale aderimmo e che effettivamente portammo a compimento. Giuseppucci aveva avuto a sua volta l'indicazione dell'ostaggio da tal Enrico (Mariotti, n.d.r.) gestore di una sala corse a Ostia, il quale frequentava il figlio del duca Massimiliano con cui condivideva la passione per le armi. Si trattava di un salto di qualità rispetto alle rapine che sino a quel momento costituivano la nostra principale attività. Ovviamente il sequestro di persona richiedeva una maggiore organizzazione sia logistica che di impegno personale. Pertanto, mentre iniziavano i pedinamenti del sequestrando prendemmo anche contatto, da un lato, con Giorgio Paradisi, il quale conosceva il Giuseppucci a ragione della comune passione per i cavalli e frequentazione di ippodromi, sale corse e bische, con il predetto "Bobo", nonché con altra persona, di cui non ricordo le generalità e dall'altro lato, con una banda di Montespaccato, della quale ricordo facevano parte Antonio Montegrande, siciliano» (Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992). La sera del 7 novembre 1977, lasciata da poco la sua tenuta di Settebagni a bordo della sua BMW 320, il duca venne bloccato all'incrocio di via della Marcigliana con via Salaria da due auto: una Fiat 131 guidata da Maurizio Abbatino e un'Alfetta con al volante Renzo Danesi e sulle quali c'erano anche Giuseppucci, Paradisi, Piconi, Castelletti e Colafigli che, incappucciati, lo fecero scendere a forza per poi caricarlo a bordo di una delle auto e successivamente trasportarlo in diversi nascondigli provvisori. Inizialmente venne rinchiuso in un appartamento di Primavalle, poi trasferito in una località sull'Aurelia e infine nel napoletano. A causa dell'inesperienza nel campo però la banda non riuscì a gestire al meglio il sequestro e dovette chiedere aiuto a un altro gruppo criminale, una piccola banda di Montespaccato. La prima telefonata di richiesta del riscatto arrivò alla famiglia del duca un'ora dopo il sequestro: "Preparate dieci miliardi". La banda era infatti a conoscenza delle disponibilità monetarie dei Grazioli che, oltre a qualche proprietà, come per esempio l'ampia tenuta di Settebagni, solo qualche tempo prima aveva venduto il quotidiano romano Il Messaggero. Nei giorni successivi le trattative continuarono frenetiche, con la famiglia che chiedeva continuamente prove sulle condizioni di salute del rapito. I rapitori inviarono loro una foto Polaroid nella quale l'ostaggio teneva in mano una copia del giornale fiorentino La Nazione acquistato appositamente in Toscana per depistare le indagini. Le richieste dei sequestratori scesero poi di molto e, il 14 febbraio 1978, arrivò il messaggio che stabiliva il contatto finale per il pagamento. Il figlio del duca, Giulio Grazioli, avrebbe dovuto far pubblicare, sul quotidiano romano Il Tempo, un annuncio di accettazione delle condizioni dei sequestratori: «Gambero rosso tutte le specialità marinare, pranzo a prezzo fisso, lire 1500 (a significare un miliardo e mezzo, ndr)». Il pagamento avvenne attraverso una modalità simile a quella di una caccia al tesoro e con tutta una serie di complesse segnalazioni e di messaggi lasciati nei vari punti di Roma, per evitare che la famiglia potesse essere seguita dalle forze dell'ordine. Alla fine di un lungo tragitto, il figlio del duca Grazioli consegnò la borsa con il denaro lanciandola da un ponte dell'autostrada Roma-Civitavecchia dove, a raccoglierla c'erano Danesi, Piconi e Castelletti. Il frutto del riscatto venne "steccato" in parti eguali tra i vari gruppi interni alla banda e poi riciclato in Svizzera tramite Salvatore Mirabella, un milanese della banda di Francis Turatello e inserito nel giro delle bische clandestine. «La somma del riscatto venne ripartita in ragione del cinquanta per cento a quelli di Montespaccato, che avevano in custodia l'ostaggio, e del cinquanta per cento a noi. Ognuno dei due gruppi doveva detrarre dalla propria parte la "stecca", rispettivamente, per il basista Enrico e per il telefonista. Le quote spettanti a ciascun gruppo si ridussero del dodici per cento, costo del cambio delle banconote in franchi svizzeri. Debbo ancora aggiungere che Enzo Mastropietro, il quale aveva partecipato alla preparazione del sequestro, non poté partecipare però all'esecuzione in quanto poco prima era stato arrestato. Ciò nonostante, venne a lui riservata una quota di lire venti milioni e una quota di lire quindici milioni venne riservata a Enrico De Pedis, il quale come ho già detto era anch'egli detenuto, in considerazione dei suoi stretti rapporti con Franco Giuseppucci.»

(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992). La famiglia Grazioli attese a lungo e invano il promesso rilascio dell'ostaggio. Quello che non potevano allora sapere era che, durante la prigionia, era avvenuto un imprevisto decisivo: uno dei componenti di Montespaccato, infatti, si era fatto vedere in faccia dal duca e a causa di questo contrattempo l'ostaggio venne ucciso e il suo corpo mai fatto ritrovare. «L'ostaggio non venne mai rilasciato, sebbene al momento del pagamento del riscatto fosse ancora in vita. Il gruppo di Montespaccato ci informò del fatto che aveva visto in faccia uno dei carcerieri di tal che ci fu detto che non si poteva fare a meno di ucciderlo. A questa decisione, la quale non fu nostra, non ci opponemmo, in quanto l'individuazione dei complici poteva significare anche la nostra individuazione. Pertanto il Montegrande e compagni diedero corso all'esecuzione alla quale non partecipammo. Nulla sono in grado di riferire di preciso circa le modalità esecutive dell'omicidio. So soltanto che il fatto è avvenuto nel napoletano, dove l'ostaggio era stato trasferito in una casa di campagna appartenente a familiari di persone del gruppo di Montespaccato, in quanto anche la seconda 'prigione' di Roma era diventata insicura per il protrarsi della durata del sequestro. So altresì che il cadavere venne sepolto, ma non sono in grado di dire dove.» (Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992). Nonostante le cose non si fossero svolte tutte come la banda le aveva previste, anche a causa della morte dell'ostaggio, il sequestro si rivelò un vero e proprio successo per il neonato gruppo. Aveva contribuito a cementare ulteriormente i rapporti al suo interno, confermando l'idea che unire le forze di più batterie non era solo possibile ma che avrebbe portato loro enormi e ulteriori vantaggi.

La conquista del potere. L'omicidio di Franco Nicolini. «"Roma è nelle nostre mani", si dicevano l'un l'altro i nuovi boss, spavaldi e col sorriso sulle labbra, interessati solo ad allargare il controllo sulla città e a entrare in nuovi affari, incuranti di chi ci fosse dietro. La droga poteva arrivare e andare indifferentemente a uomini della mafia, della camorra, della 'ndrangheta, dell'eversione nera, di organizzazioni mediorientali. Agli ex rapinatori cresciuti nelle batterie di quartiere, passati al giro più grosso delle bische e delle scommesse clandestine e diventati in pochi anni impresari di morte attraverso il traffico di droga, non interessava servire ed essere serviti da questa o quella banda.» (da Ragazzi di malavita di Giovanni Bianconi). La ragione per la quale un gruppo così disomogeneo e numericamente modesto riuscì a raggiungere per la prima volta il pressoché totale controllo delle attività criminali in una metropoli come Roma è da ricercarsi essenzialmente nei metodi utilizzati e, primo tra tutti, quello degli omicidi. Tale pratica, mai troppo utilizzata in passato da parte della mala romana, venne utilizzata dalla banda al fine di estendere il suo controllo su tutta la città, attraverso la sistematica eliminazione fisica degli avversari, intendendo in questo modo ottenere il risultato ulteriore di intimorire chi avesse voluto interferire con i suoi progetti di crescita. Questa situazione di precario equilibrio generava nel sodalizio il timore che qualcuno dei vari boss potesse prendere il sopravvento rispetto agli altri, per cui esisteva la regola che ogni azione rilevante dovesse essere approvata dai vari gruppi. Il debutto di fuoco fu l'uccisione di Franco Nicolini, detto Franchino er Criminale, all'epoca padrone assoluto di tutte le scommesse clandestine dell'ippodromo Tor di Valle e le cui attività illegali suscitarono ben presto l'interesse della nascente banda, anche se il motivo primario del suo omicidio fu da ricercarsi in un torto fatto subire a Nicolino Selis nel corso di un periodo di comune detenzione; questo avvenne nel 1974 quando, durante una rivolta dei detenuti, Nicolini si schierò dalla parte delle guardie carcerarie per ristabilire l'ordine e, agli insulti di Selis, rispose schiaffeggiandolo in pieno volto di fronte agli altri detenuti. «Alla richiesta di meglio precisare il movente dell'omicidio di Franco Nicolini, ribadisco quanto in proposito ho già dichiarato nei miei precedenti interrogatori: chi aveva motivi per volere la morte di "Franchino il Criminale" era Nicolino Selis, il quale ci chiese di aiutarlo nell'impresa per saggiare la nostra affidabilità nel momento in cui vi era la prospettiva di realizzare la fusione tra il nostro e il suo gruppo. All'epoca, stante l'interesse alla integrazione dei due gruppi, non chiedemmo al Selis di spiegarci puntualmente le ragioni per cui voleva commettere l'omicidio, d'altra parte il Selis ci disse che si trattava di un suo fatto personale e ci era noto, al riguardo, che tra il Nicolini e il Selis, vari anni prima, durante una comune detenzione dei due, vi erano stati dei violenti screzi, nel carcere di Regina Coeli. Al progetto del Selis di uccidere il Nicolini, non solo non ci opponemmo, ma lo aiutammo, sia per le ragioni sopra esposte, sia perché anche il Giuseppucci vi era in qualche modo interessato, essendo disturbato dalla presenza del Nicolini presso l'ippodromo di Tor di Valle. Per maggior chiarezza, il Giuseppucci riusciva quasi sempre a condizionare l'andamento di qualche corsa, il Nicolini, da parte sua, essendo un allibratore di un certo calibro e avendo un sostanziale controllo dell'ippodromo, spesso intralciava i programmi del primo» (Interrogatorio di Maurizio Abbatino dell'11 febbraio 1993). La sera del 25 luglio del 1978, nel momento in cui la gente cominciava a defluire dall'ippodromo dopo l'ultima corsa, nel parcheggio antistante due auto attesero l'arrivo di Nicolini: Renzo Danesi e Maurizio Abbatino erano alla guida rispettivamente, di una Fiat 132 e di una Fiat 131, a bordo delle quali si trovavano Enzo Mastropietro, Giovanni Piconi, Edoardo Toscano, Marcello Colafigli e Nicolino Selis, mentre Franco Giuseppucci rimase in attesa all'interno dell'ippodromo, allo scopo di farsi notare dalla gente per costruirsi l'alibi; Nicolini, giunto nel parcheggio nei pressi della sua Mercedes grigia, venne avvicinato da Toscano e Piconi e freddato all'istante con nove colpi di pistola. La decisione di uccidere Nicolini venne presa dalla banda anche in virtù del beneplacito, ottenuto dal capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, il quale, appena evaso dall'ospedale psichiatrico di Aversa, nella primavera del 1978 organizzò un incontro con Selis allo scopo di trovare, tra i rispettivi gruppi, una strategia compatibile con gli obbiettivi di entrambi, nominando così Selis suo luogotenente nella piazza romana. All'incontro, che avvenne in un albergo di Fiuggi dove, secondo la deposizione del pentito Abbatino, Cutolo disponeva di un intero piano per sé e i propri guardaspalle, parteciparono anche Franco Giuseppucci, Marcello Colafigli e lo stesso Maurizio Abbatino, e questo segnò un momento decisivo nella storia della banda che, tra le sue varie attività, ebbe modo di attivare un canale preferenziale con i camorristi per la fornitura delle sostanze stupefacenti da distribuire poi nella capitale. La sua eliminazione, oltreché a cementare i rapporti all'interno dei vari gruppi della Banda, si rivelò comunque una tappa fondamentale per la crescita della stessa che, da quel momento in avanti, ebbe via libera per poter gestire un'ottima fonte di guadagno[15]. Da quel momento, infatti, i rapporti di forza all'interno della malavita romana subirono un cambiamento definitivo che vide la banda in una posizione predominante e che perdurò negli anni successivi. L'ascesa degli uomini della Magliana, infatti, avvenne in modo molto rapido e in poco tempo, dalle semplici rapine, le attività criminali della stessa si spostarono verso reati più redditizi legati ai sequestri di persona, al controllo del gioco d'azzardo e delle scommesse ippiche, ai colpi ai caveau e soprattutto al traffico di sostanze stupefacenti. I vari componenti della banda, comunque, anche quando il loro potere crebbe fino ad assumere il controllo completo delle attività illecite cittadine, continuarono, nonostante le ricchezze acquisite e il conseguente salto di qualità nella scala sociale (da piccoli malavitosi di quartiere ad affaristi del crimine), a partecipare personalmente alle azioni, rimanendo sostanzialmente degli operai del crimine.

Il traffico di stupefacenti. L'organizzazione dello spaccio della droga e la sua diffusione capillare nelle varie zone della città avveniva attraverso una rete di spacciatori di medio livello, denominati cavalli, collegati a loro volta a piccoli spacciatori denominati formiche. Tale struttura venne spiegata da Antonio Mancini durante un interrogatorio: «Già nel 1979, c'eravamo estesi su tutta Roma. L'approvvigionamento della droga non era più un problema.» Tutti gli spacciatori rispondevano, però, ad un referente della banda che si incaricava, dopo avere ricevuto la droga dai canali della criminalità organizzata o dall'estero, di distribuirla al livello inferiore e di ritirare i proventi della vendita della stessa, imponendo una sorta di monopolio della droga, attraverso il quale si controllava l'approvvigionamento e lo smercio su tutta Roma. «Battevamo la piazza, per imporre il nostro prodotto agli spacciatori» dichiarò poi il pentito Abbatino, interrogato il 25 novembre 1992 «promettendo e garantendo loro la protezione nei confronti dei precedenti fornitori. In altri termini, mettevamo la concorrenza nelle condizioni di non poter più operare, se non facendo capo a noi.» Nell'interrogatorio reso il 23 maggio 1994, lo stesso Mancini, confermò questo modus operandi dell'organizzazione: «il sistema funzionava in questo modo: costituito il gruppo e avute le entrature per l'approvvigionamento della droga, si prendeva contatto con coloro i quali in qualche modo operavano nel settore; si faceva loro una proposta che non potevano rifiutare, di prendere la droga da o tramite noi, di tal che, accettando, entravano automaticamente a far parte del nostro gruppo. Nessuno si rifiutò mai di accedere alle nostre proposte, in quanto se fosse accaduto il riluttante era un uomo morto.» Allo scopo di avere un controllo capillare del territorio si rese necessario una divisione dello stesso in varie zone presidiate dai vari gruppi della banda. La zona di Testaccio-Viale Marconi, quartier generale della banda, era di competenza di Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci e veniva gestita tramite l'apporto dei fratelli Francesco e Domenico Zumpano. Le zone di Trastevere, Torpignattara e Centocelle erano controllate da Enrico De Pedis, Raffaele Pernasetti, Ettore Maragnoli, Giorgio Paradisi, Fabiola Moretti e Angelo Cassani. Le zone della Magliana, Eur e di Monteverde erano controllate da uomini di Maurizio Abbatino, quali Enzo Mastropietro, Roberto Giusti, Massimo Sabbatini e Giovanni Piconi. La zona di Ostia era controllata da Nicolino Selis, che si avvaleva di uomini come Paolo Frau, Ottorino Addis, Antonio Leccese, Fulvio Lucioli e Giovanni Girlando. La zona di Acilia era controllata da Edoardo Toscano, Libero Mancone, i fratelli Carnovale e Roberto Frabetti. Le zone della Garbatella e di Tor Marancia erano controllate da Claudio Sicilia, Gianfranco Sestili e Marcello Colafigli. Infine, il Trullo era curato da Renzo Danesi, il Portuense da Emilio Castelletti, il Prenestino e Villa Gordiani dal Pantera Gianfranco Urbani e nelle zone del Tufello-Alberone la gestione era affidata a Roberto Fittirillo e ai tre fratelli Giordani (detti i Sandroni). «Il mercato romano, fermo restando che la droga che si vendeva era ovunque la stessa, dal momento che le forniture erano comuni a tutti, era ripartito in zone, controllate ovviamente da persone diverse, a seconda dell'influenza, maggiore o minore che si aveva sulle singole aree territoriali. A tal proposito, esisteva un accordo tra tutti, nel senso che ciascuno doveva curare esclusivamente la distribuzione nel proprio territorio senza invadere quello assegnato agli altri. Si trattava di regole piuttosto ferree e che tutti si era tenuti a rispettare. So' questo perché, per quanto riguardava me avevo assegnato il territorio di Trastevere, che era comunque uno dei più ricchi: una volta che io sconfinai, effettuando una distribuzione alla Garbatella, dove il territorio era assegnato a Manlio Vitale e ad altri, Danilo Abbruciati si arrabbiò molto con me, dal momento che, a suo dire, lo avrei messo in grosse difficoltà, avendo egli dovuto dare al Vitale, personaggio di notevole prestigio nell'ambiente malavitoso, spiegazioni circa lo sconfinamento, faticando a convincerlo che era stata cosa del tutto accidentale e non il sintomo di una volontà di sottrarci al rispetto delle regole.» (Interrogatorio di Fabiola Moretti dell'8 giugno 1994). La divisione in zone del territorio rifletteva in pieno la struttura costitutiva della banda che, nata dall'unione di diversi gruppi o batterie, responsabili ognuna della propria, a differenza di altre organizzazioni criminali quali la Camorra o Cosa Nostra, non presentava un'organizzazione piramidale vista l'assenza di un unico capo in grado di prendere decisioni vincolanti per le diverse zone. «Per quanto concerne le forniture di droga che "lavoravamo" occorre distinguere tra la cocaina e l'eroina: la cocaina, il mio gruppo la riceveva tramite Manuel Fuentes Cancino; l'eroina, che commerciavamo, per come ho detto, unitamente al gruppo Selis e al De Pedis e compagni, la ricevevamo, solitamente, tramite Koh Bak Kim. Costui, da me conosciuto, tramite Gianfranco Urbani (detto "il Pantera"), cominciò a rifornirci di eroina che egli introduceva in Italia, tramite suoi corrieri che venivano dalla Thailandia, o occultata nelle cornici di quadri, o nei doppi-fondi di valigie. Via via che la nostra organizzazione si annetteva sempre più vaste fette di mercato la stessa si allargava, a seguito delle scarcerazioni di Enrico De Pedis, amico sia mio che del Giuseppucci, e di Raffaele Pernasetti, i quali ne entravano a far parte a pieno titolo, apportando nuovi canali di approvvigionamento che consentivano di soddisfare le esigenze di conservazione del mercato acquisito e di ulteriori ampliamenti dell'attività. Amico del De Pedis era Danilo Abbruciati, il quale consenti' di prendere contatto con fornitori del calibro di Stefano Bontade e Pippo Calò.» (Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992). I proventi di questo traffico, così come quelli relativi al gioco d'azzardo, alla prostituzione, alle scommesse clandestine, al traffico di armi e di tutte le altre attività criminali in cui la banda era impegnata, oltre ad assicurare un adeguato livello di corruzione di periti, avvocati, personale sanitario e anche di alcuni esponenti delle forze dell'ordine, erano divisi sempre in parti uguali: tutti i membri ricevevano la cosiddetta stecca para, ossia una sorta di dividendo indipendente dal lavoro svolto in quel periodo, che anche i membri detenuti (e i familiari degli stessi) continuavano a ricevere assieme ad un'adeguata assistenza legale per evitare delazioni; questo insieme di regole era vincolante per gli appartenenti alla banda e l'inosservanza delle stesse portava a vendette e anche all'omicidio.

Il deposito di armi al Ministero della Sanità. Il notevole aumento del numero di armi a disposizione della banda che, sino a quel punto venivano custodite da una serie di favoreggiatori incensurati, indusse l'organizzazione a valutare l'opportunità di raggrupparle in un unico deposito. Da un lato, vi era chi avrebbe preferito custodirle in un appartamento disabitato e, dall'altro chi invece premeva affinché venissero affidate ad un'unica persona in un ambiente insospettabile. «Marcello Colafigli aveva un notevole ascendente su Alvaro Pompili, all'epoca impiegato del Ministero della Sanità, pertanto gli prospetto' la possibilità di costituire un deposito presso tale Ministero. Alvaro Pompili, a sua volta, era particolarmente legato a Biagio Alesse, custode e centralinista presso il Ministero della Sanità, il quale si fece convincere agevolmente a fare anche il custode delle armi, con un compenso fisso di circa un milione al mese e con la tacita garanzia che, per ogni necessità economica, la banda avrebbe fatto fronte ai suoi impegni. Fu così che gran parte delle armi furono trasferite dai precedenti depositi presso la Sanità. Per quanto poi concerne, in particolare, la riconsegna, questa veniva effettuata quasi sempre da Claudio Sicilia e da Gianfranco Sestili: essi si limitavano a lasciare il borsone all'Alesse, il quale provvedeva autonomamente all'occultamento. Mentre per quanto concerne il ritiro e la preparazione delle armi, l'Alesse poteva consentirla soltanto ai due predetti, a me, a Marcello Colafigli e alle persone che si fossero presentate in nostra compagnia. Per quanto sono in grado di ricordare e per quel che mi risulta personalmente, mi recai al Ministero una volta in compagnia di Danilo Abbruciati e un'altra in compagnia di Massimo Carminati. Ora, mentre Danilo Abbruciati non era autorizzato a recarsi da solo presso il Ministero, a Massimo Carminati venne consentito, invece, in un secondo momento, di accedere liberamente al Ministero. La decisione di consentire l'accesso con maggiore libertà al Carminati, venne presa da me, nell'ottica di uno scambio di favori tra la banda e il suo gruppo. Le armi custodite nel deposito della Sanità appartenevano a tutte le componenti della banda, rispondeva pertanto unicamente a esigenze di sicurezza limitare alle persone che ho indicato il libero accesso al Ministero, anche per non creare dei problemi ulteriori all'Alesse.» (Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992). Il 25 novembre del 1981, nel corso di una perquisizione, la polizia rinvenne in uno scantinato del Ministero della Sanità, al civico 34 di via Liszt all'Eur, l'arsenale composto da 19 tra pistole e revolver, una Beretta M12, un mitra Beretta MAB 38, un mitra sten, altri fucili mitragliatori, oltre a cartucce e bombe a mano. Analizzando le armi, gli inquirenti poterono risalire anche ai legami tra la banda e la destra eversiva dei Nuclei Armati Rivoluzionari che, proprio tramite Massimo Carminati, ebbero modo di utilizzare alcune di quelle armi, a cominciare dal depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna operato dai servizi deviati.

L'omicidio Giuseppucci e lo scontro col clan Proietti. Il primo componente della banda a cadere fu Franco Giuseppucci, ucciso a Piazza San Cosimato nel cuore del quartiere di Trastevere, il 13 settembre 1980, in un agguato orchestrato da parte di esponenti del clan rivale della famiglia Proietti, detti i Pesciaroli per via della loro attività commerciale all'interno del mercato ittico della capitale. Un gruppo criminale molto numeroso e che si avvaleva di consanguinei, fratelli, cugini e affini e molto vicino a quel Franco Nicolini, giustiziato dai componenti della Magliana per il controllo del giro di scommesse clandestine presso l'ippodromo di Tor di Valle. Raggiunto da una pallottola al fianco mentre saliva a bordo della sua Renault 5, Giuseppucci riuscì comunque a mettere in moto l'autovettura e ad arrivare fino in ospedale morendo mentre i medici si apprestavano ad intervenire. La morte di Giuseppucci fu il pretesto per scatenare una sanguinosa guerra contro il clan rivale che segnò però anche un forte momento di aggregazione della banda. Gli scontri violenti e gli agguati tra i due gruppi si manifestarono ben presto con una serie impressionante di omicidi e tentativi di omicidio e con gravissime perdite riportate dai Proietti. Il primo atto della vendetta nei confronti dei Proietti, relativamente all'uccisione di Franco Giuseppucci, fu un errore, uno scambio di persona da parte della banda. La sera del 19 settembre 1980, Maurizio Abbatino, Paolo Frau, Edoardo Toscano e Marcello Colafigli, appostati davanti ad una villa tra Ostia e Castelfusano abitualmente frequentata da Enrico Proietti, detto er Cane, fecero fuoco contro una macchina a bordo della quale c'erano Pierluigi Parente, avvocato ventottenne e figlio di un industriale, e la sua fidanzata Nicoletta Marchesi, completamente estranei al clan Proietti. «Intorno alle due di notte vedemmo uscire una Fiat Ritmo dalla villa. La inseguimmo e dopo duecento o trecento metri la superammo: eravamo muniti di un fucile a pompa, un mitra Mab e una pistola calibro 9 con silenziatore. Avevamo anche una bomba a mano. Il silenziatore della calibro 9, dopo due o tre colpi, si ruppe. Il conducente della Fiat Ritmo fece una rapidissima retromarcia, riportandosi davanti al cancello della villa, balzò fuori dall'auto e si gettò in un burrone, mentre l'altro passeggero, che non avevamo capito si trattasse di una donna, restò accucciato nella macchina. Io mi trovavo alla guida della nostra autovettura, gli altri spararono tutti: Colafigli col fucile a pompa sparò all'interno dell'abitacolo della Fiat Ritmo.» (Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 6 novembre 1992). Il ragazzo fece in tempo a darsi alla fuga, mentre la sua fidanzata rimase gravemente ferita. La rappresaglia continuò poi il 27 ottobre 1980 quando, Enrico Proietti detto "Er Cane", venne ferito in un agguato nei suoi confronti e riuscì a sfuggire miracolosamente ai suoi aggressori. Meno fortunati furono invece Orazio, figlio di Enrico, che morì di overdose dopo essere stato comunque ferito anche lui in un agguato della banda, il 31 ottobre 1980 e poi Fernando, detto Il Pugile, giustiziato il 30 giugno del 1982. L'episodio più significativo, però, avvenne la sera del 16 marzo 1981, quando Antonio Mancini e Marcello Colafigli intercettarono Maurizio Proietti detto il Pescetto e suo fratello Mario (Palle D'oro), quest'ultimo già sfuggito miracolosamente ad un agguato qualche tempo prima. I due, in compagnia delle rispettive famiglie, facevano infatti rientro alle loro abitazioni site in via di Donna Olimpia nº152, nei pressi del quartiere Monteverde. Nel furibondo scontro a fuoco che ne seguì, Maurizio fu colpito a morte, mentre i due criminali della Magliana rimasero lievemente feriti e, nel tentativo di evitare l'arresto e di aprirsi un varco verso la fuga, iniziarono a sparare sulla polizia che a sua volta rispose al fuoco. I due killer feriti tentarono disperatamente la fuga, ma vennero quindi arrestati all'interno di un appartamento dello stabile nel quale si erano barricati. Ma la vendetta non si fermò ai soli consanguinei. Per motivi differenti, infatti, trovarono la morte anche Orazio Benedetti, collaboratore legato ai pesciaroli e Daniele Raffaello Caruso: il primo freddato in una sala giochi di via Rubicone, al quartiere Salario, il 23 gennaio del 1981, reo di aver brindato alla notizia della morte di Giuseppucci; il secondo, invece, fatto trovare cadavere in una Giulietta il 22 gennaio 1983 perché ritenuto responsabile della morte di Mariano Proietti (figlio di Enrico), ucciso il 14 dicembre 1982 senza il consenso della banda. Come ebbe poi a rivelare il pentito Abbatino: «Tutte le persone della banda erano a conoscenza della vendetta, in quanto tutti amici del Giuseppucci, avevano concorso a programmarla nelle linee generali ed erano disponibili, nell'ambito di un'interna distribuzione dei ruoli, a intervenire materialmente (o eseguendo gli omicidi, ovvero svolgendo le attività preparatorie necessarie, ovvero ancora fornendo le strutture logistiche), ai fini dell'attuazione dei singoli atti omicidiari. Questa guerra impedi' il dissolversi del sodalizio, rappresentando un forte momento di aggregazione.»

Maurizio Proietti (detto Il Pescetto) ucciso il 16 marzo 1981.

Mario Proietti (detto Palle D'oro) fratello di Maurizio e Fernando, rimase ferito in due diversi agguati, il 12 dicembre 1980 e il 16 marzo 1981.

Fernando Proietti (detto Il Pugile) fratello di Maurizio e Mario, ucciso il 30 giugno 1982.

Enrico Proietti (detto Er Cane) cugino di Maurizio, Mario e Fernando, ferito in un agguato il 27 ottobre 1980.

Orazio Proietti figlio di Enrico, ferito il 31 ottobre 1980 e poi trovato morto per un'overdose di eroina.

Mariano Proietti figlio di Enrico, ucciso il 14 dicembre 1982 da elementi estranei alla banda della Magliana.

I rapporti con la destra eversiva. La concomitanza temporale tra l'ascesa della banda della Magliana e i cosiddetti anni di piombo, ossia quel periodo che, dalla metà degli anni settanta agli inizi degli anni ottanta, segnò in Italia il culmine della lotta armata politica, con una serie di omicidi, stragi e fatti di sangue, innescò, tra le altre cose, anche un'insolita convergenza di interessi fra gli uomini della Magliana e alcuni ambienti dell'eversione neofascista. Fatta, però, esclusione per sporadiche simpatie fasciste di alcuni componenti della Magliana (come ad esempio Giuseppucci, che conservava in casa alcuni dischi con i discorsi di Mussolini e diversi altri simboli fascisti), il fine ultimo di tali rapporti era decisamente scevro di qualsiasi orpello ideologico e politico e, come anche per altre occasioni, può essere individuato esclusivamente nell'interesse dell'organizzazione allo scambio di armi, al potenziamento del controllo sul territorio, al riciclaggio di denaro, ecc. L'obiettivo venne presto raggiunto attraverso la conoscenza di alcuni uomini cerniera e di raccordo tra la criminalità organizzata, i settori deviati dei servizi e le organizzazioni eversive neofasciste come Alessandro D'Ortenzi, Massimo Carminati e altri ancora.

Con il professor Aldo Semerari. Uno dei personaggi attivi nell'area dell'eversione nera che entrò in contatto con la banda fu il professor Aldo Semerari. Celebre psichiatra forense, massone e iscritto alla P2, agente dei servizi d'informazione militare e tra i più autorevoli criminologi italiani, Semerari lavora come consulente per redigere alcune delle perizie psichiatriche dei casi giudiziari più eclatanti degli anni settanta come, ad esempio, quella su Giuseppe Pelosi nel caso dell'omicidio di Pier Paolo Pasolini. «L'istituzione di collegamenti tra gruppi eversivi dell'estrema destra e la malavita organizzata romana rientrava in un disegno strategico comune al Prof. Aldo Semerari e al Prof. Fabio De Felice, convinti che per il finanziamento dell'attività eversiva non fosse necessario creare una struttura finalizzata al reperimento programmatico di fondi, quando, senza eccessive compromissioni, si poteva svolgere un'attività di supporto di tipo informativo e logistico rispetto a strutture di criminalità comune già esistenti e operanti, onde garantirsi, lo storno degli utili derivanti dalle operazioni rispetto alle quali si forniva un contributo. Il primo collegamento venne realizzato attraverso Alessandro D'Ortenzi detto "zanzarone", in un incontro che, se mal non ricordo, si svolse presso la villa del Prof. De Felice. Per quanto ho potuto constatare di persona, i rapporti che intercorrevano tra il gruppo criminale denominato Banda della Magliana, o per meglio dire, tra i suoi esponenti, e il Prof. Semerari, era quello di una sorta di sudditanza dei primi al secondo, il quale esercitava su di loro una notevole influenza in forza dei benefici che costoro si aspettavano di conseguire per effetto delle sue prestazioni professionali. Con il passar del tempo, probabilmente, in considerazione di aspettative frustrate dai fatti, ho potuto constatare un progressivo raffreddamento di rapporti degli uni verso l'altro.» (Interrogatorio di Paolo Aleandri dell'8 agosto 1990). Leader del gruppo neofascista Costruiamo l'azione, durante l'estate del 1978 organizzò diversi seminari e incontri politici nella villa del professor Fabio De Felice situata a Poggio Catino in provincia di Rieti, a cui parteciparono anche alcuni componenti della banda introdotti da Alessandro D'Ortenzi, detto Zanzarone, un pregiudicato in rapporti di confidenza con il professore e che per i suoi trascorsi giudiziari e la sua familiarità con diversi specialisti in psichiatria, veniva utilizzato per ottenere perizie compiacenti. Semerari seguì una precisa strategia eversiva basata anche sulla collaborazione fattiva tra estremismo di destra e malavita comune e, secondo il pentito Abbatino: «A lui piaceva proprio avere contatti con le bande. E c'è stato un periodo in cui loro utilizzavano noi, e noi loro per le perizie e per l'approvvigionamento e l'acquisto di armi. Semerari pensava a un appoggio di tipo logistico, come un colpo di Stato: loro facevano dei raduni nelle campagne di Rieti proprio simulando colpi di Stato.» «Grazie al contatto istituito da D'Ortenzi, si fece una riunione nella villa di Fabio De Felice, per discutere i possibili scambi di favori tra la nostra banda e i terroristi di destra che facevano capo al Semerari. All'incontro, per la banda, partecipammo io, Marcello Colafigli, Giovanni Piconi e Franco Giuseppucci. Era presente Alessandro D'Ortenzi. Oltre al De Felice ricordo presenti all'incontro il Prof. Semerari e Paoletto Aleandri. Nell'occasione, fermo restando il nostro assoluto disinteresse per le prospettazioni ideologiche di Aldo Semerari - per quanto potei constatare frequentando Franco Giuseppucci, questi aveva delle spiccate simpatie per il fascismo, deteneva dischi riproducenti discorsi di Benito Mussolini, medaglie e gagliardetti, tuttavia questa sua infatuazione non ne condizionava minimamente l'azione, ne' lo conduceva a perdere di vista gli interessi e gli scopi della banda che erano tutt'altro che politici - si valuto' la praticabilità di una collaborazione tra noi e i terroristi neri, finalizzata, per quanto li riguardava, al finanziamento delle attività di tipo più propriamente politico. In particolare si raggiunse una sorta di accordo di massima per la commissione in comune di sequestri di persona a scopo di estorsione e di rapine. Nell'incontro in questione, tuttavia, non si ando' oltre un accordo di massima, quel che è certo non si raggiunse un vero e proprio patto operativo. A noi comunque interessava mantenere i contatti, in considerazione dell'influenza del Semerari nel settore giudiziario, essendo egli un famoso e stimato perito medico-legale psichiatrico.» (Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992). Nonostante il rifiuto ad operare come braccio armato del gruppo politico di Semerari, da quegli incontri uscì un accordo di massima tra il professore e la banda che prevedeva finanziamenti per il gruppo neofascista in cambio di perizie medico psichiatriche compiacenti e miranti a fare ottenere ai componenti della Magliana, in caso di arresto, condizioni favorevoli di detenzione o scarcerazioni a causa di condizioni di salute inidonee al regime carcerario. Il sodalizio durò fino ai primi mesi del 1982 quando vittima di un regolamento di conti interno alla camorra, il 25 marzo di quello stesso anno, il corpo del professor Semerari fu ritrovato decapitato all'interno di un'automobile nei pressi del Castello mediceo di Ottaviano (NA), non a caso luogo di nascita e dimora sfarzosa del capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo. La causa della sua morte fu da ricercarsi in un episodio avvenuto poco tempo prima: il professore infatti, nella sua qualità di psichiatra forense, si era adoperato per la scarcerazione di affiliati alla Nuova Famiglia, per poi accettare l'incarico come consulente anche per la fazione opposta, un'errata mossa strategica che gli costò la vita, il barbaro omicidio fu commesso da Umberto Ammaturo.

Con i Nuclei Armati Rivoluzionari. Di altra natura, invece, fu il rapporto della Banda con l'universo giovanile dell'estremismo di destra e, in particolare, con i componenti del nucleo storico dei Nuclei Armati Rivoluzionari: Alessandro Alibrandi, Cristiano e Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e, soprattutto, Massimo Carminati. Negli anni settanta, infatti, la contiguità sia temporale che fisica tra gli ambienti dell'eversione politica e del crimine comune organizzato fece sì che, tra le parti in causa, cominciò a farsi strada la possibilità di ricercare un terreno di reciproco beneficio comune. Frequentando i locali del bar Fermi[26] o quelli del bar di via Avicenna (entrambi nella zona di Ponte Marconi), dove spesso si ritrovavano anche molti dei componenti della stessa Banda, nell'estate del 1978 Massimo Carminati entrò in contatto con i boss Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci che, ben presto, lo presero sotto la loro ala protettiva. A loro Carminati iniziò ad affidare i proventi delle rapine di autofinanziamento effettuate con i NAR, in modo da poterli riciclare in altre attività illecite quali l'usura o lo spaccio di droga. In regime di reciproco scambio di favori, la Banda, di tanto in tanto commissionava ai giovani fascisti anche di eliminare alcune persone poco gradite, come nel caso del tabaccaio romano Teodoro Pugliese, ucciso da Carminati (assieme ad Alibrandi e a Claudio Bracci) con tre colpi di pistola calibro 7,65, perché d'intralcio nel traffico di stupefacenti gestito da Giuseppucci. Durante questo periodo, Carminati ottenne addirittura il controllo congiunto (per conto dei NAR e unico autorizzato del gruppo eversivo) del deposito di armi nascosto negli scantinati del Ministero della sanità, all'EUR. Altre indicazioni circa la relazione tra la Banda e l'eversione di destra vennero fornite dalle dichiarazioni rese dal neofascista (e pentito) Walter Sordi quando, al giudice di Roma in data 15 ottobre 1982, dichiarò che: «Alibrandi mi disse che Carminati era il pupillo di Abbruciati e Giuseppucci. Parlando in particolare degli investimenti di somme di denaro da noi fatti attraverso la banda Giuseppucci-Abbruciati, posso dire che nel corso dell'80, Alibrandi affidò alla banda stessa 20 milioni di lire, Bracci Claudio 10 milioni, Carminati 20 milioni, Stefano Bracci e Tiraboschi 5 milioni. Ricordo che Alibrandi percepiva un milione al mese di rendita. I soldi affidati alla banda Giuseppucci-Abbruciati erano tutti in contanti. Come ho già spiegato, Giuseppucci e Abbruciati prevalentemente investivano il denaro da noi ricevuto nel traffico di cocaina e nell'usura, ma c'erano anche altri investimenti nelle pietre preziose e nel gioco d'azzardo.» Nel 1998, la Commissione Parlamentare sul Terrorismo nella sua relazione annuale, scrisse: «All'autofinanziamento furono invece dirette numerose rapine prima presso negozi di filatelia poi agenzie ippiche e banche, rapine che frutteranno una disponibilità economica assai superiore a quella necessaria alla vita dell'organizzazione e connotarono di un tratto di delinquenza ordinaria sia la condotta e il tenore di vita degli autori, sia l'ambiente criminale in cui gli stessi si muovevano. L'organizzazione e l'esecuzione di molti dei colpi avvicinò stabilmente - e per alcuni in modo irreversibile - i ragazzi dei NAR alla criminalità organizzata del gruppo che successivamente verrà indicato (sinteticamente e in parte impropriamente) come Banda della Magliana, attraverso lo stretto legame dei fratelli Fioravanti e di Alibrandi con personaggi come Massimo Sparti, e di Massimo Carminati e dello stesso Fioravanti con Franco Giuseppucci e Danilo Abbruciati. Tali legami verranno a consolidarsi, oltre che con la pianificazione e attuazione di rapine (come presso le filatelie o alla Chase Manhattan Bank), attraverso le attività di reinvestimento dei proventi delle rapine (per lo più attraverso il prestito usuraio) che gli estremisti affideranno alla banda, per conto della quale eseguivano attività di intimidazione e di vero e proprio killeraggio.» Anche per diretta ammissione dei pentiti Claudio Sicilia e Maurizio Abbatino è accertato che i militanti dei NAR effettuarono per la banda lavori di manovalanza criminosa come la riscossione di crediti dell'usura, il trasporto di quantitativi di droga oltre che alcuni delitti su commissione. A volte, però, il meccanismo s'inceppò come nel caso della rapina alla Chase Manhattan Bank di Roma del 27 novembre 1979, da parte di Valerio Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Giuseppe Dimitri e Massimo Carminati. Successivamente parte del bottino, consistente in traveller cheque, verrà come sempre affidata nelle mani di Franco Giuseppucci che ne organizzerà l'operazione di riciclaggio ma che gli costerà, nel gennaio del 1980, un arresto con l'accusa di ricettazione.

L'intreccio con politica e servizi deviati. Il coinvolgimento nell'omicidio Pecorelli. La sera del 20 marzo 1979 Mino Pecorelli, giornalista iscritto alla loggia massonica P2 di Licio Gelli, venne assassinato con quattro colpi di pistola calibro 7,65 (uno in faccia e tre alla schiena) da un sicario in via Orazio a Roma, poco lontano dalla redazione del giornale in circostanze ancora oggi non del tutto chiarite. Egli era direttore di OP-Osservatore Politico, dapprima agenzia di stampa e poi rivista settimanale specializzata in scandali politici, tra i quali lo scandalo petroli, il caso Moro, lo scandalo dell'Italcasse, il crack della Sir o gli affari di Sindona e Andreotti, che, attraverso delle importanti inchieste, si rivelò anche uno strumento di ricatto e condizionamento del mondo politico per lanciare messaggi cifrati e spesso ricattatori. Dei proiettili simili a quelli utilizzati nell'agguato (appartenenti allo stesso lotto e con lo stesso grado d'usura del punzone che marca la punta), calibro 7,65 e di marca Gevelot, difficilmente reperibili sul mercato, vennero poi rinvenuti all'interno dell'arsenale della banda nei sotterranei del Ministero della Sanità. Al processo emerse un chiaro coinvolgimento della banda e di Massimo Carminati il quale venne imputato di aver commesso materialmente l'omicidio nell'interesse di Giulio Andreotti, oggetto nella primavera del 1978 di un violento attacco dalle colonne di OP. Tramite dell'accordo sarebbe stato il magistrato e intimo amico del senatore Claudio Vitalone, personaggio molto vicino a esponenti della banda, come per esempio De Pedis. Il 3 marzo 1997, durante l'interrogatorio di fronte alla Corte di assise di Perugia, il pentito Maurizio Abbatino dichiarò ai giudici di aver saputo da Franco Giuseppucci che l'omicidio era stato commissionato a loro dai siciliani, ai quali sarebbe stato richiesto da un importante personaggio politico, individuato poi in Giulio Andreotti, oggetto di un duro attacco attraverso gli articoli del settimanale OP. «La tesi accusatoria nel processo prospettava che il delitto sarebbe stato deciso dal senatore Andreotti il quale, attraverso l’on. Vitalone, avrebbe chiesto ai cugini Ignazio e Antonino Salvo l’eliminazione di Pecorelli. I Salvo avrebbero attivato Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, i quali, attraverso la mediazione di Giuseppe Calò, avrebbero incaricato Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci di organizzare il delitto che sarebbe stato eseguito da Massimo Carminati e da Michelangelo La Barbera.» (Documento del Senato della Repubblica). Anche Antonio Mancini ebbe a confermare questa circostanza, nell'interrogatorio al pm di Perugia dell'11 marzo 1994, aggiungendo che fu «Massimo Carminati a sparare assieme ad Angiolino il biondo» (Michelangelo La Barbera, ndr), siciliano. Il delitto era servito alla Banda per favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari, finanziari romani, ossia negli ambienti che detenevano il potere." A parere dei magistrati però «gli elementi probatori (nei confronti di Vitalone, ndr) non sono univoci» e non permettono «di ritenere riscontrata la chiamata in correità fatta nei suoi confronti». Insomma, Vitalone avrebbe avuto rapporti con l'organizzazione criminale ma non ci furono prove abbastanza evidenti dal punto di vista penale per condannarlo. Dopo tre gradi di giudizio, nell'ottobre del 2003, la Corte di cassazione di Perugia emanò una sentenza di assoluzione "per non avere commesso il fatto" per Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò, accusati di essere i mandanti, e per Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera da quella di essere gli esecutori materiali dell'omicidio, bollando le testimonianze dei membri della banda come non attendibili. La morte di Pecorelli resta ancora oggi un caso irrisolto come anche la provenienza dell'arma utilizzata nel delitto: tutte le armi dell'arsenale della banda, nel mentre, risultarono misteriosamente manomesse prima che fosse fatta qualche perizia per verificarne il concreto utilizzo.

Il legame con il sequestro Moro. Il 16 marzo del 1978, quando il Presidente della DC Aldo Moro venne rapito da un commando di brigatisti, gran parte della città di Roma era controllata dagli uomini della banda della Magliana e la stessa ubicazione della prigione del popolo (e covo dei terroristi) di via Montalcini, dove probabilmente venne rinchiuso lo statista nei 55 giorni della sua prigionia, era posto tra via Portuense e via della Magliana, e in seguito si seppe che tale abitazione era circondata dalle abitazioni di molti affiliati alla stessa. «Nel quartiere (Magliana, ndr), controllato in modo capillare da questo particolare tipo di malavita collegato a settori deviati dei servizi segreti e all’eversione nera, è situata la prigione del popolo di via Montalcini. Nelle immediate vicinanze di via Montalcini abitano numerosi esponenti della banda: a via Fuggetta 59 (a 120 passi da via Montalcini) Danilo Abbruciati, Amleto Fabiani, Antonella Rossi, Antonio Mancini; in via Luparelli 82 (a 230 passi dalla prigione del popolo) Danilo Sbarra e Francesco Picciotto (uomo del boss Pippo Calò); in via Vigna due Torri 135 (a 150 passi) Ernesto Diotallevi, segretario del finanziere piduista Carboni; infine in via Montalcini 1 c'è villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra» (Stefano Grassi, Il Caso Moro). Lo stesso pentito Maurizio Abbatino rivelò poi come la banda fosse stata addirittura contattata per scoprire il luogo in cui il Presidente era tenuto prigioniero: «Cutolo ci ha mandato un personaggio politico a parlare per vedere se sapevamo dov'era il covo di Moro», disse Abbatino. «Abbiamo avuto un incontro con lui, ma io non ero d'accordo a metterci in mezzo a questa storia, anche perché rispettavo qualsiasi forma di delinquenza e criminalità e non vedevo il perché. Poi credo che Franco (Giuseppucci, ndr) abbia saputo dove era Moro, ma non so a chi l'abbia detto. Non era difficile saperlo: nell'appartamento c'era gente pregiudicata che conoscevamo». Il deputato democristiano Flaminio Piccoli, che, secondo Maurizio Abbatino, contattò la banda allo scopo di scoprire il nascondiglio dove era tenuto prigioniero Aldo Moro. In un'intervista rilasciata al giornalista Giuseppe Rinaldi, per la trasmissione Chi l'ha visto?, Abbatino parlò nuovamente del sequestro Moro rivelando altri particolari relativi all'incontro con l'uomo politico mandato da Cutolo:

«Rinaldi: "Dopo il rapimento di Moro chi è che viene a chiedervi qualcosa?"

Abbatino: "È venuto l'onorevole Piccoli, ma non è tanto il fatto che sia venuto lui, ma chi ce l'ha mandato."

Rinaldi: "Ci racconta come è avvenuto questo incontro, dove eravate…"

Abbatino: "È avvenuto a viale Marconi sul bordo del fiume, insomma."

Rinaldi: "Chi eravate?"

Abbatino: "Eravamo un po' quasi tutti della banda. Comunque c'eravamo io, Franco Giuseppucci, Nicolino Selis che appunto aveva preso il contatto … ma vede Flaminio Piccoli era stato mandato da Raffaele Cutolo…"»

Secondo le deposizioni del pentito Tommaso Buscetta, nella Commissione interprovinciale di Cosa nostra si vennero a formare due distinti e contrapposti schieramenti e l'iniziativa della banda venne quindi bloccata dalla fazione dei Corleonesi contraria alla liberazione che, attraverso il suo referente romano Giuseppe Calò, intervenne dicendo che ai politici della Democrazia Cristiana, in realtà, interessava Moro morto, dopo che lo statista prigioniero aveva iniziato a collaborare con le Brigate Rosse e stava rivelando segreti molto compromettenti per Giulio Andreotti (il cosiddetto "Memoriale Moro").

Altro punto di contatto tra la banda e il sequestro del politico democristiano era Toni Chichiarelli, falsario vicino agli uomini della Magliana e autore del finto comunicato n. 7 che, il 18 aprile 1978, annunciava l'uccisione di Moro e la sua sepoltura nel lago della Duchessa. Quel depistaggio, è oggi accertato, fu commissionato dai servizi segreti per cercare di smuovere le acque in quella fase di stallo del sequestro. Inoltre, dalle testimonianze rese al processo per la morte del falsario, che fu ucciso da un killer indicato inizialmente nella persona di Antonella Rossi, scagionata successivamente dalla testimonianza di una suora, il 28 settembre del 1984, emerse che, nel sopralluogo della sua abitazione, compiuto qualche giorno dopo la morte, vennero rinvenute, da parte dei Carabinieri, delle foto Polaroid (ritenute autentiche) di Moro scattate durante la sua prigionia.

I depistaggi nella Strage di Bologna. La probabile convergenza d'interessi tra gli uomini della Magliana, gli ambienti dell'eversione nera e alcuni settori deviati dei servizi e della politica, trova perfetta esemplificazione nel tentativo di depistaggio legato alla strage alla stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980, per la quale vennero riconosciuti esecutori materiali (tra gli altri) alcuni militanti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, di Valerio Fioravanti. Nel corso delle indagini, infatti, un mitra Mab con numero di matricola abraso e calcio rifatto artigianalmente, proveniente dal deposito/arsenale della banda all'interno del Ministero della Sanità, venne ritrovato sul treno Taranto-Milano il 13 gennaio 1981, in una valigetta contenente anche due caricatori, un fucile da caccia, due biglietti aerei a nome di due estremisti di destra, un francese e un tedesco, e soprattutto del materiale esplosivo T4, dello stesso tipo utilizzato per la strage di Bologna. Nella sentenza della Corte suprema di cassazione del 23 novembre 1995, nel processo sulla strage del 2 agosto, risultava infatti che: «Il mitra rinvenuto nella valigia che era stata collocata il 13.1.1981 sul treno Taranto-Milano apparteneva alla cosiddetta "banda della Magliana", una vasta associazione per delinquere, operante a Roma in quegli anni. Maurizio Abbatino, che di quell'associazione aveva fatto parte, aveva rivelato che negli scantinati del Ministero della Sanità l'organizzazione disponeva di un cospicuo deposito di armi e che alcune di esse erano state temporaneamente cedute a Paolo Aleandri, ma non erano state più restituite. Per costringere Aleandri a rispettate l'impegno assunto era stato sequestrato, ma poi era stato liberato, con la mediazione di Massimo Carminati quando all'associazione, in sostituzione delle armi date in prestito ad Aleandri, erano state date due bombe a mano e due mitra e uno di questi mitra era stato prelevato da Carminati e mai più restituito. Abbatino, dopo aver descritto le peculiari caratteristiche del mitra finito nelle mani di Carminati, caratteristiche conseguenti ad un'artigianale modifica del calcio, riconosceva quell'arma nel M.A.B. che era stato trovato a Bologna la notte del 13 gennaio 1981, in quella valigia. Infine lo stesso Abbatino aveva precisato che Carminati faceva parte di un gruppo di giovani che gravitava nell'area della destra eversiva, gruppo del quale facevano parte i fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti, Francesca Mambro, Giorgio Vale e Gilberto Cavallini. Una volta riconosciuta, sulla base di tale complesso e articolato quadro probatorio, piena attendibilità alle dichiarazioni di Abbatino, al giudice di rinvio è stato agevole rilevare che il percorso del mitra rappresentava la prova del rapporto di collaborazione tra i soggetti coinvolti nel processo.» Al ritrovamento della valigetta seguì la produzione di un dossier, denominato "Terrore sui treni", in cui venivano riportati gli intenti stragisti dei due terroristi internazionali (intestatari dei biglietti aerei) in relazione con altri esponenti dell'eversione neofascista italiana legati allo spontaneismo armato dei Nuclei Armati Rivoluzionari. I due episodi, si scoprirà dopo, durante il processo, vennero attribuiti ad alcuni vertici dei servizi segreti del SISMI come parte di una precisa strategia di depistaggio organizzata per tentare di indirizzare le indagini in una strada ben precisa e in cui Massimo Carminati, uomo di cerniera tra la Banda ed esponenti dei servizi segreti deviati e dell'eversione nera, ebbe dunque un ruolo attivo, fornendo il MAB prelevato dall'arsenale della Banda e poi rinvenuto sul treno Taranto-Milano. Secondo la Corte di Assise di Roma, il depistaggio è “l'ennesimo episodio di una pervicace opera di inquinamento delle prove destinate ad impedire che responsabili della strage di Bologna fossero individuati”.[39] Il 9 giugno del 2000, nel processo di primo grado, Carminati venne condannato (a 9 anni di reclusione) assieme al generale e al colonnello del Sismi, rispettivamente Pietro Musumeci e Federigo Mannucci Benincasa, al colonnello dei carabinieri Giuseppe Belmonte e al venerabileLicio Gelli. Dell'episodio vennero infine ritenuti responsabili, con sentenza definitiva, i soli Musumeci e Belmonte, mentre Carminati verrà poi assolto in appello.

La crisi. Le lotte intestine. La morte di Franco Giuseppucci che, almeno all'inizio, aveva rappresentato un forte momento di aggregazione tra i vari componenti della banda impegnati nella guerra al clan rivale dei i Proietti, aveva solo temporaneamente rimandato il progressivo dissolversi del sodalizio in atto ormai da qualche tempo. Una volta terminata la vendetta nei confronti dei presunti assassini del Negro, infatti, il livello di tensione e di ostilità tra i vari gruppi interni alla banda diventò sempre più alto segnando l'inizio della sua disgregazione. Con la scomparsa del Negro, boss fondatore e collante tra le varie anime dell'organizzazione, la banda non riuscì infatti più a trovare la compattezza che precedentemente le era propria e i due gruppi prevalenti, quello della Magliana guidati da Maurizio Abbatino e i Testaccini di Danilo Abbruciati ed Enrico De Pedis, iniziarono una guerra fredda, una fase di continua tensione dovuta a contrasti sempre più ampi e insanabili, gelosie e rivendicazioni che col passare del tempo si trasformerà in una vera e propria faida interna, tanti furono i morti, ammazzati da entrambe le parti. Tra le varie cause di questa lotta intestina, prima tra tutte ci fu la presa di coscienza, da parte di alcuni componenti, della predominanza sul piano affaristico dei Testaccini che, in contrasto con quanti avrebbero voluto preservare l'anima genuina della banda, venivano accusati di essere uno strumento nelle mani di loschi poterie di aver trasformato di fatto la stessa Magliana in una sorta di agenzia del crimine, a completa disposizione di chiunque offrisse denaro o protezione. Una vera e propria holding-criminale, quindi, che nei piani dei Testaccini, sempre più compromessi con mafiosi, quali Giuseppe Calò, e massoni, come Licio Gelli e Francesco Pazienza, avrebbe permesso a De Pedis e soci di fare quel salto di qualità ed entrare così nel racket dell'alta finanza, più in funzione dei tempi e sul modello imprenditoriale di mafia e camorra, abbandonando così quelle che fino ad allora erano le prerogative del gruppo originale della banda, relegando Crispino e soci alla semplice gestione delle solite attività illecite quali prostituzione, stupefacenti, usura, rapine, rapimenti e corse clandestine. «Testaccio aveva una mentalità più imprenditoriale» racconta Renzo Danesi «mentre Abbatino commerciava ancora con gli stupefacenti».

L'omicidio di Nicolino Selis. Altro problema interno alla banda, scoppiato dopo l'uccisione del Negro, era rappresentato dall'irrequietezza di Nicolino Selis il quale, forte dell'appoggio dei camorristi di Cutolo, dal manicomio giudiziario dove si trovava detenuto iniziò sia a mandare messaggi minacciosi che a pretendere di imporre una sua personale spartizione delle ingenti somme di denaro, provento delle varie azioni delittuose. In particolare Selis iniziò anche a pretendere la "stecca" su attività delittuose svolte a titolo individuale e si dimostrò particolarmente indisposto nei confronti di De Pedis, il quale a differenza degli altri-che sperperavano tutti i loro introiti- aveva iniziato ad investire i suoi guadagni anche in attività legali, tanto da non voler più dividere la "stecca" con gli altri complici, in quanto essi erano provenienti in larga parte dalle sue attività private. La goccia che fece traboccare il vaso avvenne in merito alla spartizione di una nuova fornitura di eroina; come raccontò in seguito il pentito Abbatino ci fu «un errore di valutazione in ordine a quanto accadeva fuori dal carcere da parte di Nicolino Selis. Questi era entrato in contatto con dei siciliani, i quali gli avevano assicurato la fornitura di tre chilogrammi di eroina. Secondo gli accordi, tale fornitura avrebbe dovuto essere ripartita al 50% tra il suo e il nostro gruppo, ma Nicolino ritenne di operare una ripartizione di due chilogrammi per i suoi e di uno per noi e, pertanto, impartì al Toscano istruzioni in tal senso. Si trattò di un passo falso: Edoardo Toscano non attendeva altro. Mi mostrò immediatamente la lettera, fornendo così la prova del "tradimento" del Selis, col quale diventava non più rinviabile il "chiarimento". In altre parole, Nicolino Selis doveva morire». Quando, il 3 febbraio del 1981, Selis uscì dal manicomio giudiziario per un breve permesso, venne organizzato un appuntamento davanti alla Fiera di Roma (all'EUR) con il pretesto di una riappacificazione e per tentare di trovare un accordo d'insieme; quello che il Sardo non sapeva è che la banda aveva già deciso la sua morte. Selis, accompagnato dal suo cognato e guardaspalle Antonio Leccese, giunse all'EUR a bordo della sua A112 e trovò ad attenderlo Marcello Colafigli, Maurizio Abbatino, Edoardo Toscano, Raffaele Pernasetti, Enrico De Pedis e Danilo Abbruciati. L'intenzione del gruppo era di condurli alla villa di Libero Mancone ad Acilia, ma Leccese, che era in libertà vigilata e ad un'ora fissata doveva recarsi presso il commissariato di Polizia a firmare, non venne trattenuto per non dare nell'occhio[3]. Arrivati sul posto il Sardo venne agguantato con la scusa dell'abbraccio di riappacificazione dando le spalle a Crispino che ebbe il tempo di estrarre la pistola nascosta dentro una scatola di cioccolatini e sparare contro Selis due proiettili, seguiti da altri due di Toscano. Il suo corpo venne poi sepolto in una buca vicino all'argine del Tevere e ricoperto con della calce per affrettare la decomposizione e a tutt'oggi non è stato ancora ritrovato. L'ultimo atto era quello di uccidere Leccese, unico testimone ad aver visto l'ultima volta il Sardo partire con Abbatino e gli altri, che venne ucciso da Abbruciati, De Pedis e Mancini.

L'omicidio Balducci. Le tensioni tra i due gruppi si fecero sempre più forti, soprattutto a causa della spregiudicatezza e dell'intraprendenza dei Testaccini che, sempre più slegati dal resto della banda, oramai operavano quasi in un regime di completa indipendenza e attraverso decisioni prese all'insaputa degli altri. Un esempio ne è l'omicidio di Domenico Memmo Balducci, avvenuto la sera del 16 ottobre 1981 ad opera di Abbruciati e De Pedis per conto del mafioso Pippo Calò: Balducci venne colpito a morte mentre stava rincasando in motorino, davanti al grande cancello della sua lussuosa villa situata in via di villa Pepoli, all'Aventino. Domenico Balducci, meglio noto come Memmo il cravattaro, era un usuraio e proprietario di un piccolo negozietto di elettrodomestici in una stradina adiacente a Campo de' Fiori, ove era esposto in vetrina l'eloquente cartello "Qui si vendono soldi". Attraverso solidi legami con la mafia, i servizi segreti, faccendieri e politici, Memmo gestiva il racket dell'usura per conto dello stesso Calò, il boss palermitano che aveva conosciuto in carcere nel 1954. Il suo errore fu quello di trattenere per sé, nell'estate del 1981, una parte del denaro (150 milioni) destinato a Calò e proveniente dalla cosiddetta "Operazione Siracusa", la quale avrebbe dovuto garantire alla mafia enormi proventi da una gigantesca speculazione edilizia. «Apprendemmo che l'omicidio era stato commesso da Abbruciati, unitamente a Renatino De Pedis e Raffaele Pernasetti, per fare un favore ai siciliani: Balducci doveva dei soldi a Pippo Calò» racconterà poi Maurizio Abbatino. «Appresi che l'omicidio era stato commesso nei pressi, mi sembra, di una villa, da Renato e Raffaele, mentre Danilo li attendeva in auto e che i primi due si erano dovuti calare da un muro con una corda per raggiungere l'auto stessa.» Ne seguì un litigio acceso tra Abbruciati e Abbatino, il quale rinfacciò al testaccino di perseguire propri scopi personali al di fuori dell'interesse comune della banda. In pratica, ai testaccini veniva rivolta l'accusa di essere dei traditori che mettevano in pericolo i compagni unicamente per proteggere gli affari dei Corleonesi.

La morte di Abbruciati. L'intreccio di comuni interessi criminali tra l'anima testaccina della banda, gli ambienti corrotti dell'economia e della politica e la mafia di Cosa nostra emersero chiaramente in un altro delitto sporco, ossia il tentato omicidio del vice presidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone. Nel corso del 1981 Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, che in quel momento versava in gravi difficoltà economiche, si era messo in affari, per tentare di coprire i conti in rosso del Banco e salvarsi dal processo in corso a suo carico, con il faccendiere Flavio Carboni e il mafioso Pippo Calò i quali, intenzionati poi a recuperare i soldi affidati a Calvi, vennero osteggiati dall'allora vicepresidente dell'istituto di credito Roberto Rosone, il quale aveva assunto la guida della banca dopo il fallimento finanziario e aveva vietato ulteriori prestiti senza garanzia concessi dal Banco Ambrosiano ad alcune società legate proprio a Flavio Carboni. Secondo la ricostruzione accusatoria, Carboni informò Calò dell'accaduto e questi, nell'aprile del 1982, tramite Ernesto Diotallevi, affiliato della banda, incaricò Danilo Abbruciati di eseguire un atto di intimidazione a danno di Roberto Rosone. Giunti in treno a Milano il 26 aprile, la mattina seguente Abbruciati e il suo complice Bruno Nieddu attesero la vittima sotto casa, in via Ercole Oldofredi, nei pressi della Stazione Centrale. Intorno alle ore otto, mentre Rosone si dirigeva verso la sua macchina venne avvicinato da Abbruciati (con il viso coperto) che tentò di sparagli, ma la sua pistola si inceppò, favorendo così la fuga del banchiere che si allontanò precipitosamente. Egli però ebbe il tempo di ricaricare la pistola e di sparare nuovamente, ferendo Rosone alle gambe, prima di fuggire in sella alla moto guidata dal suo complice. Nel frattempo una guardia giurata, posizionata nei pressi di una filiale del Banco Ambrosiano poco distante dal luogo dell'agguato, uscì e sparò a sua volta un colpo di 357 magnum, colpendo a morte l'attentatore che cercava di scappare a bordo della moto. La notizia colse di sorpresa i suoi amici della Magliana (e la stessa Polizia) che, tenuti all'oscuro di tutto, ritennero molto strano il fatto che Abbruciati si riducesse al ruolo di semplice killer su commissione e accettasse un compito così rischioso anche se ben remunerato. Quello che infastidì maggiormente Abbatino e soci fu il fatto che Abbruciati avesse operato seguendo unicamente il suo tornaconto personale con conseguenze assai pericolose per la stessa banda. Arrivati a questo punto, il livello di ostilità tra i due gruppi della banda era ormai diventato sempre più acceso, creando una divisione troppo grande e senza possibilità di ritorno.

I primi pentiti. Il primo componente della banda a scegliere la via del pentimento fu Fulvio Lucioli. Il Sorcio venne arrestato il 6 maggio del 1983 e tradotto nel carcere romano di Regina Coeli dove, dopo alcuni mesi di travaglio interiore, il 14 ottobre di quello stesso anno scrisse una lunga lettera al direttore dell'istituto di pena dicendosi disposto ad iniziare un programma di collaborazione con la giustizia. E così, il giorno successivo, davanti al sostituto procuratore Nitto Palma e ad un funzionario della Squadra Narcotici, Lucioli iniziò il suo racconto riempiendo i verbali e confessando omicidi, rapine, traffici di stupefacenti e di armi, oltre che i legami della banda con politici, cardinali, massoni, mafiosi, camorristi, ndranghetisti, servizi segreti deviati ed eversione nera. Il suo primo atto, però, fu quello di revocare i suoi difensori di fiducia e richiedere un legale d'ufficio: un chiaro segnale mandato verso l'esterno riguardo alle sue intenzioni di pentimento. Grazie alle sue testimonianze, il 15 dicembre 1983, le forze dell'ordine arrestarono sessantaquattro persone tra boss, seconde linee e fiancheggiatori, decapitando di fatto gran parte dell'organizzazione. Il 23 giugno 1986, a tre anni e tre mesi dal blitz, con la sentenza del processo di primo grado, trentasette dei sessantaquattro imputati alla sbarra furono condannati, ma solamente per traffico di sostanze stupefacenti. Confermate nel processo d'appello (il 20 giugno 1987), le condanne furono poi annullate e le assoluzioni per insufficienza di prove trasformate in formula piena dalla Cassazione, il 14 giugno 1988. Infine la nuova Corte d'assise d'appello, il 14 marzo 1989, derubricò di fatto l'addebito di associazione per delinquere, screditando la figura del Sorcio definendolo un mitomane e: «una abnormità psichica aggravata da nefaste influenze ambientali a cui sottende un deficit intellettivo meglio definibile come debolezza mentale indice di coscienza non lucida, di stato delirante, di confusione dissociata». La cosiddetta banda della Magliana, quindi, secondo i magistrati non esisteva e i vari reati erano stati perlopiù compiuti sulla base di estemporanei accordi e senza un vincolo associativo tra i componenti che andasse al di là dello specifico crimine. Questo era indice del fatto che la banda era ormai penetrata in pieno all'interno dei tribunali ed era quindi capace di corrompere giudici e avvocati. Dopo il pentimento di Lucioli, Claudio Sicilia continuò a gestire le attività del gruppo lasciate dai compagni detenuti fino a quando, arrestato per l'ennesima volta per spaccio nell'autunno del 1986, decise anch'egli di iniziare a collaborare con i magistrati. Dopo quattro mesi di interrogatori quasi quotidiani, condotti dal sostituto procuratore Andrea De Gasperis, il 17 marzo del 1987 la Procura di Roma spiccò ordini di cattura contro le persone chiamate in causa da Sicilia, nel numero di novantuno tra membri della banda, avvocati e professionisti vari. Il 28 marzo e il 1º aprile successivi, tuttavia, il Tribunale della libertà di Roma revocò l'ordine di cattura emesso dal Pubblico Ministero sulla scorta delle chiamate in correità di Sicilia; scarcerò inoltre circa la metà degli arrestati. Una decisione clamorosa dovuta al fatto che il pentito: "altro non era che una persona soggettivamente poco attendibile per i suoi precedenti, la sua posizione giudiziaria, la sua personalità e i suoi presunti moventi." Nel dicembre del 1990 lo stesso pentito abbandonò il carcere per passare agli arresti domiciliari e infine tornare libero durante l'estate successiva. Tornato in libertà, ma senza alcuna protezione da parte dello Stato, il Vesuviano trovò la morte la sera del 17 novembre 1991 quando, in via Andrea Mantegna nella zona popolare di Tor Marancia a Roma, due uomini a bordo di una moto di grossa cilindrata lo intercettarono e lo freddarono all'interno di un negozio di scarpe dove aveva cercato riparo.

Il declino. La faida interna. Quando i componenti della banda tornarono in libertà, caduto l'impianto accusatorio costruito sulle dichiarazioni dei pentiti Lucioli e Sicilia, dopo un brevissimo periodo di riadattamento tentarono di riorganizzare le file del sodalizio criminoso e di ripristinare le vecchie gerarchie in un contesto che, però, vedeva l'organizzazione sempre più divisa da molteplici contrasti interni. Il mancato adempimento degli obblighi di fratellanza riguardanti l'assistenza ai detenuti e ai familiari degli stessi e la generale riottosità del gruppo dei testaccini, capeggiati da De Pedis, nel condividere con gli altri gli introiti delle loro attività criminali, incontrarono la feroce opposizione di Edoardo Toscano e Marcello Colafigli i quali, assieme al loro gruppo di fidati sodali (Vittorio Carnovale, i fratelli Fittirillo, Libero Mancone e altri ancora), ritennero opportuno mettere un freno alle ambizioni di Renatino e soci. Come ebbe poi a raccontare la pentita Fabiola Moretti, nell'interrogatorio tenuto l'8 giugno 1994: «Marcello Colafigli ed Edoardo Toscano erano intenzionati, già durante il processo che seguì gli arresti, ad ammazzare Enrico De Pedis. La cosa, parlando con me, mentre eravamo entrambi detenuti, se la lasciò sfuggire Antonio Mancini, al quale chiesi di impedire che a Renatino accadesse qualcosa. Contemporaneamente, all'insaputa di Mancini avvertii, scrivendogli, anche Enrico De Pedis. Di fatto, proprio per l'intervento di Mancini, durante il processo a Renatino non accadde nulla, anzi, almeno in apparenza sembrava si fosse trovato un punto di accordo tra tutti.» Ma nessun accordo arriverà a pacificare la situazione: il 13 febbraio 1989, uscito di prigione in libertà vigilata, Toscano si mise immediatamente alla ricerca di De Pedis, deciso ad ucciderlo per poi fuggire all'estero subito dopo l'omicidio. Messo al corrente delle intenzioni vendicative dell'Operaietto e giocando d'anticipo sul tempo rispetto all'ex amico e ora rivale, De Pedis escogitò a sua volta una trappola, sapendo che Toscano aveva affidato in custodia una somma di denaro ad un fiancheggiatore della banda di Ostia, Bruno Tosoni. «Renatino venne a sapere che Edoardo (Toscano, ndr) lo cercava» racconta ancora la Moretti, interrogata nell'estate del 1994 «e ritenne di doverlo uccidere, in quanto altrimenti sarebbe stato ucciso lui. Sapendo che Tosoni reggeva i soldi di Edoardo, circa 50 milioni di lire, offrì a costui una somma di altri 50 milioni perché attirasse Toscano in un'imboscata. L'incarico di uccidere Toscano venne dato da Renatino a Ciletto e a Rufetto. Ciletto, cioè Angelo Cassani, era entrato a far parte della banda in occasione dell'omicidio di Roberto Faina. Rufetto anche in altre occasioni era stato usato come killer dei Testaccini, come in occasione dell'attentato a Raffaele Garofalo, detto Ciambellone, in piazza Piscinula, dove però il Ciambellone venne mancato. Rufetto faceva il killer già all'epoca di Abbruciati». Ignaro di ciò che stava per accadere, la mattina del 16 marzo 1989 Toscano si incontrò con Tosoni e rimase del tutto spiazzato quando, alle sue spalle, una moto di grossa cilindrata, con a bordo due uomini con i volti coperti da caschi integrali, fece fuoco su di lui con armi semiautomatiche, colpendolo tre volte e lasciandolo morire sul colpo.

La morte di De Pedis. La vendetta dei sodali di Toscano, tuttavia, non si fece attendere: il 2 febbraio del 1990 anche De Pedis rimase sull'asfalto, colpito a morte davanti al civico 65 di Via Del Pellegrino, mentre, in pieno giorno e a bordo del suo motorino, attraversava il mercato romano di Campo de' Fiori. Il suo intuito per gli affari e un fiuto imprenditoriale decisamente più oculato rispetto ai suoi compagni aveva portato De Pedis ad intensificare i suoi rapporti con politici e faccendieri, tanto da divenire «un punto di riferimento per i più spregiudicati operatori del mondo finanziario-criminale». Invece di sperperare il denaro accumulato, come tutti gli altri componenti della banda usavano fare, iniziò ad investire gran parte dei proventi delle sue attività illegali in attività legali, costruendo un vero e proprio impero finanziario i cui introiti, secondo i suoi intendimenti, proprio perché frutto di attività proprie, non sarebbero più stati divisibili con gli altri sodali: latitanti, carcerati e familiari degli stessi. «Artefice di quell'impero finanziario, Enrico De Pedis iniziò a essere chiamato, nell'ambiente, il “Presidente” della malavita. Era l'ultimo scorcio degli anni Ottanta, ormai Renatino non si faceva più vedere al bar di via Chiabrera e neppure a Testaccio. Piuttosto, parlava di affari sulla scintillante via Della Vite, nella boutique di Enrico Coveri o anche al Jackie 'O. Renato era diventato snob, a come la vedevano Abbatino e gli altri». Con quei soldi, tra le altre cose, De Pedis sistemò anche alcuni suoi familiari comprando loro un paio di esercizi commerciali a Trastevere (la pizzeria Popi Popi 56 e L'Antica Pesa), un supermercato a Ponte Marconi, vari appartamenti in centro e alcune quote di società immobiliari. Naturalmente il resto della banda interpretò questa sua emancipazione finanziaria come uno smacco da far pagare a caro prezzo. Un sentimento che ben presto assunse i toni della vendetta vera e propria nel momento in cui De Pedis, anticipando i suoi propositi omicidi, fece uccidere Edoardo Toscano dai suoi uomini (Angelo Cassani detto Ciletto e Libero Angelico detto Rufetto), scatenando dei propositi di rivalsa da parte della fazione avversa che non si fecero attendere molto. Dopo vari abboccamenti finiti male, infatti, la mattina del 2 febbraio 1990 il gruppo dei maglianesi, capeggiati da Marcello Colafigli, riuscì finalmente ad attirare De Pedis (che nell'ultimo periodo girava sempre assieme a dei guardaspalle) in un'imboscata, con la complicità di Angelo Angelotti, che lo convinse a recarsi presso la sua bottega di antiquario di via del Pellegrino, nei pressi di Campo dei Fiori. Terminato l'incontro, De Pedis salì a bordo del suo motorino Honda Vision e si avviò verso casa; venne però subito affiancato da una potente moto con a bordo due killer assoldati per l'occasione (Dante Del Santo detto "il cinghiale" e Antonio D'Inzillo), che lo centrarono con un solo colpo alle spalle.

Tumulato inizialmente all'interno del Cimitero del Verano, per volere della famiglia e soprattutto grazie al nulla osta dell'allora vicario di Roma, cardinal Poletti, la sua salma venne poi traslata in grande riservatezza il successivo 24 aprile nella Basilica di Sant'Apollinare a Roma, dove De Pedis si era sposato nel 1988. Negli anni a seguire, la vicenda della sepoltura del boss della Magliana all'interno della chiesa romana venne legata anche a quella della sparizione di Emanuela Orlandi, cittadina vaticana e figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, sparita in circostanze misteriose all'età di 15 anni il 22 giugno 1983 a Roma. Nel luglio 2005, infatti, nel corso della trasmissione televisiva Chi l'ha visto? (in onda su Rai Tre) venne mandata in diretta una telefonata anonima che sembrava collegare i due accadimenti: «Riguardo al caso di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant'Apollinare e del favore che Renatino (Enrico De Pedis) fece al cardinal Poletti e chiedete alla figlia del barista di via Montebello che anche la figlia stava con lei [...] con l'altra Emanuela». Nel 2008 la magistratura romana registra delle dichiarazioni (mai riscontrate e spesso confutate) della pentita ed ex amante di Renatino Sabrina Minardi, intervistata da Raffaella Notariale e poi interrogata dalla Procura stessa, secondo cui De Pedis avrebbe eseguito materialmente il sequestro per ordine dell'allora capo dell'Istituto per le Opere di Religione (IOR), monsignor Paul Marcinkus. Il 14 maggio 2012, su disposizione dell'Autorità giudiziaria, si è proceduto all'apertura della bara di De Pedis. La salma corrispondeva a quella del boss: indossava un completo blu scuro, cravatta nera, camicia bianca e scarpe, come descritto nei verbali dell'epoca.

Il pentimento di Abbatino. Con le prime spaccature all'interno della banda, che vide gli ex sodali trasformarsi in sempre più acerrimi nemici divisi da questioni di denaro e rivendicazioni di potere, il 20 dicembre del 1986 Maurizio Abbatino è protagonista di una rocambolesca evasione dalla clinica romana Villa Gina (nei pressi dell'EUR) dove, grazie a una perizia medica compiacente, si era fatto ricoverare per un tumore osseo avanzato, diagnosticatogli dai medici del carcere. Gli arresti ospedalieri senza piantonamento (vista la presunta impossibilità del detenuto alla deambulazione, costretto su una sedia a rotelle) durarono molto poco e, con l'aiuto del fratello Roberto, Abbatino riuscì a calarsi da una finestra del primo piano e a scomparire nel nulla. «Già dall'epoca del mio ricovero agli arresti domiciliari presso Villa Gina, avevo constatato il totale raffreddamento dei rapporti con gli altri componenti della banda; raffreddamento che si era tradotto nella cessazione dell'assistenza economica sia a me che alla famiglia subito dopo il nuovo provvedimento di cattura. In conseguenza del fatto che non potevo avere contatti con l'esterno mi trovai completamente isolato dal resto della banda e quindi impossibilitato a spiegare le ragioni per le quali era opportuno che io restassi in clinica sino a che non fosse intervenuto un provvedimento di scarcerazione, chiarendo l'equivoco per il quale sarebbe stata una soluzione opportunistica quella di non evadere. Ovviamente, attesa la gravità dei reati dei quali dovevo rispondere e per i quali mi trovavo detenuto, era impensabile che potessi restare a Roma una volta fuggito. Pertanto non ritenni di riprendere contatti con i componenti della banda che in quel momento si trovavano in libertà, ma preferii farmi aiutare da mio fratello Roberto, il quale avrebbe dovuto, per come fece, trovarsi nei pressi della clinica con un'autovettura. Il personale addetto alla sorveglianza non fu da me corrotto. Mi limitai ad approfittare della loro buona fede, in quanto, convinti che io fossi veramente malato e paralizzato come davo a credere, durante la notte si limitavano a controllare che io fossi a letto e non stazionavano nella stanza. Alle quattro di notte, dopo aver messo nel letto un cestino e un cuscino che dessero l'impressione che qualcuno vi dormisse, scavalcai la finestra della mia camera posta al primo piano, e con un lenzuolo mi calai nel cortile, scavalcai la bassa inferriata di recinzione e con una certa difficoltà, considerato il lungo periodo di degenza, durante il quale ero stato sempre attento a non fare movimenti con le gambe, affinché non venisse scoperta la mia simulazione, raggiunsi l'auto nella quale mi aspettava mio fratello. Voglio aggiungere che della paralisi dei miei arti si erano convinti anche i componenti della banda, i quali anche per questo, ritenendomi ormai finito, avevano smesso di darmi assistenza economica» (Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992). Un mese dopo l'evasione dalla clinica, Abbatino decise che Roma era diventata troppo pericolosa per lui, stretto tra la morsa della polizia e dei suoi ex amici della banda; scelse allora di fuggire in Sud America, dove gli uomini della squadra mobile romana e della Criminalpol riuscirono a scovarlo solo sei anni dopo, il 24 gennaio del 1992, in un elegante residence alla periferia di Caracas. Gli investigatori che gli davano la caccia intercettarono infatti una sua telefonata, la sera di capodanno del 1991, che permise loro di individuarlo: «Noi ogni anno a Natale e Capodanno eravamo lì ad ascoltare se arrivava una telefonata di auguri alla famiglia e per sei anni non è mai arrivata.» racconta il vicequestore della Mobile Nicolò D'Angelo «Ma il sesto anno è arrivata e questo ci ha permesso di arrestarlo.» Le autorità italiane avviarono immediatamente le pratiche per il trasferimento del boss in Italia e, il 4 ottobre dello stesso anno, Abbatino fu espulso dal Venezuela e preso in consegna dagli uomini della Mobile e riportato in patria dove decise subito di intraprendere un percorso di collaborazione con la magistratura, spinto da un grosso sentimento di rivalsa nei confronti dei suoi ex amici, aumentato anche dal fatto che, durante la sua latitanza, si erano resi protagonisti dell'omicidio del fratello Roberto, torturato a morte per cercare di scoprire il rifugio di Crispino. Il suo corpo, completamente massacrato e con il petto squarciato da una coltellata finale, riaffiorò alcuni giorni dopo dal fiume Tevere, all'altezza di Vitinia. «Potevo evadere tranquillamente e non sono stato aiutato.» racconta Abbatino «Poi c'è stata la morte di mio fratello e credo che i responsabili siano stati loro, se non materialmente moralmente perché c'era da parte della banda un sodalizio per cui andavano protetti anche i familiari. Ormai ero rimasto solo e non sapevo più da che parte stare. Non mi fidavo più di nessuno». Le sue confessioni, che in gran parte confermarono quelle dei precedenti collaboratori Fulvio Lucioli e Claudio Sicilia (a cui però gli investigatori non concessero allora il credito necessario), si andarono a sommare quelle di Vittorio Carnovale, Antonio Mancini e della sua donna Fabiola Moretti. Nell'interrogatorio reso il 25 aprile 1994, l'Accattone spiegò così le ragioni della sua scelta di collaborazione: «Immediatamente dopo la mia cattura, avuta contezza delle dichiarazioni di Maurizio Abbatino e del livello elevato delle conoscenze al quale erano giunti gli organismi investigativi, ho trovato la necessaria determinazione per rompere in maniera definitiva con l’ambiente criminale nel quale sono vissuto sin dai primi anni settanta. Verso questo ambiente - a seguito di mie vicissitudini personali legate, da un lato alla mia lunga carcerazione e dall'altro all'aver constatato che, progressivamente, erano state ammazzate, in circostanze che oggi reputo “strane”, persone come Franco Giuseppucci, Danilo Abbruciati, Nicolino Selis, Angelo De Angelis, Edoardo Toscano, Gianni Girlando e lo stesso Renato De Pedis, con le quali avevo intrattenuto fraterni rapporti - avevo maturato un profondo senso di delusione che non esito a definire di schifo» (Interrogatorio di Antonio Mancini del 25 aprile 1994). Grazie alle rivelazioni dei pentiti, la mattina del 16 aprile 1993, con la mobilitazione di 500 agenti della Squadra Mobile, scattò una gigantesca operazione di polizia denominata "Operazione Colosseo": un fascicolo di cinquecento pagine pieno zeppo di date, nomi e prove che consentì di ridisegnare la mappa dell'organizzazione malavitosa romana e di stabilire con precisione ruoli e responsabilità dei vari componenti, dal quale scaturirono sessantanove ordini di cattura firmati dal giudice istruttore Otello Lupacchini, di cui una decina vennero consegnati in carcere ad altrettanti detenuti.

I processi. Il primo processo istruito sulla base delle dichiarazioni di Abbatino fu quello per il sequestro e l'omicidio del duca Massimiliano Grazioli. Il 20 gennaio del 1995, davanti alla Seconda Corte d'assise presieduta da Salvatore Giangreco, si diede inizio al procedimento nei confronti dei dieci imputati, sei dei quali appartenenti alla Banda della Magliana (Emilio Castelletti, Renzo Danesi, Giorgio Paradisi, Giovanni Piconi, Marcello Colafigli, oltre al pentito Maurizio Abbatino) e tre a quella di Montespaccato (Franco Catracchi, Antonio Montegrande e Stefano Tobia). Decimo imputato: il basista Enrico Mariotti, all'epoca del processo ancora latitante. Per tutti il pubblico ministero Andrea De Gasperis chiese la condanna all'ergastolo, con la sola eccezione del pentito Abbatino per il quale la pena richiesta fu di otto anni e sei mesi, anche in relazione alla sua collaborazione offerta ai magistrati in fase di istruttoria e dibattimentale. Il 29 luglio del 1995, dopo appena due ore di camera di consiglio, la corte condannò tutti gli imputati della Magliana, per il solo reato di sequestro di persona, a vent'anni anni di reclusione e a otto anni il pentito Abbatino. Al carcere a vita vennero invece condannati quelli di Montespaccato (a esclusione di Tobia, che venne invece assolto) perché ritenuti responsabili anche di omicidio (del duca) e occultamento di cadavere. Il 3 ottobre del 1995, nell'aula bunker allestita appositamente nell'ex palestra olimpionica del Foro Italico di Roma, iniziò invece il maxiprocesso[59] che vide alla sbarra l'intera Banda della Magliana. I capi d'imputazione portati davanti alla Corte d'Assise romana presieduta da Francesco Amato, nei confronti dei novantacinque imputati, facevano riferimento a reati quali il traffico di sostanze stupefacenti, le estorsioni, il riciclaggio del denaro sporco, le speculazioni edilizie e commerciali, omicidio, rapina e soprattutto l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Il dibattimento finirà inevitabilmente per toccare anche i legami del gruppo con le altre organizzazioni mafiose (cosa nostra, camorra e 'ndrangheta) e con le organizzazioni legate all'eversione nera, in riferimento al coinvolgimento della banda in molti dei misteri italiani, dal caso Moro, al delitto Pecorelli, alla strage di Bologna. Il 20 giugno 1996, al termine di una lunghissima istruttoria, il pubblico ministero Andrea De Gasperis richiese per i 69 imputati (mentre altri 19 avevano invece optato per il rito abbreviato) condanne per un totale di quasi cinque secoli di carcere: sei ergastoli, pene variabili tra i due e i 30 anni di reclusione, più 17 assoluzioni. Il 23 luglio 1996, dopo quasi due giorni di camera di consiglio, la Corte lesse la sentenza che complessivamente confermava in gran parte le richieste del pubblico ministero e dichiarava l'attendibilità dei vari pentiti, a cui vennero quindi applicati i vari sconti di pena.

Raffaele Pernasetti - condannato a 4 ergastoli

Marcello Colafigli - condannato all'ergastolo

Giorgio Paradisi - condannato a 2 ergastoli

Enzo Mastropietro - condannato a 30 anni

Renzo Danesi - condannato a 25 anni

Maurizio Abbatino - condannato a 12 anni

Vittorio Carnovale - condannato a 10 anni

Massimo Carminati - condannato a 10 anni

Giovanni Piconi - condannato a 6 anni

Enrico Nicoletti - condannato a 6 anni

Antonio Mancini - condannato a 1 anno

Fabiola Moretti - condannata a 10 mesi

Tra gli assolti, per non aver commesso il fatto, ci furono Claudio Bracci, Ernesto Diotallevi, Alessandro D'Ortenzi, Paolo Frau, Antonella Rossi, Giovanni Tigani, Emilio Salomone Giovanni Scioscia, Massimo Sabatini e Salvatore Nicitra.

Nel processo di secondo grado, il 27 febbraio del 1998, la Prima corte di Assise di Appello confermò sostanzialmente le condanne, applicando solo alcune lievi riduzioni di pena e tramutando anche alcuni ergastoli in condanne varianti da 21 a 30 anni di reclusione (Paradisi a 22 anni e 6 mesi e Marcello Colafigli a 30 anni).  Negli anni che seguirono, in diverse occasioni esponenti della banda vennero implicati in vario modo anche in altri processi, come quello per l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli, del presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi, per il tentato omicidio del direttore generale del Banco Roberto Rosone o per il coinvolgimento nella strage alla stazione ferroviaria di Bologna. Colpita al cuore dal lavoro della magistratura nei processi e dalle varie condanne che ne scaturirono, oltre che dagli omicidi legati alla sanguinosa faida interna, la Banda della Magliana si avviò così verso il suo declino completo.

Gli anni 2000. «Sono anni che dico che la Banda è viva. I magistrati mi danno retta a intermittenza, ma nessuno ha la forza di smentirmi. Io non ho opinioni. A domanda rispondo e se non so, sto zitto» (Intervista ad Antonio Mancini). Nonostante il nucleo storico della banda della Magliana sia stato decimato da arresti, omicidi, pentimenti e condanne, molti segnali, tra i quali le parole del boss pentito Antonio Mancini e alcuni fatti di cronaca, sembrerebbero avvalorare la tesi secondo la quale l'organizzazione criminale sia ancora attiva. «Roma è ancora in mano alla banda della Magliana. Adesso non spara più ma fa affari importanti. Ha usato e continua a usare i soldi di chi è morto e di chi è finito in galera. E non ha più bisogno di sparare. O almeno, di sparare troppo spesso. La banda ha conquistato la piazza e ha incrementato di nuovo i guadagni. Adesso ci sta la manovalanza e quelli che hanno usufruito delle nostre azioni. La cassa, i soldi, li hanno quelli che sono stati solo sfiorati dalle indagini e ne sono venuti fuori alla grande, potendo tranquillamente continuare a fare i loro affari. Io mi chiedo che fine abbiano fatto tutti i soldi, i palazzi, centro commerciali, night club e le attività in mano ai personaggi legati alla banda? Qualcuno è riuscito a sequestrarli? Assistiamo a dei sequestri a tutte le associazioni criminali, alla Mafia, alla ‘Ndrangheta e la Camorra ma non alla banda della Magliana. Come mai?» (Intervista ad Antonio Mancini).

L'omicidio di Paolo Frau. Il 18 ottobre del 2002 veniva ucciso colpi di arma da fuoco Paolo Frau, 53 anni ed ex luogotenente di "Renatino" De Pedis e poi a capo di un'organizzazione criminale operante sul litorale romano, freddato mentre saliva a bordo della sua auto nei pressi della sua abitazione, in via Francesco Grenet ad Ostia Lido. Uno dei due killer in moto, con il volto coperto da caschi integrali, dopo aver fatto scattare l'antifurto della sua BMW, attese Frau in strada e lo colpì con tre pallottole a bruciapelo. Assolto in appello nel maxi-processo alla banda, era diventato il luogotenente di Emidio Salomone nella piazza di Ostia, dove assunse il controllo delle nuove attività sul litorale, del racket delle estorsioni e del gioco clandestino. Il suo delitto è, ad oggi, ancora irrisolto.

Gli omicidi Morzilli e Salomone. Il 29 febbraio 2008, nel quartiere romano di Centocelle, viene assassinato con un colpo di pistola alla testa Umberto Morzilli, 51 anni, colpito da due sicari in moto che lo bloccano in piazza delle Camelie mentre, a bordo della sua Mercedes, aveva cercato di aprire la portiera nel tentativo di sottrarsi all'agguato. Un passato da carrozziere e poi da affiliato alla banda, prima come spacciatore e successivamente come grosso trafficante di droga. Nel 2002 cominciò a fare affari con Danilo Coppola; nel 2003 venne arrestato per estorsione assieme a Antonio "Tony" Nicoletti (figlio di Enrico Nicoletti, cassiere della Banda). Il 4 giugno 2009 viene assassinato Emidio Salomone, 55 anni e un passato nella banda; viene freddato da due killer in moto che gli sparano due colpi di pistola al volto, davanti a una sala giochi di via Cesare Maccari ad Acilia, nella periferia di Roma[70]. Sfuggito nel novembre del 2004 al blitz contro gli eredi della banda, nel quale finirono in manette 18 persone, Salomone venne poi arrestato in Danimarca nel 2005 ma, rimesso in libertà prima ancora di essere estradato dopo una decisione del Tribunale del Riesame di Roma, era rientrato in Italia dove aveva ripreso a lavorare nel racket delle estorsioni, dell'usura e del traffico di droga ad Ostia. Il 12 settembre del 2011, per omicidio premeditato aggravato dal metodo mafioso e in concorso con altre due persone, finisce in manette Massimo Longo con l'accusa di essere il mandante del delitto Salomone il cui movente sarebbe stato lo spaccio di eroina nella piazza di Acilia.

La recrudescenza.

Il 21 settembre del 2010, nell'ambito di una grossa operazione antiriciclaggio disposta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e condotta dalla Polizia di Statoche mette fine a un'organizzazione criminale dedita all'usura, al riciclaggio di denaro, al millantato credito, alle estorsioni e alle truffe, porta all'arresto di 11 persone e a numerosissime perquisizioni. Le persone coinvolte sono esponenti della criminalità organizzata romana e napoletana, tra i quali spicca il nome di Enrico Nicoletti, il cosiddetto cassiere della Banda della Magliana. L'indagine era partita dall'omicidio di Umberto Morzilli del febbraio 2008, personaggio legato all'immobiliarista Danilo Coppola.

Il 2 ottobre del 2010 le Squadre Mobili di Roma e Caserta sventano una rapina al caveau di un istituto di credito ubicato in pieno centro della cittadina campana e arrestano 7 persone tra cui il pluripregiudicato Manlio Vitale, 61 anni detto Er Gnappa, ex esponente della banda e amico fraterno di Enrico De Pedis. I sette, sorpresi al lavoro mentre effettuavano il carotaggio di una parete in cemento armato, furono bloccati quando oramai erano a pochi centimetri dal caveau. Arrestato già nel 1978, 1980 e nel 1985, Vitale fu anche coinvolto nell'omicidio di un altro componente della Magliana, Amleto Fabiani e, infine, nel 2000 venne accusato di essere uno dei mandanti del furto di 147 cassette di sicurezza sottratte al caveau della Banca di Roma di piazzale Clodio.

Il 5 luglio 2011, il trentatrenne Flavio Simmi viene ucciso con 9 proiettili esplosi a distanza ravvicinata in un agguato in pieno giorno in via Grazioli Lante, nel quartiere Prati, nel centro di Roma. L'uomo, che era già stato gambizzato nel febbraio dello stesso anno, era figlio di Roberto Simmi e nipote di Tiberio, accusati in passato di usura e ricettazione e arrestati (ma poi prosciolti da ogni accusa) nel 1993, nell'ambito dell'Operazione Colosseo, perché ritenuti legati al nucleo storico della banda della Magliana. Un'informativa della polizia li descrive in questo modo: «Roberto Simmi è il fratello del più noto Tiberio, più volte visto in compagnia di Enrico De Pedis. Tiberio, con il figlio Alessio, gestisce un negozio di oreficeria assiduamente frequentato da Maurizio Lattarulo. Presso il negozio di piazza del Monte, invece, è stata rilevata anche la presenza di Antonio Mancini e di Raffaele Pernasetti. Inoltre dall'intercettazione telefonica ancora in corso si è potuto stabilire che il negozio è stato, per un periodo di tempo, frequentato dal famoso faccendiere Ernesto Diotallevi inquisito unitamente ai noti Francesco Pazienza, Flavio Carboni e altri pregiudicati della vecchia Banda della Magliana per le vicende del crack del banco Ambrosiano e per l'attentato al vice direttore Roberto Rosone, durante il quale viene ucciso uno degli attentatori, Danilo Abbruciati. Nelle attività dei fratelli Simmi investiva Franco Giuseppucci il quale ricettava titoli di credito e polizze e, per conto terzi, riciclava denaro sporco presso gli ippodromi e le sale corse».

Il 6 luglio 2011, viene nuovamente arrestato Enrico Nicoletti con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di millantato credito, truffa, usura, falso, riciclaggio e ricettazione nell'ambito di un'operazione anti-usura e anti-riciclaggio nei confronti di un gruppo criminale dedito alle truffe nel settore immobiliare legato alle aste giudiziarie e di cui Nicoletti sarebbe stato a capo. Dopo poco lascerà il carcere per scontare la pena in regime di arresti domiciliari. 

Il 27 febbraio 2012 è tornato di nuovo tra le sbarre del carcere romano di Rebibbia per scontare un residuo di pena di sei anni e mezzo, con sentenza definitiva della Cassazione per associazione a delinquere finalizzata all'usura.

Il 12 luglio 2011 la squadra mobile romana arresta Giuseppe De Tomasi e altre 11 persone accusate di aver messo in piedi una vera e propria organizzazione criminale dedita alla gestione di sale da gioco, all'estorsione, ricettazione, riciclaggio e usura nei confronti di imprenditori e personaggi del mondo dello spettacolo. Tra gli altri arrestati ci sono molti componenti della sua famiglia: i figli Arianna e Carlo Alberto, la moglie Anna Maria Rossi, il genero Roberto Roberti e la consuocera Celestina Adriana Carletti. Sequestrati anche ventuno conti correnti, dieci immobili, nove società alcune autovetture, per oltre cinque milioni di euro.

Il 28 aprile 2012, durante un tentativo di rapina nei confronti di due fratelli commercianti di gioielli, nel nuovo quartiere di Mezzocammino (Spinaceto) sito alla periferia sud-ovest della capitale, uno dei malviventi viene ucciso, colpito al petto dopo un violento conflitto a fuoco. Si tratta di Angelo Angelotti, 61 anni e componente storico della Magliana che, nel 1995, era già finito sotto processo per l'omicidio di De Pedis perché ritenuto tra coloro che lo attirarono nella trappola in via del Pellegrino vicino a Campo de' Fiori, dove poi fu ucciso.

Il 6 ottobre 2014 il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma Otello Lupacchini ottiene la riapertura del caso riguardante la sentenza di primo grado della rapina in cui Angelo Angelotti ha perso la vita per mano del gioielliere Andrea Polimadei, poi assolto per legittima difesa. A questa vicenda corrisponderebbero gli atti intimidatori e i pedinamenti verso Cinzia Pugliese, ex compagna di Angelotti, emersi nell'ordinanza Nuova Alba che ha decapitato la mafia ad Ostia. Intimidazioni culminate poi nella gambizzazione della donna avvenuta il 26 luglio 2013, presumibilmente da parte di Riccardo Sibio, appartenente al clan dei Fasciani e spesso al servizio anche dei componenti della Banda, facendo immaginare così ad un vero e proprio regolamento di conti risalente ad oltre vent'anni prima in seguito all'omicidio di Enrico De Pedis.

Sempre nel 2014 Massimo Carminati, ex membro dei Nuclei Armati Rivoluzionari e vicino alla Banda, viene arrestato assieme ad alcuni complici nell'ambito dell'operazione Mafia Capitale; chiamata come Cupola Romana o ancora Clan Carminati, questa organizzazione operava a Roma già a partire circa dal 2000, affondando le sue radici nelle rapine dei NAR degli anni ottanta e successivamente nella stessa banda della Magliana. Al processo di primo grado svoltosi presso la X sezione penale del tribunale di Roma, il 27 aprile 2017, al termine della requisitoria, il procuratore aggiunto Paolo Ielo e i sostituti Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli chiedono la sua condanna a 28 anni di carcere. Il 20 luglio 2017, Massimo Carminati, viene condannato in primo grado a 20 anni di reclusione per associazione a delinquere. Cade invece l'accusa di associazione mafiosa.

Il 20 dicembre 2015 viene arrestata nuovamente Fabiola Moretti per aver effettuato insieme al figlio di 28 anni una spedizione punitiva verso il compagno della figlia. La sera stessa, dopo aver raggiunto l'abitazione del convivente e averlo minacciato con una pistola giocattolo, lo ha colpito per ben quattro volte con un coltello a serramanico senza però condurlo in pericolo di vita.

Il 15 marzo 2016 viene di nuovo arrestato Manlio Vitale detto "er Gnappa" insieme al figlio Danilo e altre 23 persone compreso Rodolfo Fusco, già braccio destro ai tempi della Banda, con l'accusa di essere a capo di un'organizzazione criminale finalizzata a efferate rapine in abitazioni, furto, ricettazione, detenzione e porto abusivo di armi da fuoco.

Il 20 maggio 2016 viene arrestata per la seconda volta in un mese Nefertari Mancini di 22 anni, figlia di Antonio Mancini detto "Accattone" e Fabiola Moretti, insieme al compagno per traffico e spaccio di sostanze stupefacenti nella propria abitazione di via dei Papiri presso la zona dei Castelli romani.

Il 10 novembre 2016 viene arrestata per l'ennesima volta Fabiola Moretti insieme ad altre 14 persone in una maxioperazione riguardante un grosso traffico di sostanze stupefacenti in arrivo dalla Colombia e Guatemala per poi essere distribuito nella zona ovest di Roma, in particolare nei quartieri del Corviale, Trullo e Casetta Mattei.

L'arresto di Pellegrinetti. Il 21 gennaio 2018 viene arrestato in un lussuoso attico di Alicante in Spagna il 76enne Fausto Pellegrinetti, appartenente alla nuova Banda della Magliana e latitante da ben 15 anni da quando è evaso dalla clinica romana Belvedere Mondello nel 1993 dove si trovava ricoverato in regime di arresti domiciliari[89]. Pellegrinetti si sarebbe incontrato negli anni '80 secondo le rivelazioni di Antonio Mancini, con il gruppo del Tufello ed insieme ad Abbruciati e Toscano avrebbero collaborato per impadronirsi del controllo del traffico di stupefacenti oltre ai sequestri, rapine ed estorsioni, addirittura nello stesso incontro avrebbero discusso del tentato omicidio del giudice Imposimato. Il latitante era stato condannato in via definitiva a 13 anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico e riciclaggio. A seguito dell'ordinanza cautelare del 25 gennaio 2018 firmata dal gip Simonetta D'Alessandro e che ha portato all'arresto di 32 esponenti del clan Spada per associazione di tipo mafioso, viene riportato come il gruppo degli "zingari" per allargare i propri traffici attraverso i videopoker si fossero messi in contatto con Franco Colò detto "il ciccione", storico braccio destro di Renatino De Pedis ai tempi della Banda per finanziare l'avviamento di numerose sale da gioco su tutto il territorio di Ostia ed anche da intermediario su tutta la provincia del Lazio a partire dal dicembre 2016.

I rapporti con la politica. Maurizio Lattarulo, chiamato “Provolino”, nel luglio del 2008 ha ricevuto un incarico da esterno per le Politiche Sociali al comune di Roma da parte di Gianni Alemanno. Lattarulo, coinvolto e prosciolto in un'indagine sui Nar, da luglio a dicembre 2008 avrebbe ricevuto dal Comune poco più di 13mila euro e nei due anni successivi quasi 31 mila euro. Nel luglio del 2012 era segretario particolare dell'allora presidente della Commissione politiche sociali, Giordano Tredicine. Il 23 febbraio 2010, nell'ambito di un'inchiesta sul riciclaggio di capitali legati alla 'Ndrangheta, il senatore del PDL Nicola Di Girolamo viene accusato di aver partecipato ad un sodalizio criminale che, assieme a Gennaro Mokbel, personaggio collegato in passato ad ambienti della destra eversiva, avrebbe riciclato oltre 2 miliardi di euro e favorito l'elezione del senatore nel collegio estero di Stoccarda, ad opera dalla famiglia Arena, 'ndrina di Isola di Capo Rizzuto. Gennaro Mokbel è, tra l'altro, un uomo legato ad Antonio D’Inzillo che, considerato uno dei killer del boss della Magliana Enrico De Pedis, fu arrestato dalla polizia il 22 maggio del 1992proprio nell'abitazione dello stesso Mokbel, che per questo motivo venne anche denunciato. Nel 1993, D'Inzillo riuscì comunque a fuggire all'estero, schivando il mandato di cattura a suo carico (proprio per l'omicidio di Renatino) all'interno della famosa Operazione Colosseo che, grazie alle dichiarazioni del pentito Maurizio Abbatino, diede il via al maxiprocesso che decapitò l'intera banda della Magliana. Una latitanza la sua che l'ordinanza del gip Aldo Morgioni sostiene sia stata finanziata proprio da Mokbel e che ha termine il 26 giugno 2008 quando viene resa pubblica la notizia della sua morte in un ospedale di Nairobi, in Kenia. Il suo corpo, frettolosamente cremato, non venne mai messo a disposizione della magistratura italiana.

Personalità e vittime.

Maurizio Abbatino - Arrestato il 24 gennaio 1992 a Caracas, pochi giorni dopo la sua estradizione in Italia, decise di intraprendere un percorso di collaborazione con la giustizia. Attualmente sta scontando la detenzione in regime di arresti domiciliari, in una località protetta.

Danilo Abbruciati - Ucciso il 27 aprile 1982, a Milano, da una guardia giurata mentre, a bordo di una moto guidata da un complice, tentava la fuga dopo un fallito attentato ai danni del vice presidente del Banco Ambrosiano, Roberto Rosone.

Ottorino Addis - Ucciso l'8 marzo 1996 a Ostia, poco prima della mezzanotte, con quattro colpi di pistola da un killer appostato nel parcheggio del ristorante nel quale aveva poco prima cenato assieme alla sua convivente.

Angelo Angelotti - Ucciso il 28 aprile 2012, a Spinaceto, durante un tentativo di rapina organizzato assieme ad altri due complici ai danni di un furgone portavalori. Durante il conflitto a fuoco venne freddato da un colpo di pistola da parte di uno dei gioiellieri.

Claudiana Bernacchia - Casco d'oro, com'era soprannominata la storica compagna di Claudio Sicilia (e poi moglie di Giorgio Paradisi), dopo essere sfuggita per un soffio alla maxi retata (Operazione Colosseo) che nel 1992 decapitò l'intera organizzazione malavitosa romana, venne arrestata il 9 agosto del 1993. Attualmente è libera e da qualche anno lavora come coordinatrice in un'associazione romana che si occupa di reinserimento di donne e minori nella società.

Giuseppe Carnovale - Deceduto nel 1992 per cause naturali.

Vittorio Carnovale - Dopo l'arresto, avvenuto nel 1993, decise di diventare collaboratore di giustizia. Nel maxiprocesso che vide alla sbarra l'intera banda venne accusato di 7 omicidi e condannato a 10 anni di reclusione. Attualmente è libero.

Angelo Cassani - Indagato nell'ambito dell'inchiesta della sparizione di Emanuela Orlandi. Attualmente è libero.

Gianfranco Cerboni - Chiamato in causa dalle dichiarazioni della supertestimone Sabrina Minardi, è indagato nell'ambito dell'inchiesta della scomparsa di Emanuela Orlandi. Attualmente è libero.

Marcello Colafigli - Condannato all'ergastolo per tre omicidi, è attualmente detenuto in un manicomio criminale.

Renzo Danesi - Attualmente sta scontando la detenzione in regime di semilibertà. Da qualche anno fa parte della compagnia teatrale Stabile Assai, composta da detenuti-attori del carcere romano di Rebibbia con cui si è esibito nei maggiori teatri italiani. Fine pena 2015.

Angelo De Angelis - Ucciso il 10 febbraio 1983.

Enrico De Pedis - Ucciso il 2 febbraio 1990 a Campo De'Fiori a Roma.

Giuseppe De Tomasi - Arrestato nuovamente il 12 luglio 2011 per usura, attualmente è in attesa di giudizio.

Ernesto Diotallevi - Attualmente libero, l'ultima assoluzione risale al giugno 2007 dall'accusa di concorso in omicidio del banchiere Roberto Calvi.

Roberto Fittirillo - Attualmente libero, l'ultima assoluzione risale al 12 ottobre 2007 per prescrizione e comportamento irreprensibile.

Paolo Frau - Ucciso il 18 ottobre 2002 in via Francesco Grenet ad Ostia Lido.

Giovanni Girlando - Ucciso nel maggio 1990 nella Pineta di Castel Porziano.

Franco Giuseppucci - Ucciso il 13 settembre 1980 in Piazza San Cosimato a Trastevere a Roma dai fratelli "Palle d'oro".

Antonio Leccese - Ucciso il 3 febbraio 1981 a Roma.

Fulvio Lucioli - Collaboratore di giustizia, attualmente libero.

Antonio Mancini - Attualmente sta scontando la detenzione in regime di arresti domiciliari. Da qualche anno presta servizio volontario di assistenza a ragazzi disabili.

Giuseppe Magliolo - Ucciso il 24 novembre 1981 a Ostia.

Libero Mancone - Deceduto nel 1993 in un incidente stradale con la sua moto.

Enzo Mastropietro - Arrestato a Ibiza, il 14 luglio 1999, è attualmente detenuto.

Alessio Monselles - Arrestato nuovamente il 6 luglio 2011 accusato di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di millantato credito, truffa, usura, falso, riciclaggio e ricettazione. In attesa di giudizio.

Fabiola Moretti - Arrestata nuovamente il 19 maggio 2012 a Santa Palomba durante un controllo antidroga, attualmente sta scontando la detenzione in regime di arresti domiciliari. Il 20 dicembre 2015 viene arrestata ancora per evasione e tentato omicidio per aver accoltellato il convivente della figlia. Il 10 novembre 2016 viene arrestata in seguito ad una maxioperazione sul traffico di sostanze stupefacenti nella zona ovest di Roma.

Umberto Morzilli - Ucciso il 29 febbraio 2008 in piazza delle Camelie a Roma.

Enrico Nicoletti - Arrestato nuovamente il 27 febbraio 2012, attualmente è detenuto nel carcere di Rebibbia per scontare una condanna a sei anni e sei mesi di reclusione per associazione a delinquere finalizzata ad usura, estorsione e rapina.

Antonella Rossi - Deceduta nel 2003 per cause naturali.

Giorgio Paradisi - Deceduto a Napoli il 28 novembre 2006 a causa di un tumore.

Raffaele Pernasetti - Attualmente sta scontando la detenzione in regime di semilibertà per decisione dei giudici di sorveglianza di Firenze, che nel novembre 2012 hanno concluso per la sua non pericolosità e concesso un graduale reinserimento sociale. Lavora di giorno come cuoco nel ristorante di proprietà del fratello a Testaccio.

Emidio Salomone - Ucciso il 4 giugno 2009 ad Acilia.

Nicolino Selis - Ucciso il 3 febbraio 1981, il suo corpo non fu mai ritrovato.

Claudio Sicilia - Ucciso il 18 novembre 1991 in via Andrea Mantegna a Roma.

Edoardo Toscano - Ucciso il 16 marzo 1989 a Ostia.

Gianfranco Urbani - Deceduto il 18 maggio 2014 in una clinica di Latina, dove era ricoverato allo stadio terminale di una grave malattia.

Claudio Vannicola - Ucciso il 23 febbraio 1982.

Giancarlo Virgutto - Arrestato insieme al figlio Daniele nel 2004 per estorsione, usura e traffico di cocaina, per questo sottoposto al 416 bis dalla Direzione distrettuale antimafia.

Manlio Vitale - Arrestato nuovamente il 4 ottobre 2010 per tentata rapina ad una banca di Caserta. Il 15 marzo 2016 viene arrestato di nuovo con l'accusa di essere a capo di un'organizzazione criminale dedita alle rapine in abitazioni.

Sergio Virtù - Arrestato nuovamente il 9 marzo 2010 per reati di truffa e indagato nell'ambito dell'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Attualmente è detenuto nel carcere di Regina Coeli.

Domenico Zumpano - Deceduto il 4 febbraio 1997 cadendo dalle scale di casa durante una crisi epilettica.

Chi comanda a Roma: la mappa della criminalità nella Capitale.

LE MAFIE LAZIALI. I CASAMONICA E GLI SPADA.

Mafia e criminalità a Roma: la Dia disegna la mappa dei clan che comandano la Capitale. Il primo nome che si legge è quello dei Casamonica ma a Roma sono molto influenti anche le famiglie napoletane, scrive Lorenzo Nicolini l'8 febbraio 2018 su Today. Nel Lazio e a Roma in particolare si segnala "l'operatività di diverse formazioni criminali ben strutturate". E' quanto emerge dalla relazione pubblicata della Direzione Investigativa Antimafia sul primo semestre 2017.Casamonica, Di Silvio, Spada e Fasciani i nomi più ricorrenti nella Capitale dove, tuttavia, sono forti le influenze di clan campani, calabresi e siciliani. E' questa la mappa disegnata nella relazione consegnata dal Ministro dell'Interno Marco Minniti al Parlamento sull'attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Dia. I recenti fatti di cronaca hanno mostrato come le famiglie criminali abbiano, attraverso variegati metodi illeciti, allungato e consolidato i tentacoli sulla Capitale. 

Chi comanda a Roma. Il primo nome che si legge è quello dei Casamonica cui sono state, nel tempo, contestate condotte usurarie ed estorsive, nonché il traffico di droga e il reimpiego di capitali illeciti. Da segnalare, in proposito, la confisca eseguita, nel mese di aprile, dall'Arma dei Carabinieri, di varie auto di lusso, di una villa e terreni in provincia di Roma per un valore di oltre un milione di euro, nei confronti di un membro del citato sodalizio, il cui tenore di vita era nettamente superiore ai redditi dichiarati (qui la notizia). Sempre i Carabinieri, il successivo mese di maggio, hanno eseguito il sequestro 430 di beni per un valore di oltre 4 milioni di euro (tra cui un immobile di tre piani, una villa di pregio e vari terreni nella periferia di Roma) nei confronti di alcuni appartenenti alla famiglia di etnia romanì (rom e sinti) Di Silvio, legati da vincoli di parentela alla menzionata famiglia dei Casamonica e agli Spada. Anche in questo caso il sequestro ha trovato giustificazione nel fatto che i soggetti investigati disponessero di beni del valore del tutto sproporzionato rispetto al reddito dichiarato. Ad Ostia rilevano, invece, il gruppo dei Fasciani e gli Spada, colpiti duramente dalla recente operazione Eclissi (qui i nomi degli arrestati). Per quanto attiene alla provincia di Roma, segnatamente la zona tra Ladispoli e Cerveteri, si richiama il sequestro eseguito, nel mese di febbraio, dalla Dia di Roma di un patrimonio del valore di oltre 30 milioni di euro.  Il provvedimento ha interessato 5 soggetti, facenti parte di una famiglia di giostrai nomadi strutturati in una organizzazione criminale attiva, in particolare, nella commissione di delitti contro il patrimonio. Sequestri che hanno permesso di bloccare il flusso di denaro di alcune delle famiglie più influenti a Roma. Ma non c'è solo la criminalità autoctona nella Capitale. 

La 'Ndragheta a Roma: i legami storici. Le evidenze investigative raccolte nel recente passato hanno fatto luce anche sull'operatività, nel Lazio, delle cosche 'ndrine. La regione del centro Italia, secondo la Dia, costituisce il teatro di una interazione e coesistenza di fenomenologie di diversa matrice. Si registrano, infatti, proiezioni delle organizzazioni mafiose tradizionali, che mantengono legami storici con le consorterie calabresi. I rapporti tra le diverse organizzazioni criminali sembrano svilupparsi su un piano paritario di accettazione reciproca e di fattiva collaborazione. Emblematica, in proposito, l'operazione Luna Nera della Guardia di Finanza, che ha colpito la cosca Rango-Zingari di Cosenza (qui la notizia). Le indagini, concluse nel mese di maggio con l'esecuzione di diversi provvedimenti cautelari e di un sequestro di beni per oltre 16 milioni di euro, hanno svelato come un imprenditore romano, titolare di una società situata sulla via Tiburtina nella cui sede venivano pianificate estorsioni, attività usurarie e di riciclaggio, fosse risultato contiguo, oltre che alla menzionata cosca Rango-Zingari, anche ad ambienti di stampo camorristico (clan Senese) e della criminalità romana (Casamonica e famiglia Cordaro di Tor Bella Monaca). L'imprenditore si sarebbe, peraltro, avvalso della cosca di 'Ndragheta per reclutare 'agenti di riscossione crediti', maggiormente convincenti nel caso di ritardi dei pagamenti. Restando sulla Capitale, viene segnalata l'operatività della 'ndrina Fiarè di San Gregorio di Ippona legata al clan Mancuso presente in varie zone del centro e attiva nell'acquisizione e nella gestione, a fini di riciclaggio, di attività commerciali ed imprenditoriali.

Cosa Nostra a Roma: dall'edilizia al gioco. Il territorio laziale rientra nelle mire imprenditoriali di Cosa Nostra, grazie al ventaglio di opportunità di investimento che offre e che spaziano dai settori dell'edilizia, della ristorazione, delle sale da gioco e dell'agroalimentare. Quest'ultimo ambito rappresenta uno dei business di riferimento delle consorterie, le quali, specie nel sud Pontino, hanno intessuto una solida rete di relazioni. Non solo. Dopo la Banda della Magliana sul mare di Roma arrivarono i Triassi. Dalla provincia di Agrigento, a gestire il controllo dei chioschi e delle attività sul litorale di Ostia, oltre che il traffico di droga e armi, ci sarebbe stata la storica famiglia mafiosa Caruana-Cuntrera di Siculiana, tramite i fratelli Vincenzo e Vito Triassi, ritenuti i colonnelli della stessa famiglia. I fratelli Triassi sul litorale gestiscono il traffico di droga e armi che arrivano dalle zone degli stati balcanici. Nel 2007 e nel 2011, rispettivamente Vito e Vincenzo Triassi sono stati vittime di agguati e intimidazioni. Ferimenti avvenuti per motivi legati alla gestione dei chioschi sul lungomare di Ostia. 

I napoletani a Roma: tanti affari nella Capitale. Forte, anche per vicinanza geografica, la presenza di famiglie napoletane a Roma, sia nell'hinterland che sul litorale. Secondo la relazione della Dia, permangono immutati gli assetti criminali, perché quello laziale sarebbe il terreno ideale per riciclare denaro e farvi confluire ingenti quantità di stupefacenti. Gli ambiti maggiormente interessati da tali infiltrazioni si individuano nella gestione di esercizi commerciali, anche del centro storicodella Capitale, nel mercato immobiliare, servizi finanziari e di intermediazione, gestione di sale giochi, appalti pubblici ed edilizia, nonché da ultimo lo smaltimento di rifiuti. Si tratta di attività per la realizzazione delle quali si rivela determinante la rete di relazioni con professionisti, operatori economici, esponenti delle pubbliche amministrazioni e del mondo della finanza. I riscontri investigativi attestano, sempre più frequentemente, l'operatività di cartelli compositi, di cui fanno parte affiliati a clan di Camorra, a cosche calabresi ed a sodalizi autoctoni, attivi nelle estorsioni, nell'usura, nel traffico di sostanze stupefacenti, nella ricettazione e nel riciclaggio. Negli anni è stata accertata l'operatività dei clan napoletani Di Lauro, Giuliano, Licciardi, Contini, Mariano, Senese, Moccia, Mallardo, Gallo, Gionta, Anastasio, Zaza, Pagnozzi della provincia di Avellino, Schiavone, Noviello, Zagaria, Belforte, Bardellino della provincia di Caserta. La loro datata presenza è documentata da provvedimenti di sequestro di beni immobili e quote di società, alle quali fanno capo attività economiche.  A febbraio l'operazione Domus Aurea 2 della Guardia di Finanza (qui la notizia) ha fatto luce sugli investimenti, operati dai Mallardo, in alcuni comuni a nord della Capitale (Mentana, Guidonia Montecelio, Monterotondo, Capena e Fonte Nuova), dove sarebbe stato messo in atto un sistematico acquisto di terreni, strumentale a speculazioni edilizie, anche grazie alla compiacenza di funzionari pubblici, che avrebbero consentito di edificare complessi residenziali su terreni a vocazione agricola, in concorso con affiliati all'alleato cartello dei Casalesi. Un altro decreto di confisca, emesso nel mese di aprile, ha riguardato un prestanome avellinese del clan Pagnozzi, i cui esponenti si sarebbero trasferiti, da anni, nella zona sud-est della Capitale: tra i beni oggetto di confisca, figurano quote di diverse società che gestivano ristoranti a Roma, nella zona di Trastevere. Il gruppo in parola risulta in accordo con la famiglia Senese, presente nella stessa area, zona Tuscolana - Cinecittà.

Le indagini hanno riscontrato cointeressenze criminali dei Senese per la gestione di varie attività illecite (traffico di stupefacenti, estorsioni, reati contro la persona, riciclaggio in attività economiche apparentemente legali come la distribuzione di slot machine e la gestione di esercizi commerciali) con diverse famiglie camorristiche operanti nella Capitale. In particolare, oltre che con i Pagnozzi, sono state, nel tempo, registrate sinergie con il gruppo Di Giovanni, dedito al controllo delle piazze di spaccio nelle zone Capannelle, Magliana e Tor Vergata, anche attraverso azioni militari per dirimere controversie e attuare il recupero di crediti maturati nel traffico degli stupefacenti. Altre collaborazioni sono state registrate con il clan Esposito, che fa capo ai figli di un ex collaboratore di giustizia, già legato ai Licciardi. Le commistioni che si sono create nella Capitale, tra soggetti collegati a contesti criminali di diversa origine territoriale, imprenditori e pubblici ufficiali, trovano conferma in un'altra indagine, conclusa nel mese di maggio dalla Guardia di Finanza con l'esecuzione di diversi provvedimenti cautelari e di un sequestro di beni per oltre 16 milioni di euro. Al centro dell'inchiesta 'Luna Nera', già richiamata nel capitolo dedicato alla criminalità organizzata calabrese, si pone un affermato imprenditore romano, titolare di una società situata sulla via Tiburtina (nella cui sede venivano pianificate le attività del sodalizio), risultato contiguo ad ambienti di stampo camorristico (Senese). Le intese tra gruppi di origine diversa, hanno interessato anche il settore dei giochi. É quanto emerso nella già citata operazione Babylonia (qui la notizia), che ha riguardato due distinte associazioni per delinquere, operative sulla Capitale, di cui facevano parte soggetti campani, pugliesi e romani: una era capeggiata da un elemento contiguo al clan napoletano degli Amato-Pagano, l'altra da un pregiudicato originario di Bari. I componenti delle organizzazioni, da tempo radicati a Roma, gestivano, con modalità mafiose ed in accordo con noti imprenditori del settore con numerose sale giochi, dislocate in diversiquartieri romani e lungo le consolari, con finalità di riciclaggio, estorsione, usura, impiego di utilità di provenienza illecita, fatturazioni per operazioni inesistenti, false comunicazioni sociali e frode fiscale, con l'aggravante del metodo mafioso. I napoletani, di recente, sono tornati anche d'attualità ad Ostiadove compaiono in alcune intercettazioni in cui Carmine 'Romoletto' Spada, confessa la sua "paura" di una invasione partenopea sul litorale.

Ostia: chi sono le 6 famiglie che si dividono il territorio. Spada, Fasciani, Guarnera, Di Silvio, Casamonica, Triassi: sono i clan che gestiscono il business della droga e degli alloggi popolari, scrive Nadia Francalacci il 28 novembre 2017 su Panorama. Estorsioni, minacce e intimidazioni a colpi di pistola. Ad Ostia, gli equilibri tra i clan che silenziosamente, negli anni, hanno preso il controllo del litorale romano, si sono spezzati ed è iniziata una guerra. I boss dei sei clan presenti sul litorale hanno iniziato a sparare in quel territorio che non è di tradizione mafiosa ma, semmai, "colonizzato" da "mafie di importazione". La "pax mafiosa", ovvero, l’equilibrio fragilissimo che si era creato tra le cupole del litorale, è “saltata” dopo l'aggressione al giornalista Piervincenzi da parte di Roberto Spada, fratello del boss Romoletto e esponente della famiglia sinti che controlla il racket delle case comunali e il traffico di droga. Ma chi sono, dunque, i clan che si contendono il territorio?

Il clan Fasciani. Il cognome “Fasciani” indica “don Carmine”, boss indiscusso dell’omonimo clan che spadroneggia sul litorale detenendo il business della droga e delle estorsioni. Don Carmine, al centro di numerose relazioni antimafia della Dia, lega il suo nome sia ad esponenti del Nar che ha soggetti come Gennaro Mokbel, il faccendiere che avrebbe gestito i fondi neri per colossi come Telecom e Fastweb. Don Carmine, 67 anni, di origini abruzzesi si trasferisce ad Ostia negli anni Settanta. Dopo pochi mesi, comincia ad avere rapporti con la Banda della Magliana. Poi, dagli anni Ottanta, inizia l'escalation criminale sul litorale: droga e estorsioni. Infine tenta il salto imprenditoriale acquistando uno stabilimento balneare “Village” a Ostia Ponente. Don Carmine oggi è a processo con le figlie Sabrina e Azzurra.

Il clan Spada. Dove perdono terreno i Fasciani, decimati dalle inchieste giudiziarie, arrivano gli Spada. Un’inchiesta della magistratura dimostrò come il capo dell’ufficio tecnico del Municipio X, utilizzasse il modus operandidegli Spada per “espropriare” e riassegnare ad imprenditori e amici, tra cui gli stessi Spada, gli stabilimenti e le concessioni balneari più contese. Il modus operandi degli Spada per affermare il potere emergente è quello che è stato filmato dal giornalista aggredito tre settimane fa, ovvero, minacce e pestaggi. Alla famiglia rivale dei Baficchio, ad esempio, gli Spada tolsero con aggressioni e colpi di pistola, un alloggio popolare perché un membro del clan Spada aveva bisogno di una stanza in più. A Ostia gestiscono ancora il racket delle case comunali.

Il clan Guarnera. Acilia, periferia tra Ostia e Roma, è in mano ai Guarnera. I Guarnera sono il braccio dei Casalesi nella Capitale. Sono loro ad avere il controllo dei videopoker e delle slot machines. Le indagini hanno evidenziato gli affari tra esponenti di vertice della criminalità organizzata campana e noti appartenenti alla criminalità organizzata romana. In particolare, la magistratura ha accertato come il boss Mario Iovine gestisse il settore delle slot machine dalla Campania attraverso Sergio Guarnera e Sandro Guarnera, considerati dagli inquirenti elementi di “pericolosi socialmente”.

I clan Di Silvio-Casamonica. Insieme agli Spada, a gestire il traffico di usura, estorsioni e droga sul litorale romano ci sono anche i Casamonica, imparentati con i Di Silvio e affiliati degli Spada. Un intreccio di parentele che permette di controllare il racket delle case comunali. Ma i Casamonica a Ostia sono dediti anche al controllo della droga nella zona popolare di Ostia Nuova. La loro forza è la territorialità che trova origine nella loro presenza capillare nella zona. A Ostia Ponente, hanno creato il loro quartier generale, dove hanno ville fortificate, protette da sistemi di sorveglianza di ultima generazione.

Il clan Triassi. I clan Triassi di Siculiana sono stati gli “eredi” della Banda della Magliana sul litorale di Roma. Originari della provincia di Agrigento, i Triassi gestiscono il controllo dei chioschi e delle attività commerciali del litorale, oltre al traffico di droga e armi che arrivano dai Balcani. Nel 2007 e nel 2011, i vertici del clan Triassi furono al centro di una faida per la gestione di una spiaggia libera sul lungomare Toscanelli.

I quattro re di Roma. Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici, scrive Lirio Abbate il 12 dicembre 2012 su l'Espresso. Non ama guidare e preferisce spostarsi a piedi o cavalcando uno scooter. Nessun lusso negli abiti, modi controllati e cortesi: in una città dove tutti parlano troppo, lui pesa le parole ed evita i telefonini. Sembra un piccolo borghese, perso tra la folla della metropoli, ma ogni volta che qualcuno lo incontra si capisce subito dalla deferenza e dal rispetto che gli tributano che è una persona di riguardo. Riconoscerlo è facile: l'occhio sinistro riporta i segni di un'antica ferita. Il colpo di pistola esploso a distanza ravvicinata da un carabiniere nel 1981: è sopravvissuto anche alla pallottola alla testa, conquistando la fama di immortale. Anche per questo tutti hanno paura di lui. Ed è grazie a questo terrore che oggi Massimo Carminati è considerato l'ultimo re di Roma. La sua biografia è leggendaria, tanto da aver ispirato "Il Nero", uno dei protagonisti di "Romanzo criminale" interpretato sullo schermo da Riccardo Scamarcio. È stato un terrorista dei Nar, un killer al servizio della Banda della Magliana, l'hanno accusato per il delitto Pecorelli e per le trame degli 007 deviati, l'hanno arrestato per decine di rapine e omicidi. Come disse Valerio Fioravanti, «è uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura». Sempre a un passo dall'ergastolo, invece è quasi sempre uscito dalle inchieste con l'assoluzione o con pene minori: adesso a 54 anni non ha conti in sospeso con la giustizia. Ma il suo potere è ancora più forte che in passato. Il nome del "Cecato" viene sussurrato con paura in tutta l'area all'interno del grande raccordo anulare, dove lui continua a essere ritenuto arbitro di vita e morte, di traffici sulla strada e accordi negli attici dei Parioli. L'unica autorità in grado di guardare dall'alto quello che accade nella capitale. "L'Espresso" è riuscito a ricostruire la nuova mappa criminale di Roma tenuta in pugno da quattro figure, con un ruolo dominante di Carminati. Lo ha fatto grazie alle rivelazioni di fonti che hanno conoscenza diretta dei traffici che avvengono all'interno della metropoli e a cui è stato garantito l'anonimato. Queste informazioni sono state riscontrate e hanno permesso di ricostruire un quadro agghiacciante della situazione. Il business principale è la cocaina: viene spacciata in quantità tripla rispetto a Milano, un affare da decine di milioni di euro al mese, un'invasione di droga che circola in periferia, nei condomini della Roma bene e nei palazzi del potere, garantendo ricchezza e ricatti. I quattro capi non si sporcano le mani con il traffico, si limitano a regolamentarlo e autorizzare la vendita nei loro territori, ottenendo una percentuale dei proventi. Cifre colossali, perché ogni carico che entra sulla piazza romana rende fino a quattrocento volte il prezzo pagato dagli importatori che lo fanno arrivare dalla Colombia, dal Venezuela o dai Balcani: il fatturato è di centinaia di milioni di euro.

POTERE NERO. Carminati viene descritto come il dominus della zona più redditizia, il centro e i quartieri bene della Roma Nord. Dicono che la sua forza starebbe soprattutto nella capacità di risolvere problemi: si rivolgono a lui imprenditori e commercianti in cerca di protezione, che devono recuperare crediti o che hanno bisogno di trovare denaro cash. Non ha amici, solo camerati. E chi trent'anni fa ha condiviso la militanza nell'estremismo neofascista sa di non potergli dire di no. Per questo la sua influenza si è moltiplicata dopo l'arrivo al Campidoglio di Gianni Alemanno, che ha insediato nelle municipalizzate come manager o consulenti molti ex di quella stagione di piombo. Le sue relazioni possono arrivare ovunque. A Gennaro Mokbel, che gestiva i fondi neri per colossi come Telecom e Fastweb. E a Lorenzo Cola, il superconsulente di Finmeccanica che ha trattato accordi da miliardi di euro ed era in contatto con agenti segreti di tutti i continenti: un'altra figura che - come dimostrano le foto esclusive de "l'Espresso" - continua a muoversi liberamente tra Milano e la capitale nonostante sentenze e arresti.

POKER DI RE. Come Carminati, anche gli altri re di Roma sono soliti sospetti. Personaggi catturati, spesso condannati, ma sempre riusciti a tornare su piazza. Michele Senese domina i quartieri orientali e la fascia a Sud-Est della città, fitta di palazzi residenziali e sedi di multinazionali. La sua carriera comincia nella camorra napoletana: diversi pentiti lo hanno indicato come un sicario attivo nelle guerre tra cutoliani e Nuova Famiglia. Poi si è trasferito nella Capitale ed è diventato un boss autonomo, chiamato "o Pazzo" perché le perizie psichiatriche gli hanno permesso più volte di uscire dalla cella: i medici - che lo hanno definito capace di intendere e volere - lo hanno però indicato come incompatibile con il carcere. Fino allo scorso febbraio era detenuto in una clinica privata, dove però avrebbe continuato a ricevere sodali e gestire affari e ordini nonostante una sentenza a 17 anni ridotta a 8 in appello. Poi è finito a Rebibbia, ma per poco: da sei mesi ha ottenuto gli arresti domiciliari, sempre per l'incompatibilità con la prigione, confermata anche dalla Cassazione, e a fine anno tornerà libero. All'interno del territorio di Senese c'è un'enclave in mano ai Casamonica, altra presenza fissa nelle cronache nere romane. Sono sinti, etnia nomade ormai stanziale in Italia da decenni, che spadroneggiano nella zona tra Anagnina e Tuscolano e fanno affari di droga con la zona dei Castelli. Ricchi, con ville arredate in modo sfarzoso e auto di lusso, si muovono tra usura e cocaina, senza che le retate abbiano intaccato i loro traffici: rifornivano anche il vigile urbano che faceva da autista a Samuele Piccolo, il vicepresidente del consiglio comunale arrestato lo scorso luglio. Ormai sono più di trent'anni che si parla di loro, ma soltanto nel gennaio di quest'anno gli è stata contestata l'associazione per delinquere: secondo la Squadra Mobile possono contare su un migliaio di affiliati, pronti a offrire i loro servizi criminali alla famiglia. Dopo l'arresto del leader di un anno fa, Peppe Casamonica, adesso alla guida del clan c'è la moglie del boss.

MAGLIANA FOREVER. I processi hanno avuto scarsa incidenza anche sulle attività di "don" Carmine e Giuseppe "Floro" Fasciani, i fratelli avrebbero la supervisione sulla fascia Sud-Occidentale, che comincia da San Paolo e comprende i quartieri a ridosso della Cristoforo Colombo fino al litorale di Ostia. Don Carmine è un'altra vecchia conoscenza, che compare nei dossier delle forze dell'ordine dai tempi della Magliana. Come uno dei figli di Enrico Nicoletti, lo storico cassiere della Banda, adesso segnalato tra le figure emergenti nonostante un arresto e una condanna non definitiva. Carmine Fasciani invece è finito in cella nel 2010, quando gli venne sequestrato uno dei locali più trendy dell'estate romana con discoteca sulla spiaggia: lo aveva comprato per 780 mila euro nonostante ne dichiarasse al fisco solo 14 mila. Meno di due anni dopo è stato assolto in primo grado, con restituzione dei beni. Pochi mesi più tardi è tornato dentro e in più operazioni i carabinieri hanno messo i sigilli ad altre proprietà per un valore di oltre dieci milioni di euro. Anche Fasciani aveva amicizie nei reduci dei Nar. E con lui al telefono il solito Mokbel millantava di avere pagato per fare assolvere Valerio Fioravanti e Francesca Mambro: il segno di come tutte le storie criminali a Roma finiscano per intrecciarsi intorno allo stesso filo nero. E anche Fasciani ha tenuto rapporti con camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra.

CITTÀ APERTA. Per le grandi mafie Roma resta una città aperta. Possono investire liberamente in ristoranti, negozi e immobili a patto di non pestare i piedi ai quattro re. E possono tranquillamente prendere domicilio. Da Palermo si sono trasferiti nel quartiere africano Nunzia e Benedetto Graviano, fratelli dei boss di Brancaccio, gli stragisti di Cosa nostra. E poi l'ex capomafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro, che dal suo salotto di casa dava direttive a politici e giornalisti e ordinava omicidi e attentati: è tornato libero dopo uno sconto per buona condotta mettendo su casa a Roma. Operano a Nord, in zona Flaminia, nel territorio di Carminati, anche alcuni componenti della 'ndrangheta di Africo, in particolare i Morabito. Non è forse un caso che il capobastone Giuseppe Morabito, detto Peppe Tiradritto, è il nonno di Giuseppe Sculli, ex giocatore della Lazio, coinvolto nell'indagine su alcune combine di partire di serie A: Sculli, secondo gli investigatori, avrebbe avuto contatti proprio con "il Nero". In tutto il Lazio ormai i clan campani e calabresi hanno insediato feudi stabili, ma a Roma è un'altra storia. Non comandano loro: nella Capitale per qualunque operazione illecita devono chiedere l'autorizzazione dei sovrani capitolini e riconoscergli la percentuale. Perché la situazione che si è creata all'ombra dei sette colli non ha precedenti: è come il laboratorio di una nuova formula criminale, flessibile ed efficiente, che permette il controllo del territorio limitando l'uso della violenza. Sotto certi aspetti, ricorda Palermo degli anni Settanta, prima dell'avvento dei corleonesi, quando le vecchie famiglie dominate da Stefano Bontate pensavano ad arricchirsi con droga ed edilizia evitando gesti clamorosi. Roma è lontanissima dal capoluogo siciliano: non ci sono clan che impongono il pizzo sistematicamente a tutti i commercianti. Anzi, spesso sono esercenti e imprenditori a rivolgersi ai boss cercando protezione, prestiti o offrendo capitali da investire nell'acquisto di partite di coca. Le indagini hanno evidenziato il ruolo di costruttori e negozianti impegnati come finanziatori nell'importazione di neve dal Sudamerica, quasi sempre dei quartieri nord, quelli che fanno capo a Carminati. I quattro re e le grandi cosche, secondo quanto appreso da "l'Espresso", hanno raggiunto un accordo dieci mesi fa: niente più omicidi di mafia nella Capitale. In questo modo le forze dell'ordine non si dovranno muovere in nuove indagini e il business illegale non avrà ripercussioni. Il patto è stato siglato dopo che i boss hanno appreso dell'arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone. Gli undici delitti che lo scorso anno hanno fatto nascere l'allarme su Roma in realtà non sarebbero semplici regolamenti di conti, ma tanti episodi di una strategia finalizzata a imporre questo nuovo modello criminale: venivano punite le persone che violavano i patti, mettendo in crisi il sistema di potere. Per spiegare i meccanismi di questo sistema, "l'Espresso" ha raccolto il retroscena del delitto più clamoroso avvenuto lo scorso anno: l'uccisione di Flavio Simmi, a poca distanza da piazza Mazzini e dal palazzo di giustizia. Figlio di un gioielliere e ristoratore coinvolto nelle inchieste sulla Banda della Magliana e poi assolto, Flavio gestiva un Compro oro e pochi mesi prima era stato ferito: un solo colpo di pistola ai testicoli. Un avvertimento che sarebbe stato deciso da un calabrese legato alla 'ndrangheta, arrestato all'inizio del 2011. L'uomo dal carcere avrebbe chiesto alla sua convivente di andare da Simmi e ritirare una grossa somma di denaro, forse provento di attività comuni. Ma il debitore le manca di rispetto e così il detenuto decide di ucciderlo. Prima però chiede il permesso a chi controlla il territorio. A questo punto interviene il padre, che per salvare il figlio probabilmente contatta vecchi amici della banda ancora importanti, ottenendo che la sentenza di morte sia trasformata in un avvertimento: la pistolettata sui genitali e l'ordine di andare via da Roma. Il giovane però rimane in città e allora viene decisa l'esecuzione, senza che scattino vendette.

STATO ASSENTE. Le istituzioni per anni non sono riuscite a scardinare questo sistema. Ha pesato anche un deficit culturale: l'incapacità di riconoscere la manifestazione di questo differente modo di essere mafia e imporre il dominio sulla città. Il reato di associazione mafiosa non è stato mai riconosciuto in una sentenza: i giudici hanno sempre stabilito che a Roma ci fossero trafficanti, rapinatori, spacciatori ma non vere organizzazioni criminali. È questo il clima che serve ai clan per prosperare. E non appena i giornali hanno fatto trapelare la possibilità che alla guida della procura capitolina potesse arrivare Giuseppe Pignatone, con decenni di esperienza nella lotta alle cosche, i boss hanno deciso di imporre la pace. I delitti sono cessati all'improvviso: negli ultimi dodici mesi ci sono stati solo due omicidi connessi alla criminalità, entrambi però sul litorale, lontanissimo dal centro. È la stessa strategia criminale della sommersione o dell'invisibilità che è stata attuata in Sicilia dal vecchio padrino Bernardo Provenzano nel 1993 dopo l'arresto di Riina. Niente più omicidi ma solo affari svolti in silenzio con l'aiuto della politica sostenuta dalla mafia. Le fonti de "l'Espresso" hanno descritto come si sia trattato di una scelta imposta dai "quattro re". Pronti a debellare in qualunque modo chi infrange la moratoria: poche settimane fa un ex dei Nar che stava per assaltare una banca armato fino ai denti è stato catturato durante un controllo dei carabinieri scattato al momento giusto. Questo silenzio ha indotto in inganno, alcuni mesi fa, qualche investigatore, il quale avrebbe riferito al prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, facendolo sobbalzare dalla sedia, che la mafia non è presente in città. La realtà è ben diversa. Con un potere invisibile che trae linfa dalla corruzione generalizzata. La scorsa settimana il procuratore Pignatone partecipando ad un convegno organizzato nell'ambito del salone della Giustizia ha detto: «Roma è una città estremamente complessa perché mentre a Palermo e Reggio Calabria tutto viene ricondotto alla mafia, nella capitale i problemi sono tanti. Credo che da un lato non bisogna negare, come accaduto a Milano, che ci sia un problema di infiltrazioni mafiose». Pignatone al Salone della Giustizia ha detto: «A Roma c'è un rischio: l'inquinamento del mercato e dell'economia per l'afflusso di capitali mafiosi. Facciamo appello agli imprenditori perché stiano attenti: diventare soci di un mafioso significa prima o poi perdere l'azienda. Nella capitale è diffusa la corruzione ed è altissima l'evasione fiscale. La procura è impegnata a far sì che non appaiono come fenomeni normali. Qualche giorno fa abbiamo sequestrato il libretto degli assegni di un signore, che sulla causale aveva scritto "tangente". Questa è la dimostrazione del rischio di assuefazione, di accettazione. Bisogna reagire a questo stato di cose». Per questo motivo Pignatone non è solo; oltre a validi pm, lavora con un pool di investigatori che il procuratore ha voluto portare nella capitale e con lui hanno condiviso il "modello Reggio Calabria", che con intercettazioni e pedinamenti ha smantellato il volto borghese della 'ndrangheta. Poliziotti, carabinieri e finanzieri abituati a lavorare in squadra, l'unico modo per dare scacco ai re di Roma.

I PADRONI DI ROMA - VIAGGIO NELLE MAFIE DELLA CAPITALE: LA SENTENZA SUL 'MONDO DI MEZZO' HA CONFERMATO L'ESISTENZA DI 'MAFIA CAPITALE'. INSIEME A CAMORRA, 'NDRINE E COSA NOSTRA, SI MUOVONO ANCHE CLAN AUTOCTONI - MA PER GLI SPADA IL VENTO E’ CAMBIATO. E ANCHE PER I CASAMONICA…scrive il 13.09.2018 Agi. A Ostia c'è la mafia. E questo si sapeva già. Ma dall'11 settembre 2018 sappiamo che anche a Roma il cosiddetto Mondo di Mezzo - e cioè quell'organizzazione criminale che vantava come capi e promotori l'ex estremista di destra Massimo Carminati e l'ex ras delle cooperative rosse Salvatore Buzzi e che fino al dicembre del 2014 ha fatto affari con la politica locale e con imprenditori collusi - è da considerare un'associazione di stampo mafioso. Non c'è ancora la motivazione (se ne parla fra 90 giorni), ma intanto la terza corte d'appello di Roma, ribaltando la sentenza di primo grado, ha pienamente recepito la tesi della procura secondo cui quel sodalizio che ruotava attorno alle figure di Carminati e Buzzi oltre a essere mafioso agiva e operava con metodo mafioso.

Dal dicembre di quattro anni fa, l'ufficio di procura guidato da Giuseppe Pignatone e dall'aggiunto Michele Prestipino (come Dda) ha lavorato sodo assieme alle forze di polizia per dimostrare l'esistenza a Roma e sul litorale di una mafia autoctona - da non intendersi, quindi, come quella tradizionale siciliana o calabrese - dalle dimensioni preoccupanti. Caduti ormai in disgrazia i Fasciani e i Triassi che a Ostia hanno fatto per anni il bello e il cattivo tempo infiltrando attività economiche legali e seminando ovunque il terrore, l'attenzione investigativa si e' spostata sul clan degli Spada, abili nell'approfittare di un vuoto di potere determinato dagli arresti a pioggia che hanno messo in ginocchio i vecchi padroni del territorio. Emblematico fu l'agguato (di grande valore strategico perché segnò l'ascesa degli Spada) che costò la vita a Giovanni Galleoni (detto Baficchio) e a Francesco Antonini ('Sorcanera') uccisi a colpi d'arma da fuoco in pieno giorno da killer a volto scoperto, in un bar del litorale romano, il 22 novembre del 2011.

Ma dal 25 gennaio 2018, complice il contributo di alcuni collaboratori di giustizia, anche per gli Spada il vento è radicalmente cambiato: l'operazione Eclissi ha spazzato di netto l'intero clan mandando in carcere una trentina di soggetti, tra capi e semplici affiliati, per una lunga sfilza di reati: omicidio, estorsione, usura, intestazione fittizia di beni ricondotti a un'associazione per delinquere di stampo mafioso "che si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva". Tra i destinatari del provvedimento Carmine Spada, detto "Romoletto", capo indiscusso dell'organizzazione, e il fratello Roberto che ha gia' pagato con una condanna a 6 anni di reclusione l'aggressione a una troupe Rai del programma 'Nemo-Nessuno escluso'. Dal 6 giugno scorso in 27 sono già imputati davanti alla terza corte d'assise di Roma. Nel frattempo, è tornato in fase di appello il processo agli esponenti della famiglia Fasciani: i giudici di secondo grado avevano escluso l'ipotesi mafiosa, considerando il clan un'associazione per delinquere semplice e invece la Cassazione, sposando il ricorso della procura generale, ha disposto l'annullamento del giudizio e ordinato un nuovo dibattimento. Il 17 luglio scorso, invece, magistratura e forze dell'ordine hanno arrestato la scalata mafiosa al potere dei Casamonica, attraverso l'operazione 'Gramigna', con il clan che controllava i quartieri della periferia Sud-Est della capitale (Romanina, Anagnina, Porta Furba e Tuscolano) con sconfinamenti sempre più frequenti alla Borghesiana e in località dei Castelli Romani, Ciampino, Albano, Marino e Bracciano. I Casamonica - sta emergendo dalle indagini non ancora concluse - hanno solidi interessi in settori commerciali ed economici (edilizia, immobiliare, gestione di ristorazione e stabilimenti balneari, investimento di capitale in società) ma risultano anche coinvolti nel traffico di stupefacenti, nell'estorsione e nell'usura, con tassi di interesse fino al 300% e metodi di riscossione basati sull'intimidazione e la violenza. Ruoli di rilievo, ed è un inedito a certi livelli, sono stati svolti anche dalle donne, in particolare nella gestione delle piazze di spaccio.

Amanti del lusso e dello sfarzo, i Casamonica l'avevano combinata grossa il 19 agosto del 2015 con il funerale in pompa magna (una carrozza d'epoca trainata da sei cavalli, 200 auto a fare da corteo funebre, le note del 'Padrino' come colonna sonora a cura di una corposa banda musicale e poi petali di rosa lanciati da un elicottero) in onore del capostipite Vittorio, celebrato nella chiesa di Don Bosco al Tuscolano. Spenti i riflettori, dei Casamonica si è tornato a parlare per il pestaggio (dello scorso primo aprile) subito dal titolare romeno di un locale della Romanina, il "Roxy Bar", e da una cliente invalida civile. Una vicenda che ha portato all'arresto, per lesioni, minacce e danneggiamento con l'aggravante del metodo mafioso, di Antonio Casamonica e poi di Alfredo, Vincenzo ed Enrico Di Silvio: il raid, originato da banali questioni di precedenza nell'essere serviti al bancone, era in realtà solo un modo per ribadire il controllo territoriale del clan sulla zona. "Non ti scordare che questa è zona nostra", gridavano tra uno schiaffo e l'altro, "qui comandiamo noi". 

Clan dei Casamonica. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Origine. Il clan dei Casamonica prende origine dalle famiglie Casamonica e Di Silvio, famiglie di sinti stanziali originarie dell'Abruzzo e del Molise, giunte da Pescara e da Venafro nella capitale negli anni settanta.

Il gruppo è quindi costituito dai membri di queste famiglie, con occasionali imparentamenti con altre famiglie sinti come i Barovero (Piemonte), i Cena (Torino), i De Rosa, i Di Guglielmo, i Di Rocco, i Ciarelli, i Di Lauro, i Laudicino, gli Zini, gli Spada e gli Spinelli; inoltre si affidano ai Seferovic di origine bosniaca.

Zone di attività. I capisaldi tradizionali del clan mafioso sono le zone poste nella periferia sud-est della capitale: Romanina, Anagnina, Porta Furba, Tuscolano, Spinaceto e più giù, verso sud, in altri comuni fino ad arrivare a Frascati e Monte Compatri. Secondo la Direzione Investigativa Antimafia è la struttura criminale più potente e radicata del Lazio, con un patrimonio stimato di 90 milioni di euro. Secondo un censimento di Vittorio Rizzi, capo della squadra mobile di Roma, il clan è composto da un migliaio di affiliati.

Le attività. Campi di interesse. Il clan è presente in molti settori commerciali ed economici, come edilizia e immobiliare, gestione di ristorazioni e stabilimenti balneari, investimento di capitale in società. Le attività illegali in cui è coinvolto il clan sono l'usura con interessi dal 200% al 300%, traffico di stupefacenti nei paesi comunitari di Germania, Spagna, Paesi Bassi e Italia, influenza su elezioni comunali nel Lazio e sul sistema politico a livello regionale, gestione di eventi festivi e no nel litorale capitolino.[9] Si hanno notizie di collaborazione del clan dei Casamonica con l'ex cassiere della banda della Magliana, Enrico Nicoletti, il quale avrebbe venduto al clan i debitori insolventi al fine di riscuotere i crediti. Pur agli arresti domiciliari, Antonio Casamonica continuava l'attività usuraia, per la quale viene arrestato e incarcerato nel 2016. Antonio Casamonica è il figlio del capostipite del clan Vittorio Casamonica, i cui funerali suscitarono particolari polemiche e imbarazzo istituzionale per l'eccesso di sfarzo e pomposità, con uso di gigantografie, carri trainati da cavalli, musiche eseguite da una banda musicale tratte dal film "il Padrino", Rolls-Royce e perfino di un elicottero che, pur non autorizzato al volo a causa dal blocco aereo della città di Roma, lanciava petali di fiori sul corteo funebre. Il 25 marzo 2010 viene scoperto un sodalizio tra Pietro D'Ardes, Rocco Casamonica e affiliati alla 'Ndrangheta dei Piromalli-Molè e Alvaro per il riciclaggio dei proventi illeciti e costituzione di società (15 sequestrate) per la partecipazione ad appalti pubblici.

Le collusioni con la politica. Alla vigilia delle elezioni comunali di Roma del maggio/giugno 2013, viene pubblicata su alcuni giornali nazionali e regionali una foto che riprende il candidato e sindaco uscente Gianni Alemanno con Luciano Casamonica, cugino, pur incensurato, omonimo del boss del clan, che avrebbe comunque svolto un ruolo di "rappresentanza" e di "facilitazione" nei confronti della famiglia e del clan, che si era offerto per effettuare la "sorveglianza e sicurezza" dei vari centri di accoglienza per migranti, in realtà con metodi di "pax mafiosa". Alla cena era presente anche il futuro ministro Giuliano Poletti, risultato comunque del tutto estraneo alle indagini e agli interessi del clan. Le foto furono scattate nel settembre 2010 durante una cena nel centro di accoglienza Baobab, cena organizzata da Salvatore Buzzi che, dietro la parvenza di un impegno nel reinserimento sociale di detenuti, migranti e altre persone svantaggiate, svolgeva in realtà attività con intenti criminali e illeciti sotto la copertura dalla sua organizzazione, la "cooperativa 29 giugno", e finirà fra i principali imputati dell'inchiesta della magistratura chiamata "Mafia capitale" che si occupa del malaffare e dello sfruttamento dell'integrazione di ex detenuti ed immigrati e altri reati riguardanti la malagestione di appalti e servizi pubblici, per cui i principali imputati, lo stesso Buzzi e Massimo Carminati sono stati condannati nel 2017 a 19 e 20 anni di reclusione, e di cui sono stati accertati i legami criminali con il clan dei Casamonica, oltre a numerose altre condanne per altri esponenti partecipanti alla cena in questione. Alemanno smentì la frequentazione[17] ma pur archiviata l'accusa principale di associazione mafiosa, risulta ancora al 2018 indagato per corruzione e finanziamento illecito.

Gli arresti. Nel 2004, nel corso di un'operazione coordinata dalla DIA e dalla Procura Distrettuale Antimafia sono stati arrestati diversi membri Casamonica e Di Silvio, con la scoperta dell'immissione del clan nel traffico internazionale di droga e riciclaggio di denaro ricavato dallo strozzinaggio. Il capitale ricavato dai traffici illeciti veniva investito nell'edilizia per costruire ville e in società romane, mentre la restante parte del denaro era custodita in alcune banche nel Principato di Monaco, per un totale di diversi milioni di euro. A gennaio del 2012, a seguito di una maxi operazione di polizia e carabinieri a Roma contro lo spaccio di sostanze stupefacenti, sono stati arrestati 39 esponenti del clan e sequestrati beni per milioni di euro. In questa occasione, per la prima volta nella loro storia criminale, è stata formalizzata l'imputazione di associazione per delinquere nei confronti di alcuni esponenti della banda. A causa di un pestaggio avvenuto il 1º aprile 2018 ai danni di una avventrice disabile e del proprietario di un bar nel quartiere Romanina, che aveva il chiaro intento di ribadire il controllo territoriale del clan sulla zona, segnalato da un reportage video del quotidiano la Repubblica pur con oltre un mese di ritardo nel maggio 2018, sono stati arrestati per lesioni, minacce e danneggiamento con l'aggravante del metodo mafioso Antonio Casamonica, Alfredo, Vincenzo ed Enrico Di Silvio, responsabili degli atti di violenza ed intimidazione, riportando l'attenzione sull'infiltrazione del metodo mafioso nel territorio della capitale italiana già segnalatasi per altri simili recenti episodi di violenza privata ed intimidazione del clan Spada, contiguo a quello dei Casamonica. Il 20 novembre 2018 il Comune di Roma fa sgomberare 8 famiglie del clan da altrettante ville abusivamente costruite, con l'intento di abbatterle nei giorni successivi. L'abbattimento inizia di fatto il giorno immediatamente successivo, il 21 novembre 2018. Anche il 26 novembre nel quartiere Romanina, viene fatta sloggiare una villetta, e in occasione della demolizione, il Ministro dell'interno Salvini sale sulla ruspa per effettuare la prima manovra.

Esponenti.

Guerino Casamonica (38 anni) sconta una condanna di 11 anni per sequestro di persona dopo una latitanza di alcuni mesi.

Enrico Casamonica, nato a Roma il 26 maggio 1977, accusato di spaccio di droga, estorsione, appropriazione indebita e usura, arrestato per estorsione ed usura il 20 marzo 2015.

Giuseppe Casamonica (circa 40 anni), ospite di un centro di recupero sconta una condanna per traffico di cocaina, spaccio, detenzione di sostanze stupefacenti e associazione a delinquere.

Pasquale Casamonica (detto Rocky), cura l'usura per conto del fratello di Giuseppe.

Ferruccio Casamonica (67 anni), indagato con Guerino per estorsione e rapina aggravate dall'utilizzo del metodo mafioso, sequestro di persona.

Guerino Casamonica (72 anni), indagato con Ferruccio per estorsione e rapina aggravate dall'utilizzo del metodo mafioso.

Rosaria Casamonica (circa 40 anni), spaccio, detenzione di sostanze stupefacenti e associazione a delinquere.

Cesare De Rosa (circa 40 anni), spaccio, detenzione di sostanze stupefacenti e associazione a delinquere.

Maria Grazia De Rosa (circa 40 anni), spaccio, detenzione di sostanze stupefacenti e associazione a delinquere.

Rosina De Rosa (circa 40 anni), spaccio, detenzione di sostanze stupefacenti e associazione a delinquere.

Consilio Casamonica, nato a Roma il 1º aprile 1957, detto "Tony Il Meraviglioso", arrestato per estorsione ed usura il 20 marzo 2015.

Antonio Casamonica, nato a Roma il 10 novembre 1974, arrestato per estorsione ed usura il 20 marzo 2015.

Pietro Cristin, nato a Roma il 23 luglio 1952, arrestato per estorsione ed usura il 20 marzo 2015.

Giuseppe Grancagnolo[32], nato a Catania il 27 settembre 1982, arrestato per estorsione ed usura il 20 marzo 2015.

Antonio Garofoli, nato a Roma il 10 giugno 1947, arrestato per estorsione ed usura il 20 marzo 2015.

Stefan Ionescu, nato in Romania il 3 agosto 1978, arrestato per estorsione ed usura il 20 marzo 2015.

Luana Caracciolo, accusata di rapina e sequestro di persona.

Diego Casamonica, nato a Frascati (RM) l'11 ottobre 1979, accusato di rapina e sequestro di persona, arrestato per estorsione ed usura il 20 marzo 2015.

Abramo Di Guglielmi, detto Marcello Casamonica, ripetutamente sottoposto a procedimenti penali per reati contro il patrimonio e in materia di sostanze stupefacenti.

Guido Casamonica (69 anni), estorsione e truffa.

Troppo rumore e tante polemiche strumentali per un morto definito boss mafioso. Se fosse davvero un boss mafioso perchè non era trattato come Totò Riina e gli altri? Se non fosse per tv e giornali di regime nessuno avrebbe cagato un evento cafonal. Loro lo hanno fatto diventare un evento. Parlare di finta mafia, per non parlare d’altro, solita tolfa.

Istituto Luce: 1962, carrozza e cavalli per i funerali di Lucky Luciano. Nelle immagini della Settimana Incom del febbraio 1962 i funerali fastosi di Lucky Luciano nella chiesa della Trinità a Napoli. Il carro funebre che attraversa il quartiere fino al cimitero degli inglesi è trainato da otto cavalli neri.

Roma, 20 agosto 2015: funerale trionfale, con carrozza ed elicottero, per Vittorio Casamonica, scrive “La Repubblica”. Una carrozza antica trainata da cavalli e la musica del "Padrino" ad accompagnare il feretro: così sono iniziati i funerali di Vittorio Casamonica, 65enne, esponente di punta dell'omonimo clan romano, che si sono svolti nella chiesa di Don Bosco, nel quartiere Tuscolano a Roma. All'esterno della chiesa, è stato appeso un manifesto con la scritta "Re di Roma", insieme a un fotomontaggio raffigurante il Colosseo accanto alla Basilica di San Pietro e l'immagine dell'uomo vestito di bianco con un crocifisso. Su un altro manifesto, invece, c'era scritto: "Hai conquistato Roma, ora conquisterai il paradiso". Un funerale all'insegna dello sfarzo, con tanto di elicottero che lanciava petali rossi sui presenti. Dopo la funzione, la bara è stata trasportata da una Rolls-Royce, mentre la banda musicale ha suonato la colonna sonora di un altro celebre film, "2001 Odissea nello Spazio".

Ecco di seguito lo sbizzarrirsi di varie versioni riportate dai pseudo giornalisti nostrani a furor di polemica politica.

Ecco come muore un Casamonica. Funerale all’insegna del kitsch nella chiesa romana di Don Bosco Fiori dall’elicottero sulla folla, Rolls e carrozza nera per il feretro, scrive Matteo Vincenzoni su “Il Tempo”. Scendevano petali di rose dal cielo mentre il feretro raggiungeva in carrozza la chiesa di Don Bosco trainato da tre coppie di cavalli neri. La banda suonava la colonna sonora del film cult Il Padrino e le note salivano in alto coprendo il rumore delle pale dell’elicottero che spargeva fiori sulla folla. In centinaia seguivano in lacrime il feretro, a passo d’uomo nelle fuoriserie dai vetri oscurati. Sulla facciata della chiesa due poster attendevano la salma. Vittorio, raffigurato in abito bianco, col faccione che abbraccia in un sorriso il Colosseo e in basso la scritta «Re di Roma». Accanto un’altra gigantografia di Vittorio, con una croce di metallo appesa al collo. Il suo volto spunta oltre le sponde del fiume Tevere con l’immancabile Basilica di San Pietro alle spalle, un inno al potere terreno che, secondo la sua gente, gli avrebbe spalancato le porte dell’aldilà. Recita, il poster: «Hai conquistato Roma, ora conquisterai il paradiso». Poi, alla fine della cerimonia, il feretro è passato dai sei cavalli morelli e dalla frusta del cocchiere in livrea, alle centinaia di cavalli vapore di una Rolls guidata da un autista in abito scuro. Così, nella Capitale, muore un Casamonica. I romani rimasti nel quartiere Don Bosco, sulla Tuscolana, credevano di trovarsi su un set cinematografico. Il clan, ieri mattina, ha spiazzato tutti: comune, questura, prefettura. Colpa di "cotanto" kitsch? Roba da rimanere a bocca aperta e non saper che pesci pigliare. I vigili del VII Gruppo Tuscolano, in servizio nella zona, hanno rivelato a Il Tempo che «il corteo funebre è spuntato dal nulla e non rimaneva che fermare il traffico (poco, visto che siamo in agosto e la città è semivuota)». Per alcuni residenti quell’elicottero spargifiori «sfiorava i tetti, volava davvero troppo basso», ma nessuno se ne è preoccupato. La questura, in serata, ha rassicurato: «Per quanto concerne il sorvolo e il lancio di petali nell’area, sono in atto accertamenti con l’ENAC (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile). Allo stato risulta noleggiato un velivolo commerciale di una società privata che, per ordinarie modalità di sorvolo in un’area non interessata a restrizioni di sicurezza, non necessita di autorizzazioni». Il prefetto Gabrielli, che nel tardo pomeriggio ha ricevuto la telefonata del sindaco Marino, in vacanza, ha spiegato: «La prefettura non era informata». Pare lo sapesse solo don Manieri, parroco da tre anni nella chiesa che nel 2006 fu negata dal vicariato ai familiari di Welby, il malato di distrofia muscolare che sconvolse l’Italia con la decisione di staccare la spina alla sua vita. Quello stesso tempio oggi torna a far parlare di sé mostrando sulla sua facciata le gigantografie di Vittorio Casamonica. Ma don Manieri non ne era al corrente: «Quei poster non me li aspettavo di certo».

Per il boss Casamonica ​funerale stile "Padrino". Funerale di Casamonica tra carrozze, cavalli e Rolls-Royce. La politica attacca Alfano: "È apologia della malavita", scrive Luca Romano su “Il Giornale”. Una scena che si sarebbe potuta vedere a Corleone, il paese de "Il Padrino", ma che si è svolta a Roma. Sei cavalli con pennacchio che trainano una antica carrozza funebre, una banda che intona prima le note composte da Nino Rota per il film "Il Padrino", poi la colonna sonora di "2001 odissea nello spazio" e la canzone Paradise, altra colonna sonora, ma, questa volta, del film "Laguna Blu". Sono queste le sinfonie che hanno accompagnato l’uscita della bara del boss Vittorio Casamonica dalla Chiesa di San Giovanni Bosco, a Roma. Il 65enne, appartenente all’omonimo clan criminale, composto da nomadi che dagli anni '70 si stabilirono a Roma, grazie anche alla collaborazione con la Banda della Magliana, ed occuparono le zone sud-est della Capitale, per poi estendersi a Castelli Romani e sul litorale con i loro traffici di droga, estorsioni, usura e racket. Ma dal 2004 è emerso con una indagine della Dia che il clan dei Casamonica, nel tempo si è evoluto, affinando le capacità di gestire denaro e di farlo circolare dall’Italia all’estero e viceversa con metodi di alta finanza ed accumulando un patrimonio di oltre 200 milioni di euro. Ma mantenendo quel timbro matriarcale che da sempre distingue il clan, infatti, il riciclaggio dei capitali e il loro trasferimento dall’Italia al Principato di Monaco e viceversa, era quasi interamente gestito dalle donne della famiglia. Recentemente il clan dei Casamonica è tornato con forza sulle cronache dei giornali per via di una foto uscita fuori durante le polemiche legata all’inchiesta Mafia Capitale. Il funerale stamani è cominciato con una colonna di auto collocate ai lati, con corone di fiori, soprattutto rose. Una carrozza nera antica, con pesanti intarsi dorati, trainata da sei cavalli neri ha trasferito la bara, con sopra una immagine di padre Pio, davanti alla chiesa. Sulla facciata della parrocchia di San Giovanni Bosco ad attendere il defunto un grande striscione: "Hai conquistato Roma ora conquisterai il paradiso" ed accanto due manifesti con su scritto "Vittorio Casamonica re di Roma" che il suo ritratto a mezzo busto ed una corona in testa, il Colosseo e il cupolone sullo sfondo. Una folla di persone ha voluto portargli l’ultimo saluto. "Era una brava persona, corretto" hanno commentato alcuni conoscenti al termine della messa. Commozione all’uscita del feretro che è stato salutato da una "pioggia" di petali lanciati da un elicottero. Dopo la funzione, la bara è stata trasportata in una Rolls-Royce sempre con sottofondo musicale, tra le lacrime delle molte donne, tante vestite a lutto. Davanti a queste folli immagini, Sel ha deciso di attaccare Angelino Alfano: "Scene che sembrano prese da un film ma che accadono oggi nella realtà viva della Capitale del nostro paese. Non può essere consentito a nessuno l’apologia della malavita. Chiediamo che vengano prese le distanze da parte delle autorità religiose e pensiamo che le autorità civili debbano dare qualche risposta su quanto accaduto, a partire dalla questura. Quei funerali possono apparire un fenomeno di folclore, ma in realtà sono un messaggio chiaro di impunità da parte dei clan: esistiamo ancora e siamo potenti. Inaccettabile in uno stato democratico". Anche Matteo Orfini, rappresentante di punta del Pd capitolino, condanna l'iniziativa: "Mai più. Roma non può essere sfregiata da chi la vorrebbe far diventare un set del Padrino". Il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, ha così commentato questa triste vicenda: "La Prefettura non aveva alcuna contezza. Ne chiederemo conto, per cercare di capire, al di là dei clamori, eventuali responsabilità". Mentre una fonte del Vicariato ha affermato: "È vero che il dopo-cerimonia all’esterno della chiesa ha avuto ben altro svolgimento, di cui il parroco non era al corrente e che non è comunque riuscito a impedire. Ma probabilmente, queste sono state appese quando il parroco era all’interno della chiesa, a celebrare i funerali; non poteva accorgersi di quanto accadeva fuori, sul sagrato e in piazza: non abbiamo le guardie svizzere all’esterno delle chiese". Marino tace. In compenso parla il vicesindaco di Roma, Marco Causi, che afferma: "È intollerabile: si tratta di un’offesa portata a tutti i cittadini di Roma. Quanto accaduto è la dimostrazione più lampante che nella Capitale la mafia esiste".

È bufera sul funerale-show celebrato nel cuore di Roma in onore di Vittorio Casamonica capo del clan omonimo, scrive “Panorama”. Con il mondo politico allarmato dai "segnali mafiosi", interpretati come una "sfida allo Stato". "Roma sfregiata, fatto inquietante", hanno attaccato dal Pd mentre Sel ha investito del caso il Parlamento chiedendo al ministro Alfano spiegazioni sull'aspetto legale della vicenda, chi è stato il regista dell'operazione, chi ha concesso le autorizzazioni. Preoccupato anche il sindaco Marino che ha chiamato il Prefetto perché siano condotti accertamenti con estremo rigore. Si è anche attivato il ministro dell'Interno Angelino Alfano che ha chiesto a Franco Gabrielli una "relazione dettagliata" sulla vicenda. "Roma trasformata in un set del padrino eè uno sfregio", ha attaccato il commissario del Pd romano Matteo Orfini". Quanto accaduto "è una offesa a Roma e dimostra che la mafia a Roma esiste", ha affermato il vicesindaco Marco Causi. Considerazioni condivise da Rosy Bindi presidente della commissione Antimafia, allarmata dal "clima di consenso che ha accompagnato una simile messinscena". Su una carrozza antica con intarsi dorati, trainata da sei cavalli neri, è giunto ier alla chiesa di San Giovanni Bosco, nel popolare quartiere Tuscolano di Roma, il feretro di Vittorio Casamonica, 65 anni, uno dei maggiorenti dell'omonimo clan, ritenuto responsabile di attività illecite come usura, racket e traffico di stupefacenti nell'area sud est della capitale.

All'esterno della chiesa, ad accogliere la bara su cui campeggiava un'immagine di padre Pio, c'era un'orchestra che ha eseguito le note composte da Nino Rota per il film Il padrino, la celebre pellicola di Francis Ford Coppola. A seguire, musiche da 2001 Odissea nello spazio e Paradise, dalla colonna sonora di Laguna Blu, hanno accompagnano l'uscita del feretro, con lancio di petali di rose da un elicottero. "Hai conquistato Roma, ora conquista il paradiso" e "Vittorio Casamonica re di Roma" recitavano alcuni manifesti apparsi davanti la parrocchia che lo ritraevano a mezzo busto con una corona in testa, il Colosseo e il cupolone sullo sfondo. Una folla di persone ha voluto portargli l'ultimo saluto, tra loro molte donne in lacrime e vestite a lutto. "Era una brava persona, corretto" hanno commentato alcuni conoscenti al termine della messa. Dopo la funzione, la bara è stata trasportata in una Rolls-Royce sempre con sottofondo musicale. 

"Imbarazzo" per le "scene hollywoodiane" è il commento del Vicariato. "Tuttavia il parroco ha valutato in base alle norme del diritto canonico - dicono all'ANSA fonti del Laterano - e non poteva rifiutare" la celebrazione. Il rito religioso nella chiesa dove si sono svolti i funerali di Casamonica "è stato normale, tutto si è svolto come concordato con il parroco; quello che è avvenuto all'esterno è stato fatto senza autorizzazione, anche se non era il parroco ad avere la competenza... Il parroco non era al corrente di cosa stava accadendo", neanche dell'affissione delle gigantografie del boss, "tutto è avvenuto mentre stava celebrando la funzione religiosa". Anche perché la Chiesa di Don Bosco è la stessa che avevano scelto per la sua cerimonia funebre i parenti di Pergiorgio Welby, militante del Partito Radicale, copresidente dell'Associazione Luca Coscioni, impegnato per il riconoscimento legale del diritto al rifiuto dell'accanimento terapeutico e per il diritto all'eutanasia. Welby era deceduto grazie all'aiuto di sanitari che diedero seguito alla sua volontà di porre fine alla sua lunga agonia. Per i funerali la moglie cattolica di Welby aveva scelto che la cerimonia religiosa venisse celebrata nella chiesa Don Bosco ma il Vicariato di Roma si oppose. A prendere la decisione fu il vicario generale per la diocesi di Roma, cardinal Camillo Ruini. Il funerale laico di Piergiorgio Welby venne quindi celebrato il 24 dicembre 2006, in piazza Don Bosco, di fronte alla chiesa. E in quella stessa parrocchia nel 1990 è stato celebrato il rito funebre del boss della Magliana Renato De Pedis. "Presenteremo un'interrogazione parlamentare al ministro dell'Interno Angelino Alfano" hanno invece dichiarato in una nota il capogruppo alla Camera di Sinistra Ecologia Libertà, Arturo Scotto, e la deputata Celeste Costantino. "Una vicenda incredibile, scene che sembrano prese da un film ma che accadono oggi nella realtà viva della Capitale del nostro Paese. Non può essere consentita a nessuno l'apologia della malavita. Chiediamo - continuano i due deputati - che vengano prese le distanze da parte delle autorità religiose e pensiamo che le autorità civili debbano dare qualche risposta su quanto accaduto, a partire dalla questura. Quei funerali possono apparire un fenomeno di folclore, ma in realtà sono un messaggio chiaro di impunità da parte dei clan: esistiamo ancora e siamo potenti. Inaccettabile - concludono Scotto e la Costantino - in uno stato democratico". "Le scene viste fuori dalla chiesa non possono lasciarci indifferenti" ha scritto in una nota don Luigi Ciotti, presidente nazionale Libera. "Non è qui ovviamente in discussione il diritto di una famiglia di celebrare i funerali di un suo membro e la partecipazione di amici e conoscenti - prosegue - grave è l'evidente strumentalizzazione di un rito religioso per rafforzare prestigio e posizioni di potere. Sappiamo che le mafie non hanno mai mancato di ostentare una religiosità di facciata, "foglia di fico" delle loro imprese criminali. Una volta di più, e a maggior ragione dopo la scomunica di Papa Francesco dei mafiosi e dei loro complici - conclude don Ciotti - è compito della Chiesa denunciarla e ribadire che non può esserci compatibilità fra la violenza mafiosa e il Vangelo". Per il prefetto di Roma, Franco Gabrielli,"è un episodio che non va sottovalutato, ma neanche amplificato. Resta il fatto che saranno compiuti degli accertamenti. In base all'esito sarà presa una decisione", ha aggiunto spiegando che la prefettura non aveva avuto "notizia di una iniziativa tale". Composto da nomadi che dagli anni '70 si stabilirono a Roma, anche grazie alla collaborazione con la Banda della Magliana, il clan dei Casamonica occupò le zone sud-est della Capitale, per poi estendere i suoi traffici ai Castelli Romani e al litorale. Da un'indagine della Dia emerse nel 2004 che nel tempo il clan si era evoluto, affinando le capacità di gestire denaro e di farlo circolare, dall'Italia all'estero e viceversa, con metodi di alta finanza, fino ad accumulare un patrimonio di oltre 200 milioni di euro. Mantenendo quel timbro matriarcale che da sempre distingue il clan, il riciclaggio dei capitali era quasi interamente gestito dalle donne della famiglia. Recentemente i Casamonica sono tornati con forza alla ribalta delle cronache per via di una foto emersa durante le polemiche legata all'inchiesta "Mafia Capitale". L'istantanea, scattata nel 2010 nel centro di accoglienza Baobab, durante una cena organizzata da alcune cooperative sociali, riprendeva Luciano Casamonica, incensurato ma ritenuto uno dei boss del clan, insieme all'allora sindaco di Roma, Gianni Alemanno, all'ex capogruppo del PD capitolino, Umberto Marroni, al di lui padre, Angiolo, garante dei detenuti della Regione Lazio, a Daniele Ozzimo, consigliere capitolino del PD, a Giuliano Poletti, poi diventato Ministro del Governo Renzi, e a Salvatore Buzzi, il boss delle Cooperative, oggi in carcere.

I funerali del boss Casamonica: carrozze, banda e Rolls Royce. Le esequie del 65enne Vittorio alla chiesa di Don Bosco con le musiche de «Il padrino». Marino: intollerabile, mandati messaggi mafiosi. Alfano chiede una relazione al prefetto, scrive “Il Corriere della Sera”. Una carrozza antica decorata da fregi ornamentali e trainata da cavalli, come colonna sonora la musica del film «Il Padrino», petali lanciati da un elicottero: così la famiglia ha scelto di celebrare il funerale di Vittorio Casamonica, 65 anni, uno dei capi dell’omonimo clan specializzato nel racket e nell’usura nella periferia sud-est di Roma. Le esequie che giovedì si sono svolte nella chiesa di Don Bosco di Roma nel quartiere Tuscolano. All’esterno della chiesa sono stati appesi dei manifesti: su un cartello la scritta «Re di Roma» insieme a un fotomontaggio raffigurante il Colosseo accanto alla basilica di San Pietro e l’immagine del capo clan vestito di bianco con un crocifisso. Su un altro manifesto era scritto: «Hai conquistato Roma ora conquisterai il paradiso». Quando il feretro è passato tra le strade del Tuscolano, da un elicottero sono stati lanciati migliaia di petali rossi. Alla fine della celebrazione la bara è stata caricata su una Rolls-Royce, mentre la banda musicale ha suonato la colonna sonora di un altro celebre film: «2001 Odissea nello spazio». Il corteo funebre ha quindi accompagnato il feretro fino al cimitero Verano. Sdegno da tutto il mondo politico. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha chiesto una relazione in merito al prefetto Franco Gabrielli. Il sindaco Ignazio Marino, in vacanza negli Usa, ha twittato: «È intollerabile che i funerali siano strumenti dei vivi per inviare messaggi mafiosi», aggiungendo di aver «chiamato il prefetto perché siano accertati i fatti». «Rituali volti a manifestare pubblicamente l’arroganza del sodalizio per rafforzare quel clima di intimidazione e omertà che consente di mantenere il controllo del territorio»: è il commento al funerale del boss di Alfonso Sabella, assessore alla Legalità nonché ex magistrato antimafia. «La Rolls Royce - spiega Sabella - è la vettura solitamente utilizzata per tutti i matrimoni dei boss di Cosa nostra, i funerali dei capi mafia degli anni ‘60 e ‘70 vedevano sempre presenti cavalli bardati di ottone che trainavano il carro funebre e anche Leoluca Bagarella aveva scelto quale sottofondo musicale per il video delle sue nozze la musica de “Il Padrino”». Per l’elicottero, assicura l’assessore, si verificheranno le autorizzazioni. «Di questa vicenda la prefettura non aveva alcuna contezza. Ne chiederemo conto, per cercare di capire, al di là dei clamori, eventuali responsabilità». Ad affermarlo è Gabrielli. È intervenuta anche Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia: «È allarmante che il funerale di un esponente del clan Casamonica, coinvolto in numerose inchieste sulla criminalità romana e su Mafia Capitale, si sia trasformato in una ostentazione di potere mafioso. Quanto avvenuto oggi a Roma non è francamente accettabile. Sarà necessario accertare se tutto questo sia accaduto con o senza le dovute autorizzazioni. Preoccupa in ogni caso il clima di consenso che ha accompagnato una simile messa in scena, che dovrebbe fugare ogni dubbio sull’esistenza della mafia nella Capitale e raddoppiare l’impegno delle istituzioni a contrastarne la forza e la capacità di inquinare ampi settori della società e della pubblica amministrazione». E anche la questura, con una nota, precisa che «nessuna notizia relativa allo svolgimento del funerale era stata comunicata. Il defunto, morto nelle prime ore del 19 agosto, dopo una malattia di circa un anno, risulta ai margini degli ambienti criminali, come confermato dalle recenti attività investigative nel corso delle quali lo stesso non è mai emerso» Per quanto riguarda l’elicottero e i petali di rosa, prosegue la polizia, «sono in atto accertamenti con l’Enac. Allo stato, tuttavia, risulta noleggiato un velivolo commerciale di una società privata che, per ordinarie modalità di sorvolo in un area non interessata a restrizioni di sicurezza, non necessita di autorizzazioni». Quella di Don Bosco è la stessa parrocchia che nel 2006 negò le esequie a Piergiorgio Welby: il copresidente dell’associazione Luca Coscioni, malato terminale, era tenuto in vita solo grazie a una macchina, che volle far staccare rifiutando l’accanimento terapeutico. All’epoca il suo funerale fu celebrato sul piazzale davanti alla chiesa, perché l’allora vicario generale della diocesi di Roma, il cardinale Camillo Ruini, non diede l’autorizzazione. La differenza, spiegano ora dal Vicariato, è che Welby aveva espresso più volte, pubblicamente, il desiderio di andare contro la legge della Chiesa togliendosi la vita, mentre Casamonica, oltre a non essersi suicidato, potrebbe essersi pentito anche all’ultimo momento. «Il rito religioso - aggiungono - è stato normale, tutto si è svolto come concordato con il parroco. Quello che è avvenuto all’esterno è stato fatto senza autorizzazione, anche se non era il parroco ad avere la competenza». Secondo il Vicariato don Giancarlo Manieri «non era al corrente di cosa stava accadendo», neanche dell’affissione delle gigantografie del boss: «Tutto è avvenuto mentre stava celebrando la funzione religiosa». Dal Vicariato tuttavia trapela «imbarazzo» per le «scene hollywoodiane» delle esequie, anche comunque non potevano «esser negate». «All’interno della chiesa è stato tutto molto tranquillo, sembravano cattolici di antica data. Ho parlato della speranza cristiana. I manifesti li ho intravisti alla fine e poco dopo, quando il feretro ha lasciato il piazzale, li hanno staccati. Io sono un parroco, quello che succede all’esterno non è di mia competenza». Questa la difesa di don Manieri. «In ogni caso questo è l’anno della Misericordia come avrei fatto a cacciare via la gente? - aggiunge - Se qualcuno mi chiede un funerale per un defunto io lo celebro a meno che non ho indicazioni dall’alto come avvenuto per Welby, quando il cardinale Ruini disse: “No, mi assumo la responsabilità”, cosa che in questo caso non c’è stata». Il parroco spiega ancora: «Sapevo che si trattava di un componente della famiglia Casamonica ma non che fosse un capo del clan. Me ne avevano parlato inoltre come di un cattolico praticante». «Mai più. Roma non può essere sfregiata da chi la vorrebbe far diventare un set del Padrino». Lo scrive su twitter il presidente del Pd, e commissario del partito romano, Matteo Orfini, che poi ha ingaggiato un agguerrito botta e risposta via Twitter con il governatore Roberto Maroni. «Eh sì, con il Pd al governo Roma è proprio Mafia Capitale», ha twittato il leghista: «La mafia a Roma ha dilagato quando c’era il tuo amico Alemanno e tu governavi. Abbi la decenza di tacere» la replica di Orfini. «È intollerabile: si tratta di un’offesa portata a tutti i cittadini di Roma». Questo invece il commento del vicesindaco Marco Causi: «Quanto accaduto è la dimostrazione più lampante che nella Capitale la mafia esiste». Sel ha annunciato che presenterà un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno e i deputati Arturo Scotto e Celeste Costantino hanno chiesto alla Chiesa una presa di distanza. «Non può essere consentito a nessuno l’apologia della malavita. Chiediamo che vengano prese le distanze da parte delle autorità religiose e pensiamo che le autorità civili debbano dare qualche risposta su quanto accaduto, a partire dalla questura. Quei funerali sono un messaggio chiaro di impunità da parte dei clan: esistiamo ancora e siamo potenti. Inaccettabile in uno stato democratico» commentano i due parlamentari. «Chiedo come sia stato possibile che nel centro di Roma un elicottero abbia potuto volare così basso e che un funerale così sfarzoso sia stato celebrato in una chiesa», interviene il co-portavoce dei Verdi Angelo Bonelli. Infine, Mina Welby: uno schiaffo al «sindaco e anche alla Chiesa: chissà che ne pensa il Papa. Questi funerali non dovevano essere fatti, ma ora lasciamo passare la misericordia».

Bindi su funerali Casamonica: "Dimostrano che mafia c'è". Orfini: Roma sfregiata. Diventa un caso politico la cerimonia con carrozza e Rolls Royce. Marino: "Intollerabile, ho chiamato il prefetto". Interviene anche don Ciotti (Libera): "Grave strumentalizzazione rito". Da fonti vicariato "imbarazzo" per le scene hollywoodiane. E Mina Welby: "Mai digerito quel no di Ruini a mio marito". Alfano chiede al prefetto Gabrielli relazione sulla vicenda, scrive “La Repubblica”. Quel tiro a sei cavalli accompagnato dalle note de Il Padrino altro non è che "ostentazione di potere mafioso". Quei petali di rose lanciati da un elicottero rappresentano "un'offesa intollerabile" a tutti i cittadini. L'intera "messa in scena" è "uno sfregio per Roma". Diventano un caso politico le esequie di Vittorio Casamonica, 65 anni, uno dei maggiorenti del clan omonimo specializzato nel racket e nell'usura nella periferia sudest di Roma. Un clan che compare in 30 anni di storia della città - dalla banda della Magliana a Mafia Capitale - e su cui oggi esplode la polemica. Nel mirino, il funerale con tanto di carrozza, corteo di auto aperto da una Rolls-Royce per trasportare il feretro, banda musicale e gigantografia con la scritta Re di Roma sulla facciata della chiesa di San Giovanni Bosco, al Tuscolano, dove si è svolta la cerimonia funebre. Una cerimonia iper sfarzosa che induce Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia a dire: "È allarmante che il funerale di un esponente del clan Casamonica, coinvolto in numerose inchieste sulla criminalità romana e su Mafia Capitale, si sia trasformato in una ostentazione di potere mafioso. Quanto avvenuto oggi a Roma non è francamente accettabile. Sarà necessario - aggiunge - accertare se tutto questo sia accaduto con o senza le dovute autorizzazioni. Preoccupa in ogni caso il clima di consenso che ha accompagnato una simile messa in scena, che dovrebbe fugare ogni dubbio sull'esistenza della mafia nella Capitale e raddoppiare l'impegno delle istituzioni a contrastarne la forza e la capacità di inquinare ampi settori della società e della pubblica amministrazione". E mentre fonti del Vicariato commentano sottolineando "imbarazzo" per le "scene hollywoodiane", su Twitter è Matteo Orfini, presidente del Pd, a scrivere: "Mai più. Roma non può essere sfregiata da chi la vorrebbe far diventare un set del Padrino". A ruota, parte un botta e risposta sui social tra il commissario del partito romano e Roberto Maroni, governatore leghista della Lombardia. Il secondo risponde al primo: "Eh sì, con il @pdnetwork al governo, Roma è proprio #mafiacapitale". Pronta la replica di Orfini: "La mafia a Roma ha dilagato quando c'era il tuo amico Alemanno e tu governavi. Abbi la decenza di tacere". Qualche ora più tardi è il vicesindaco della Capitale, Marco Causi, a dichiarare: "E' intollerabile: si tratta di un'offesa portata a tutti i cittadini di Roma. Quanto accaduto è la dimostrazione più lampante che nella Capitale la mafia esiste". A ruota, il primo cittadino, Ignazio Marino, posta un messaggio su Twitter: "E' intollerabile che funerali siano strumenti dei vivi per inviare messaggi mafiosi. Ho chiamato il prefetto". Proprio da Palazzo Valentini, però, è il numero uno Franco Gabrielli a far sapere che "di questa vicenda la prefettura non aveva alcuna contezza. Ne chiederemo conto, per cercare di capire, al di là dei clamori, eventuali responsabilità. Senza dubbio c'è stato un difetto di comunicazione, e questo lo dico senza voler fare processi, né mettere nessuno sul banco degli imputati. Dunque è opportuno capire i termini precisi di quanto avvenuto, senza sottovalutare, ma senza nemmeno farci trascinare dal clamore. Aspetto che gli uffici mi riferiscano e poi decideremo". E proprio a Gabrielli il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha chiesto una relazione dettagliata sulla vicenda, come si apprende da fonti del Viminale. Inoltre, a proposito del sorvolo e del lancio di petali dall'elicottero durante le esequie, la Questura di Roma ha annunciato in una nota di aver avviato accertamenti con l'Enac. "Allo stato - si legge nel comunicato - risulta noleggiato un velivolo commerciale di una società privata in via di individuazione che, per ordinarie modalità di sorvolo in un area non interessata a restrizioni di sicurezza, non necessita di autorizzazioni". Da sinistra, è Sel ad annunciare che sui funerali sarà presentata un'interrogazione parlamentare ad Alfano. Il capogruppo vendoliano Arturo Scotto e la deputata Celeste Costantino parlano di una vicenda "incredibile" e chiedono anche una presa di distanza da parte della Chiesa. Pure Roberto Morassut, onorevole Pd ed ex assessore a Roma nelle giunte Veltroni, annuncia un'interrogazione parlamentare. Mentre il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti esprime il suo sdegno su Twitter: Il sacerdote che ha celebrato la funzione dice che non era stato informato della messinscena fuori dalla chiesa. La stessa in cui nel 1990 fu celebrato il rito funebre del boss della Magliana Renato De Pedis (poi sepolto nella Chiesa di S. Apollinare) e che nel 2006 negò il funerale religioso a Piergiorgio Welby, il militante radicale affetto da distrofia muscolare deceduto grazie a un medico che lo aiutò a morire. Il Vicariato non concesse a Welby le esequie con rito religioso, come era nei desideri della moglie, cattolica, e il 24 dicembre del 2006 l'ultimo saluto a Piergiorgio venne fatto in forma laica in piazza Don Bosco, proprio di fronte alla chiesa dove, oggi, sono stati celebrati i funerali di Casamonica. "Non so - dice ora Mina Welby - se Casamonica fosse un boss o meno, ma quanti boss sono stati condannati e hanno avuto un funerali in chiesa? Nessuno di noi ha il diritto di giudicare ma posso dire che la decisione del Vicariato di Roma di negare a mio marito il funerale religioso ce l'ho ancora in gola. Quel no di Camillo Ruini non l'ho mai digerito e non lo dimenticherò mai". Dal M5s è Roberta Lombardi ad attaccare via Facebook: "Le giunte di destra e sinistra hanno permesso, con i loro silenzi, incapacità e il più delle volte con vere e proprie articolate complicità un'infiltrazione senza precedenti". Le esequie non sono piaciute neppure ad Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi: "Un messaggio di forza nei confronti dello Stato e una ricchezza ostentata il funerale di Vittorio Casamonica. Chiedo come sia stato possibile che nel centro di Roma un elicottero abbia potuto volare così basso e che un funerale così sfarzoso sia stato celebrato in una chiesa".

La chiesa che ha celebrato le sfarzose esequie di Vittorio Casamonica, esponente dell'omonimo clan della malavita romana, è la stessa che nel 2006 negò il rito funebre al simbolo della lotta per l'eutanasia, scrive R.I su “L’Espresso”. "Con i suoi gesti si è messo in contrasto con la dottrina cattolica". Quindi niente funerali in Chiesa. No, non stiamo parlando di Vittorio Casamonica, uno dei boss dell'omonimo clan romano accusato di usura, racket e traffico di stupefacenti. Lui, Casamonica, dopo 65 anni di vita lo ha avuto eccome il suo sfarzoso funerale in chiesa. E non in una chiesa qualunque, ma in quella di Don Bosco, a Roma. La stessa chiesa che negò le esequie a Piergiorgio Welby con la motivazione di cui sopra del Vicariato: "Con i suoi gesti e i suoi scritti si è messo in contrasto con la dottrina cattolica". La colpa di Welby è stata quella di combattere per il diritto all'eutanasia e contro l'accanimento terapeutico. Una lotta pubblica e senza ipocrisie che nel 2006, dopo la sua morte, ha portato la curia romana a negargli una cerimonia religiosa. Una carrozza antica trainata da cavalli e la musica de "Il Padrino" ad accompagnare il feretro: così sono iniziati i funerali di Vittorio Casamonica, 65enne, esponente di punta dell'omonimo clan romano, che si sono svolti nella chiesa di Don Bosco. All'esterno della chiesa, è stato appeso un manifesto con la scritta "Re di Roma", insieme a un fotomontaggio raffigurante il Colosseo accanto alla Basilica di San Pietro e l'immagine dell'uomo vestito di bianco con un crocifisso. Su un altro manifesto, invece, c'era scritto: "Hai conquistato Roma, ora conquisterai il paradiso". Un funerale all'insegna dello sfarzo, che ha visto anche al passaggio del feretro tra le strade della capitale, mentre un elicottero lanciava petali rossi sui presenti. Dopo la funzione, la bara è stata trasportata da una Rolls-Royce, mentre la banda musicale ha suonato la colonna sonora di un altro celebre film, "2001 Odissea nello Spazio". Risultato: l'ultimo saluto a Welby si tenne nella piazza di fronte alla chiesa di Don Bosco, con la cappella a porte rigorosamente chiuse. Una piazza gremita di gente che lo ha voluto salutare e non ha potuto pregare in chiesa. Oggi, in quella stessa piazza, si sono viste carrozze con cavalli, aerei che rilasciavano petali di fiori, è risuonata la musica del Padrino e si potevano leggere innumerevoli cartelli. Uno di questi, sulla facciata della Chiesa, saluta il "Re di Roma" Casamonica, facendo riferimento alla sua carriera criminale e al suo potere nella Capitale, perfettamente illustrato da Lirio Abbate in un'inchiesta dell'Espresso. In un'intervista a Repubblica il parroco di Don Bosco spiega che lui non ne sapeva nulla e che comunque non avrebbe potuto impedire queste manifestazioni in piazza. Ma noi quelle porte chiuse per Welby nove anni fa le ricordiamo ancora, come ricorderemo che la pietà cristiana secondo qualcuno vale per i boss mafiosi e non per chi lotta per un diritto.

IL RITRATTO

Casamonica, i nuovi re di Roma. Quando la famiglia è potere.

Ville dove il fuoco arde sempre (per poter bruciare la droga in caso di irruzione della polizia), auto di lusso, prepotenze, ma nessun omicidio. Così i sinti arrivati dall'Abruzzo da trent'anni hanno preso possesso di una parte della Capitale, temuti da tutti, scrive Massimo Lugli su “La Repubblica”. Nelle ville dei Casamonica il fuoco non viene mai spento. Arde nei camini, pacchiani come la vasca da bagno di Al Pacino in "Scarface", anche in agosto inoltrato. I carabinieri e la polizia sanno che quelle fiamme sono il loro peggior nemico: servono a distruggere in pochi secondi le bustine di cocaina al primo segno di perquisizione. I blitz che ormai si ripetono al ritmo di uno ogni sei mesi da oltre vent'anni sono una corsa contro il tempo, una sfida d'astuzia e velocità. Poliziotti e carabinieri annunciano la loro presenza dopo aver circondato la villa ed essersi preparati a un'irruzione con tecnica da commando. Appena la telecamera di sicurezza li inquadra, agenti e militari cercano di precipitarsi dentro scavalcando muri di cinta e balconi mentre, tra saloni decorati a stucchi e colonne di marmo rosa, statue dorate, copriletto di raso o di guanaco, rubinetti d'oro massiccio e posacenere d'argento, è una corsa affannosa a gettare le dosi nel camino o nel cesso. Segue una sceneggiata dal copione ormai collaudato: le donne dalle lunghe gonne zingaresche, ingioiellate come la Madonna di Pompei, che urlano, piangono, fingono malori e disperazione, gli uomini torvi e massicci che accolgono gli intrusi con volti chiusi e ostili, ma ostentano un rispetto da vecchi nemici, gli "sbirri" o i "carubba" che buttano tutto all'aria con poche speranze di mettere le mani su qualche indizio utile, gli avvocati che si precipitano sul posto nel giro di pochi minuti, strepitano e protestano con uno sfoggio di aggressività che serve solo a garantire le loro parcelle. Poi arresti, denunce a piede libero, sequestro di beni: appartamenti, terreni, ville, purosangue, conti correnti e le solite Ferrari. E tutto ricomincia come prima. Luglio 2003: "Sequestrato il tesoro del clan: 85 milioni di beni". Gennaio 2012: "Sgominata la gang: 39 arresti". Due titoli scelti a caso tra le decine e decine che ricordano le ormai continue offensive contro una delle organizzazioni criminali più strutturate, impenetrabili e pericolose d'Italia. Solo negli ultimi due anni, i carabinieri del gruppo di Frascati hanno ammanettato cento membri del clan e sequestrato beni per 25 milioni. Eppure il gruppo sembra invulnerabile e sopravvive a ogni attacco con una capacità quasi soprannaturale di ripresa. L'impero che si spande tra Romanina, Tuscolano, Porta Furba e l'Anagnina continua ad allargare i suoi confini oltre il Raccordo Anulare, raggiungendo a sud i comuni di Frascati e Montecompatri e a Nord alcuni centri abruzzesi da dove, trent'anni fa, il primo nucleo di sinti stanziali mosse alla conquista della capitale quando ancora si combatteva la malaguerra tra la Gang dei Marsigliesi e i vecchi boss capitolini ostinati nel rifiuto del nuovo business dell'eroina. Gli affari, iniziati con il tradizionale allevamento dei cavalli, sono ormai differenziati come quelli di una multinazionale e spaziano dal traffico di droga all'usura, dal recupero crediti alle truffe, dal riciclaggio fino all'abusivismo edilizio e addirittura al furto di energia elettrica in una sorta di sfoggio d'illegalità degno dei gangster anni 30. Restano le tradizioni zingaresche, i matrimoni tra lontani parenti che hanno cementato il patto d'acciaio tra Casamonica, De Rosa, Di Silvio, Di Guglielmo, Spada e Spinelli, il lessico familiare in un misto di italiano e di slang sinti e il disprezzo delle armi da fuoco. I Casamonica non sparano, picchiano. Quando c'è proprio bisogno di una pistola, il compito è delegato a qualche manovale non affiliato, spesso romeno e si tratta, quasi invariabilmente, di una pura intimidazione. In tutta la storia criminale di un'organizzazione che conta oltre mille componenti non si registra un solo omicidio. "Nel territorio di Roma Sud Est sono stanziate ben 45 abitazioni riconducibili alle famiglie Casamonica", si legge in una recente ordinanza del Tribunale romano, "dislocate in agglomerati composti da un minimo di cinque famiglie che fanno parte di un unico gruppo rivendicante una tradizione zingaresca con propri usi, costumi, lingua, caratterizzato da una totale forma di chiusura... A tale proposito appare significativo evidenziare che la quasi totalità dei connubi, che si esplicano principalmente in coppie di fatto e raramente in matrimoni, avviene all'interno del gruppo stesso (unione di fatto tra cugini ecc). Sono molto rari i casi in cui entra a far parte della famiglia chi ne è esterno e, quando accade, deve necessariamente sottostare e adeguarsi totalmente alle abitudini della stessa". Non c'è mai stato un pentito, nella gang e mai ci sarà. Una digressione quasi sociologica, quella del Gip, ma che serve a spiegare la peculiarità e la vera risorsa, l'arma segreta del clan. "Il numero cospicuo di appartenenti alle famiglie e la loro totale chiusura dà forza al gruppo - continua il magistrato - forza che permette a ogni singolo appartenente di avere atteggiamenti intimidatori e prevaricatori nei confronti dell'esterno". Già perché la storia dei Casamonica, al di là degli arresti, dei sequestri, delle trasferte a Montecarlo in alberghi da 1500 euro a notte per riciclare i soldi al casinò o delle innumerevoli operazioni antidroga, è, sostanzialmente, una storia di prepotenza. Gente che vende un camion o una macchina e si ritrova con un pugno di assegni scoperti in mano, negozianti costretti a "regalare" orologi di lusso e gioielli, ristoratori che imbandiscono cene da 25 persone e non incassano un centesimo, creditori svillaneggiati e minacciati. Quasi sempre basta il nome: "Siamo Casamonica, non ci rompere le palle", per far battere in ritirata anche i più ostinati. A volte vola qualche sganassone e la fama del clan si accresce. Una reputazione che ormai permette alla gang di fare affari, da pari a pari, con parecchie cosche della camorra e della Sacra Corona e che accresce il peso del gruppo nel ramo del recupero crediti. Due anni fa la mobile romana scoprì un nuovo livello di scambio tra alcuni vecchi usurai romani e i Casamonica: due debitori riottosi ceduti alla gang in cambio di uno più remissivo. Tanto, coi Casamonica, pagano tutti. Qualcuno, a volte, non ci sta e siamo alle storie quasi grottesche tipiche di tutta la malavita capitolina: il marmista iraniano che, dopo aver chiesto inutilmente il prezzo del suo lavoro, incassa una scarica di legnate ma fa arrestare i suoi aguzzini e addirittura la badante romena che denuncia i Casamonica perché non pagavano i contributi. Nessuno dei due è emigrato in Sud America o si è fatto cambiare i connotati da un chirurgo plastico. I Casamonica menano, minacciano ma sanno anche perdere. Quando i carabinieri si presentano per demolire le loro ville abusive, al solito bailamme di urla, lacrime e giaculatorie segue, inevitabilmente, un rituale preciso e un po' comico: mentre i muri crollano sotto l'urto delle ruspe, a tutti i militari, dal colonnello alla recluta, viene offerto il caffè.

Quel filo rosso tra Roma e Napoli. Due città profondamente diverse. Dove però in troppi si ostinano a sottovalutare la gravità del degrado e la forza dei poteri criminali, scrive il 28 settembre 2015 Luigi Vicinanza su L'Espresso. Matrimoni pacchiani e funerali esagerati. Il richiamo a riti arcaici strumentalizzato per dissimulare un potere criminale attuale e sofisticato. A dispetto del linguaggio semplice, involontariamente comico, esibito con sfrontatezza in ogni occasione tv. Parliamo dei Casamonica, un clan attivo a Roma da trent’anni, scoperto quasi per caso dagli italiani, complice quelle esequie da “padrino” le cui immagini hanno fatto il giro dei tg di mezzo mondo. Un misto di folclore etnico e di arroganza prevaricatrice, uno sberleffo alle autorità costituite, prefetto e sindaco di Roma innanzitutto. Con la benedizione di Bruno Vespa. Nel salotto buono di “Porta a porta” Vera e Victor Casamonica, zia e nipote, hanno potuto fare libero sfoggio del più disarmante e subdolo degli argomenti: noi siamo fatti così, embè, mica dottor Vespa vuoi giudicare la nostra cultura…Chi sono dunque i Casamonica? Cittadini borderline, vittime di un pregiudizio razzista per la loro origine nomade o pericolosi membri di un’organizzazione criminale in stile mafioso con vincoli associativi di tipo familiare? Finora è sembrata prevalere la prima immagine. Eppure “l’Espresso”, già nel dicembre 2012, con l’ormai famosa copertina dedicata ai “Re di Roma”, aveva indicato nei Casamonica uno dei quattro clan che si dividono il controllo della Città Eterna, insieme a Massimo Carminati arrestato nell’inchiesta Mafia Capitale, i Fasciani di Ostia dove il municipio è stato sciolto per mafia e, infine, i Senese. Su questo numero proponiamo un’accurata e aggiornata ricostruzione giornalistica realizzata da Gianfrancesco Turano attraverso la quale i lettori possono farsi un’opinione sul vero volto del sistema Casamonica: droga, usura, speculazione edilizia, traffico di auto. E gli immancabili contatti con il mondo degli insospettabili. Le responsabilità penali - è bene sottolinearlo anche se può apparire scontato - sono sempre individuali. Sarebbe ingiusto quindi criminalizzare un cognome. Un’intera e ampia famiglia. Raccontiamo invece un sistema che con quel funerale del 20 agosto scorso ha voluto ribadire il suo potere, innanzitutto all’interno del proprio ambiente. Roma continua a sottovalutare la pericolosità delle organizzazioni criminali germinate nel suo territorio. C’è un atteggiamento ondivago su come interpretare - e poi contrastare - il fenomeno. La rappresentazione di una “mafia alla vaccinara” riduce tutto in qualcosa di grottesco; preoccupante sì ma non troppo. Nell’inchiesta aperta dalla Procura di Roma su Carminati, Buzzi e soci c’è chi ha provato a mettere in discussione la natura mafiosa della banda di Mafia Capitale, anche dopo una prima pronuncia della Cassazione che ne ha confermato la consistenza dal punto di vista giuridico. Conoscere per capire. La negazione della realtà è vizio antico delle classi dirigenti chiamate ad arginare le mafie. Persino nella Napoli di Luigi De Magistris può fare scandalo una constatazione quasi ovvia. Rosy Bindi, presidente della commissione antimafia, ha detto che la camorra è un dato costitutivo della realtà di Napoli. Immediata l’indignazione del sindaco, che pure si era guadagnato tra i suoi concittadini l’appellativo di “Giggino ’a manetta” per i suoi trascorsi di pubblico ministero. De Magistris ha invocato l’orgoglio napoletano e ha ricordato le tante cose positive della capitale del Sud. Che non mancano, per fortuna. Ma non cancellano ciò che documentano le statistiche delle forze dell’ordine: dall’inizio dell’anno nel capoluogo partenopeo sono stati uccisi sedici giovani tra i 16 e i 30 anni. Una nuova spietata guerra. Ragazzini con la pistola, come abbiamo scritto mesi fa. Napoli, Roma: realtà profondamente diverse. Unite da un esile filo, la sottovalutazione del degrado e dell’abbandono delle sterminate periferie. Lì dove il contropotere camorristico-mafioso recluta adepti a buon mercato. Dove solo un funerale fa scandalo.

Sul set di Suburra 2 c'è Luciano Casamonica: «Ho una piccola parte ma mi pagano bene». Arrestato in passato per spaccio, il nipote del boss Vittorio è stato scelto dalla produzione per "la sua esperienza nell’industria del cinema". Il suo ruolo? Reclutare i figuranti sinti che reciteranno in questa seconda stagione, scrive Arianna Giunti il 03 agosto 2018 su "L'Espresso". Mentre la Città Eterna si svuota, l’industria del cinema lavora a pieno ritmo. Fra i registi, gli attori e le macchine da presa che in questi giorni affollano i set cinematografici della Capitale, però, c’è un personaggio d’eccezione. Si tratta di Luciano Casamonica, 61 anni, dell’omonimo clan che spadroneggia nella Capitale, arrestato in passato per spaccio di stupefacenti e nipote del defunto “re di Roma” Vittorio che 3 anni fa fu celebrato in un fastoso funerale accompagnato dalla musica del film de “Il Padrino”. A lui la competenza artistica non manca, in effetti. Così, almeno, devono aver pensato i responsabili della serie Netflix Suburra 2, che gli hanno affidato un ruolo di tutto rispetto. “Lucky Luciano” – come ama farsi chiamare – è ufficialmente da diverse settimane colui che per conto della serie co-prodotta da Cattleya e Rai Fiction si occupa di reclutare i figuranti sinti che reciteranno nella seconda stagione. La fiction, crudo ritratto della malavita romana dei giorni nostri, racconta infatti anche le vicende della famiglia sinti degli Anacleti, che sarebbe ispirata proprio ai veri Casamonica. Chi meglio di lui, insomma, avrebbe potuto reclutare figuranti efficaci e verosimili? Dalla Cattleya confermano di averlo scelto “per la sua esperienza nell’industria del cinema”. Con l’Espresso è lui stesso ad ammettere: “Sì è vero, sto lavorando alle riprese di Suburra 2 con un ruolo che mi hanno dato e che ho accettato volentieri. Sa, qui mi pagano bene…”. Quanti siano questi soldi, però, non è dato sapere. E nei fatti non ci sarebbe neppure nulla di male a riscattare il proprio passato e a cercare un lavoro onesto che appaghi le proprie aspirazioni (Luciano Casamonica da bambino recitò in un film western con Orson Welles e Tomas Milian). Se non fosse che fra i finanziatori della serie che vedremo il prossimo autunno c’è – appunto - proprio la tv di Stato. E Lucky Luciano – prendendo pubblicamente le difese del proprio clan – ha più volte negato, di fatto, l’operato dello Stato, dichiarando nel corso di alcune interviste che “a Roma la mafia non esiste” così come l’esistenza di una potentissima organizzazione criminale in seno alla propria famiglia. Niente male, dunque, per una fiction prodotta anche con soldi pubblici che aspira proprio a raccontare la mafia capitolina e le famiglie criminali che la rappresentano. Luciano Casamonica, intanto, dimostra di essere perfettamente a suo agio sul set. Sul suo profilo Facebook sfoggia fotografie scattate nei giorni scorsi in una casa che ricorda molto, per sfarzo pacchiano, le residenze del suo stesso clan, dove si intravedono alcuni cameraman e due macchine da presa. “Sono sul set di Suburra”, scrive lui stesso nella didascalia. Il nipote del boss Vittorio, va detto, ha una passione per le foto con i vip. Numerosi sono infatti i selfie che lo ritraggono con attori e registi famosi in vari e recenti set cinematografici: da Michele Placido (che ha diretto tra l’altro proprio alcuni episodi di Suburra), Giampaolo Morelli e Claudio Amendola (che nel film Suburra di Stefano Sollima interpreta Il Samurai, figura ispirata al boss Massimo Carminati). E qui la realtà supera la fiction. Già perché suo cugino (che porta il suo stesso nome) fu fotografato durante una cena nell’ormai celebre scatto che lo ritrae insieme all’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno e Salvatore Buzzi, patron delle coop a Roma condannato a 19 anni in primo grado nel processo a mafia Capitale. Una scena molto simile – confermano dalla casa di produzione - sarà riprodotta in una delle puntate della nuova serie. “I nostri sono antieroi dai quali dobbiamo prendere le distanze”, dichiarava solo qualche settimana fa l’attore Giacomo Ferrara che interpreta il criminale Spadino Anacleti. I veri Casamonica, invece, a quanto pare, sono più vicini di quello che sembra.

Nando Casamonica alla barista del Roxy dopo il pestaggio: «Quei tipi non fanno parte della nostra famiglia», scrive ilmessaggero.it il 22 settembre 2018. Con la sua carrozzina elettrica il patriarca dei Casamonica stringe le mani alla barista e titolare, insieme al marito, del Roxy in via Beccarini, teatro dell'aggressione del giorno di Pasqua che ha portato oggi all'arresto di quattro persone accusate anche di lesioni nei confronti del gestore del locale e di una cliente, una donna disabile, l'unica che ha avuto il coraggio di opporsi alla violenza di  Antonio Casamonica, Alfredo e Vincenzo Di Silvio. Nando, 77 anni, sorride e insiste: «I due responsabili del pestaggio? Mai visti prima. Anzi, non sono dei Casamonica». E' l’ultimo capostipite della famiglia, fratello di Vittorio, le cui immagini del funerale celebrato nel 2015 ricompaiono ogni volta che si torna a parlare della famiglia. 

Nando Casamonica: "I responsabili del pestaggio non fanno parte del nostro clan. I Casamonica non toccano le donne". Il capo del clan parla al Messaggero: "I giornalisti ci puntano le telecamere in faccia, noi siamo colpevoli in partenza, siamo un bersaglio facile, scrive l'08/05/2018 huffingtonpost.it. Le immagini crude di alcuni esponenti del clan sinti Casamonica che prendono a cinghiate una disabile e un barista in un locale della periferia est di Roma hanno fatto il giro del web. Quattro persone sono state arrestate dalla polizia. Sul Messaggero parla il fratello di Vittorio Casamonica, Nando, il capostipite del clan. Nando non ha dubbi: a compiere la duplice aggressione nel giorno di Pasqua in quel bar della Romanina non sono stati membri della sua famiglia. "I due responsabili del pestaggio? Mai visti prima. Anzi, non sono dei Casamonica, ma se lo fossero bisognerebbe spezzargli le gambe". Quando si parla di Casamonica, torna in mente la scena del funerale sfarzoso di Vittorio, il capoclan morto nell'agosto del 2015, celebrato nella chiesa di Don Bosco, a pochi passi dalla Tuscolana, dove inizia il regno della famiglia sinti. A 77 anni, Nando ha preso il posto del fratello. Parlando al Messaggero dell'aggressione di aprile, afferma che il bar in questione era proprio della famiglia Casamonica, prima di essere venduto agli attuali proprietari. Nando, la moglie Loredana e i figli Tony e Virginia dicono di non conoscere i responsabili, ma le indagini hanno portato dritto alla famiglia Casamonica. A rispondere è il figlio di Nando. "I giornalisti ci puntano le telecamere in faccia, noi siamo colpevoli in partenza, siamo un bersaglio facile. Ci sono persino degli impostori che si spacciano per appartenenti alla nostra famiglia per minacciare e rapinare. Noi della mia generazione abbiamo tre regole d'oro: mai toccare donne, bambini e droga". L'episodio del primo aprile ha attirato di nuovo l'attenzione dei media sulla zona controllata dai Casamonica e Nando lo confessa con schiettezza al Messaggero: "Esiste un detto che spiega tutto: non rubare in casa dei ladri. La Romanina è casa nostra e noi qui non vogliamo avere problemi né con le forze dell'ordine né con i vicini". Puntano il dito anche contro la sindaca Virginia Raggi, che, secondo loro, starebbe strumentalizzando la vicenda. "Una passerella sfruttando il nome Casamonica. Piuttosto venisse per quel che le compete davvero: per la spazzatura che nessuno rimuove e in cui sguazzano i topi e per le buche sulle strade. Ci descrivono come mafiosi, addirittura come clan, ma prendersela con noi è facile, perché non ci siamo mai nascosti".

Nando Casamonica dopo il raid al bar: «Arrestateli, nostra famiglia non tocca le donne», scrivono Martedì 8 Maggio 2018 Paolo Chiriatti e Alessia Marani su "Il Messaggero". «I due responsabili del pestaggio? Mai visti prima. Anzi, non sono dei Casamonica, ma se lo fossero bisognerebbe spezzargli le gambe». Via Domenico Baccarini è a una manciata di metri dal Roxy Bar. Al civico 50 la villa di Nando Casamonica si impone sulle altre case, con il suo corredo di statue e piante ben curate. Nando è l’ultimo capostipite della famiglia. Fratello di Vittorio, le cui immagini del funerale celebrato nel 2015 ricompaiono ogni volta che si torna a parlare della famiglia, appare quasi benevolo dall’alto dei suoi 77 anni.

Nando Casamonica alla barista del Roxy dopo il pestaggio: «Quei...Il fisico minato dal diabete, parla di quanto accaduto soppesando le parole: «Conosco bene i gestori del bar, ci vado spesso a fare colazione, sono brave persone. Quel locale era della nostra famiglia, lo vendemmo molti anni fa per tre milioni di lire. Chi ha fatto questo andrebbe punito. Cercherò di capire chi sono e parlerò con i loro genitori. Strano che di un fatto di oltre un mese fa se ne parli oggi. La polizia dovrebbe arrestare questi ragazzi. Perché sono liberi?». Con Nando ci sono la moglie Loredana e due dei suoi figli, Tony e Virginia. Preparano il caffè.

Dite di non conoscere i responsabili, ma le indagini riportano i loro cognomi e l’appartenenza al quartiere. Vi siete fatti un’idea dell’accaduto?

«Io e quelli della mia generazione abbiamo tre regole d’oro: mai toccare donne, bambini e la droga. Quando eravamo giovani noi la droga qui non passava, ora devasta i cervelli dei nostri ragazzi e di quelli italiani. Chi ha picchiato quella donna non è degno del nome che porta», risponde Tony che ha 61 anni e dice di avere «chiuso tutti i conti con la giustizia». 

È sicuro di non sapere altro su questa storia?

«Credo che chi ha agito così era strafatto o ubriaco. Si chiama Casamonica o Spada? È giusto che paghi lui per quello che ha fatto senza trascinarsi dietro tutti gli altri. Non abbiamo niente da nascondere, la nostra casa è sempre aperta, se chi bussa lo fa con rispetto».

Anche per voi l’aggressione è solo un episodio isolato?

«Ogni volta che succede qualcosa e c’è di mezzo il nome Casamonica arrivano i giornalisti che ci puntano le telecamere in faccia, noi siamo colpevoli in partenza, siamo un bersaglio facile. Ci sono persino degli impostori che si spacciano per appartenenti alla nostra famiglia per minacciare e rapinare».

In questo caso però nessuno ha millantato appartenenze.

«Peggio, perché esiste un detto che spiega tutto: “Non si ruba in casa dei ladri”. La Romanina è casa nostra e noi qui non vogliamo avere problemi, né con le forze dell’ordine né con i vicini. Questi ragazzi che hanno picchiato la signora disabile e il barista ci hanno attirato di nuovo addosso tutti i riflettori. Le nuove generazioni fanno di testa loro». La sorella, Virginia, guarda in televisione la sindaca Raggi che condanna il pestaggio.

Un segnale forte, non crede?

«Una passerella sfruttando il nome Casamonica. Piuttosto venisse per quel che le compete davvero: per la spazzatura che nessuno rimuove e in cui sguazzano i topi e per le buche sulle strade. Ci descrivono come mafiosi, addirittura come clan, ma prendersela con noi è facile, perché non ci siamo mai nascosti».

Ci sono anche le ville con i marmi, le statue, oltre alle buche, qui alla Romanina.

«E allora? Noi abbiamo fatto anche la fame, siamo arrivati a Roma che non avevamo niente, ci piacciono le cose belle. Ci siamo sempre arrangiati. Ma poi diciamocela tutta: chi darebbe mai un lavoro ai Casamonica. Siamo marchiati».

Casamonica, quei pugni sul ring e sulla strada. Il legame tra il clan romano e il pugilato è di lunga data. E, se c'è chi si è limitato allo sport, c'è chi invece si è messo al servizio del racket delle estorsioni e dell'usura, scrive Gianfranco Turano l'1 ottobre 2015 su "L'Espresso". Nel pugilato i Casamonica hanno una tradizione di successi e processi. C’è chi ha scelto di limitarsi al ring e chi si è messo al servizio del racket delle estorsioni e dell’usura, come quel Marco “er pugile” non meglio identificato che picchiò un dipendente della concessionaria di Giuseppe Sordini sull’Anagnina per recuperare un prestito di Enrico Nicoletti. Qualche giorno dopo anche Sordini fu pestato selvaggiamente. L’ultimo a fare notizia in cronaca è stato Domenico Spada, detto Vulcano, sfidante mondiale per il titolo dei medi e cugino di altri due campioni che hanno saputo stare fuori dai guai. Uno è il rom di origine “napulengre” (napoletana) Michele Di Rocco, olimpionico ad Atene 2004, campione italiano ed europeo dei superleggeri. L’altro è Pasquale “il Puma” Di Silvio, campione italiano in carica dei pesi leggeri dopo avere conquistato anche la corona continentale. Spada, 35 anni, è stato arrestato a novembre del 2014 per estorsione e usura ai danni di un barista di via Tuscolana. Il tasso di interesse dell’800 per cento aveva portato il prestito iniziale da 140 mila a 600 mila euro più la cessione a titolo gratuito di una villa ad Albano Laziale. A novembre del 2013, un anno prima dell’arresto, Spada si era lamentato in un’intervista che Alemanno non gli aveva consentito di battersi per il titolo mondiale a Roma. «Ora spero che con il sindaco Marino cambi qualcosa», aveva concluso. L’accusa di estorsione è toccata anche a Romolo Casamonica, classe 1962, olimpionico a Los Angeles 1984. L’ex campione italiano dei welter è prima finito agli arresti domiciliari per minacce dopo avere acquistato due chihuaua con assegni scoperti. In seguito è arrivato il carcere per una denuncia della domestica romena che non voleva più lavorare nella casa dell’ex pugile a Grottaferrata, in zona Castelli, dove Romolo vive in una dépendance dell’Istituto religioso per fanciulle Domus nostra. Il fratello maggiore di Romolo, Raffaele (classe 1960), ha una lunga carriera criminale iniziata, secondo gli investigatori, a sedici anni, e proseguita sotto la copertura tipica del commercio di autoveicoli. Si spera che l’ultimo erede segua l’esempio dei campioni puliti della famiglia. È il giovanissimo Armando Casamonica, ammiratore di Mike Tyson. In settembre, pochi giorni dopo il funerale di Vittorio, ha combattuto per l’Italia ai mondiali juniores in Russia nella categoria fino a 57 chili.

Giornalisti aggrediti, ma a Roma «La mafia non c'è». La nostra Floriana Bulfon e un collega Rai minacciati e inseguiti perché avevano osato entrare nel territorio dei Casamonica. Una nuova conferma del potere dei clan nella Capitale, scrive Lirio Abbate il 20 luglio 2018 su "L'Espresso". Raccontare le porcherie delle mafie, descrivere l’olezzo che si spande sui “loro” territori, rivelare le complicità di chi le protegge e le favorisce. È il lavoro dei giornalisti che si occupano di criminalità organizzata: andare di persona nei luoghi, parlare, conoscere, indagare, rischiare. È quello che fa Floriana Bulfon, che da oltre dieci anni scrive per L’Espresso. Bulfon segue con professionalità e precisione - “consumando le suole delle scarpe” - le vicende della criminalità organizzata di Roma. Grazie al suo racconto abbiamo potuto conoscere meglio i protagonisti di mafia Capitale: i loro affari, le loro ingerenze nell’economia della città e nella politica. Tra gli altri filoni su cui lavora, Floriana è andata ad accendere un faro anche sull’oscuro mondo dei Casamonica, nei quartieri controllati da questa famiglia. Che, almeno per il giudice per le indagini preliminari e per la procura, è una famiglia mafiosa. E da mafiosi i Casamonica hanno reagito martedì 17 luglio, quando la nostra Floriana è entrata di nuovo nel “loro” territorio per raccontare gli ultimi eventi, la maxioperazione dei carabinieri contro di loro. L’anima selvaggia e aggressiva di questi mafiosi è venuta fuori di nuovo, con minacce, urla e inseguimenti verso la nostra cronista e la troupe del Tg2. Per le mafie controllare i “propri” territori e garantirsi impunità al loro interno vuol dire anche impedire la libera informazione, costringerla al silenzio. Ma Floriana - come questo giornale, che è casa sua - non staranno in silenzio. Lo ha dimostrato in passato e lo continuerà a fare in futuro. Soprattutto adesso che la pentola della malavita organizzata nella Capitale è stata scoperchiata dalla procura e dagli investigatori. L’inchiesta sui Casamonica non è infatti la prima per mafia che viene conclusa a Roma. Il caso più noto è quello di Massimo Carminati, il capo di mafia Capitale. Quando Carminati è stato arrestato, però, dalle cantine ai salotti fino ai terrazzi della Roma bene in molti hanno tentato un distinguo sulla parola mafia, hanno aperto una disputa linguistica su questa definizione. Si sa che la suprema astuzia del diavolo è far credere che non esiste. Mentre venivano arrestati diversi componenti della famiglia Casamonica, nell’aula bunker di Rebibbia, davanti ai giudici della Corte d’appello, si celebrava il processo in secondo grado a Carminati e ai suoi compari di mafia Capitale. Anche in quell’aula, davanti a imputati accusati di associazione mafiosa, i giornalisti che hanno scritto su Carminati e Buzzi sono stati presi di mira, sono stati definiti «stampa cialtrona». Succede anche questo, a Roma, nei processi di mafia. Succede che chi racconta e documenta il metodo mafioso, le azioni violente, le sopraffazioni, le minacce e le incursioni di notte nel caveau di una banca, viene definito in un’aula di giustizia «stampa cialtrona». È probabile che i clan preferiscano altri modi di fare giornalismo su di loro. La Commissione Antimafia presieduta nella scorsa legislatura da Rosy Bindi, ad esempio, ha dedicato ampio spazio al rapporto tra il mondo dell’informazione e le mafie, sia con un’autonoma inchiesta sulla condizione dei giornalisti che subiscono intimidazioni di stampo mafioso, sia interloquendo con i vertici della Rai dopo due discutibili eventi televisivi: le puntate del programma “Porta a Porta” di Bruno Vespa dedicata ai funerali di Vittorio Casamonica (settembre 2015), il boss definito dal proprio clan uno dei “re di Roma” e la presentazione del libro autobiografico scritto dal figlio di Totò Riina intervistato con domande comode nello studio di Vespa (aprile 2016). Nel primo caso la Commissione ha rilevato come «una gravissima sottovalutazione del fenomeno mafioso da parte del servizio pubblico che un programma di punta della sua cosiddetta rete ammiraglia abbia offerto un prestigioso palcoscenico a chi cercava inaccettabili legittimazioni. Alla figlia e al nipote del capo clan Casamonica è stato permesso di offrire un’autorappresentazione falsa e folcloristica della vasta famiglia mafiosa, che di fatto ne minimizzava la caratura criminale. Non a caso i Casamonica ospiti in studio, hanno sentito il bisogno, il giorno dopo, di ringraziare il conduttore Bruno Vespa». Nel confronto con la Commissione, l’allora direttore di Rai1, Giancarlo Leone, aveva annunciato l’avvio di una riflessione interna all’azienda, riconoscendo la fondatezza delle critiche che erano state mosse. Tuttavia a distanza di pochi mesi dall’apparizione televisiva dei Casamonica nel salotto di “Porta a Porta” è avvenuto l’altro episodio, ancora più grave. Scrive la Commissione nella sua relazione: «Ignorando gli appelli di numerosi esponenti della Commissione e di tutto mondo dell’antimafia, la Rai mandava in onda un’intervista di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina sul libro autobiografico “Riina family life”, ancora una volta nella cornice del salotto buono di “Porta a Porta”». Ai vertici dell’azienda, convocati il giorno dopo la messa in onda dell’intervista, la presidente Bindi ha contestato un’operazione editoriale che aveva visto Salvatore Riina definire il perimetro dell’intervista e condurre il gioco - tanto che la liberatoria venne firmata dopo la registrazione, e non prima com’è prassi - per negare, con un linguaggio omertoso e reticente, il ruolo criminale del padre e la stessa esistenza della mafia. Inoltre, approfittando della prestigiosa vetrina Rai, Riina junior (condannato a otto anni e dieci mesi per associazione mafiosa), come sottolineato dalla presidente Bindi, «ha raccontato menzogne sui pentiti senza essere contraddetto, attaccando il sistema dei collaboratori di giustizia e mandato un messaggio pericoloso e inquietante che ha prestato il fianco al negazionismo del fenomeno mafioso». Ancora dal testo della Commissione: «Questo è riduzionismo della mafia, da cui le organizzazioni criminali di questo Paese traggono forza e consenso sociale». Ecco: c’è il riduzionismo della mafia e c’è chi invece continua a informare, senza farsi intimidire dai clan. L’Espresso, con Floriana Bulfon e con tutti i suoi giornalisti che si occupano di questi temi, non smetterà mai di seguire la seconda strada.

Lo sgombero dei Casamonica, quel gesto che nessuno aveva osato fare. Nello stesso anno in cui alla Capitale i giudici hanno riconosciuto la mafia di Carminati e compagni, arriva dalla sindaca Virginia Raggi la dimostrazione che un percorso concreto di legalità si può concretizzare, scrive Lirio Abbate il 20 novembre 2018 su "L'Espresso". Nella Capitale i Casamonica vengono chiamati “zingari”. Un appellativo usato in modo dispregiativo. E i romani sono coscienti dei loro traffici illegali, per esserne stati vittime o a volte anche complici, da decenni, o per averne osservato le loro azioni, e per questo motivo temono il clan per violenza e potenza, tanto da averne paura. Gli affiliati a questa famiglia criminale non sono mai stati processati per mafia e quindi mai condannati per questo reato. Il loro metodo riconduce a quello mafioso e rientrano perfettamente fra le organizzazioni criminali organizzate. Non a caso li avevamo inseriti nel 2012 fra “i quattro re di Roma” in compagnia di Carminati, Senese e Fasciani. Ma fra i criminali romani non c'è mai stato rispetto per i Casamonica, considerati spesso “straccioni”. Tanto per essere chiari, nell'inchiesta su “mafia Capitale”, in diverse occasioni il nome di Massimo Carminati è associato a quello degli “zingari”. Al Cecato, condannato per mafia, il 27 marzo 2014 viene chiesto un aiuto da parte di un avvocato per conto di una collega che aveva avuto attriti con alcuni esponenti del clan «gitano». Carminati, mentre è intercettato, si mostra disponibile a parlare con Luciano Casamonica, che dice di conoscere e con il quale è certo di trovare una soluzione. «Mi informo domani... io conosco bene Luciano... vado...», e poi aggiunge, enfatizzando il fatto di non stimare particolarmente il clan: «Li Casamonica... cento famiglie, uno più stronzo de n’altro». Carminati il giorno dopo, probabilmente dopo aver parlato con Luciano, contatta l'avvocato al quale chiede notizie sull’incontro avvenuto tra l’avvocatessa e gli esponenti della famiglia rom. Il legale amico dell’ex Nar evidenzia come la vicenda sia andata a buon fine e come il problema sia rientrato. I Casamonica, dunque, secondo Carminati «so' uno più stronzo dell'altro». Criminali contro criminali. A Roma sono tanti i problemi amministrativi che giorno dopo giorno registriamo, e sono diversi i casi di corruzione che vengono individuati dagli investigatori, favoriti dalla cattiva burocrazia foraggiata da impiegati pubblici collusi. E nello stesso anno in cui alla Capitale è stata data la sveglia dai giudici della corte d'appello riconoscendo la mafia di Carminati e compagni, è arrivata oggi dalla sindaca Virginia Raggi la dimostrazione che un percorso concreto di legalità si può concretizzare. E lo ha fatto puntando il piccone contro le otto ville abusive dei Casamonica. Edifici su cui pendeva un'ordinanza definitiva di demolizione da cui in passato tutti si sono tenuti lontani. Un ordine inevaso e di conseguenza un segnale di potenza aggravato che è stato trasmesso sul territorio. E fino all'alba la forza del clan era evidente anche per la presenza di ville e abusi, incuranti dei provvedimenti, su un'area soggetta a vincolo archeologico, paesaggistico e ferroviario. Le prime contestazioni di abusivismo da parte del Comune risalgono al 1997. E da allora nessuno ha avuto il coraggio di affrontare il clan. E dunque, chi ha lasciato ogni cosa al suo posto, ha di fatto contribuito ad accrescere la fama di impuniti e di potenti. Il blitz di centinaia di agenti della polizia locale ha messo fine a questa impunità. E si deve dare atto al primo cittadino di Roma di un'azione forte, che mai in altre occasioni è stata fatta contro i clan, nemmeno in territori in cui le mafie sono presenti e invadono con i loro abusi edilizi interi quartieri. Il comandante dei vigili, Antonio Di Maggio, a conclusione del blitz ha detto una cosa che fa comprendere bene come i Casamonica erano tranquilli nel continuare a vivere in quelle case abusive, e a nessuno di loro passava per la mente la demolizione: «Pensavano che fosse una perquisizione. Qualcuno è rimasto di stucco. E noi abbiamo ricordato come loro stessi avessero già preso in notifica i provvedimenti». Statue dorate di cavalli, leopardi e tigri. Una culla in stile imperiale. E poi stucchi e affreschi. Ecco come si presentano all'interno le otto villette sequestrate alla famiglia Casamonica. Dopo gli sgomberi inizieranno le demolizioni. In una villa gli agenti hanno anche trovato una quantità di sostanza stupefacente, presumibilmente cocaina, e hanno fermato il presunto proprietario. Ecco, sapevano di vivere nell'illegalità, sotto un tetto abusivo, con suppellettili e oggetti di valore ottenuti con soldi provenienti da affari sporchi, ma per il loro vivere quotidiano era normale. Ma normale non è. E l'azione di demolizione avviata dall'amministrazione, che si concluderà fra trenta giorni, rimette in gioco le regole, e il loro rispetto. La cui applicazione in una città normale non dovrebbe stupire.

Droga, usura e omertà: così i Casamonica sono diventati il clan più potente di Roma. Fratelli e cugini, mille affiliati, dalle giostre allo spaccio. Ecco come la famiglia è arrivata a spadroneggiare nella Capitale. «Sono animali che squartano le persone. Neanche sotto tortura li denuncerò», dice una vittima, scrive Floriana Bulfon il 5 agosto 2018 su "L'Espresso". La fuoriserie alterna sgommate a un procedere a passo d’uomo. A bordo un giovane imprenditore modenese, dall’aria pulita e i modi manageriali, impegnato in una trattativa singolare. L’uomo indica lungo le strade della Capitale i posti dove vorrebbe aprire una catena di pizzerie. E chiede al guidatore come fare per evitare problemi: gli hanno spiegato che, soprattutto in periferia, ci sono altre regole da rispettare e non vuole finire invischiato in guerre tra criminali. Ma la persona al volante gli offre una certezza: «A Roma ci stanno i Casamonica e basta. Andò stamo noi nessuno viene a rompe er cazzo». Giuseppe Casamonica, detto Bìtalo, è il padrino del clan e sa come funzionano le cose. Non c’è un’altra organizzazione criminale che osi opporsi al clan più potente dentro e fuori il Grande Raccordo Anulare. Perché se non c’è Giuseppe ci sono i fratelli, gli zii, i cugini. Una rete fluida e temuta che garantisce protezione in cambio di soldi. Da pagare ogni settimana, altrimenti sono botte. L’imprenditore incalza. La sua curiosità però nasconde un altro interesse: è un ufficiale dei carabinieri sotto copertura, con la missione di definire i confini dei Casamonica. Domanda timoroso: «Coprite pure questa zona? So che avete avuto problemi con gli albanesi…». Il boss è quasi sorpreso: «Tu quando dici Casamonica a Roma hai detto qualcosa. Agli albanesi gli abbiamo rotto le ossa e li abbiamo mandati via». Il mondo dei Casamonica si muove ancora più in basso del “mondo di mezzo”, più giù del “mondo della strada”. Prospera sotto il livello a cui le istituzioni guardano, domina i meandri più oscuri. Sono come «i topi di fogna», invisibili finché non sbucano in superficie. Ma sono capaci di divorare tutto. «Ti si mangiano sono tanti, sono pieni di fratelli e cugini che si muovono», dice terrorizzato un calabrese legato alla ’ndrangheta. Un clan di mille affiliati imparentati tra loro e un impero che si espande nella zona sud della Capitale. Sinti, nati giostrai e allevatori di cavalli si sono trasformati in malacarne. Una mafia forte, costruita con il cemento del vincolo familiare, in grado di trattare con le altre organizzazioni che le riconoscono prestigio, controllo del territorio, capacità di diversificare gli affari e di instaurare reti di relazioni importanti. Ossia capaci di dominare. Da braccio armato del cassiere della banda della Magliana Enrico Nicoletti sono passati alle estorsioni, all’usura e alla droga per conto proprio. Hanno stretto accordi con la potente ’ndrina degli Strangio, sono diventati “mediatori culturali” per il nero Massimo Carminati e il ras delle coop Salvatore Buzzi, fino a farsi società imprenditrice. Un’ascesa inarrestabile.

Le feste tra candelabri e specchi. Arrivati dall’Abruzzo e dal Molise negli anni Settanta, hanno messo radici in quel quartiere di baracche per sfollati raccontato da Pier Paolo Pasolini. All’ombra dei resti dell’acquedotto Felice, con le arcate che scompaiono dietro mura e cancelli, hanno costruito la loro roccaforte. Si sono piazzati a pochi chilometri dal centro di Roma per avanzare tra palazzoni di edilizia selvaggia, sale slot e abbandono, tollerati da una metropoli sempre più rassegnata e impaurita. Criminalità zingara e “de noantri” che dentro al vicolo di Porta Furba decide la droga, il butì, da comprare e vendere; il tasso di usura da applicare; a chi far pagare il pizzo. Dentro un via-vai di “cavalli” a prendere le dosi, gente terrorizzata che li implora perché non ha i soldi per pagare e loro, i padroni, che sfrecciano su Ferrari e Porsche suonando forte il clacson per confermare il prestigio criminale. Quando giri per il loro territorio, ti accorgi di avere a che fare con una realtà che è tutt’uno con la vita dei quartieri. «Non so di casi di estorsione, se ne conoscessi li denuncerei», risponde il giovane prete della zona. È arrivato da pochi mesi nella chiesa di San Gaspare del Bufalo, una struttura progettata da Pier Luigi Nervi con un oratorio che accoglie senza tetto e bambini del quartiere: «Ci sono tanti figli dei Casamonica che vengono a catechismo, ma sono famiglie povere. Ci presentano la dichiarazione dei redditi che attesta la loro condizione e noi li aiutiamo», spiega. Carità cristiana verso i nullatenenti, che hanno dietro un clan con un patrimonio stimato in 100 milioni di euro e ragazzini che sfoggiano al polso le maglie massicce di orologi di lusso. La Basilica di San Giovanni Bosco è solo qualche chilometro più in là. Quello è il luogo dell’apoteosi, tre anni fa, il funerale trionfale di “zio Vittorio” con la carrozza, i petali dall’elicottero per celebrare il re di Roma. La morte che diventa reality, un bene di consumo per mostrare lo sfarzo del potere. Don Giancarlo minimizza: «È stato un caso, sono venuti solo perché la chiesa era grande. Io da quel giorno non li ho visti più». Eppure in quella parrocchia sono stati battezzati i figli del padrino e quelli dei suoi fratelli. Perché la famiglia è tutto. Battesimi, matrimoni e funerali ne scandiscono la vita; stringono i legami trasformando i singoli in manipolo, come le dita che si chiudono nel pugno; decretano gerarchie e ruoli. Come i boss siciliani e calabresi. Tutto deve essere approvato dal clan, nozze e riti. Così davanti alla fuitina d’amore di una Casamonica con un rom povero, si è pronti a punire lo sgarro tentando di ammazzare la famiglia del giovane. «È la razza propria che è fatta in questa maniera. Se a me me serve una cosa, pure se io sto in difficoltà, vado da mi’ zio e mi’ zio m’aiuta», chiarisce il padrino Giuseppe Casamonica. Uniti per sempre, ognuno con i suoi compiti perché «anche noi zingari c’abbiamo delle regole. Funziona come in Calabria, abbiamo una gerarchia», fa sapere Liliana, la sorella maggiore promossa reggente durante l’assenza del capo. È lei che va a trovarlo in carcere per prendere gli ordini. Perché anche quando i capi finiscono in galera non si disperano: «Parliamo la nostra lingua, le guardie non capiscono e possiamo fare come ci pare». Le donne sono sempre più in primo piano: prendono decisioni, tengono i conti, pagano medici e avvocati con decine di migliaia di euro nascosti nel forno della cucina o murati nel salone decorato a stucchi, tra centrini e tigri di porcellana a far da guardia. Custodiscono la droga in camera da letto, nel comò, ma solo di giorno, con le vedette che avvisano dell’arrivo di facce sconosciute e non autorizzate ad entrare. Alla sera hanno il compito di portare “la roba” fuori da casa per timore delle perquisizioni. Confezionano le dosi, da nascondere nei fazzoletti. Un compito delicato su cui non è concesso sbagliare. Donne che con i bastoni inseguono i cronisti in strada, protetta dai figli a cui hanno insegnato a urlare contro “gli infami” «siamo tutti innocenti». Devono far vedere a tutti che quella zona è cosa loro. Belle da giovani, con i capelli lunghi corvini e le forme generose, sono destinate a saltare l’adolescenza e trasformarsi in adulte precoci. Le ritrovi presto madri che nascondono il corpo già segnato dalla vita sotto gonne lunghe. In casa bisogna essere dimesse, è concesso l’unico vezzo delle unghie lunghe smaltate di brillantini, tanto che quasi non le riconosci quando per le ricorrenze sfoggiano vestiti firmati e luccicanti. Quelle feste tra candelabri e specchi con menù a cinque portate serviti in ristoranti interamente riservati a loro e dove non pagano il conto, non sono momenti di gioia ma impegni di rappresentanza. Fuori i ragazzi più muscolosi controllano tutto, mentre auto di lusso riempiono i parcheggi. L’uniforme è la tuta da ginnastica, con i tatuaggi che spuntano dalle maniche piegate e le collane d’oro. In tasca rotoli di banconote, anche 5 mila euro, perché le estorsioni si pagano in contanti. Immancabili i pitbull, spesso costretti a gare mortali per raccogliere scommesse. Il loro stile non è alieno in quelle borgate. Da immortalare con un selfie e postare sui social. Gli orologi di lusso non sono solo simboli ma anche un terminale dell’economia criminale: il metodo per auto-riciclare perché sono più sicuri. Lo chiarisce il ventenne Guerrino a un amico che vorrebbe fargli produrre film attivando conti offshore per ripulire i guadagni crescenti del clan: «L’orologio non perde valore». La città è terra di conquista. C’è da allargare casa per il matrimonio? Costruiscono sul marciapiede. La macchina nuova ha bisogno di più spazio per entrare in garage? Spostano la fermata dell’autobus. Nessuno si oppone. Arroganza urbanistica con le statue di marmo alte tre metri, i portoni barocchi e dentro i water d’oro zecchino tra i reperti dei tombaroli. Hanno ville confiscate ma se ne fregano e restano lì. Rastrellano appartamenti nelle palazzine d’edilizia popolare, ne decidono persino l’assegnazione, ma non ci vivono, per non mischiarsi ai “gaggi”, gli stranieri.

Prestanome per centri estetici e bar. Non hanno neppure bisogno di sparare. A fucili e pistole, preferiscono i pugni. Sanno picchiare duro, alcuni sono pugili professionisti, come l’ex campione olimpico Romolo, poi finito in cella per estorsione. Capaci di prendere a cinghiate una disabile solo perché osa criticare la loro bravata in un bar della Romanina e scaraventare bottigliate addosso al barista rumeno colpevole di non averli serviti per primi. La violenza plateale, come nel pestaggio del “Roxy Bar”, non era solo follia: in quell’aggressione c’era marketing criminale: «Qui comandiamo noi e se non fai quello che diciamo, ti ammazziamo». E la spavalderia davanti al giudice di uno dei giovani autori del raid, Antonio Casamonica - «Mi sono intromesso per proteggere la signora, anche per salvaguardare una bambina di colore che era nel bar» - può avere un sapore da commedia, ed invece è espressione di una cialtroneria più romanesca che gitana, plastica in quel gesto finale dopo avere devastato il bar: il braccio alzato per dare “il cinque” al complice prima di sgommare su una Ferrari nera. La periferia che sborda in rivoli di caseggiati dormitorio che la uniscono al mare e ai Castelli romani è una terra di nessuno, terra dei Casamonica. Un nome che si sussurra e si rispetta. Perché appunto loro sono tutti e nessuno: «Dei Casamonica devi avé paura perché noi siamo tanti e se pure vado in carcere te vengono a cercà in 100 e non campi più». Perché nelle borgate dove le istituzioni si sono eclissate spesso sono l’unica autorità. Basta girare nel loro quartiere: «Loro sostengono che dentro “casa” non si devono fare casini», constata una signora. I Casamonica regnano, l’alternativa è il caos. Quindi conviene doppiamente tacere. Lo stesso cappio volontario che zittisce gli usurati, costretti a onorare anche tassi annui del 1.000 per cento altrimenti sono botte. «Sono degli animali che squartano le persone, lo sanno tutti… neanche sotto tortura li denuncerò». E c’è chi quando non ce l’ha fatta più a pagare è scappato persino dall’Italia. Anche se, incredibilmente, il conduttore radiofonico Marco Baldini, ex spalla di Fiorello, sostiene di avere ricevuto denaro da loro senza chiedere nulla in cambio e spiega di avere «più paura dei magistrati» e della denuncia per falsa testimonianza. Poco fuori dal fortino di Porta Furba è sufficiente attraversare via Tuscolana per trovarli tra videopoker e pensionati alla ricerca della vincita. All’alba sotto l’insegna del “All In” un ragazzo di colore dorme sull’ingresso, ma sa di doversene andare prima dell’apertura. Dentro c’è una sorta di agenzia del clan: spacciano al minuto e se qualcuno perde al gioco sono pronti a investire su di lui. Fanno girare i soldi della droga, ceduta persino dal re camorrista della Capitale Michele Senese, comprano centri estetici e bar con un intreccio di prestanome che gli investigatori faticano a sbrogliare. «Noi semo i più forti», si vanta il giovane figlio del boss. Una convinzione cementata finora dal senso di impunità. Suo padre, il capo Giuseppe Casamonica, condannato per narcotraffico, è riuscito a trascorrere parte degli arresti in una comunità di recupero: porte sempre aperte, niente sbarre né telecamere. Lo hanno mandato lì i giudici di sorveglianza, ritenendolo un semplice tossicodipendente da recuperare. Doveva restare in quella comunità modello «per scongiurare il pericolo di ricaduta» ma durante la detenzione, secondo le ultime contestazioni, il padrino ha continuato a controllare il suo regno. Per i Casamonica la lentezza della giustizia è una pacchia. Il boss era già stato condannato per estorsione, ma era tornato libero perché la prescrizione è arrivata prima della sentenza definitiva: tra due gradi di giudizio sono passati sei anni. A Roma accade almeno in un terzo dei procedimenti. La fama di impunità è stata lacerata martedì 17 luglio. Per la prima volta, la procura di Roma ha unito i pezzi della galassia criminale ed ha contestato l’associazione mafiosa. Due pentiti hanno fornito ai pm Michele Prestipino e Giovanni Musarò gli strumenti per colpire i Casamonica, rivelandone la natura dall’interno e dall’esterno. Ha parlato l’uomo incaricato di tenere i rapporti con i calabresi. Ma soprattutto ha parlato la moglie di uno di loro: una “gaggia”, un’estranea mai accettata dalla famiglia, si è ribellata. Ha deciso di collaborare con la legge per dare un futuro ai suoi figli. È un esempio da seguire. Quale futuro avranno questi quartieri dopo la retata? I Casamonica ora sono stati azzerati nel loro vertice, con ville e quote societarie sequestrate, ma il problema è profondo e non saranno gli arresti a risolverlo. Come in tutti i contesti criminali, se le istituzioni non riconquisteranno il territorio, il vuoto verrà occupato da altri. Tutti hanno applaudito all’intervento della procura. Per poi ricominciare a voltare lo sguardo, abbandonando larghe zone della metropoli al suo destino, senza interventi per ripristinare una legalità quotidiana, senza che alla rassegnazione dei cittadini si sostituisca una lezione di speranza. Proprio quello che i Casamonica e i loro emuli vogliono. Aspettano che torni il silenzio per ricominciare a comandare.

Ville Casamonica, ventun'anni fa l'ordine di abbattere. La svolta (e il coraggio) negli ultimi 10 mesi. L'ente di prossimità ha lavorato sul piano amministrativo per consentire la demolizione delle villette abitate dai Casamonica. Anche i fondi per l'abbattimento arrivano dal Municipio VII, scrive Fabio Grilli il 20 novembre 2018 su Roma Today. C'è la mano del Municipio VII dietro la maxi operazione avviata martedì 20 novembre in via del Quadraro. A pochi metri dal Parco di Tor Fiscale, quattrocento agenti e venti mezzi sono stati mobilitati all'alba per abbattere otto villette abitate da esponenti della famiglia Casamonica. 

L'intervento è finanziato dal Municipio VII. L'operazione ha la regia dell'ente di prossimità. Il Municipio VII ha infatti stanziato, circa 10 mesi fa, seicento mila euro per contrastare gli abusivismi presenti nel territorio. In realtà i semi dell'operazione erano stati gettati ancora prima, nel lontano 1997. A quella data infatti risalgono le determine dirigenziali che prevedevano l'abbattimento di cinque villette. L'esecuzione non era mai arrivata anche perchè gli edifici da demolire erano otto, per complessivi 2mila metri quadrati.

Le pratiche amministrative. L'amministrazione di prossimità, ha deciso di chiudere l'iter amministrativo, ottenendo le determine dirigenziali mancanti. La scelta di procedere all'abbattimento è motivata dal fatto che, gli otto edifici, sono stati realizzati in un'area soggetta a vincolo archeologico, paesaggistico e ferroviario. Da qui l'impossibilità di sanare gli abusi per procedere ad un'eventuale assegnazione ai servizi sociali.

Il destino dello spazio. Per completare l'operazione, che impegnerà complessivamente seicento agenti della Polizia Locale, ci vorrà del tempo. Almeno un mese e mezzo, tra la demolizione ed il conferimento in discarica di tutto il materiale di risulta. Poi si porrà il problema di come utilizzare quello spazio. A piazza di Cinecittà, dove ha sede il Municipio VII, piace l'opzione di convertirlo in un'area giochi. Una scelta poco impattante sul piano urbanistico ed anche funzionale, per la presenza di una scuola a poca distanza dall'ex feudo dei Casamonica. Occorre però verificare se la natura dei tre vincoli presenti, consentono questo tipo di intervento. Poi serviranno altri fondi per chiudere definitivamente il cerchio e riqualificare un'area che, sul piano paesaggistico, è sicuramente di grande pregio.

Casamonica, bicchierini con cocaina e allacci abusivi alla corrente: le telecamere nella villa abusiva del clan, scrivono di Mauro Episcopo e Angela Gennaro il 20 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Durante il blitz di questa mattina della polizia di Roma capitale ritrovati alcuni grammi di cocaina in una delle ville del clan dei Casamonica. Alcune autovetture sono state messe sotto sequestro. Ritrovati allacci abusivi della corrente elettrica in “almeno cinque abitazioni” spiega il comandante della polizia locale Antonio Di Maggio. Le ville abusive verranno demolite nei prossimi giorni.

Casamonica, dalla realtà alla fiction: quelle scene già viste in Suburra, scrive Martedì 20 Novembre 2018 Ilaria Ravarino su "Il Messaggero". Drappi e divani di velluto blu, quadri a tema religioso, affreschi, busti di marmo, vasche idromassaggio. Tappeti damascati, crocifissi di ogni dimensione, palme di plastica, piume di pavone, leopardi di ceramica. E poi oro, tantissimo, ovunque: oro sugli schienali delle sedie, sui braccioli a forma di zanna d’elefante, sulle colonnine doriche all’ingresso della cucina, d’oro persino la statua del santo collocata in bagno. «Quanno torno a casa nun vojo pensà a gnente», diceva il sinti Manfredi, del clan degli Anacleti, stravaccato nella sua reggia in uno spot della serie Netflix Suburra. Gli interni delle ville dei Casamonica: cavalli d'oro e affreschi. Fantasia? Più che altro, un corto circuito con la realtà, a giudicare dalle prime immagini e testimonianze arrivate dopo il blitz della polizia nelle ville dei Casamonica, nel quartiere Quadraro a Roma. Di fatto, sembrava una scena dal set di Suburra. Perché la serie si è effettivamente ispirata alla malavita romana. Da una parte la finzione, quella del Clan Anacleti (Spadino, Manfredi, Boris, Aldo), ispirato in parte alla famiglia degli Spada, dal 2011 radicati nella zona di Ostia, in parte a quella dei Casamonica, storica famiglia sinti da generazioni operativa nella città di Roma. Dall’altra la realtà: quella dei Casamonica appunto, che al Quadraro si spartivano in trenta persone otto villette, a ridosso di un acquedotto romano in zona “protetta”, si fa per dire, da vincoli archeologici, paesaggistici e ferroviari. In mezzo, come sempre, i cittadini soffocati dal crimine, le vittime degli abusi impuniti, gli innocenti. Come i minori che vivevano in quelle ville, portati via stamattina, avvolti nelle coperte, dai genitori - un’immagine, questa sì, che la fiction si è sempre rifiutata di mostrare.

Chi sono i Casamonica: tutto sulla famiglia che controlla Roma Sud. La famiglia, arrivata dall'Abruzzo, ha messo radici nelle zone di Romanina, Anagnina, Porta Furba, Tuscolano, Spinaceto e più giù, verso sud, in altri comuni fino ad arrivare a Frascati e Monte Compatri, scrive Lorenzo Nicolini su Roma Today il 20 novembre 2018. Sono arrivati a Roma dall'Abruzzo e dal Molise nei primi anni sessanta. Avevano roulotte, cavalli e la fame di arrivare. Un gruppo di origine sinti che, in questi anni, si è imposto nella Capitale, grazie anche ai rapporti costruiti e consolidati con le mafie. Ecco chi sono i Casamonica. Quasi nessuno gli dava credito. Come può un gruppo di sinti stanziali, giunti da Pescara e da Venafro (in provincia di Isernia, in Molise), far paura? La voglia di superare tutti gli ostacoli, senza condizioni e senza paura, ha permesso agli "zingari" di diventare i padroni di Roma. Almeno di una parte, quella della periferia sud-est della capitale: Romanina, Anagnina, Porta Furba, Tuscolano, Spinaceto e più giù, verso sud, in altri comuni fino ad arrivare a Frascati e Monte Compatri. Sono queste le aree dove solamente ascoltare il cognome "Casamonica" mette paura. Un impero partito con il commercio di cavalli, costruito col racket e tassi di usura dal 200 al 300%, consolidato col traffico di droga e infine ripulito attraverso il settore immobiliare e quello automobilistico. Estorsione, spaccio, corruzione, racket, riciclaggio di denaro, prostituzione, appalti, usura, scommesse sportive, omicidio, furto, rapina e gioco d'azzardo. Ormai nel curriculum criminale di quello che, secondo le ordinanze è considerato un vero e proprio clan composto da un migliaio di affiliati, non manca nulla. Secondo la Direzione Investigativa Antimafia è la struttura criminale più potente e radicata del Lazio, con un patrimonio stimato di 90 milioni di euro. L'exploit con Vittorio Casamonica, il "Re" morto e celebrato con le canzoni de Il Padrino e la sfarzosa carrozza nera trainata da cavalli nel giorno del suo funerale. Lui, che amava il karaoke, ha frequentato la scuola criminale di Renatino De Pedis, il 'Dandy' del Romanzo Criminale, diventando l'addetto al recupero crediti di Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda della Magliana. Uno che nel 1990 risultava nullatenente ma che, secondo la Guardia di Finanza, aveva un tesoro di oltre duemila miliardi di lire. Sono gli anni della formazione. Per lui e per il clan. Così si impara il "mestiere", pensano i Casamonica. Così sarà. Un potere forte anche grazie agli accordi, di sangue e di business, con i loro parenti Di Silvio, Spada, Di Rocco, Bevilacqua, Spinelli e De Rosa. Tutti abituati a trasformare anche la nobile arte della boxe in un'arma di riscossione di massa. Il funerale di Vittorio, con anche un elicottero che, pur non autorizzato al volo a causa dal blocco aereo della città di Roma lanciava petali di fiori sul corteo funebre, ha solamente scoperto il vaso di Pandora. Le foto di Luciano Casamonica, cugino del boss del clan, insieme al candidato e sindaco uscente Gianni Alemanno nel 2013 fanno il giro dei media e dei social: ora tutti si interessano al "fenomeno" Casamonica, non solo gli inquirenti che già erano sulle loro tracce da anni. Durante la sua reggenza, la famiglia si è arricchita. La "crisi", quella che ha colpito la maggior parte dei cittadini, non ha le fattezze della famiglia sinti. I Casamonica, negli anni, hanno costruito ville, con arredi in marmo e d'oro, e comprato case. Si sono spinti fuori i confini bussando alle porte del Principato di Monaco e di San Marino, aprendo correnti. Matrimoni di convenienza, "lavori" eseguiti per conto di terzi e difesa dei territorio conquistati. E poi, nonostante le tante inchieste, nessun pentito e, soprattutto, nessun estraneo. Insomma solo chi è del clan, può far parte del clan. Una sorta di 'Fight club' a gestione familiare. Semplici mosse per allungare sempre più i tentacoli. E poi, c'è la regola numero uno: essere spregiudicati. Un esempio è Consilio Casamonica, ufficialmente venditore di auto e detto 'Tony Il Meraviglioso': è l'uomo che ha messo nei guai il suo pubblico accusatore, un magistrato, con una mossa degna di un film: gli ha mandato l'amante a palazzo di giustizia. Sesso in cambio di scarcerazione. La rovina per il pm. Ma non è l'unico mantra. Oltre ad essere spregiudicati, bisogna apparire. Se in tv o sui social è meglio. Ma non in atti criminali, anzi. Nel 2010 su YouTube diventa virale un video: centinaia di membri della famiglia Casamonica si recano con un corteo di macchine attraversando il Raccordo Anulare verso la villa della promessa sposa di Victor. Con i parenti e gli amici c'è anche un cantante neomelodico napoletano incaricato di eseguire la serenata. Insomma, anche questo è marketing. Ma il segnale è anche un altro: le donne sono numerose quanto gli uomini. Non perché è una occasione di festa, il motivo è un altro: se il compagno va in galera a vigilare sul loro territorio ci sono loro. Tutti lo devono sapere. Un codice chiaro, definito negli anni. Come la 'Ndrangheta, la Mafia o la Camorra: il gruppo sinti ha inserito i propri valori della tradizione modellandoli in chiave moderna. Onore, omertà e solidarietà sono le colonne portanti. Abusivismo edilizi, conti off shore e atti criminali le mura e il tetto. Negli anni, tuttavia, la morsa delle forze dell'ordine si è fatta sempre più stringente. A gennaio del 2012, a seguito di una maxi operazione contro lo spaccio di sostanze stupefacenti, sono stati arrestati 39 esponenti del clan e sequestrati beni per milioni di euro. Per la prima volta nella loro storia criminale, contro i Casamonica viene formalizzata l'imputazione di associazione per delinquere nei confronti di alcuni esponenti della banda. I fari degli inquirenti puntano forte sulle aree del clan. Il 1 aprile 2018 il pestaggio al Roxy Bar è il grimaldello: Antonio Casamonica, Alfredo, Vincenzo ed Enrico Di Silvio, responsabili degli atti di violenza ed intimidazione, vengono arrestati per lesioni, minacce e danneggiamento. Il tutto con l'aggravante del metodo mafioso e a pochi mesi da altre infiltrazioni dal metodo mafioso, quelle del clan Spada, contiguo proprio a quello dei Casamonica. L'operazione Gramigna è un altro duro colpo, sia per i 31 arresti che per un'altra scoperta, l'ennesima: Porta Furba è la roccaforte del clan. 

Il vero volto dei Casamonica. Cocaina e pestaggi. Usura e tesori nascosti. Legami con la ’ndrangheta e affari con la camorra. Controllo del territorio e segreto assoluto sulle gerarchie interne. Altro che folklore: è una cosca potentissima e violenta. E anche il funerale-show di agosto rientra in una strategia, scrive Gianfranco Turano il 23 settembre 2015 su "L'Espresso". Sono arrivati a Roma nei primi anni Sessanta. Avevano le roulotte e la fame. In cinquant’anni i Casamonica si sono presi la capitale, hanno stretto rapporti con ’ndrangheta e camorra. Si sono arricchiti con il sacco edilizio, il traffico di autoveicoli e la coca. Hanno prestato la loro violenza e la loro ambizione inarrestabile alla classe dirigente di una città perennemente in vendita e Roma ha ricambiato offrendo consigliori e protezioni di prim’ordine nella politica, nei tribunali, fra gli imprenditori. Si sono difesi dai processi con il minimo del danno e la politica del basso profilo. Eppure fin dagli anni Ottanta erano il braccio violento della legge di Enrico Nicoletti, cassiere della Banda della Magliana e dei potenti tangentari andreottiani della capitale. Usuraio e banchiere non autorizzato attraverso la Cassa di Rieti, Nicoletti era amico fraterno del padrino Vittorio, celebrato da un funerale sfarzoso il 20 agosto. Chi non restituiva per tempo capitali e interessi sapeva che se la sarebbe vista con i Casamonica e con i loro parenti, i Di Silvio, gli Spada, i Di Rocco, i Bevilacqua, gli Spinelli, i De Rosa, abituati a praticare la nobile arte della boxe nella doppia versione della sfida sportiva sul ring e del pestaggio. Nonostante rapporti ad altissimo livello, Nicoletti è stato incarcerato una volta ancora nel novembre 2013, a 75 anni. Vittorio è morto nel suo letto. Durante la sua reggenza, la famiglia ha prosperato senza conoscere crisi. I Casamonica hanno costruito ville e comprato case in tutta la metà orientale della città fino ai Castelli romani. Hanno aperto conti correnti nelle banche di Monaco e di San Marino. Hanno condotto una politica matrimoniale destinata in modo scientifico a rafforzare la coesione interna. Sulle amanti si può chiudere un occhio. Sui fidanzamenti sbagliati no, come sa Angelina Casamonica, dissuasa a raffiche di mitra contro le pareti della sua villa della Romanina, mentre era agli arresti domiciliari per droga nel luglio 2013. Ha funzionato: tante inchieste, nessun pentito e nessun estraneo che sappia davvero come funziona il governo del clan, accreditato dagli investigatori di un reddito annuo di 40 milioni di euro per un migliaio di affiliati. Già districarsi fra omonimie e parentele è un’impresa. Secondo alcuni, la macchina da soldi e - non va dimenticato - da voti è amministrata da un direttorio composto da elementi di varie generazioni. Secondo altri, il delfino di Vittorio è suo nipote Consiglio, classe 1968, figlio dei due cugini Quirino e Adelaide Casamonica, ufficialmente venditore di auto come il patriarca defunto. Consiglio è l’uomo che ha messo nei guai il suo pubblico accusatore, il magistrato Roberto Staffa, con una mossa degna di Tony Soprano: gli ha mandato l’amante a palazzo di giustizia. Sesso in cambio di scarcerazione. Staffa ha accettato, è stato filmato dai carabinieri ed è finito in galera. La sua rovina è stata anche quella del processo partito dalla retata storica del 24 gennaio 2012 e finito a pezzi prima nell’appello del febbraio 2014, che ha rimesso in libertà Consiglio e Quirino Casamonica, e poi in Cassazione lo scorso 21 maggio. Per adesso non ci sono inchieste per associazione a delinquere di stampo mafioso. Gli avvocati difensori hanno avuto buon gioco a sostenere che «non si può essere condannati solo per il proprio cognome» e che la responsabilità penale è dell’individuo, non della tribù. Eppure il funerale di Vittorio dimostra che la forza dei Casamonica è nel clan, nel bene e nel male. Fra i tanti filmati messi in rete dalla stessa famiglia ce n’è uno di cinque anni fa che racconta meglio di tutto il significato di essere un Casamonica. È la serenata di corteggiamento organizzata da Victor, recordman di audience a “Porta a porta” insieme alla zia Vera e nipote del patriarca Vittorio. Centinaia di persone seguono in macchina il ragazzo fino alla casa dell’amata, tra gli svincoli del Raccordo anulare, nella notte della periferia romana, con neomelodico napoletano al seguito. Le donne sono numerose quanto gli uomini e non perché l’occasione sia festiva. Sono lì, alla pari degli uomini, anche quando c’è da andare in galera o da vigilare sul loro territorio, inaccessibile come certe favelas brasiliane. Roma, 2010. Centinaia di membri della famiglia Casamonica si recano con un corteo di macchine attraversando il Raccordo Anulare verso la villa della promessa sposa di Victor. Con i parenti e gli amici c'è anche un cantante neomelodico napoletano incaricato di eseguire la serenata.

IL ROMANTICISMO FASULLO. Come la ’ndrangheta, gli ex nomadi arrivati dal Molise, dall’Abruzzo, dalla Calabria e dalla Puglia, hanno inserito i valori premoderni della tradizione rom e sinti (onore, omertà, solidarietà) in una modernità fatta di investimenti offshore, scudi fiscali, abusivismo edilizio e misure di protezione patrimoniale a livelli di sofisticazione estrema. Nell’iconografia ufficiale rimangono i bagni con i rubinetti d’oro, i saloni con i capitelli ionici, le facciate dipinte in rosso pompeiano, i giardini con palme e piscina, i completi da cerimonia in satin, i matrimoni pacchiani, le donne con gli orecchini fino alle spalle e le gonne fino ai piedi. È una falsa immagine di delinquenza di medio cabotaggio che si tiene lontana dalle armi e dagli omicidi. Si è scritto che i Casamonica si astengono dalle armi da fuoco per tradizionalismo e che si servono di personale extracomunitario per il law-enforcement indispensabile in un ramo d’affari come la droga, dove ogni tanto è tristemente necessario sparare a qualcuno. Si potrebbe notare che non c’è differenza, sul piano della legge, fra chi esegue e il mandante. Ma il romanticismo banditesco è svanito da tempo, se mai c’è stato. È propaganda. Ecco un esempio. Roma, quattro anni fa. La zona è Fonte Nuova, sempre nel quadrante est ma più a nord dei fortini del clan all’Anagnina, al Quadraro e alla Romanina. Leonardo Bevilacqua detto Carmine, “zingaro di Colleverde di Guidonia”, ha uno screzio con un buttafuori albanese pregiudicato all’entrata di uno dei locali che ospitano slot machines, altro ramo di business sotto controllo della famiglia. L’albanese non comprende chi ha davanti e gli manca di rispetto. Due mesi dopo Carmine si presenta per avere le scuse. Nuova lite, ma stavolta Bevilacqua torna in pochi minuti e spara quattro colpi all’albanese, che si salva grazie a un intervento di urgenza. Qualcuno ha portato a Bevilacqua una Beretta rubata nel bresciano sette anni prima e qualcuno l’ha presa in consegna dopo il delitto. È la prova di un controllo completo del territorio: a casa propria è superfluo circolare armati. Se bisogna dare una lezione a qualcuno, in pochi minuti la pistola arriva. In pochi minuti sparisce. Al processo di primo grado, due anni fa, Bevilacqua si presenta con la confessione del delitto - non voleva uccidere - e un assegno non trasferibile da 10 mila euro intestato all’albanese, che nel frattempo è stato arrestato per altri reati. L’albanese, terrorizzato, in un primo tempo non vuole saperne di ricevere l’offerta per paura di ulteriori danni. Poi comprende che, se accetta, all’imputato saranno concesse le attenuanti. «Chissà se l’assegno l’ha incassato», commenta chi ha lavorato al caso.

IL SENSO DI QUEL FUNERALE. Il caso Bevilacqua è di quelli che finiscono con rilievo minimo sui giornali dove per decenni i Casamonica hanno evitato con cura di comparire. Tutto cambia con il colpo di teatro del 20 agosto scorso. Nella chiesa di San Giovanni Bosco al Tuscolano si celebra il funerale di Vittorio Casamonica, 65 anni, arrivato a Roma da Venafro, Molise, quando era ancora un bambino. È la scena madre di un coming out mediatico programmato nei minimi particolari. Il manifesto con la foto di Vittorio benedicente, di bianco vestito e con un enorme crocifisso sul petto, non ha bisogno di interpretazioni nella città del papa. Ma i Casamonica sono cattolici rispettosi e l’ipotesi di blasfemia è subito fugata dalla scritta “Re di Roma” che campeggia sull’immagine del defunto. Il messaggio è diretto a eventuali usurpatori di titolo e ai rappresentanti dello Stato, presi di sorpresa dalle esequie trionfali del capoclan. Il manifesto sembra dire: se Massimo Carminati e Salvatore Buzzi sono mafia capitale, noi siamo la monarchia della città eterna. E di re, a Roma, ce n’è uno alla volta. Dopo la sparata il tiro è stato corretto verso il basso. Prima c’è stato lo show di Vera e Victor Casamonica, figlia e nipote del morto, da Bruno Vespa a “Porta a Porta”. Il loro successo di pubblico ha premiato l’aspetto folkloristico che i Casamonica usano per sminuire la loro dimensione. I parenti del boss Vittorio Casamonica - ospiti a Porta a Porta - hanno risposto alle polemiche riguardanti lo sfarzoso funerale del 20 agosto scorso. Vera e Vittorino Casamonica, rispettivamente figlia e nipote di Vittorio, hanno risposto alle domande di Bruno Vespa sulla fotografia che lo paragonava al Papa, l'affitto dell'elicottero che ha sorvolato uno spazio aereo non autorizzato e la musica scelta per la cerimonia, la colonna sonora de "Il Padrino": "Da lassù - ha detto la figlia Vera - è contento perché abbiamo fatto il funerale che piaceva a lui". La tappa seguente del road-show a beneficio della stampa si è tenuta nei quartieri orientali della capitale dove i Casamonica dettano legge. Luciano Casamonica, 58 anni, si è messo a disposizione dei cronisti per rettificare, correggere, smentire in svariate videointerviste, come sa fare un bravo capufficio stampa. È il cugino omonimo del Casamonica nato nel 1968, con precedenti per omicidio, rapina e furto, che trattava la gestione del campo nomadi di Castel Romano con la banda di Carminati e che è apparso nelle foto con Buzzi e l’allora sindaco Gianni Alemanno alla cena del centro accoglienza Baobab (settembre 2010). Mafia? La mafia a Roma non esiste, ha detto Luciano che ha un passato nel cinema. Da bambino ha recitato con Tomas Milian e il grande Orson Welles nello spaghetti western “Tepepa” (1969). Con i cronisti si è mostrato sempre affabile, sorridente, pronto a chiarire eventuali equivoci. Nella sua versione dei fatti, i Casamonica non hanno a che fare con la droga e Vittorio «qualche pecca, qualche truffa l’ha avuta, ma ha aiutato la gente, faceva beneficenza a chi non aveva qualche soldino». Ecco la figura dell’uomo di consenso, dell’uomo di pace, del padrino sempre pronto ad aiutare i bisognosi. Sono toni molto diversi da quelli che altri Casamonica hanno usato contro i cronisti della Rai, aggrediti per avere tentato di entrare nelle zone di massima vigilanza quattro giorni dopo il funerale. Il 31 agosto, Vincenzo e Loredana Spinelli sono stati condannati per direttissima a due anni e quattro mesi con la risposta fulminea che lo Stato sa dare solo quando è in ritardo di decenni. Adesso la pressione aumenterà e i Casamonica lo sanno. Se hanno scelto la sfida, vuol dire che si sentono pronti. Sono nati pronti. Da quando il tredicenne Vittorio Casamonica si è trasferito a Roma per vendere motorini trovati un po’ qui un po’ là, così da regalarsi la prima Ferrari a diciassette anni, i Casamonica e i clan consanguinei sfidano la giustizia. Non vincono sempre ma vincono spesso. Lo stesso Vittorio è passato indenne per i suoi 65 anni di vita da un’infinità di processi che lo dipingono in modo assai diverso dall’agiografia propagata il 20 agosto. Nel suo curriculum non ci sono soltanto le pecche e i processi per reati contro il patrimonio come la truffa con assegni scoperti - un classico nel modus operandi del clan - per comprare una Ferrari nel 2007 (otto anni per arrivare a un appello che non si terrà per decesso dell’imputato). Sedici anni fa in Abruzzo Vittorio Casamonica e Angiolina Di Rocco, erano stati processati per un prestito (360 per cento di interessi annui) a due donne che volevano comprare una casa. Quando i soldi non erano rientrati, erano arrivate le minacce di incendiare la casa e di scannare il figlio di una delle vittime. I giudici hanno assolto Vittorio e Angiolina nel 2003 derubricando l’estorsione in esercizio arbitrario delle proprie ragioni, non perseguibile per difetto di querela. Insussistente l’usura.

ASSEGNI E TERRENI. Angiolina Di Rocco, nata nel 1941, è ancora oggi proprietaria della villa in via Rocca Bernarda all’Anagnina dove c’è la sede legale della Service Car del “re di Roma” Vittorio. Da lì è partito il suo corteo funebre. L’edificio di via Rocca Bernarda è sul confine fra il comune di Roma e il Comune di Frascati, che risulta comproprietario del terreno. Qualche civico più in là, il municipio dei Castelli è partner di Anna Di Silvio, moglie di Giuseppe Casamonica, 65 anni e circa 3 milioni di euro depositati sui conti di famiglia presso la Société Générale Bank & Trust a Montecarlo, prima che il magistrato antimafia Lucia Lotti sequestrasse tutto nel 2004. La zona di via del Quadraro, dove la polizia fatica a entrare, è in parte di proprietà del demanio delle Ferrovie dello Stato, con i Casamonica che hanno i diritti di superficie, secondo lo schema seguito da alcune squadre di calcio di serie A per realizzare i nuovi stadi. Il repertorio di astuzie prosegue con l’intestazione di immobili a minorenni come Giuseppe Casamonica, nato nel 2001 e già proprietario della villa di via Flavia Demetria. Da segnalare che per queste operazioni è necessario non soltanto il consiglio di un buon avvocato ma anche il permesso del tribunale dei minori. Anche le srl semplificate, introdotte di recente per favorire l’imprenditoria giovanile, figurano fra gli asset di famiglia dato che possono essere aperte con un capitale sociale simbolico (1 euro). Poi ci sono i vecchi ferri del mestiere, assegni postdatati e scoperti come quelli che figurano nel palmarès di Vera, la star di “Porta a porta”. Servono per non pagare. Chi si lamenta finisce come il marmista iraniano Mehdi Dehnavi, picchiato a sangue. E solo pochi coraggiosi, come Dehnavi, denunciano. Gli assegni a vuoto servono anche come prova di difficoltà finanziarie per scongiurare le centinaia di sequestri che hanno danneggiato il clan senza incrinarne la potenza economica. I Casamonica sanno rispondere colpo su colpo ai provvedimenti dei tribunali. Il progetto Selve Nuove a Ciampino si è fermato solo per l’arresto di Guido per estorsione nell’indagine Tulipano del procuratore aggiunto di Roma, Michele Prestipino. Ma ad Ardea, sul litorale romano, la famiglia ha conservato il controllo delle villette costruite in via Terni (quartiere Nuova Florida) da impresari legati alla ’ndrangheta mentre, nella stessa strada, la villa di Nicoletti è stata confiscata.

LITI DI FAMIGLIE. Non tutto scorre sempre bene nei rapporti fra il clan degli zingari e le organizzazioni criminali più strutturate. Luciano, il capufficio stampa della famiglia, può testimoniarlo. Nel 2004 è stato arrestato per traffico di stupefacenti dalla Dda di Catanzaro insieme a un gruppo di esponenti delle ’ndrine vibonesi (operazione Replay). Aveva preso cocaina in conto vendita e non riusciva a restituire i soldi ai soci delle cosche. Le intercettazioni descrivono la lunga trattativa per il recupero del credito, fra promesse e scambi di minacce, con i calabresi che nei confronti di Luciano passano dal titolo onorifico di compare a quello di “zingaro di merda”, secondo le fasi della trattativa. Anche gli ’ndranghetisti esitano sui provvedimenti da prendere contro il debitore in un misto di superstizione («i familiari di Luciano non fanno le fatture ma le tolgono») e di timore verso un personaggio “pluripregiudicato per gravi reati” che la polizia ammette di non potere controllare nella sua casa-fortezza in via del Quadraro vigilata da esponenti della famiglia. Luciano se la cava una prima volta ma non la seconda, quando i suoi pagamenti ritardati alla ‘ndrangheta gli procurano un sequestro lampo in Calabria finché uno dei figli non riesce a saldare. Giuseppe Casamonica junior, re dei locali notturni e fratello del Luciano che lavorava per Buzzi, ha rischiato di essere ucciso dai camorristi Michele Senese e Domenico Pagnozzi, due ex soldati di Carmine Alfieri, per questioni legate ai servizi di sorveglianza delle discoteche, un’altra chiave del controllo del territorio e dello spaccio. Noto per il suo train de vie da emiro e per il suo flirt con Tamara Pisnoli, ex moglie del calciatore Daniele De Rossi, Giuseppe si è salvato soltanto grazie agli arresti: il suo nel 2012 e quello dei suoi nemici per l’operazione Tulipano, dal nome del bar di via del Boschetto a Monti, nel centro della capitale, sequestrato a febbraio 2015. Al Tulipano si tenevano le riunioni del gruppo. Pochi metri più in là c’è la sorvegliatissima casa del presidente Giorgio Napolitano. Altrettanto sorvegliata, ma dagli stessi Casamonica, è la casa di Giuseppe, un nucleo di villette blindate in vicolo di Porta Furba al Tuscolano. Lì, a pochi passi da un’altra residenza del patriarca Vittorio in via del Mandrione, vive un altro degli anziani a capo della famiglia. È Guerrino, 69 anni, padre di Giuseppe ed ex consigliere della coop di pulizie Phralipé (“fraternità” in lingua romanès). Nonostante questi incidenti di percorso, le relazioni con il grande crimine restano buone e il lavoro di squadra funziona. I Casamonica hanno legami con i casalesi, soprattutto in Ciociaria, e con il gotha della ’ndrangheta, dal clan Pelle-Nirta di San Luca ai Piromalli-Alvaro. Un filmato mostra il patriarca Vittorio mentre si abbandona alla sua passione canora nel Café de Paris di via Veneto, sotto lo sguardo attonito dei clienti che non riconoscono il crooner. Sono i giorni precedenti il sequestro del locale per un presunto controllo da parte del clan Alvaro smentito dalla corte d’appello di Reggio Calabria nel maggio 2015. 2009, via Veneto, Roma. In uno dei locali storici della Dolce Vita, il Café de Paris, il patriarca della famiglia Vittorio Casamonica si esibisce davanti ai turisti americani. Sono buoni anche i rapporti con le cosche del cosentino, dove la famiglia romana voleva investire in società con l’imprenditore Pasquale Capano, mafio-massone legato al clan Muto, e arrestato a gennaio 2014. Certo, anche fra Casamonica si litiga. È accaduto un anno e mezzo fa ad Albano Laziale, quando la polizia ha sedato una maxirissa con tentato omicidio fra una sessantina di parenti membri di fazioni rivali. Succede nelle migliori famiglie.

Dalla banda della Magliana agli intrecci con Mafia Capitale, ecco chi è il Casamonica "re di Roma". Di etnia sinti, arrivato nella capitale negli anni '70, Vittorio Casamonica era uno degli esponenti più influenti della famiglia che ha avuto nei quartieri Tuscolano e Anagnina le sue basi di lancio. Negli anni la famiglia è stata al centro di indagini della magistratura e sequestri di beni, con accuse che vanno dal racket e all'usura. E un legame stretto con Enrico Nicoletti, scrive Lorenzo D’Albergo su “La Repubblica”. Una pioggia di petali rossi sparati da un elicottero, sei cavalli neri a trainare il feretro. Vittorio Casamonica, figura di riferimento della famiglia che ha stabilito il suo regno nel quadrante est di Roma, se n'è andato così. In quel lusso tanto sfarzoso quanto kitsch in cui ha vissuto per 65 anni. I Casamonica, nome che torna a più riprese nelle carte dell'inchiesta Mafia Capitale, sono di etnia sinti. Nomadi abruzzesi arrivati negli anni '70 a Roma, hanno fatto del Tuscolano e dell'Anagnina la loro base. Un fortino da cui stringere alleanze decisive per il controllo del quadrante est della capitale. Nella storia della famiglia si rintracciano accordi con le 'ndrine Piromalli e Molè e con la criminalità romana. Gli intrecci con la Banda della Magliana portano Vittorio accanto a Enrico Nicoletti. Il Casamonica in quel frangente è l'addetto al recupero dei crediti. Dopo un periodo di relativa calma -  ma le indagini dei pm di piazzale Clodio continueranno a inquadrare la famiglia nel settore del racket e dell'usura -  la magistratura torna a occuparsi del clan. Operazioni su operazioni, perquisizioni e sequestri milionari. In uno degli ultimi blitz, a casa di Vittorio Casamonica le forze dell'ordine trovano reperti archeologici di valore, vasi antichissimi. Impossibile ricostruirne la provenienza di oggetti tanto preziosi. Pezzi rari per molti, quasi tutti. Di certo non per Vittorio, che anche nel giorno del funerale con tanto di striscioni ha ricordato alla città di essere stato uno dei "Re di Roma".

Vittorio Casamonica, il rom diventato un boss da un miliardo di euro, scrive Salvatore Garzillo su “Libero Quotidiano”. Da zingaro a «Re di Roma». Vittorio Casamonica era arrivato in città negli anni Settanta: un semplice nomade abruzzese di etnia sinti. Se n' è andato a 65 anni acclamato come un moderno imperatore. A vedere la foto sui maxiposter davanti alla chiesa, col vestito bianco immacolato e la croce di platino al petto, sembra quasi atteggiarsi a Papa. Storia lunga e violenta quella dei Casamonica.  Un impero partito con il commercio di cavalli, costruito col racket e tassi di usura dal 200 al 300%, consolidato col traffico di droga in mezza Europa, e infine ripulito attraverso il settore immobiliare e quello automobilistico. Vittorio ha conosciuto la Roma della banda della Magliana, ha frequentato la scuola criminale di «Renatino» De Pedis e compari, è diventato l'addetto al recupero crediti di Enrico Nicoletti, potente cassiere della Magliana. Uno che nel 1990 risultava nullatenente, dichiarando al fisco 450mila lire l'anno e che secondo la Guardia di Finanza aveva un tesoro di oltre duemila miliardi di lire, oltre un miliardo di euro. Casamonica «compra» i debitori insolventi e recupera i soldi con metodi da gangster. Un esempio è la storia di Giuseppe Sordini, proprietario di una concessionaria d' auto sull' Anagnina che si permette di non restituire l'anticipo versato da un uomo di Nicoletti. Gli fa visita un certo Marco «er pugile», che non trovandolo al negozio manda all' ospedale un dipendente. Sordini, temerario quanto «insolente», denuncia tutto ai carabinieri e un giorno, mentre va dal barbiere, si trova davanti due persone con passamontagna e mazza da baseball: finisce in ospedale con trauma cranico, frattura di menisco, legamenti, tibia e una diottria in meno. Quando riprende l'uso della parola racconta che prima dell'aggressione aveva incrociato in strada uno zingaro del clan dei Casamonica. Sono gli anni della «formazione». Vittorio Casamonica osserva e impara il mestiere, capisce come muoversi, stringe alleanze, evita guerre. Il suo clan diventa il più potente del Lazio (90 milioni di euro stando ai dati della Dia) e per oltre trent' anni tiene le fila di un gruppo che secondo un indagine del 2008 è composto da 350 nomadi sinti e può contare su almeno un migliaio di affiliati. Negli ultimi anni il clan è travolto da molte inchieste che portano ad arresti e sequestri per decine di milioni di euro. Ma non basta. Proprio come l'impero romano, quello dei Casamonica incassa i colpi ma non crolla perché ha fondamenta forti, che affondano anche nel fango della politica. Ancora più forti, però, sono i rapporti con la 'ndrangheta, come dimostra l'accordo scoperto nel marzo 2010 tra Rocco Casamonica e Pietro D' Ardes, ex ispettore del lavoro rinviato a giudizio nel 2009 dalla procura di Palmi per associazione a delinquere in concorso con esponenti della 'ndrangheta e noto per i suoi rapporti con il clan camorristico dei Casalesi. L'unione, che ha sancito una cooperazione «mafiosa con le famiglie della 'ndrangheta calabrese dei Piromalli, Alvaro e Mole», puntava agli appalti nella gestione dei rifiuti in Campania attraverso la costituzione di società in Campania e in Calabria. Un giro d' affari da 40 milioni. A che servono tutti questi soldi? Auto veloci, ville, piscine e anche reperti archeologici di 2500 anni fa. Sì, durante un blitz del 2004, a casa del re di Roma trovano anche questo.

Roma come Corleone: perché non sono stati vietati i funerali del boss? In Sicilia da tempo vengono vietati i funerali “spettacolo” anche di semplici capibastone. Lo stesso non è avvenuto nella Capitale, scrive Alfio Sciacca su “Il Corriere della Sera”. Scene del genere non si erano mai viste neanche nella Corleone degli anni settanta. Per trovare qualcosa di simile bisogna andare a frugare nella peggiore filmografia sulla mafia. Cavalli, la carrozza tirata a lucido, Rolls Royce, l’elicottero che lancia petali di rose e poi amici ed affiliati in lacrime per dare l’estremo saluto al boss del clan Casamonica, definito senza mezzi termini «Re di Roma». E, per evitare fraintendimenti, anche la banda che suona la musica de «Il padrino». Che la mafia non fosse un problema solo siciliano lo si era capito da tempo e le ultime inchieste su Roma Capitale non hanno fatto che confermarlo. Anni di malaffare, stragi e inchieste sono però servite alla Sicilia almeno ad alzare il livello di consapevolezza di istituzioni, forze dell’ordine e, in parte, anche della società civile. Attualmente in Sicilia, ma spesso anche in Campania e Calabria, le autorità di polizia sono molto più rapide nell’intervenire per evitare certe ostentazioni di forza che poi diventano terreno di coltura per la mafia. In poche parole i prefetti e i questori di Palermo, Catania, Agrigento vietano ogni giorno i funerali anche di piccoli capibastone, proprio per evitare che possano trasformarsi in delle “americanate” come quella vista per i funerali del boss Casamonica. Altrettanto non è avvenuto a Roma che è la capitale d’Italia. Perché? Nessuno sapeva? Nessuno immaginava quel che sarebbe successo? Oppure tutto è stato colpevolmente sottovalutato? Qualcuno forse dovrà dare delle risposte. Perché quello che è successo nel quartiere don Bosco a Roma consegnerà ai media stranieri le istantanee e un video che nei prossimi giorni faranno il giro del mondo. E si farà veramente fatica a spiegare che quelle immagini arrivano da Roma, la città eterna, e non da Corleone.

COSE NOSTRE, scrive Enrico Bellavia su “La Repubblica”. Il funerale del metaboss. Perché un clan, nel pieno della bufera su Mafia Capitale, sceglie di mettersi sotto i riflettori e di farlo nel modo più eclatante? Perché sente il bisogno di lasciare intendere che l’addio al proprio capo, Vittorio, non chiude affatto un’era, anzi, è l’occasione per rimarcare la propria esistenza, la propria potenza? Prima che al resto della città, quel funerale sembra soprattutto un segnale rivolto all’universo di riferimento. Un gigantesco rito di legittimazione con il quale il clan dice agli altri che c’è e che intende esserci ancora a lungo. Il corteo lungo la Tuscolana, l’arrivo alla chiesa di Don Bosco, la carrozza, i cavalli, l’elicottero, i petali sulla folla, i manifesti inneggianti al “Re di Roma”, non sembrano solo una rivendicazione di esistenza ma soprattutto di potenza in divenire. Una sottolineatura necessaria, proprio quando la spinta investigativa ha decapitato gli altri gruppi, lasciando un vuoto di potere nello scacchiere della Roma illegale, e scalfito appena la forza economica dei Casamonica, lesti a espandersi, approfittando proprio dello sbando generale. Intanto, rimarcando col corteo funebre il perimetro fisico delle zone che sentono come loro, costringono i più scettici a fare i conti con la dimensione del pieno controllo territoriale che è uno dei pilastri - l’altro è l’impunità - sul quale i boss edificano le loro fortune. Del resto, anche nella ricerca spasmodica dell’impunità il clan di sinti stabilitosi nella capitale si è distinto, schivando con disinvoltura più di un’inchiesta. A differenza degli altri gruppi, tenuti insieme da nient’altro che l’adesione, loro hanno poi il vincolo del sangue e un portato di tradizione che impasta famiglia e affari. Sarà anche per questo che nel tempo si sono dimostrati partner affidabili di padrini delle mafie storiche che quel tipo di organizzazioni strutturate, gerarchiche e verticistiche, trovano più congeniali. In questa ostentata manifestazione che ha trasformato un addio legittimo a un proprio caro in uno show c’è la voglia e la necessità di apparire. Il doverlo fare per legittimarsi come padrini, senza però poter contare sui quattro quarti di nobiltà mafiosa nell’araldo. Abbattendo, dunque, al contrario il muro che divide la fiction dalla realtà: qui non è il film che cerca di raccontare l’universo dei padrini, ma sono loro, i padrini, che si autorappresentano come quelli dei film. Dei metaboss.

Il giorno dopo i funerali di Vittorio Casamonica alcuni parenti sono tornati di fronte alla chiesa Don Bosco per urlare la loro rabbia ai cronisti. ''Nostro zio? Non era un boss. Su di lui troppe falsità e per i suoi funerali abbiamo messo 50 Euro a testa e siamo 2.500''. "Qui stiamo parlando di Casamonica, della mia cultura, pulitevi la bocca con la varechina". Così Guerino Casamonica, uno dei familiari di Vittorio Casamonica (capo dell'omonimo clan malavitoso), al microfono di Roberta Ferrari in collegamento per la trasmissione "In Onda" proprio davanti alla chiesa di Don Bosco dove si è svolto il funerale del boss in stile hollywoodiano. Pronta la replica del conduttore Tommaso Labate che ha stigmatizzato le parole sprezzanti giunte in studio con qualche secondo di ritardo.

I Casamonica sfidano Alfano: "Giudica Dio, non la politica". La famiglia del boss all'indomani del funerale: "Vittorio era il re di Roma". E attacca: "Chiediamo scusa solo al Papa". Poi lo sfogo su Facebook: "Razzisti!", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. "Se io faccio un matrimonio e prendo la Rolls Royce non è che c’è la mafia. Noi Casamonica abbiamo sempre fatto le feste alla grande, da quando siamo qui a Roma". All'indomani del funerale scandalo di Vittorio Casamonica, la famiglia del boss replica alle accuse che le sono piovute addosso. E Luciano Casamonica, nipote di Vittorio, si rivolge direttamente al ministro dell'Interno Angelino Alfano: "Non siamo mafiosi, non siamo persone cattive". Nessun mea culpa, insomma, nessun passo indietro. La famiglia del boss non arretra di un millimetro. E difende la scelta di un funerale tanto sfarzoso da inneggiare Vittorio Casamonica come un re. Anzi, il Re di Roma. "Nel gergo nostro, nella nostra cultura significa che per noi è un re, il nostro re di Roma - spiega Luciano Casamonica - dicono che era un boss. Mio zio era conosciutissimo perché lui comprava e vendeva auto. Se n’è andata una parte del nostro cuore". E ancora: "Nella nostra cultura significa che è una persona che ha conquistato il nostro cuore, noi stessi - incalza il nipote del boss - Non era un affronto alla città. Roma è di tutti. Noi non siamo mafiosi e Vittorio non era un boss". Di chiedere scusa ai romani e all'Italia intera la famiglia di Vittorio Casamonica non ha alcuna intenzione. E tantomeno intende farlo alla politica che nelle ultime ore si è scagliata contro l'intero clan. "Quando se ne va qualcuno soltanto Dio giudica, non la politica - insiste Luciano Casamonica - Vittorio era una bravissima persona". "Noi sapevamo che doveva morire e abbiamo fatto di tutto per accontentarlo - continua - gli piacevano tanto le feste non volevamo fare una cosa di pianto. È usanza, sono anni che quando muore uno dei nostri vecchi si usano le carrozze e i cavalli". Quindi l'affondo conclusivo: "Ma a chi abbiamo dato fastidio? È la nostra cultura". "Razzisti! - attacca invece Consi Casamonica, uno dei tanti nipoti, su Facebook - parlate, solo quello sapete fa oltre che parlà leccate er c...". Gli dà ragione un cugino, Marco Casamonica, sempre con linguaggio colorito: "Ste m..., che ve possa pia na trombosi a tutti". Chiosa ancora Consi: "Falli parla solo quello je rimasto alla gente". Altri membri del clan postano i link dei numerosi articoli sul funerale di ieri a Roma, oltre ad alcuni video del defunto boss: "Il numero uno di Roma in assoluto zio Vittorio" scrive Guerino Casamonica. E un altro nipote, Fabio Russo: "I funerali sfarzosi o no con banda elicotteri manifesti non sono cazzi vostri! La politica che vi ha portato alla fame quella dovete condannare!". Lapidario Antonio Masiello Casamonica, sempre con un italiano approssimativo: "L’invidia e l’ignoranza è la rovina dell’umanità. Disgustato".

Casamonica, stessa carrozza usata per il funerale di Totò. La carrozza coi cavalli usata per il funerale di Vittorio Casamonica fu utilizzata per le esequie del famoso attore italiano, scomparso nel 1967, scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. Mentre impazzano le polemiche per il funerale del capo dei Casamonica, a Roma, emergono nuovi dettagli sulla vicenda. L'ultimo riguarda il carro funebre, un modello di lusso, come si è visto dalle immagini che hanno fatto il giro del mondo. "Affittiamo carrozze con i cavalli per i funerali quasi ogni giorno. Quella di ieri è la stessa utilizzata per le esequie di Totò", dice Ciro Cesarano, uno dei titolari dell’agenzia di onoranze funebri di Calvizzano, in provincia di Napoli, proprietaria della carrozza antica usata ieri per l’ultimo saluto a Vittorio Casamonica. E aggiunge: "Abbiamo circa 300 richieste l’anno da tutta Italia". "I funerali in carrozza non sono una novità - spiega Cesarano -. Abbiamo contatti con agenzie funebri di tutta Italia perchè siamo tra i pochi ad avere l’attrezzatura per il trasporto» continua il titolare delle onoranze funebri. Quando ci arriva una richiesta non sappiamo neanche chi sia il defunto perché abbiamo contatti solo con le agenzie - aggiunge -. Ci chiamano da tutta Italia: da Foggia, a Pescara a Verona. Siamo stati a Roma diverse volte, anche una decina di giorni fa per le esequie di un ragazzo morto in un incidente stradale. L’affitto di una carrozza è in media di circa duemila euro".

Quel clan con mille affiliati che nessuno riesce a fermare. Solo Carminati li controllava. Li chiamano «i nullatenenti»: sconosciuti al Fisco, con i soldi a Montecarlo, scrive Goffredo Buccini su “Il Corriere della Sera”. Protetti da un pregiudizio. «So’ zingari, menano e fanno casino...», sbuffavano i coatti di batteria nella vecchia Roma criminale. Stupido, come tutti i pregiudizi. Sottovalutati dai boss e da troppi investigatori per quarant’anni, questi cavallari sinti immigrati dall’Abruzzo all’ombra della Magliana, poi alleati con ‘ndrangheta e camorra, sono cresciuti. Sono diventati «I Casamonica», che adesso all’estero suona un po’ come «I Soprano», nell’anno in cui Mafia Capitale ha tagliato le unghie a Massimo Carminati, che tutti controllava, anche loro. Vittorio, lo «zio Vittorio» che la famiglia ha voluto salutare l’altro ieri con esequie da «re di Roma» scatenando un putiferio mondiale, era il più sveglio, sapeva giocarci con gli stupidi pregiudizi: «Sono uno zingaro, vendo macchine», disse con understatement nel 2004, sospettato di mafiosità dalla Dia: «Macché mafia e mafia! Non nego qualche reato in passato, ma di mafia, usura e droga non voglio neppure sentire parlare». Nella casa da satrapo, i detective di Vittorio Tomasone avevano trovato reperti archeologici rari, quelle chicche che portano i tombaroli e riempiono da sempre le ville dei Casamonica, nella loro enclave alla Romanina, primo fortino con tanto di vedette, tra via Devers e vicolo Barzilai. Ora, lì davanti, la sua gente dice «la mafia è la politica, non noi»: il ritornello populista ha attecchito persino qui. «Zio Vittorio non era mafioso». «Zio Vittorio» raccontava che suo padre aveva «guadagnato coi cavalli, questi soldi li abbiamo fatti fruttare. Io mi occupo di automobili». Era fissato con le Ferrari: «Ho comprato anche quelle del grande maestro Trovajoli e di Claudio Villa». A ogni blitz, sequestri di case, macchine, conti. Nel 2013 viene confiscata perfino una discoteca al Testaccio, ventitré ville. Il patrimonio vale cento milioni di euro; mille gli affiliati divisi in 43 famiglie, secondo l’antimafia. Quando dieci anni prima li scoprono, affrancati dagli anni cupi di Enrico Nicoletti, il cassiere della Magliana, i rotocalchi vanno a nozze con le foto di questi zingari rintanati in una piega della periferia romana, tra piscine hollywoodiane e water d’oro zecchino. «Il clan dei nullatenenti», li chiamano, perché nessuno risulta al Fisco, i soldi vengono investiti in Lussemburgo o a Montecarlo, zingari sì ma mica scemi. Invece, ammettiamolo, è un po’ da scemi la sceneggiata dell’altro ieri alla chiesa Don Bosco. Una fonte giura che sono stati loro, i Casamonica, ad avvisare tv e fotografi: l’impatto mediatico era voluto. Perché? Con Carminati, l’ultimo padrone, spicciano ancora le faccende. Luciano Casamonica prendeva 20 mila euro al mese dal Cecato e dal «compagno Buzzi», gli teneva buoni i nomadi del campo di Castel Romano su cui la gang s’arricchiva. Faceva da «mediatore culturale», Salvatore Buzzi aveva senso dell’ironia: «Questo parla la stessa lingua tua, ve capite... è un grande mediatore, e me lo so’ portato, ah ah ah». Diventerà famoso, Luciano, per una sciaguratissima foto con Alemanno sindaco, una sera alla cooperativa Baobab in cui c’era pure Giuliano Poletti, allora presidente della Lega Coop. Buzzi rampognò il democratico Patané per «l’uso di quella foto». Patané si mise sull’attenti: «Caro Salvatore, io né come consigliere né come segretario del Pd di Roma mi sono mai permesso di fare alcun commento! Sai quanto sono sensibile a questi temi, spero avrai apprezzato». Questa era la Roma pasticciona e trasversale prima che Pignatone passasse con l’aspirapolvere. In quella Roma, i Casamonica pigliavano ancora i crediti al 50%, sicuri di farseli rimborsare. Non era moral suasion, avevano una famiglia di boxeur: il più celebre è Romolo, campione italiano dei welter, poi arrestato per rapina, estorsione e usura. «Al matrimonio cattolico preferisco quello zingaro, si rapisce la ragazza e poi si sistema tutto: le unioni durano», disse a un’udienza papalina per celebrare un santo zingaro. Tutto si mischia. L’ibridazione tra le radici slave e la cultura dei malacarne romani produce una creatura nuova, mafia dalle mille teste e dai tanti capi, dove le donne riciclano i soldi, dove è difficile trovare il bandolo. Blitz nel 2003, 2004, 2012, ogni volta dati per finiti, sempre risorti in mille forme, più forti di prima. Mai nessuno li ha capiti. Loro mostrano di avere capito noi. Un pm che li inquisisce ha il vizio delle donne: lo rovinano mettendogli tra le braccia l’amante di uno di loro. La giudice D’Alessandro li inchioda all’associazione a delinquere, che però cade in appello. Forti e invisibili. Ma allora perché uscire allo scoperto? Perché tirarsi addosso tutti gli «sbirri» d’Italia con il funerale-show? Forse lo spiega in un’intercettazione proprio Carminati, quando si ritrova descritto sull’ Espresso come padrone della città: «Questo sul lavoro nostro so’ pure cose buone... so’ più pronti». Già, si deve sapere chi comanda. Ora comandano loro, i Casamonica? Di certo provocano un sia pur malato effetto marketing, da nuovi boss. L’agenzia funebre ingaggiata per «zio Vittorio» sostiene addirittura che il carro sia lo stesso usato per le esequie di Totò. E la morte sarà pure una livella, ma perdinci qui si esagera. 

Casamonica, le autorità sapevano. Figlio del boss autorizzato a partecipare al funerale. Spunta un documento che prova come sia la Corte d'appello sia i carabinieri sapessero della morte del boss. La banda che ha suonato diretta da un ex carabiniere, scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. Dopo l'immediato scaricabarile emergono nuovi dettagli interessanti sul funerale più chiacchierato dell'anno, quello di Vittorio Casamonica. "Urgentissimo". Così si legge sul permesso straordinario firmato dal presidente della prima sezione della Corte d'Appello, Giorgio Maria Rossi, e inviato alla tenenza dei carabinieri di Ciampino. E' il documento grazie al quale è stato consentito ad Antonio Casamonica, figlio di Vittorio, agli arresti domiciliari, di partecipare ai funerali del padre, nella parrocchia di San Giovanni Bosco, al quartiere Cinecittà di Roma. La richiesta è stata inoltrata alla Corte dal suo avvocato, Mario Giraldi, il giorno 19 agosto. L'istanza è stata accolta e i magistrati hanno autorizzato, come si legge nel documento, "l'imputato ad allontanarsi dalla propria abitazione" dalle 10 fino alle 14. Altre due persone, anch'esse ai domiciliari, sono state autorizzate a prendere parte alle esequie. La Corte d'appello autorizza i coniugi Consilio e Loreta Casamonica, nipoti di Vittorio. Il permesso "urgente" viene inoltrato alla stazione dei carabinieri di Tor Vergata e al commissariato di zona. Impossibile, dunque, dire che nessuno sapeva della morte di Casamonica. Sia la Corte d’appello di Roma sia i carabinieri, sia la polizia erano a conoscenza degli imminenti funerali. Banda diretta da un ex carabiniere. A dirigere la banda che ha accompagnato l'ultimo viaggio della salma il maestro Francesco Procoio, ex carabiniere in pensione. Contattato dal Corriere.it, fa sapere che la partecipazione è stata del tutto "gratuita". E tiene a precisare: "Se avessi saputo chi era Vittorio Casamonica mai avrei acconsentito a suonare".

Funerali Casamonica, Corte d’Appello firma la scarcerazione per figlio boss. I carabinieri consegnano il permesso. Il provvedimento trasmesso alla tenenza dei carabinieri di Ciampino 24 ore prima delle esequie. La banda musicale che ha suonato alla cerimonia diretta da ex militare Arma, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. La notifica del permesso di uscita dai domiciliari. Un permesso «urgentissimo» firmato dal presidente della prima sezione della Corte d’Appello Giorgio Maria Rossi e trasmesso alla tenenza dei carabinieri di Ciampino. Oggetto: consentire ad Antonio Casamonica, figlio di Vittorio, di partecipare ai funerali del padre, presso la parrocchia di San Giovanni Bosco al quartiere Cinecittà di Roma. Antonio è agli arresti domiciliari e l’istanza viene inoltrata alla Corte dal suo avvocato, Mario Giraldi, il giorno 19 agosto. Serve appunto un permesso per assistere alle esequie e alla tumulazione al Verano, scrive il legale. L’istanza viene accolta. I magistrati autorizzano «l’imputato ad allontanarsi dalla propria abitazione» dalle 10 alle 14. Il tempo di assistere alla cerimonia funebre. La notifica viene trasmessa alla tenenza di Ciampino, il comune adiacente Roma in cui dimora il figlio del capoclan. Dunque a questo punto dopo la decisione della Corte d’appello di Roma i carabinieri erano stato ufficialmente informati degli imminenti funerali. Al mattino del 20, circa un’ora prima dell’avvio del corteo funebre, il presidente della sezione Rossi firma inoltre un altro permesso, questo per i coniugi Consilio e Loreta Casamonica, nipoti di Vittorio e anch’essi ai domiciliari. L’istanza viene inoltrata dall’avvocato Andrea Palmiero e viene accolta. Il permesso urgente viene inoltrato alla stazione dei carabinieri di Tor Vergata e al commissariato di zona. La coppia può così dare l’ultimo saluto al boss. A questo punto spostiamoci davanti al sagrato. Cerimonia funebre in corso. Emedley di tutto rispetto, quello che racconta l'ultimo saluto a Vittorio. Prima le note dello Strauss ascoltate nella colonna sonora di «2001 Odissea nello spazio», quelle del «Padrino» e di «Paradise». Poi al Verano, mentre la bara veniva calata nella tomba di famiglia, «O’ Sole mio». Dirige il maestro Francesco Procopio, ex carabiniere in pensione. Quando Corriere.it lo contatta, lui chiarisce che sta raggiungendo il suo avvocato per tutelarsi da chi ha scritto che per l’esibizione la «Banda orchestrale della Regione Lazio» - questo il nome del suo gruppo, comunque non collegato all’ente di governo locale - ha ricevuto non solo un compenso, ma anche una «maggiorazione» dovuta al fatto che le esecuzioni sono state improvvisate. Richieste all'ultimo momento. Non è così sostiene Procopio, diplomato al Conservatorio, autore di una composizione dedicata ai caduti di Nassiriya; ci tiene a chiarire che la partecipazione è stata del tutto «gratuita, noi suoniamo tutti per passione». E poi «figurarsi, se avessi saputo chi era Vittorio Casamonica mai avrei acconsentito a suonare». Quanto al repertorio, il maestro spiega di essersi presentato con i libretti delle marce funebri, quelli con i brani che la banda suona nelle occasioni dei funerali. «Abbiamo attaccato con “L’addio al padre” poi ci è stato chiesto di cambiare. Volevano cose allegre, possibilmente apprezzate dal loro congiunto. Abbiamo improvvisato tutto, salvo “My Way”, uno dei miei pezzi forti. Il “Così parlo Zarathustra” di “Odissea nello spazio”? Lo conosceva solo la tromba. E lo ha suonato lui».

Dopo le polemiche don Giancarlo Manieri risponde sul blog della parrocchia Don Bosco e si difende. "Ho fatto il mio dovere, sono un prete non un poliziotto o un giudice. E non sono stati offerti cinquemila euro, ma cinquanta", scrive R.I su “L’Espresso”. Don Giancarlo Manieri non ci sta a fare la figura del "Don Abbondio" romano. E, dopo aver rilasciato interviste a Repubblica e Sky, difende la decisione di celebrare il funerale di Vittorio Casamonica attraverso il blog ospitato dal sito della parrocchia Don Bosco, come segnala l'Huffington Post. Nel suo messaggio don Manieri risponde alle critiche arrivate dopo le esequie di Casamonica accompagnate, fuori dalla Chiesa, da carrozze trainate da cavalli, aerei, Rolls Royce e cartelli inneggianti al "Re di Roma". "Credo di aver fatto solo il mio dovere", scrive don Manieri, "Sono un prete, non un poliziotto e nemmeno un giudice. Se una persona viene da me chiedendo di confessarsi, lo confesso; se un’altra si accosta alla comunione gli porgo l’ostia, non gli chiedo la fedina penale, se un signore mi chiede di celebrare il funerale di un suo congiunto lo celebro; non è scritto da nessuna parte che debba indagare chi è. [...] Personalmente non conoscevo il nome del boss dei Casamonica per me poteva essere il più lontano dei parenti". Sempre sull'opportunità di celebrare il funerale, don Maniero continua, puntando il dito contro le autorità. "Molti mi hanno rimproverato di non aver bloccato il funerale a un boss che ne ha combinate più che Bertoldo. Ma se era così fuori norma, perché mai era a piede libero? Hanno aspettato la sua morte sperando che lo... "arrestasse" il parroco? Mio dovere è distribuire misericordia, m’insegna Papa Francesco. Ed è quello faccio". Una carrozza antica trainata da cavalli e la musica de "Il Padrino" ad accompagnare il feretro: così sono iniziati i funerali di Vittorio Casamonica, 65enne, esponente di punta dell'omonimo clan romano, che si sono svolti nella chiesa di Don Bosco. All'esterno della chiesa, è stato appeso un manifesto con la scritta "Re di Roma", insieme a un fotomontaggio raffigurante il Colosseo accanto alla Basilica di San Pietro e l'immagine dell'uomo vestito di bianco con un crocifisso. Su un altro manifesto, invece, c'era scritto: "Hai conquistato Roma, ora conquisterai il paradiso". Un funerale all'insegna dello sfarzo, che ha visto anche al passaggio del feretro tra le strade della capitale, mentre un elicottero lanciava petali rossi sui presenti. Dopo la funzione, la bara è stata trasportata da una Rolls-Royce, mentre la banda musicale ha suonato la colonna sonora di un altro celebre film, "2001 Odissea nello Spazio". Lo stesso parroco risponde ad alcune critiche arrivate, prima fra tutte la presunta donazione da cinquemila euro che i Casamonica avrebbero fatto alla chiesa per il rito. Cifra seccamente smentita. "Tanto per rispondere a certe insinuazioni sui soldi. “Quanto devo?". “Può fare un’offerta, se vuole". L’offerta è stata di € 50,00 (cinquanta non cinquemila)", scrive don Manieri. Il parroco si tira fuori anche dal dibattito sui funerali negati a Piergiorgio Welby dalla stessa chiesa. "Quanto al paragone con Welby non è non congruo. In quel caso è intervenuto il Vicario del Papa, assumendosene la responsabilità e ordinando al parroco di non celebrare il funerale. Welby, se non vado errato, era non più considerato cattolico. A me nessuno ha detto nulla. Pregare per un morto, chiunque esso sia, non è proibito. Anche per Welby, del resto, i salesiani hanno pregato e molto e la chiesa è rimasta aperta tutto il giorno".

Funerali Casamonica, tutti gli errori del sistema di sicurezza dalla Questura al Comune: tutti sapevano, scrive “Libero Quotidiano”. Fanno spallucce da Questura, Prefettura e Comune di Roma dopo il faraonico funerale del boss Vittorio Casamonica, tutti dicono di non aver saputo niente, di non esser stati avvertiti che in pieno giorno nel mezzo della settimana ci sarebbero state trecento auto in corteo, un elicottero che lancia petali di rosa dal cielo, una carrozza trainata da cavalli, una Rolls Royce, la banda, la folla... Non reggono granché le giustificazioni di chi dovrebbe gestire l'ordine pubblico, la sfilza di errori sarebbe chilometrica e non salva quasi nessuno.

Le falle - Al funerale del capo clan dei Casamonica c'erano il figlio, in teoria ai domiciliari, e altri affiliati, nella stessa condizione. Per esser presenti hanno avuto bisogno di un'autorizzazione firmata da un magistrato. Così è stato, infatti, e il via libera è stato consegnato loro direttamente a casa dai poliziotti del commissariato di zona e da un carabiniere di Ciampino, riporta il Corriere della sera. Il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Tulps) dice chiaramente che il Questore avrebbe il potere di fermare esequie "sontuose", eppure tutto è andato liscio - per i Casamonica - e anzi con gran successo mediatico.

I vigili - Lungo tutto il percorso del funerale si sono viste ben 12 auto della Polizia Municipale che hanno accompagnato il carro funebre. C'erano anche un'auto della Polizia e una dei Carabinieri, anche se per pochi minuti. I Vigili dicono di esser arrivati senza un piano di sicurezza, niente di concordato, hanno improvvisato e gestito la situazione come potevano. Difficile immaginare che siano andati in quella piazza senza che nessuno al Comando del Campidoglio sapesse nulla.

Dal cielo - Fin qui il mix di folklore e ostentazione di potere di un clan camorristico, ma se possibile c'è di peggio e riguarda la sicurezza antiterrorismo. L'elicottero che ha lanciato i petali di rosa dal cielo all'uscita della bara dalla chiesa non doveva essere lì in quel momento. L'Enac ha chiarito che il pilota era "partito da Terzigno, in provincia di Napoli e diretto all'eliporto della Romanina, ha effettuato una deviazione non prevista nè comunicata". Al pilota è stata sospesa la licenza, finora l'unico a pagare davvero per tutta la vicenda. Ma se anziché fiori fosse stato altro a cadere da quell'elicottero? Proprio nell'anno in cui si stringono le misure di sicurezza per l'imminente Giubileo, l'Enac ammette che sarebbe impossibile impedire che il caso si possa ripetere, come una bella freccia lampeggiante diretta sulla Capitale.

La carrozza - Fare un funerale con una carrozza trainata da cavalli non è un reato, ma va comunicato per tempo alla questura. Da lì negano di aver ricevuto alcuna segnalazione, eppure sul Tempo il titolare delle pompe funebri di Napoli che ha portato a Roma i cavalli si è fatto fotografare con in mano la comunicazione protocollata.

Casamonica e gli altri: le mafie di Roma. Oltre al clan di "zio Vittorio" ci sono i Casalesi, i Senese, 'ndrangheta, camorra e Cosa nostra, scrive “Panorama”. Tanto clamore sul clan Casamonica. Il funerale show che sta facendo tanto discutere ha riportato l'attenzione su una famiglia di nomadi stanziali che da sempre ha fatto parlare di sé a Roma e non solo: il loro regno si estende verso sud, da Ciampino a Frascati fino all'alta Ciociaria. Ma non sono da soli. La famiglia criminale dei sinti venuti dall'Abruzzo - un migliaio di affiliati - opera in tutta la zona sudest della città, dalla Romanina ad Anagnina a Torre Angela a Tor Bella Monaca ai Castelli Romani. E a Ostia sul litorale, con l'altro clan nomade degli Spada. I vertici sono costituiti anche da esponenti delle famiglie Di Silvio, De Rosa, Bevilacqua e Spinelli. Ma a Roma agiscono anche altre mafie potenti e pericolose oltre al clan a cui apparteneva "zio Vittorio". Una mappa disegnata già prima dell'indagine su Mafia Capitale da inchieste come "I 4 Re di Roma" di Lirio Abbate sull'Espresso e libri come "Grande Raccordo Criminale" di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti. E quindi ecco la camorra romana di Michele Senese, i Casalesi, la 'Ndrangheta e Cosa Nostra. E poi la banda di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, apparsa al grande pubblico a dicembre 2014 con la prima retata. Senza dimenticare le mafie straniere: cinese, albanese, nigeriana, russa e altre ancora. Un quadro criminale riassunto di recente in Commissione Antimafia alla Camera dal prefetto di Roma Franco Gabrielli. "La mappa della criminalità organizzata nell'area di Roma vede attive affiliazioni delle tre mafie storiche ognuna in zone precise - ha detto - il che lascia supporre un accordo spartitorio sia per zone che per interessi". Articolata è la presenza della 'Ndrangheta per il riciclaggio con la acquisizione di immobili e attività commerciali, con 'ndrine del Vibonese, Crotonese e Reggino che hanno intessuto rapporti con i sodalizi romani, soprattutto i Casamonica, secondo Gabrielli. La camorra si concentra in alcune zone ben precise di Roma; oltre all'investimento di capitali sporchi nel mercato immobiliare del Centro storico i sodalizi campani concentrano le proprie attività illecite nei quartieri dell'Esquilino con il clan Giuliano e Ostiense con il clan Zaza, in collegamento con i Mazzarella con interessi sulle attività di ristorazione e alberghiere, ma anche traffico di stupefacenti con il clan Moccia a Tor Bella Monaca. Cosa Nostra infine fa riferimento alla famiglia Triassi e concentra i propri interessi sul riciclaggio a Ostia insieme al clan Fasciani.

Quella foto di Poletti sotto accusa: ma che male c’è?! Scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. L’inchiesta “mani pulite” (1992-1994) fu avviata perché i magistrati di Milano avevano scoperto alcuni casi molto gravi di corruzione politica e di rapporto “mercantile” e illegale tra politica e imprese. A Milano, e non solo, c’era un grande giro di tangenti. Mani pulite però non servì solo a stroncare questo malaffare ma anche a modificare per sempre i rapporti di forza tra potere politico e potere giudiziario, a favore di quest’ultimo. La magistratura in Italia non comandava molto nel 1992. E comunque la sua potenza e il suo prestigio erano sottoposti alla politica. Con “Mani pulite” si rovesciò tutto, e oggi è la politica l’ancella della magistratura. Deve obbedire e subisce la forza di ondate di opinione pubblica che dalla magistratura sono originate, e poi protette, guidate, alimentate. Questa inchiesta di Pignatone e dei suoi vice sulla cosiddetta mafia- romana probabilmente si ispira agli stessi principi di “mani pulite”. Non ha senso dire: «È un complotto della magistratura», perché è chiaro che effettivamente c’era un grado molto alto di corruzione nella politica romana e del Lazio. Corruzione trasversale, bipartisan. Però sarebbe da sciocchi chiudersi gli occhi e non capire che questa inchiesta è anche una nuova operazione di potere della magistratura. E che questa operazione non sempre è legittima. Prendo tre esempi. L’arresto di Carminati, filmato da un operatore tv molto bravo – portato lì evidentemente dai carabinieri per garantire il successo televisivo dell’operazione- è avvenuto in una forma drammatica. Mitra spianati, macchina di Carminati bloccata con uno stratagemma, manette dietro la schiena, urla. Carminati era accusato, se capisco bene, non di omicidio, o di strage, ma di essersi fregato una quantità enorme di quattrini. Era sicuramente disarmato. C’era bisogno di piantargli il fucile in faccia, di circondare la macchina, di rendere tutto così cinematografico?

Secondo esempio, le intercettazioni. Sono state fornite a diverse quotidiani che le hanno pubblicate. Ne hanno pubblicato, si suppone, la parte più succosa, più compromettente per gli imputati. Le ho lette: a me pare che ci sia molto poco in quelle intercettazione e che a occhio, visto il livello degli intercettati, si possa sospettare che la sostanza fosse millantato credito: io controllo questo e quello, io faccio quello che mio pare, io sono il re, l’imperatore, il duce, il capo della terra di mezzo… Lo so che è una cosa molto brutta dubitare della forza e del rigore di una inchiesta che ha incastrato il mondo politico e ha dimostrato che la politica è solo un sottoprodotto della malavita, però, francamente, io dubito parecchio. E mi ricordo che i tre quarti degli imputati di Mani pulite (che pure aveva l’aria di essere una inchiesta parecchio più robusta di questa) sono finiti assolti, anche se nessuno se ne è mai accorto. Terzo esempio, la cena di Poletti. Mi chiedo dove sia il reato o la vergogna per Poletti. Andava a cena con alcuni esponenti del suo partito e con alcuni dirigenti delle cooperative. È uno scandalo? Come poteva sospettare che Buzzi avesse commesso dei reati (ammesso che poi sarà dimostrato che li abbia commessi)? Nessuno di voi è mai andato a cena con una persona che poi si è saputo che aveva commesso dei reati? E invece i giornali, tutti i giornali, non hanno resistito a quella fotografia. Per di più con un certo Casamonica al tavolo vicino (i Casamonica sono una famiglia considerata molto importante nella gerarchia della mala romana). Nessuno sa se Casamonica fosse lì per Poletti o fosse lì, del tutto casualmente, per conto suo. Ma intanandosi si getta fango sul ministro. Che io penso che sia un pessimo ministro, perché ha fatto il jobs act che non serve a niente e danneggia i lavoratori, ma non penso che sia pessimo perché si è seduto vicino ad Angiolo Marroni! Siamo tornati alla catena di ferro magistrati-giornalistimagistrati. Col trionfo delle forche e il divieto di “senso critico”. Gli editorialisti dei grandi giornali chiedono alla politica di intervenire, senza aspettare i giudizi penali, e di radere al suolo i partiti romani. La politica, come sempre, obbedirà. E userà giornali e magistratura come “eservito” per regolare conti e sconfiggere nemici interni. E il nostro sistema democratico diventerà sempre di più il giardino di casa di giudici e giornalisti, con la democrazia messa in un cantuccio a fare le pulizie, a fare Cenerentola.

La Capitale questione nazionale, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Il Comune di Roma ha cambiato nome per legge il 3 ottobre 2010. Oggi, a cinque anni di distanza, sarebbe interessante conoscere il numero di italiani al corrente del fatto che da allora si chiama «Roma capitale», com’è scritto sulle fiancate della auto della polizia municipale, sulle pagine del sito ufficiale del Campidoglio e sui documenti dell’amministrazione comunale romana. Anche se possiamo presumere che quel numero sia piuttosto esiguo. Il fatto è che non basta cambiare nome a una città perché diventi quello che già è da quasi un secolo e mezzo, ma che nell’immaginario collettivo di moltissimi nostri concittadini non è mai stata: la capitale d’Italia. Al punto da chiedersi se non sia arrivato il momento di far diventare la questione romana una questione nazionale. Sorge il sospetto che solo per esorcizzare questo sconcertante dato di fatto che rende Roma l’unica capitale-non capitale d’Europa la nostra storia recente sia stata costellata da una sequela di provvedimenti, spesso improbabili. Leggi speciali, riforme costituzionali che garantiscono particolari autonomie alla città, fino al cambiamento del nome. Questa gara non ha mancato di regalarci pagine indimenticabili. Per tutte valga la legge di un solo articolo approvata nel gennaio 2012 dal Consiglio regionale del Lazio, Regione allora governata dal centrodestra. Testuale: «Roma è la capitale d’Italia e sede del governo e dei ministeri». Come se non esistesse una Costituzione che già lo prevede. E forse per ribadire che è l’etichetta a contare più della sostanza, i consiglieri di Roma capitale si fregiano ancora oggi, senza essere assaliti dal dubbio di collocarsi in questo modo almeno sopra le righe, dell’appellativo di «onorevoli» che dovrebbe spettare di regola ai parlamentari. Certo, se guardiamo al passato la mitologia di Roma capitale non ha offerto spunti meno singolari. Basterebbe ricordare che nel 1861 il Parlamento di palazzo Carignano a Torino approvò una mozione che proclamava solennemente Roma capitale del neonato Regno d’Italia. Quando la città, per inciso, era ancora capitale di una nazione straniera, lo Stato della Chiesa di Pio IX. La prima di ben tre proclamazioni, seguita dalla legge di dieci anni dopo e dalla Costituzione del 1948. Il diluvio secolare di mozioni, norme costituzionali, leggi nazionali e locali non ha però mai cambiato la sua condizione di capitale-non capitale. Non staremo qui a rammentarne le ovvie ragioni storiche. Ma certo a partire dal 1870, e al di là di una retorica fine a se stessa a tratti stucchevole e grottesca, Roma è stata considerata non una capitale, ma soprattutto una città grande, piena di occasioni meravigliose per gli speculatori e ricca di problemi che non potevano, perché non dovevano, essere risolti. Tanto che ancora oggi sono ben lontani dall’esserlo. Un trattamento analogo le ha riservato anche la politica. E non da ora. Prova ne è che la carica di sindaco della capitale d’Italia non è mai stata particolarmente ambita, al contrario delle altre capitali europee, dalle personalità di maggior livello del panorama politico, qui più interessate ad altri obiettivi istituzionali. Questo, naturalmente, sempre con le dovute (e sparute) eccezioni. Ma quando è avvenuto, è stato frutto più di scelte personali che di considerazioni strategiche. Si può dire che la politica, con i partiti romani più simili a comitati d’affari che a organizzazioni dedite a rappresentare i cittadini, non si sia affatto adoperata perché i mali di Roma non si radicassero così in profondità. Offrendo anzi in qualche caso un contributo determinante. Nessuno, sia chiaro, può chiamarsi fuori. Non lo può fare la sinistra, che ha governato la città ininterrottamente per tre lustri spesso a briglia sciolta. Non lo può fare la destra, che qui di recente ha avuto il potere per cinque anni, e la città ne porta ancora i segni profondi. Né lo possono fare coloro che in questi anni hanno lucrato consensi con lo slogan di «Roma ladrona», senza riuscire a cambiare il Paese, meno che mai a cambiare Roma. Le storie di Mafia Capitale (e non è un caso se anche la parola mafia si è guadagnata l’appellativo di capitale...) sono il risultato di tutto questo. Quelle storie offrono un quadro allucinante dell’impasto fra clientele politiche, corruzione, affari privati, interessi torbidi e criminalità, non troppo diverso da quello mirabilmente descritto da Roberto Mazzucco nel romanzo storico I sicari di Trastevere, ambientato nel 1875. Come se nulla in 140 anni fosse cambiato. E nulla potesse mai cambiare. Tanto che in una città nella quale un killer della banda della Magliana ha trovato per decenni sepoltura in una chiesa cristiana prima che la salma venisse rimossa - e soltanto in seguito a furiose polemiche - a distanza di pochi anni si celebra un funerale in stile Padrino per rendere omaggio a un boss defunto dei Castelli. Difficile immaginare una scena del genere a Parigi, Londra, Berlino o Madrid. Così come Parigi, Londra, Berlino o Madrid non hanno avuto bisogno che il loro nome fosse accompagnato dal sostantivo «capitale» per essere riconosciute come luoghi e simboli dell’unità delle rispettive nazioni. Non sappiamo ora se la decisione di affrontare il Giubileo con un metodo simile a quello seguito per l’Expo sia un segnale. Speriamo. Ma certo il governo di Matteo Renzi farebbe male a non cogliere la gravità della situazione in cui Roma è precipitata. E continuare come i predecessori da cinquant’anni a questa parte a considerare i suoi problemi come problemi dei romani anziché di tutti gli italiani. Mai come adesso, ne siamo convinti, l’emergenza romana dev’essere un’emergenza nazionale. 

Funerali Casamonica, l’indignazione di un’Italia ipocrita, scrive Salvo Ardizzone su “Il Faro sul Mondo”. Giovedì 20 agosto 2015, a Roma, al Tuscolano, s’è svolto un rito squallido e pacchiano: i funerali del boss Vittorio Casamonica. Nel Lazio anche i sampietrini delle strade sanno chi sono gli zingari del clan omonimo: per dirla con le parole del generale Tomasone, a suo tempo caposede della Dia nella Capitale, si tratta del “più pericoloso gruppo criminale della Regione”, con almeno un migliaio di affiliati dediti a usura, estorsioni, traffico di droga, riciclaggio, con fortissimi interessi in attività economiche e commerciali come l’edilizia, la ristorazione, gli stabilimenti balneari e così via. Un gruppo talmente forte e intoccabile che anche la ‘ndrangheta dei Piromalli-Molé s’è alleata a loro. Sono giunti a Roma negli anni ’70 dall’Abruzzo, con il benestare dell’allora onnipotente Banda della Magliana; da allora la loro ascesa è stata continua, spingendosi ben oltre i confini del Lazio malgrado le diverse inchieste aperte su di loro, grazie ad una fittissima rete di collusioni e complicità ad ogni livello. Si, anche questo sapevano tutti, la loro vera forza era il rapporto stretto, strettissimo, con la politica della Capitale e non solo, con numerosi (e potenti) spezzoni delle istituzioni, insomma, con la Roma che conta. Quando la salma è giunta dinanzi alla chiesa di Don Bosco su un carro a tre pariglie, ad attenderla c’era tutto il suo popolo e non solo; c’erano anche i vigili concessi dal Comune per chiudere al traffico la zona e lasciare spazio alle esequie del “Re di Roma”. C’era la banda con le note del “Padrino” e pure un elicottero a spargere petali di rose. E c’era la chiesa, la stessa che nel 2006 aveva rifiutato i funerali a Piergiorgio Welby perché aveva combattuto la sua battaglia civile per avere il diritto ad una morte dignitosa che lo sottraesse ad un’inutile sofferenza; la stessa che nel 1990 aveva tranquillamente celebrato il rito funebre per Enrico De Pedis, uno dei boss della Magliana; la stessa che adesso accoglieva il boss letteralmente ricoperta dalle sue gigantografie, che lo celebravano come re di Roma in procinto di conquistare anche il paradiso. Adesso, dopo che la salma è partita in Rolls Royce fra i cori della sua gente, adesso s’è aperto il festival dell’ipocrisia: fioccano le dichiarazioni sdegnate e le interpellanze, mentre nessuno sembra essersi accorto di nulla, a cominciare dal parroco Giancarlo Manieri, che ha avuto l’impudenza di dichiarare che non sapeva nemmeno che la chiesa era stata totalmente rivestita dai colossali manifesti inneggianti al boss, e che comunque erano cose avvenute fuori. Lo stesso prefetto Gabrielli non nasconde l’imbarazzo, e farfuglia di “un difetto di comunicazione”; supera se stesso il comandante dei vigili, Raffaele Clemente, lo stesso che ha concesso il servizio d’ordine, autoassolvendosi brusco con un “noi non abbiamo alcuna responsabilità”. La verità che conoscono tutti, ma proprio tutti, è che a Roma da sempre, da molto prima che i media “scoprissero” Mafia Capitale, c’è stato e c’è uno strettissimo connubio fra delinquenza, amministrazione pubblica, politica e pezzi dello Stato per spartirsi una torta immensa in un intreccio di sordidi favori. Chi si straccia ora le vesti e si spreca in dichiarazioni, prima ancora che ipocrita è patetico; il livello della Cosa Pubblica in Italia è rappresentato proprio dal rito tribale di quel pacchiano funerale hollywoodiano, dal vigliacco rimpallo di responsabilità dopo e dalla stucchevole sequenza delle reazioni a cosa fatte.

Complici, ipocriti e ignavi: così Casamonica ha conquistato Roma. La cosa più imbarazzante del funerale del boss è stata la corsa allo scaricabarile: nessuno ha parlato, visto o sentito, scrive Emanuele Conegliano su “Globalist”. C'è un detto popolare che si addice molto al Casamonica-day: io non fumo, te non fumi, lui non fuma. Ma qui c'è una cicca. Così, nelle ore successive alla vergognosa celebrazione del padrino scomparso, si è scoperto che Roma Capitale si è divisa in tre categorie. Chi non ha visto; chi non ha sentito; chi non ha parlato. Come le tre scimmiette. Però, mistero dei misteri, alla fine il funerale im pompa magna si è celebrato. E nessuno è responsabile di quella "cicca". Io non so se provo più rabbia e indignazione per quello che è accaduto fuori alla chiesa di Don Bosco, a Roma, o per lo scaricabarile che si è scatenato non appena si è accesa la polemica. Però, in uno stato democratico nel quale le istituzioni funzionano, non può essere un mistero che sia morto un boss; non può essere un mistero l'organizzazione di un funerale sfarzoso, dal carro funebre con i cavalli all'elicottero alle gigantografie; non può essere un mistero lo spostamento in massa delle persone interne o vicine al clan.

Che ci stanno a fare le forze di polizia?

Che ci sta a fare quel ramo dell'intelligence che si occupa di sicurezza interna?

Che ci stanno a fare i vigili urbani che, addirittura, erano presenti e hanno scortato la salma?

Siamo ancora una volta di fronte a uno Stato forte con i deboli e debole con i forti. E la gigantografia di Vittorio Casamonica che ha campeggiato sulla chiesa di Don Bosco raccontava una tristissima verità: hai conquistato Roma. Tra complici, ipocriti, ignavi e incapaci, evidentemente, non è stata una impresa così difficile.

Una lettera, pubblicata dal blog del sindacato Sulpl Roma, riporta il racconto dell'attività degli agenti impegnati ieri lungo la Tuscolana durante il corteo funebre di Vittorio Casamonica, scrive “Roma Today”. "Il corteo del boss scortato dai vigili". Non va proprio giù agli uomini della Polizia Locale questa rappresentazione di connivenza emersa da alcuni organi di stampa, impegnati a raccontare le esequie di Vittorio Casamonica. Oltre ai sindacati sono soprattutto i singoli agenti ad indignarsi. Al loro fianco stavolta sembra esserci anche il Comandante Raffaele Clemente che su twitter, nel rispondere alle critiche ha spiegato: "I vigili hanno gestito il traffico in emergenza perchè era loro preciso dovere". E ancora: "Noi non vietiamo i funerali per motivi di ordine pubblico". E oggi, a chi domanda se gli agenti sul posto hanno avvertito polizia e carabinieri una volta arrivati, Clemente risponde: "Ps e cc erano sul posto". A dare voce a chi era in servizio è il sindacato Sulpl Roma che sul proprio blog pubblica la lettera di un vigile in servizio che spiega come sono andate le cose. "Alle 10 circa", racconta l'agente, "abbiamo ricevuto una chiamata in sala radio che avvertiva di una imminente partenza di un corteo di circa 600 macchine con annessi e connessi costituenti un corteo funebre, con tanto di carro funebre. A quel punto si è cercato in modo estemporaneo di creare meno disagio possibile al quartiere, anche perché lungo tutto il tragitto eravamo presenti solo noi". L'agente racconta le difficoltà: "Con 6 pattuglie ci siamo barcamenati quindi nel chiudere i vari incroci presenti sul percorso delle 600 e più macchine, circondate fra l’altro da moto e scooter tutte con conducenti senza casco senza che potessimo, per ovvi motivi, opporci a questo. Abbiamo quindi incanalato il corteo fino a piazza don Bosco, cercando, mi ripeto, di creare il minimo disagio possibile, credo riuscendoci e credo anche evitando problemi di Ordine Pubblico. Vi assicuro la gente era avvelenata". L'agente che scrive la lettera spiega: "Sul posto c’era solo una pattuglia di carabinieri per 5 minuti è arrivata una pattuglia della Polizia di Stato. Abbiamo gestito il tutto al meglio delle possibilità, e purtroppo l’elicottero non potevamo proprio bloccarlo o impedirgli di abbassarsi troppo". Quindi lo sfogo: "Tutto ciò che scrivono alcuni giornalisti è falsità. Poco fa ho sentito addirittura dire che i vigili aiutavano i Casamonica, gli stessi vigili che si danno malati a Capodanno e che non hanno avvertito del funerale nemmeno il Campidoglio". La chiusura affidata ad un commento personale: "Come tutti sono disgustato da come si fa questo lavoro, da una politica marcia che non si assume mai una responsabilità, stufo di trovarmi assieme a tutti noi nelle peste perché altri sfruttano potere, pubblicità per il proprio tornaconto. Tutto qua".

Gli zingari da vivi sono bravi, da morti fanno ribrezzo: è la morale del Pd, scrive Silvano Moffa su “Il Secolo d’Italia”. Diciamola tutta: questa storia del Pd che ci fa la morale sulla vicenda del funerale del patriarca dei Casamonica è stucchevole. Ma come? Almeno una volta al giorno ci danno lezioni sugli zingari. Ci dicono che bisogna dar loro case popolari e integrarli. Che il nomadismo è una cultura, e come tale va rispettata e tutelata. Se capita che gruppi di zingarelle pedinano ignari turisti nel cuore della Capitale e gli soffiano il portafoglio con abilità e maestria, questi signori accennano appena a una flebile moto di riprovazione, salvo subito dopo lasciare (vero Signor Sindaco Ignazio Marino? Vero Signor Prefetto, Gabrielli?) che tutto vada come prima. Se ti rechi alla stazione Termini o sali su un bus dell’Atac devi tenere ben stretta la borsa tra le braccia se non vuoi che te la strappino e scappino via con la refurtiva, un attimo prima che il conducente apra le porte. Insomma, nel buonismo parolaio della sinistra c’è sempre una buona parola per zingari, nomadi, straccioni e furfanti. E ora che accade? Avviene che Mafia capitale, l’inchiesta nella quale fioccano nomi illustri della sinistra capitolina, quasi scolora e perde cromatura al cospetto di un funerale con tanto di fanfara, carrozza e cavalli per quello che i nomadi considerano il loro “Re di Roma”, e senti spuntare raffinati ragionamenti nelle menti eccelse di questi moralisti doppiopesisti. Insomma, alla sinistra, a questa sinistra ciarliera e falsoprogressista gli zingari, se sono vivi, vegeti e operativi, sono bravi; se muoiono, fanno ribrezzo. Lungi da noi, ovviamente, giustificare lo show dinanzi alla Chiesa Don Bosco, nel cuore del quartiere Tuscolano. Ci chiediamo ancora come possa accadere una cosa del genere, come sia possibile che nessuno sapesse, che dall’ultimo dei vigili al Questore, al Prefetto, al Sindaco, nessuno, dico nessuno, si sia mosso per impedire un simile sconcio. Detto questo però, non di meno ci indigna questa pelosa ipocrisia targata Pd.

Insomma: tutti uniti, anche se nessuno conosce ‘sto Vittorio, scrive in prima pagina “Il Garantista” del 22 agosto 2015. L’Italia ha un solo nemico: si chiama Casamonica. Pd, sindaci e vicesindaci, prefetti ed associazioni antimafia, giornalisti intellettuali, indignazione generale per un funerale kitsch. Chi pagherà? Il parroco…Mafia ed antimafia sul terreno di Wanna Marchi.

Troppo rumore e tante polemiche strumentali per un morto definito boss mafioso. Se fosse davvero un boss mafioso perchè non era trattato come Totò Riina e gli altri? Se non fosse per tv e giornali di regime nessuno avrebbe cagato un evento cafonal. Loro lo hanno fatto diventare un evento. Parlare di finta mafia, per non parlare d’altro, solita tolfa.

Istituto Luce: 1962, carrozza e cavalli per i funerali di Lucky Luciano. Nelle immagini della Settimana Incom del febbraio 1962 i funerali fastosi di Lucky Luciano nella chiesa della Trinità a Napoli. Il carro funebre che attraversa il quartiere fino al cimitero degli inglesi è trainato da otto cavalli neri.

Roma, 20 agosto 2015: funerale trionfale, con carrozza ed elicottero, per Vittorio Casamonica

11 marzo 2014. Il funerale di Fiorello Di Rocco con cavalli alla chiesa di San Gabriele dell'Annunziata a Giulianova

6 settembre 2014. Funerale di Rocambolo Spinelli Aquilino con cavalli ad Alba Adriatica

Ecc., Ecc., Ecc..

Una sceneggiata degna di un Oscar. I funerali di Vittorio Casamonica hanno ridicolizzato tutti, scrive Paolo Guzzanti su "Il Giornale”. Sono andato a scartabellare memorie di storia e di cronaca, anche su internet: nulla di simile era mai accaduto a Palermo, a Napoli, a New York, non parliamo di Roma. La musica in piazza con un riferimento mafioso, ma filmico, come quello del Padrino o la musica di Strauss usata da Kubrick per 2001 Odissea nello Spazio. Non parliamo dell'elicottero rosa che sparge petali rosa, o della ricerca d'antiquariato di vecchie carrozze napoletane con gli angeli neri e i vetri sfumati. In passato abbiamo visto i mammasantissima riuniti intorno a un feretro di rispetto, abbiamo udito parole losche contro magistrati e poliziotti, ma la banda con l'elicottero, francamente no, mai. Dunque, questi funerali sono stati pensati e prodotti come quel genere di opere d'arte talvolta scioccanti e odiose che si chiamano installazioni. L'intero funerale è stato un'installazione e il fatto che ancora se ne parli, ne parliamo, ne scriviamo, ci indigniamo, ne traiamo considerazioni per lo più scontate, significa che i registi o, se preferite, i turpi registi dell'evento sono riusciti a fare esattamente ciò che si proponevano: creare un tremendo shock comunicativo da imbarazzo e quindi da impotenza. E, infatti, le autorità si sono esibite in facce di circostanza e hanno assunto atteggiamenti intransigenti. Verso che cosa? Verso una messinscena. La messinscena è fatta di particolari di per sé innocenti che, messi insieme, costituiscono la scena del crimine. È forse vietato lanciare petali? O suonare musiche di Rota? O di Strauss? O riportare alla luce vecchi feretri e finimenti per cavalli neri col pennacchio? Onestamente, dov'è il reato? Il reato è nel valore proiettivo di questa messinscena, che ha funzionato come il test delle macchie d'inchiostro di Rorschach o come la trasmissione radiofonica in cui Orson Welles terrorizzò l'America con la cronaca dell'arrivo dei marziani. Nulla di questo grottesco funerale rientra in alcuna tradizione, tutto rimanda allo spettacolo di un'installazione e alla finzione cinematografica. Del resto non è forse Cinecittà a un passo dal piazzale Don Bosco? Qualcuno nomini dunque una commissione che assegni un riconoscimento cinematografico ai registi del funerale di Vittorio Casamonica, re di Roma, mezzo papa e mezzo padrino, zingaro (non una goccia romana nel suo sangue), karaokista di Frank Sinatra, cialtrone naturale, usuraio, spacciatore, uomo di racket. L'incredibile evento è stato non meno clamoroso delle conseguenze che ha generato. Alcuni dei più sgangherati articoli di tutti i tempi sono stati spacciati in carta e video in aperta gara con il pessimo gusto che i registi del funerale hanno saputo mettere in scena tra palazzi razionalisti e impassibili come quadri di de Chirico. La provocazione ha germogliato subito i suoi primi frutti: il sindaco di Roma, dall'estero, emetteva fulminanti banalità, mentre il ministro dell'Interno intimava al prefetto un rapporto immediato non si sa se sulla scelta delle musiche o sulla grafica dei manifesti. Insomma, è ora che lo si ammetta: l'installazione o, se preferite, la scenografia, ha funzionato. Il mondo ufficiale governativo e non soltanto, non è stato in grado di riconoscere uno dei più vecchi trucchi dei film di Cinecittà: quello del centurione romano con l'orologio al polso, oggi alla guida della Rolls Royce del ridicolo padrino di borgata.

La lezione di Sgarbi su Casamonica. Il critico d'arte ancora una volta sorprende dicendo la sua sul funerale che sta indignando l'Italia ed il mondo. Ed ha ragione, scrive Infiltrato Speciale su “Panorama”. Vittorio Sgarbi è un personaggio controverso. Amato, odiato, rispettato, denigrato, è uomo capace, comunque la si voglia vedere, di ispirare sentimenti forti, direttamente proporzionati alla vivacità o talvolta alla “violenza” delle sue posizioni. E’, comunque, temuto perché parla con la sicurezza che gli deriva da una cultura profonda e variegata e da una naturale vocazione alla franchezza estrema, quella chiarezza cruda e per nulla indulgente che, normalmente, rende chi ne è portatore sano inviso ai più. Perché sono pensatori come Sgarbi che danno voce alle verità più scomode, quelle sovente sotto gli occhi di tutti ma di cui nessuno è autorizzato a parlare. Sul Giornale di oggi, il critico d’arte affronta un tema apparentemente distante dalla sua impronta e dai suoi interessi, il funerale del capostipite dei Casamonica a Roma che da qualche giorno alimenta lo “sconcerto di maniera” di pubblico ed istituzioni. E lo fa per affermare una tesi in apparenza controtendenza: non c’e nulla da indignarsi. Sembrerebbe una delle solite boutade alle quali pure Sgarbi non è nuovo. Ma andando oltre le premesse sembra difficile non concordare sul "fatto che ci si occupi di questo personaggio pittoresco e “pericoloso” ora che è morto piuttosto che quando era vivo… " Eh sì perché a ben pensarci non si comprende se sia più grave e debba far più indignare il folklore messo in scena dagli eredi del de cuius in morte di questo o i decenni di totale indifferenza durante i quali questi “zingari” si sono piano piano innervati nel tessuto connettivo e sociale romano, accumulando fortune milionarie. In un modo strabiliante quanto semplice: tessendo relazioni, gestendo attività illecite senza fermarsi, quando raramente chiamati a rispondere delle loro azioni, di fronte alla “certa inconsistenza della pena”. E a ben pensarci fanno sorridere tutti i proclami ed il grosso vociare degli alti rappresentati delle istituzioni che sembrano, in queste situazioni, provenire da un altro pianeta. Non solo Roma ma l’Italia è il paese dove la “tolleranza cento” fa si che nascano, crescano e si consolidino realtà, come quella dei Casamonica, che scopriamo scabrose solo quando nel segno della loro “cultura” tanto cara al Presidente della Camera, pagano di tasca loro un funerale degno di Lady Diana. Perché il vecchio boss è la loro "Lady Diana" ed i sentimenti che nutrono per lui non sono, in fondo, molto dissimili da quelli del popolo adorante verso una principessa sfaccendata. E che ora un Ministro dell’Interno si preoccupi dei problemi di viabilità creati da una carrozza tirata da cavalli impennacchiati o dello spartito della colonna sonora con la quale questa nobilità di borgata ha inteso accompagnare il proprio caro fa davvero sorridere. Frusta ancora Sgarbi: "non è parso vero ai soliti indignati a comando di manifestare “stupore”, “sconcerto”, “vergogna” non per quello che Casamonica avrebbe rappresentato da vivo ma per come sia stato celebrato da morto…ai Saviano ed ai savianoidi sarebbe bastato che Casamonica se ne fosse andato all’altro mondo con discrezione, continuando ad ignorarlo da morto come lo hanno ignorato da vivo…" Un paese il nostro dove l’indignazione postuma assurge a rito laico e talvolta, come in questo caso, anche religioso dal momento che anche in Vaticano hanno inteso marcare le distanze. Aspettiamoci ora che le colpe ricadano in toto su un maresciallo dei carabinieri o un parroco di quartiere. Quando le responsabilità dovrebbero travolgere, oltre che le coscienze di tutti, anche una schiera di papaveri a cui è dato gestire la cosa pubblica, un protomartire di quarta fila si trova sempre.

Indignati a gettone sul caso che non c'è. Bisognava indignarsi quando il boss era vivo, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Tanto rumore per nulla. Può un funerale privato diventare un funerale di Stato, nel senso che debba occuparsene il ministro dell'Interno? In questa grottesca vicenda, c'è materiale solo per Striscia la notizia, non certo per parlamentari, sindaci, prefetti e ministri. E vorrei subito rovesciare la dichiarazione del sottosegretario ai Servizi Marco Minniti: «Enorme sottovalutazione». No: enorme sopravvalutazione. Tanto che Goffredo Buccini la definisce qual è, in tutti i sensi, una «pagliacciata». A cominciare dal fatto che ci si occupi di questo pittoresco e «pericoloso» personaggio ora che è morto piuttosto che quando era vivo, perché prima di questi teatrali funerali il nome di Vittorio Casamonica diceva poco o nulla se non a investigatori e pochi giornalisti, e nessuno, men che meno tra quanti oggi, anche tra le istituzioni, manifestano indignazione, si è preoccupato di dove e come vivesse, se si spostasse a bordo di una Panda o di una Rolls-Royce. Ora preoccupa e indigna che, da morto, salga sullo stesso carro funebre di Totò. Cinema, appunto, non realtà. E non è della realtà che si occupano il ministro e il prefetto (che dovrebbe avere il coraggio di scrivere che la vicenda letteralmente non esiste), ma piuttosto della rappresentazione che di essa hanno dato giornali e televisioni, non alla ricerca del vero, ma del verosimile, di una fiction mafiosa. Con risvolti tragicomici. Può un ministro dell'Interno non conoscere la differenza tra uno sciopero e un funerale e chiedersi, senza senso del ridicolo, se il corteo fosse autorizzato? Quando mai si autorizza un corteo funebre? Va da sé che il lutto è un fatto privato. E la manifestazione del lutto, pur con una «messa in scena», va solo rispettata, perché attiene ai sentimenti di umana pietà e a rituali della religione che ciascuno professa. Certo, ci sono funerali sobri e altri sfarzosi, ma un ministro non è chiamato a discettare sui dettagli di una celebrazione funeraria, né può pensare d'impedire che si lancino rose o si suonino brani tratti da questa o quella colonna sonora. Che vuole fare Alfano, vietare la colonna sonora del Padrino e prescrivere alle chiese un elenco di brani «antimafia»? Vorrà forse dichiarare fuori legge le carrozze trainate da cavalli e decretare che i defunti siano trasportati solo con mezzi a motore? Di Casamonica lo Stato doveva occuparsi e preoccuparsi quand'era vivo invece a suscitare scandalo non sono le sue azioni e le sue malefatte, vere o presunte, ma i cavalli che lo hanno accompagnato al cimitero e l'elicottero che ha lanciato sul corteo petali di rose. Nulla aggiunge o toglie al lutto se il defunto venga portato in chiesa su una Giardinetta o su una carrozza. Se non ci fosse stato il clamore indotto da giornali e televisioni, dei funerali di Casamonica alla periferia di Roma in una brutta chiesa dedicata a Don Bosco, in prossimità di Cinecittà (non al Pantheon o al Colosseo), non avrebbe parlato nessuno. Un defunto come gli altri. Morto da cittadino libero. E non si capisce come a un cittadino libero si possano vietare o discutere il buon gusto dei funerali. Con un evidente razzismo nei confronti di costumi e abitudini del popolo rom, identificato tout court con la mafia, e spregiati, perché volgari, i parenti del defunto. E, infatti, non è parso vero, ai soliti indignati a comando, di manifestare «stupore», «sconcerto», «vergogna» non per quello che Casamonica avrebbe rappresentato da vivo, ma per come sia stato celebrato da morto. In pratica, ai Marino, agli Orfini, alle Bindi, ai don Ciotti, ai Saviano e ai Savianoidi, sarebbe bastato che Casamonica se ne fosse andato all'altro mondo con discrezione, continuando a ignorarlo da morto come lo hanno ignorato da vivo. Dunque, più teatrali dei funerali, sono le ridicole reazioni della politica e delle istituzioni. Il prefetto Gabrielli ha fatto sapere di non esserne stato informato, come, presumiamo, non lo sia di centinaia di funerali che si celebrano a Roma. Il sindaco di Roma, in vacanza (come sempre), fa sapere del suo «sconcerto», e non gli par vero che il boss lo abbia spodestato nelle prime pagine dei giornali, avendo fatto molto meno di lui. Infine l'Enac, che controlla il traffico aereo, ci fa sapere che l'elicottero non era autorizzato, nulla obiettando sulla facilità con cui un elicottero possa sorvolare la Capitale, e sulla inquietante circostanza che lo stesso Enac ne sia venuto a conoscenza non perché abbia gli strumenti tecnici per accertarlo, ma solo perché due giorni fa ci sono stati i funerali di un presunto boss. Tanto rumore per nulla, dicevamo. E un generale moto d'indignazione per un funerale da film che è stato impropriamente elevato a un summit di mafia. Manca solo che don Vittorio non sia morto, e riappaia «miracolosamente», rivelandoci che siamo a Scherzi a parte. La realtà, dunque, e la sua rappresentazione. In cui la farsa viene elevata a tragedia. E la tragedia vera minimizzata. Come la distruzione del monastero di Mar Elian, vicino a Homs, in Siria, costruito 1.500 anni fa. Nessuno reagisce. È il segno di una classe politica «ingrillita», dedita al più vacuo cazzeggio agostano.

Casamonica, Giuliano Ferrara: "Il funerale Sinti che indigna la casta di toghe, giornalisti e sinistra", scrive su “Libero Quotidiano”. Dopo Mafia Capitale, il grosso grasso funerale Sinti dei Casamonica. Per Giuliano Ferrara fa tutto parte di una grande, balorda rappresentazione politico-mediatica che vuole Roma preda dei boss e del malaffare. Che male c'è, si chiede l'Elefantino sul Foglio di cui è stato fondatore ed ex direttore, nello sfarzo di quelle cerimonie "da zingari"? Forse, dunque, il problema sta altrove. "Stanno cercando di convincerci - attacca Ferrara -, e da novembre se ne vedranno delle belle al processo contro Carminati e Buzzi, che a Roma tutto è in mano a una mafia la cui cupola veni va intercettata, mentre chiacchierava à la Tolkien di terre di mezzo e altre cazzate, su una panchina di un distributore di benzina di Vigna Clara, quartierino di Roma nord per affluenti e fighetta, cercando accordi e patti per locupletare di mazzette personale municipale corrotto in ordine a raccomandazioni, assunzioni, appaltini di una rete di cooperative umanitarie fino a ieri molto prestigiose e molto solidali". Bene, il "can can" si ripete ora sui Casamonica, e Ferrara come suo solito esce dal coro: "Ora anche Orfini, la Bindi, destra e sinistra, fanno a gara nell'estorcerci indignazione per un carro funebre trainato da sei cavalli scuri, per un manifesto in cui il defunto è vestito alla papalina e si staglia contro un'immagine del Colosseo, per una Rolls Royce che ai matrimoni e ai funerali fa status, per un elicottero che lancia rose e altri elementi da Cinecittà sul Tevere o da centurioni abbindola turisti vaganti dalle parti di piazza Venezia e ai Fori Imperiali". Tutti, prosegue, puntano il dito sulle responsabilità dello Stato e della Chiesa "per la messa in scena, tipicamente Sinti, di uno sfarzo e di un lusso funerario che fanno rivoltare nella tomba tutti i boss veri della mafia vera, i quali amano omaggi e saluti estremi popolari e cattolici, ma non precisamente di quella fatta". "Sembra che i Casamonica - conclude Ferrara - non possano seppellire come gli pare il loro capostipite. È una sfida allo Stato, alla dignità della legge, alla purezza della chiesa". Colpa, sostiene l'ex direttore, di uno "stato di sospensione della realtà", un "incubo a occhi aperti chiamato Mafia Capitale", creato e alimentato da "una comunità, togati giornalisti e politici, che ha perso letteralmente il ben dell'intelletto. Penso che legge e ordine vadano fatti rispettare, in particolare quando si tratti di azioni di viventi, ma senza sceneggiare l'indignazione anticrimine creando dei romanzi criminali che sollecitano l'immaginazione più pigra e servono l'interesse di una casta di rispettabili, non della società liberale".

Non parliamo del funerale, ma parliamo di questo. Legulei e scribacchini dove erano?

Casamonica in più di 30 case del Comune (a canoni agevolati). Si tratta di appartamenti modesti per dimensioni e collocazione che sarebbero finiti a qualche parente, moglie o amico della famiglia negli anni passati, scrive Alessandro Capponi su “Il Corriere della Sera”. Lasciate stare le ville, le statue romane in salotto, i rubinetti d’oro in bagno e le piscine in giardino: quelle vanno bene per le foto dei rotocalchi che in genere seguono le numerose inchieste (con sequestri milionari) di Procura e Dda; no, le case delle quali si parla qui non sono quelle basse della Romanina, quartier generale dei Casamonica; sono, invece, appartamenti modesti per metri quadrati, quartiere e — soprattutto — canone d’affitto; perché, adesso, il «sospetto» è che, per dirla con il senatore Pd Stefano Esposito, neoassessore della Capitale, a qualche ramo della famiglia dello scomparso «re di Roma» Vittorio — salutato con il funerale-show dello scorso giovedì — possano essere state proprio assegnate le case del Comune. A loro o a qualche prestanome, a qualche parente, moglie, amico, ché senza una casa non si può stare e dove non arriva lo Stato, a volte, arrivano gli amici potenti. E chi, a Roma — soprattutto adesso, con Carminati in prigione — è più potente dei Casamonica? Il «sospetto» è che non si tratterebbe neanche di pochissimi casi. E ce n’è un altro che forse è anche peggiore, perché può aiutare a raccontare la città com’era e come, evidentemente, ancora è: per risalire alla prima assegnazione ai Casamonica non bisognerebbe andare indietro di mesi, ma di lustri. E quindi adesso se ne parla perché le esequie del «Re di Roma», tre giorni fa, hanno richiamato l’attenzione del mondo, perché la battaglia contro Mafia Capitale è in corso, perché la Procura di Giuseppe Pignatone ha dato un impulso fondamentale alla lotta alla criminalità organizzata: ma, a Roma, se le case del Campidoglio sono davvero arrivate ai Casamonica, ecco, sicuramente non è un «regalo» recente.

Quaranta casi. A pochissimi giorni dalla decisione del Consiglio dei ministri in merito all’eventuale scioglimento del Campidoglio per le infiltrazioni prodotte da Mafia Capitale, il timore che circola in Comune è che i casi di appartamenti dati al clan siano, sussurra chi lavora negli uffici, «trenta-quaranta, ma stiamo parlando di un numero arrotondato per difetto». In zone periferiche (Spinaceto) ma anche in altre considerate più alla moda, come il Pigneto. Ma non solo: dal Pigneto, le case date ai Casamonica sarebbero sparse per tutta la zona della Casilina, che poi corre parallela alla Tuscolana, cioè la strada percorsa dal clan per trasportare il feretro di «zio Vittorio» fino alla parrocchia dei funerali, in piazza Don Bosco. La sensazione che si tratti di qualcosa in più di un sospetto in Campidoglio dev’essere forte: perché Esposito ha già trattato l’argomento sia con il vicesindaco, il parlamentare Marco Causi, sia con il magistrato e ora assessore alla Legalità, Alfonso Sabella. E la decisione è stata presa: fare partire verifiche «mirate» all’interno del patrimonio immobiliare del Comune. «Non mi stupirei se trovassi qualcuno dei Casamonica in case da sessanta metri quadrati e con la Ferrari in garage», allarga le braccia il senatore «prestato» alla giunta di Roma. Del resto, a lui, una storia simile a questa è già capitata: perché a Ostia — Municipio col presidente Andrea Tassone arrestato nel secondo filone di Mafia Capitale, con Esposito nominato commissario di zona dal Pd — là, dunque, gli Spada gestivano un locale da circa di dieci anni. E indovinate di chi era la proprietà dello stabile?

Centinaia di precedenti. Ora, sia chiaro: nell’immenso patrimonio immobiliare di Roma una verifica «di sistema» da qualche tempo è già in atto. E i casi di sedicenti nullatenenti scovati in appartamenti comunali sono centinaia. L’ultimo individuato dall’assessorato ai Servizi Sociali di Francesca Danese è di un avvocato che viveva in una casa del Campidoglio in zona San Saba, all’Aventino. Affitto basso, naturalmente. Anche se quell’avvocato, con cinquecentomila euro di reddito, avrebbe potuto permettersi qualunque cifra.

Abusivismo. Così, adesso, il Campidoglio decide di controllare anche i Casamonica, per le case eventualmente assegnate loro negli anni passati e anche per altro, i terreni sui quali sono state costruite le ville, i permessi, i vincoli, i condoni, gli allacci dell’elettricità, insomma tutto: «Non possiamo rimanere nel limbo dell’incertezza — racconta Esposito — perché se c’è una cosa che ho capito con l’esperienza di Ostia è che niente è come appare». I controlli, dunque — con una task force costituita per l’occasione, trenta vigili urbani sul posto e Guardia di finanza eventualmente pronta a specifiche verifiche — partiranno dagli elenchi delle case assegnate dal Campidoglio ma poi si estenderanno al resto, fino agli abusi edilizi. Del resto proprio alla Romanina, nel 2010, nel quartiere generale del clan, scattarono i sigilli per un area di quattromila metri quadrati: il vincolo era doppio, archeologico e paesaggistico, ma erano state costruite la residenza principale, venticinque monolocali abitabili, una piscina e un campo sportivo. «Noi dobbiamo far scattare i controlli — dice Esposito — e appurare la verità in poche settimane. Questa è una giunta di secchioni ma se non impara a dare qualche schiaffo finisce che li prende e basta».

Casamonica che pagano 7,75 euro per un appartamento «popolare». Il caso di Angelina: oltre 32 mila euro di debiti in affitti arretrati. Sulla soglia la capofamiglia Celeste sorride: «Il funerale? Io non ci sono andata...», scrive Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. Un Casamonica di ultima generazione, pannolone e ciuccio in bocca, apre la porta e ci scruta. Subito ne arriva un altro, poco più spettinato e almeno altrettanto perplesso. Roma Sud, quartiere Spinaceto. Quello di Caro Diario («Spinaceto? Credevo peggio...»). Nanni Moretti, si vede, non era venuto in via Salvatore Lorizzo, svuotati nei servizi e nel decoro. Pulsantiere degli ascensori sfondate, cassette della posta dalle lamiere piegate. Un’enclave pubblica (sono case dell’Agenzia territoriale del Lazio) dei Di Silvio, Sulejmanovic e Ciaglia, imparentati a «Re» Vittorio. È qui che vivono Liliana e Marilena Di Silvio, assieme a nonna Celeste, ristretta ad un’autorevole invalidità sulla nuova sedia a rotelle: «Non c’entriamo co’ Vittorio - precisa subito lei -. Lui era un altro ramo della famiglia. Il funerale? Non sono andata». Icone di Padre Pio, barbuto e benevolo, spiccano alle pareti. In origine questo appartamento era stato assegnato ad Angelina Casamonica, cugina di Vittorio, pare, ma la prova non c’è. Angelina, comunque, dichiarava reddito zero. Nel suo caso l’Ater aveva applicato il canone sociale. Sette euro e settantacinque centesimi al mese. Morta anni fa, la donna si è portata debiti e penalità relative nella tomba. Le sue eredi, Marilena e Liliana Di Silvio, devono all’Ater del Lazio 32. 272,07 euro d’affitto con tanto di penali arretrate. Domandiamo, allora, se lo sanno e se, a loro volta, sono altrettanto «saltuarie» nei pagamenti: «Vivo qui da vent’anni... - dice la più giovane, Liliana, alta e formosa - Dipende. L’ultima volta mi sono arrivati 700 euro! Quelli non li ho pagati» Marilena tace. I debiti si accumulano una generazione sull’altra. Non solo Porsche e villette dai fregi dorati: ci sono Casamonica negli alloggi pubblici regionali e nelle case popolari del Campidoglio. Paradosso: in una città che vanta circa ventimila occupazioni abusive, i Casamonica sono quasi sempre in regola. A loro l’appartamento è stato assegnato decenni fa e qui, nella periferia sud di Roma, c’erano già negli anni Ottanta. Qui il canone d’affitto si calcola in base al reddito dichiarato, anche quando (spesso) le dichiarazioni sbagliano per difetto. Anche i canoni degli affiliati ai clan sembrano destinati a una rivalutazione. Ma sarà applicata? Si dirà che l’Ater fatica a riscuotere sempre, figurarsi con i clan. Per anni nessuno ha messo a confronto le dichiarazioni degli inquilini con altri indicatori, finché, un paio di anni fa, il sommerso affiorò in tutto il suo iperbolico oltraggio e si scoprì un inquilino Ater, a reddito sociale, proprietario di un cabinato a motore, ormeggiato a Fiumicino. Ed ecco perché ora, dopo le esequie-scandalo, il Campidoglio che ha l’ultima parola sulle assegnazioni, ha reso noto che, da mesi, sono in corso verifiche sul reddito degli assegnatari. Ma intanto: Antonio Casamonica, inquilino di un appartamento ad altra scala di via Lorizzo, dichiara 5.726 euro l’anno e dunque paga un canone sociale di 7,65 euro che versa «puntualmente» assicurano all’Ater. Giuseppe Casamonica, invece, ne dichiara 21 mila l’anno e perciò paga cento euro mensili di affitto. Giulia Spinelli, capofamiglia, mamma di Dante e Giovinella Casamonica, si è aggiudicata un appartamento in via Giova Battista Scozza, nei pressi di Centocelle. Anche qui canone minimo a fronte del reddito minimo dichiarato. Le occupazioni abusive dei Casamonica sono davvero episodiche. Se il clan impiega la forza nelle attività di riscossione dei debiti, almeno non sfonda le serrature. All’Ater risultano solo un paio di abusivi del clan. In futuro, forse, sanando il dovuto, potranno mettersi in regola. Non è il caso di fare gli schizzinosi: le casse comunali piangono, perché rifiutare il dovuto da un presunto boss? Tornando a Spinaceto, sui citofoni, c’è un pezzo di genealogia dei clan romani. Casamonica. Spinelli. Di Silvio. Uno Spada, apparentemente fuori dal suo raggio d’azione (il litorale: gli Spada sono i primi alleati dei Fasciani a Ostia). I Di Silvio invece appartengono al ramo Casamonica più preso di mira dall’Antimafia. Molti di loro furono condannati per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio nel maxiprocesso del 2013 ma la sentenza fu smantellata un anno fa dalla Corte d’appello che ne prosciolse 11 e restituì i beni confiscati. Ora, nell’enclave dell’Ater, non hanno nulla da temere, fuorché i guasti agli ascensori che, di quando in quando, li lasciano a piedi. 

Casamonica: impunità e ipocrisia delle istituzioni che si indignano, scrive Simone Perotti su “Il Fatto Quotidiano”. Ipocrisia. La vicenda del funerale Casamonica mette in mostra solo questo. Ipocrisia delle istituzioni, dell’amministrazione, della politica. Sono giorni che tutti si sbracciano e urlano e si indignano, ma si indignano di cosa? Un innocente a piede libero, che sia chiacchierato, sospettato, zingaro o appartenente a una famiglia su cui si indaga può avere il funerale che vuole. Se invece è colpevole deve essere giudicato e messo in galera, prima del funerale. Se non lo è che venga lasciato in pace. Qual è il problema che sono arroganti, smargiassi e vistosi? Non è un reato esserlo, abbiamo molti leader politici assai accomunabili a queste categorie. L’unica cosa assurda è che un elicottero andasse fuori rotta e sorvolasse la città senza permesso, dunque giusto punire i responsabili. Ma per il resto? Di che ci si indigna? Che i Casamonica si mostrano impunemente? L’accento è sull’impunità, dunque, non sul far mostra di sé. Se sono impuniti, però, siamo noi a doverci indignare, non le istituzioni latitanti. Se i Casamonica hanno commesso reati che non sono stati perseguiti, questo è affare delle forze dell’ordine, per i quali funerale o non funerale c’era e c’è del lavoro da fare, che non è stato fatto. Se i Casamonica sono stati in galera hanno pagato per quel che hanno commesso. Ognuno ha tutti i diritti di organizzare il funerale che vuole. Cosa dimostra un funerale pacchiano e sfarzoso? Di cosa bisogna indignarsi? Che siano zingari? Sarebbe razzismo. Che siano potenti? Se lo sono diventati rubando che vengano inquisiti. Che vogliano mandare messaggi alla malavita tramite una cerimonia? Ben altri messaggi mandano i malavitosi, non hanno bisogno dei funerali. E poi, anche fosse? Non è un reato, che almeno quei messaggi qualcuno li interpreti a fini di indagine. Che i parenti agli arresti domiciliari fossero stati autorizzati a presenziare alle esequie? Trovo assolutamente corretto per tutti che ciò avvenga. Umana e civile compassione, non c’è niente di male. La verità è che le istituzioni benpensanti vogliono sempre tutto sotto al tappeto. Sporcizia, magagne, problemi. Che si scopra la condizione drammatica delle nostre città non fa bene al loro doppiopetto. Che clan e mafiosi a Roma spadroneggino lo sappiamo da tempo, non lo dimostra un funerale. Un funerale imbarazza solo chi doveva gestire l’ordine pubblico, e questo non piace. Se del lavoro andava fatto per perseguire dei criminali, ben venga un funerale a mostrare che c’è molto da lavorare per contenerne reati e violenze. I mafiosi da sempre fanno funerali sfarzosi. Nelle processioni fanno fermare la madonna davanti alle loro case con la connivenza di parroci e preposti alla sicurezza. Il funerale Casamonica mette solo in risalto l’inefficienza delle istituzioni. Per questo la politica si indigna, dimenticando di aver chiesto spesso il voto ai clan. A me quella cerimonia non dà alcun fastidio, come fatto in sé. Semmai mi indigno che colpevoli di reati siano a piede libero, se di questo si tratta, e che chi dovrebbe garantire l’ordine, amministratori, politici, forze dell’ordine, gridino allo scandalo quando dovrebbero spiegarci perché, se sono criminali, non sono in galera.

Casamonica: Roberto Saviano guarda il dito e non la luna, scrive Maurizio Patriciello su “Il fatto Quotidiano”. Stiamo correndo un grosso rischio. Incapaci di guardare la luna ci attardiamo a fissare il dito. La palla è andata fuori campo, necessita recuperarla e riportarla al centro. Il bisogno di qualcuno di addossare alla Chiesa gran parte della responsabilità di quanto accaduto a Roma per il funerale del boss Casamonica, rischia di trasformarsi in un regalo per i veri colpevoli. Tra i commentatori non poteva mancare Roberto Saviano: “La chiesa di Papa Francesco ha scomunicato i mafiosi… Ora la chiesa di Francesco deve fare un nuovo passo: commissariare la chiesa di San Giovanni Bosco”. Resto basito. Un cantore del garantismo si fa giudice implacabile di un parroco e lo condanna all’isolamento. Così, senza processo e senza dargli la possibilità di difendersi. Incredibile. Davvero. In questi giorni stiamo un po’ tutti andando fuori strada. Perché mai la parrocchia dedicata a don Bosco dovrebbe essere punita? Di quale colpa si è macchiato il parroco? Con chi ha fatto affari? Quale negligenza pastorale è da ascrivere alla sua condotta? La storia dei Casamonica è risaputa e non da adesso. Ma quando diciamo “Casamonica” a chi ci riferiamo? A tutti coloro che portano questo nome o anche ai parenti acquisiti? E dei complici con altri nomi? E allora, la scomunica del Papa, che tanto piace a Saviano e a tutti gli uomini di buona volontà, a cominciare dai vescovi, preti, monaci e seminaristi a chi deve essere applicata? Il Papa ha dato indicazioni fondamentali, ma naturalmente generiche. È sul parroco che svolge la sua missione in quartieri ad alta densità mafiosa che pesa la responsabilità di prendere decisioni che potrebbero anche costargli la vita. Ma quali documenti possiede un parroco per affermare che “tizio” è da essere considerato, senza la minima possibilità di sbagliare, un mafioso impenitente? Vittorio Casamonica era per la legge italiana un uomo libero. Per quanto mi riguarda non sono rimasto per niente scandalizzato dalla “pacchianata” dei cavalli e dei petali di rose. Ciò che veramente mi ferisce il cuore e mi toglie la pace è che la presenza della mafia a Roma è stata negata fino all’altro ieri. Da chi? Perché? Ciò che veramente mi indigna e mi spaventa è che da quell’elicottero sarebbero potute piovere bombe su Roma senza che nessuno se ne accorgesse. A quanto pare, tutti sapevano chi sono i “Casamonica” già prima della morte del boss Vittorio. La domanda che occorre porsi è: “Chi è che deve essere considerato un mafioso al quale negare l’ingresso in chiesa?”. Stiamo giocando con il fuoco, ma non è il fuoco che mi fa paura. Il parroco non può sbagliare. Quando diciamo “clan” a chi ci stiamo riferendo? A tutti coloro che hanno avuto la disgrazia di portare quel nome? Anche gli innocenti? Chi deve fornire ai parroci la “lista nera” perché possano prendere decisioni senza sbagliare? Il martirio io l’ho messo in conto fin dal primo giorno della mia ordinazione. Il martirio però va abbracciato non provocato. Non è offerta gradita a Dio la morte violenta avvenuta per mancanza di prudenza o, peggio, di carità. Unicuique suum. Non lasciamoci ingannare. Non dimentichiamo che mafia, camorra e ‘ndrangheta sarebbero state sconfitte da decenni se non avessero avuto la complicità di tanti colletti bianchi insozzati e politici corrotti o collusi, che hanno tradito il Paese, la parola data e i cittadini. Con quella gente che bisogna fare? Scomunicarli tutti? Se sì, deve accadere prima o dopo il processo, visto che per la nostra legge tutti sono da considerare innocenti fino a condanna certa? Non mi va e nemmeno sarei capace di fare polemica. Umilmente e sommessamente però vorrei suggerire di riprendere a guardare la luna e distogliere l’attenzione dal dito. Magari basterebbe rimuovere un parroco per risolvere il maledetto intreccio tra mafia, politica e istituzioni. Se fosse così – parola mia – mi offro volontario per la liberazione del mio Paese.

Casamonica, discorriamo di tutto, tranne che della morte, scrive Ascanio Celestini su “Il Fatto Quotidiano”. Gli zingari! I tremendi Casamonica! Ce li ho davanti tutti i giorni, li vedo da quando sono nato, stanno nelle stesse strade della borgata nella quale vivo da sempre. I più ricchi girano con macchine eclatanti, i più poveri rovistano nei cassonetti. Una volta morì una zingarella giovane e riempirono una strada di petali di fiori. Siamo andati a vedere la carrozza coi cavalli bianchi. Ci siamo andati in bicicletta, con la Graziella. C’è da dire che la mia famiglia non va in chiesa. Dio ci interessa quanto noi interessiamo a lui. Cioè poco o niente, ma va bene così. Per Lui la morte è un inizio, per noi soltanto una fine. Punti di vista, punti di vita. Eppure quella strada infiorata aprì un buco nella testa di tanti ragazzini come me, come ero io tanto tempo fa. Gli zingari ricchi sono trucidi e panzoni, capelloni e strillanti, ma non mi fanno schifo come lo fanno a tanti commentatori sui giornali, nella rete o nelle televisioni. Quelli che si indignano per la loro mafiosità, per la loro panza antiestetica, per i loro soldi che pare che puzzano più di quelli che la panza ce l’hanno ben levigata, ma rubano tanto di più e tanto meglio. Quei zozzoni zingari non hanno la bomba atomica come gli americani o i cinesi. Non sono padroni del gas come i Russi. Non si inventano genocidi come i nazisti o gli Hutu. La maggior parte delle volte lavorano, spesso rubacchiano, certe altre si fanno le villette con le colonne di travertino e i leoni di marmo sul cancello. Sono fatti così. Non conoscono Philip Starck e forse pure Ikea gli sembra un po’ poverella nello stile. Hanno fatto un casìno a Don Bosco, poche centinaia di metri da casa mia. L’hanno fatto con un elicottero e una carrozza che, pare, abbia portato al camposanto pure Totò. E tanti si sono schifati perché è gente che ruba e spaccia, gente che se ne frega delle regole e trasforma un funerale in una manifestazione di piazza. Devo dirlo? Lo dico: io sono contro di loro. Io rispetto tutte le regole e pago le tasse. Io e tutta la mia famiglia. Per esempio produco energia elettrica che regalo al gestore che me la rivende senza ridarmi i soldi del mio lavoro. Sono legale anche con gli illegali. Mi faccio derubare a rate dallo Stato. Ma questo non è l’oggetto del discorso. L’oggetto è un altro:

Perché nessuno si è chiesto perché lo fanno?

Perché prendono la morte e la rovesciano in un fatto scandaloso?

Nessuno si è chiesto cosa è ancora la morte per noi.

Cosa è la morte di mio padre o di mio figlio. Del mio e del vostro.

Tutti si sono igienicamente lavati le mani e allontanati da quel casìno.

Forse è l’estate sgomenta nella quale accadono un po’ di cose nascoste sotto il tappeto (leggi che leggeremo tra qualche anno, ma saranno applicate subito) e tante altre senza importanza.

Ma qualcuno si è interrogato sul significato della morte?

Qualcuno ha guardato oltre le panze e i capelli di quei ciccioni per chiedersi cosa è la morte per noi senza panza e capelli?

Anche per me è stata una manifestazione trucida, ma dopo il primo sentimento contrastato mi sono ricordato che dietro alla manifestazione colorita ci stava la morte. La morte di un fesso, un criminale, un padre di famiglia, un assassino, un brav’uomo, un pezzente, un riccone paperone, un nulla, un tutto.

E proprio di tutto abbiamo parlato davanti a quel sarcofago scortato dalla musica del Padrino di Coppola. Lo abbiamo fatto senza sapere cosa è il lutto per quelle persone ciccione. Facciamo sempre così. Pensiamo a quello che sta nel nostro cervello credendo che sia il meglio, ma ce ne freghiamo del cervello e della cultura degli altri. Quelli rubano e allora sono cattivi. Noi avveleniamo la nostra vita sul pianeta, ma lo facciamo mentre andiamo in palestra. I nostri glutei sono solidi come scolpiti da Canova, loro si mangiano il grasso fritto e sono trogloditi. Ci sentiamo forti perché le altre culture ci sembrano stupide. E quando le vediamo sfilare in quel modo storpio e riccastro ci sentiamo ancora più forti. Tutti si schierano contro di loro, la quasi-destra e la quasi-sinistra, il partito-contro-tutti e il partito-con-tutti. E parliamo, parliamo, e scriviamo e scriviamo. Discorriamo di tutto, tranne che della morte.

GLI SPADA. L’ALTRO CLAN CHE COMANDA.

Estorsioni, racket, pestaggi ai negozianti. Per imporre il rispetto e rilevare le attività. Il primo pentito racconta i clan emergenti della Capitale, continua Lirio Abbate su “L’Espresso”. Un mafioso di Roma. Affiliato da Cosa nostra in Sicilia, ma diventato boss nella capitale dove per vent’anni ha rappresentato la famiglia di Siracusa e tenuto i rapporti con i clan locali. Uno che conosce a fondo i padrini che hanno messo le mani sulla metropoli e il suo litorale. E che due anni fa ha deciso di collaborare con le autorità. Sebastiano Cassia è di fatto il primo pentito della nuova mafia romana, che ha visto prosperare fino a prendere il dominio di interi quartieri. La sua collaborazione è partita in modo rocambolesco. In pieno luglio si è presentato negli uffici della Squadra Mobile, chiedendo di parlare con Renato Cortese, il capo degli investigatori: «Aiutatemi, mi vogliono uccidere». Cassia è un cinquantenne che si sente finito: stufo di una vita di carcere e reati, pronto a dare prove in cambio di protezione. Si è accusato di estorsioni e commerci di armi. E gli agenti, dopo avere verificato le primissime rivelazioni, lo hanno portato davanti al procuratore Giuseppe Pignatone e al pm Ilaria Calò, che hanno messo a verbale le sue parole. Oggi la sua testimonianza è l’asse portante del grande processo per mafia che si celebra nell’aula bunker di Rebibbia. Il cuore del suo romanzo criminale è Ostia, una città nella città, dove vivono centomila persone. Un territorio controllato da due organizzazioni. La più importante è quella di Carmine Fasciani, che guidava il suo clan anche dalla clinica dove scontava gli arresti, alleato con il napoletano Michele Senese. I loro complici-rivali erano i siciliani Triassi, messi da parte negli scorsi anni dalla brutale ascesa degli Spada. Il racconto del pentito parte dall’industria delle estorsioni, che sono diventate il sistema per lo sviluppo imprenditoriale dei nuovi boss. «I Fasciani subentrano nelle attività economiche di Ostia costringendo i titolari a cedere le aziende, chi si rifiuta viene pestato a sangue. Più che riscuotere il pizzo cercano di mettere “sotto botta” le vittime, per poi prendersi le loro attività: non gli interessa incassare 500 euro al mese, a loro interessa l’attività commerciale. Perché i Fasciani con tutti i soldi che hanno potrebbero pure fare a meno di chiedere il pizzo, ma lo fanno ad Ostia per ricordare a tutti il loro “titolo mafioso”». Le estorsioni sono il cappio per impossessarsi del quartiere. «Non è soltanto una questione di interesse economico, ma anche acquisizione del potere: così impongono la loro supremazia sul territorio. A Ostia bastava solo pronunciare il nome dei Fasciani che incuteva paura e così tutti pagavano». Ogni mese una tassa compresa tra 500 e duemila euro, in base al giro d’affari del commerciante. «Chi non lo faceva veniva picchiato, massacrato di botte: il dolore fisico che si può far provare ad una persona è superiore alla paura di quando gli bruci il negozio o la macchina. E avendo pestato qualche negoziante, gli altri lo venivano a sapere e si adeguavano subito a pagare senza fare storie. E poi era necessario mantenere il rispetto da parte della comunità e quando dico rispetto mi riferisco a quello che si doveva nei confronti di Carmine Fasciani». A pochi chilometri dal Campidoglio e da Palazzo Chigi, il pentito descrive un sistema identico a quello dei più antichi domini mafiosi, dove il potere è silenzioso, cementato dal “rispetto”. Attentati e pestaggi sono un’eccezione, perché basta pronunciare il nome Fasciani per ottenere «sottomissione e obbedienza». «Carmine Fasciani ha un modo di fare tutto suo, con il suo finto buonismo che lo fa sembrare una persona affabile, uno che può darti una mano di aiuto, perché effettivamente lo può anche fare, ti dice “non ti preoccupare, adesso aggiustiamo le cose” ma poi chiama i suoi uomini e ordina: “Se questo non paga il mese prossimo fate quello che dovete fare, l’importante è che paghi”». I proventi del racket ormai sono secondari. Droga, usura e imprese gestite in proprio garantiscono ricchezza a tutto il clan, inclusi i detenuti. «Gli stipendi variano e dipendono dalla caratura del personaggio: vanno da 1500 a cinquemila euro. Ha diritto allo stipendio chi commette determinati reati come violenza sulle vittime di estorsioni, i corrieri della droga, chi compie danneggiamenti e chi intimidisce, spara e uccide. Se fai tutto questo è normale ricevere mensilmente uno stipendio. A ognuno degli affiliati che ha problemi con la giustizia viene anche pagato l’avvocato». L’importo dipende dal rango malavitoso: «Si parte dall’anzianità, e dal rispetto di ognuno. E aumenta anche in base al costo della vita. Sono questi i fattori per i quali si ricevono più soldi. Solo chi si è mostrato capace di commettere azioni violente ne ha diritto». Il motore di tutto resta la droga: «Per quanto riguarda la cocaina e l’usura a Ostia se ne occupano i Fasciani, mentre Senese distribuisce la cocaina a Roma. Solo loro possono farlo, dopo che da questo traffico sono stati esclusi i Triassi. Il grande monopolio ce l’ha il clan Fasciani che ha i contatti giusti e pure le persone, ragazzi di Ostia che abitano in Argentina e in altri posti del mondo e lavorano tutti per Carmine Fasciani. Così dalla Colombia o dalla Spagna fanno arrivare centinaia di chili di cocaina che viene riversata sulla Capitale. In questo territorio nemmeno i calabresi possono entrare, possono solo chiederla a Carmine Fasciani ma non possono portarla a Roma. Il litorale è dei Fasciani e il Quadraro e altre zone della capitale di Senese». C’è una regola aurea: evitare gli scontri. «Non si fanno la guerra perché con la guerra che succede? Scateni le guardie e non lavori più. Ti attaccano perché se c’hai beni te li sequestrano, invece così se c’è una pace nessuno ti fa niente». È questo che ha spinto i Fasciani a trovare un accordo con gli Spada, «che però si fanno spazio usando solo la violenza. Non hanno il prestigio dei Fasciani, perché sono e resteranno sempre zingari. Ma sono sono diventati una forza e per evitare scontri si sono alleati. Per farli guadagnare i Fasciani gli vendono partite di cocaina che poi loro spacciano». L’accordo non prevede una condivisione delle piazze, ma impone ruoli chiari. «Nel traffico internazionale il monopolio è sempre dei Fasciani e di Senese. Gli Spada prendono la roba dai Fasciani e la rivendono, anche nella zona di Tor Bella Monaca: la spacciano a tutti quelli che la richiedono, anche al primo che viene. I Fasciani no: loro hanno i loro clienti fissi e la vendono solo a quelli che conoscono». Nelle deposizioni di Sebastiano Cassia non ci sono solo i padroni della strada. Il potere del clan ha bisogno di complici borghesi, per riciclare e mandare avanti la crescita imprenditoriale della famiglia. Il collaboratore ha parlato di magistrati e avvocati corrotti, alcuni dei quali già arrestati, perché con l’aiuto di medici riuscivano a far uscire dal carcere i boss. Sulla base dei suoi verbali le indagini della squadra mobile coordinate dal procuratore aggiunto Michele Prestipino stanno cambiando la situazione. Finora nessuno dei commercianti chiamati a confermare le estorsioni ha ammesso di avere pagato. Poche settimane fa invece il titolare di una ricevitoria di Ostia si è rivolto alla polizia, denunciando le pretese di due uomini degli Spada: volevano centomila euro. Gli agenti li hanno intercettati e ammanettati mentre incassavano il pizzo. Ai giudici il pentito ha spiegato le sue motivazioni: «Per traffico di droga sono stato in carcere tanti anni, come pure per associazione mafiosa, e dopo essere tornato libero mi stavo rimettendo sulla stessa strada criminale di prima al servizio di Fasciani. Una persona a me cara mi ha fatto aprire gli occhi dicendomi che stavo tornando a sbagliare ed è stato allora che mi sono fermato e non ho più eseguito gli ordini del clan. E oggi voglio cambiare vita, nella speranza che il mio contributo possa aiutare a sconfiggere la mafia che in modo silenzioso ha invaso Roma e il suo litorale».

Ostia assediata dai clan. Ma sulla mafia cala l'omertà, scrivono Federica Angeli e Carlo Bonini su “La Repubblica”. Il litorale della cittadina a due passi dalla Capitale brucia dei roghi dei capanni come ogni vigilia d'estate. Nessuno vede, nessuno parla, nessuno ascolta. Eppure si sa che da vent'anni, dopo la dissoluzione della Banda della Magliana, su tutto comandano tre famiglie. Nomi che ricorrono spesso nelle inchieste avviate da alcuni coraggiosi magistrati della Procura di Roma. Di fronte alle tre famiglie -  Fasciani, Triassi e Spada - la politica si è sempre genuflessa con rispetto. La triade vive di un equilibrio nato nel 2007, quando Vito Triassi viene gambizzato due volte nel giro di un anno. Una "pace armata" in nome del controllo dei locali notturni, del traffico di stupefacenti sulla rotta Ostia-Malaga e di un fiorente riciclaggio che si mangia pezzi della località. Ora sembra che la magistratura voglia aprire una nuova partita per chiudere un'era con una tempesta o un invito alla resa. Era la notte dell'11 maggio. Ed erano in tre. Incappucciati. Hanno fatto inginocchiare la guardia giurata nella sabbia, con lo sguardo rivolto verso il mare, facendogli sentire la canna del "ferro" alla nuca. "Guarda dritto che così non succede nulla. A te e alla tua famiglia". Lui ha obbedito e le fiamme si sono mangiate quel che il disgraziato doveva vigilare: il ristorante "Nemo" dello stabilimento "Nuova Pineta". Si scrive Ostia, si intendono Roma (già XIII e ora X Municipio) e il suo litorale, ma in fondo parliamo di una di quelle Corleone d'Italia che nessuno vuole vedere. Perché a Roma "la mafia non esiste". Anche se il litorale brucia dei roghi dei capanni a ogni vigilia d'estate. Quest'anno (il 5 maggio fiamme all'"Anima e core", il 22 aprile al capanno del "Glam Beach", dove si sono presentati con taniche e mazze), come negli anni precedenti (nel 2001, sei roghi. Nel 2012, un pacco-bomba fasullo allo stabilimento "Il Capanno"). Anche se in un bar di Nuova Ostia, in via Antonio Forni (era il 22 novembre 2011), due pezzi da novanta come Giovanni Galleoni (detto "Baficchio") e Francesco Antonini (detto "Sorcanera"), noti per altro come "riscossori di piccoli oboli" nei chioschi delle spiagge attrezzate, se ne vanno al Creatore sfigurati da una calibro 38 e da una 9x21. A Ostia, come nella storia delle tre scimmiette, nessuno vede, nessuno sente, nessuno parla. E chi decide di dire la sua, o è un ex poliziotto che non ha più nulla da perdere, ma preferisce lasciarsi intervistare di spalle da anonimo intabarrato in una felpa. O è l'imprenditore Paolo Papagni, socio e fratello del presidente dell'Assobalneari Renato, che prende cappello e si "indigna" contro chi vuole "infangare" la reputazione di questo spicchio di città che i diavoli hanno eletto a loro Paradiso. Come se la questione degli arenili fosse banale faccenda di racket delle estorsioni e le stimmate della criminalità organizzata nelle esecuzioni che contano non significassero ciò che appare evidente anche ai più ingenui. Come se nessuno sapesse quel che sanno anche i sassi e che è scritto negli atti di indagine e nelle pronunce coraggiose di qualche magistrato della Repubblica. Che da vent'anni, a Ostia, dopo la dissoluzione della Banda della Magliana, comandano tre famiglie, dai cognomi che fanno abbassare lo sguardo. Che da vent'anni, a Ostia, non si muove paglia che non vogliano o non sappiano i Fasciani, i Triassi, gli Spada. Che da vent'anni, a Ostia, la regola ferrea dell'omertà e della paura vuole che degli omicidi di malavita i mandanti restino ignoti. Che le vittime si chiamino Paolo Frau, Rosario Lauricella, Michele Settanni. Di fronte alle tre famiglie -  Fasciani, Triassi e Spada - la politica si è sempre genuflessa con rispetto. E poco importa che il vecchio Carmine Fasciani, entrato e uscito di galera per narcotraffico, ami farsi dare del "don", o che Vito, uno dei due fratelli Triassi (originari di Siculiana e già collonnelli di Pasquale Cuntrera), sia conosciuto nel giro come "Er Mafia". O, ancora, che uno degli Spada, Armando (imparentato con i più noti Casamonica di Roma est), sia indagato per l'omicidio di "Sorcanera" e "Baficchio" e, alla scoperta della telecamera di Repubblica nel suo stabilimento, salga di tono minacciando "un colpo in testa" ai cronisti ficcanaso. Alle tre famiglie non si può dire di no. Come ha imparato nei suoi cinque anni Giacomo Vizzani, fino al maggio scorso, presidente del XIII (ora X) municipio e dominus delle concessioni sui 14 chilometri di arenili. Da minisindaco di Ostia votato dalla destra, i suoi rapporti con le tre famiglie sono stati saldi come la gomena di una nave. E oggi di concessioni sull'arenile ne hanno una i Fasciani (lo stabilimento "Village"), una gli Spada ("Orsa Maggiore"), una i Triassi (è una spiaggia attrezzata che insiste su un lembo di arenile originariamente dato in concessione a delle suore e gestito da un cognato da quando i due, un anno fa, hanno deciso di trascorrere buona parte del loro tempo a Tenerife, nelle isole Canarie). E pensare che sembrava finito il vecchio "don Carmine". L'uomo, abruzzese di Capistrello, ha 63 anni e dice di dovere le sue fortune "all'acqua e alla farina" delle sue panetterie (la prima la apre a Ostia negli anni 70, in via dei Traghetti) ma si dà del tu con il boss di camorra Michele Senese "'o pazzo" (tornato in carcere il 26 giugno scorso). Negli anni della Banda della Magliana, presta i soldi a strozzo. Poi, entra nel Gioco Grande e di Ostia diventa "il sindaco ombra". Traffica al telefono con il sottobosco degli ex Nar come Gennaro Mokbel che, nella nuova Italia, posano a imprenditori. Ma, soprattutto, come documentano le inchieste della Procura, don Carmine traffica in stupefacenti. Nel '98 sfugge all'arresto nella sua villa all'Infernetto e sparisce per un anno, prima di essere arrestato in Germania. In carcere resta poco. Per tornarci nel 2010. Ancora per narcotraffico. E questa volta insieme al fratello Floro. Nel 2011, lo condannano in primo grado a 26 anni e 8 mesi di carcere (pena che, il 3 luglio scorso è stata ridotta a 23 anni). Fino al 9 luglio era agli arresti ospedalieri, nella casa di riposo "Villa Faieta" di Fiumicino, dove riceveva amici e "clienti" come fosse casa sua. Una libertà di troppo che gli è costata il ritorno (temporaneo?) in carcere. Mentre un secondo processo - ancora per narcotraffico e in cui l'accusa aveva chiesto 30 anni - lo ha visto assolto in primo grado nel 2012. Tanto da restituirgli, insieme al buon umore, il patrimonio che gli era stato sequestrato e il rispetto di tutti. A cominciare dal fratello del presidente dell'Assobalneari, Paolo Papagni, che di lui dice: "Abbiamo percorso strade diverse, ma quando lo incontro per strada baci e abbracci". La triade di Ostia vive di un equilibrio nato nel 2007, quando Vito Triassi viene gambizzato due volte nel giro di un anno. Chi gli spara sono due tipi noti nel giro come "Nasca" (Roberto De Santis) e "Cappottone" (Roberto Giordani), accreditati come gli epigoni di Paolo Frau, vecchia conoscenza della Banda della Magliana. E a convincere Vito a non consumare la sua vendetta e a trasformare il litorale in un mattatoio è proprio Carmine Fasciani, dopo aver riunito nel salotto di casa sua Senese e i Triassi. Una "pace armata" in nome del controllo dei locali notturni, del traffico di stupefacenti sulla rotta Ostia-Costa del Sol, Ostia-Canarie (a Ostia, la "vox populi", in un mix di ammirazione e paura, vocifera che i Fasciani e i Traissi custodiscano il loro tesoro in autobotti interrati nell'entroterra di Malaga) e di un fiorente riciclaggio che si mangia pezzi del litorale. Siano esercizi commerciali, piuttosto che ristoranti o gioiellerie. Una "pace" che in qualche modo resiste e all'ombra della quale viene consumato anche l'ultimo duplice omicidio di "Baficchio" e "Sorcanera". Se è vero come è vero che la notte della loro esecuzione, il cielo di Nuova Ostia, quartiere controllato dagli Spada, si è illuminato di fuochi di artificio. L'11 luglio, per l'omicidio dei due, è stato arrestato Nader Amna Saber Abdelgawad, un cittadino egiziano indicato come l'esecutore materiale. Ma indagati con lui sono anche Armando e Ottavio Spada. Gli Spada, dunque. Nell'ordinanza del gip Cinzia Parasporo, al netto dei dettagli di un movente che gira intorno a una "partita di pessima qualità di hashish", è interessante scoprire come, negli equilibri di Ostia pesino, insieme alla Camorra di Senese, anche la 'ndrangheta calabrese, che con gli Spada aveva cominciato ad avere "qualche problema". Una conferma, ammesso ce ne fosse bisogno di quale grana è fatta la "pax" del litorale. E che le sue stimmate sono mafiose. Altro che folclore. La Criminalità organizzata non perde tempo in luoghi che non assicurino profitti. Del resto, con enfasi, alla fine del maggio scorso, congedandosi da presidente del XIII Municipio, Giacomo Vizzani mette in chiaro quale sia stata in questi anni e quale sia oggi la posta in gioco. "Molti progetti che abbiamo messo nero su bianco - dice - saranno visibili già nei prossimi giorni con l'avvio dei cantieri di alcune opere di grande rilievo che avranno ricaduta positiva su tutto il territorio del XIII Municipio. Effetti positivi che vedrà la prossima legislatura. Ci auguriamo che anche il progetto del Waterfront possa andare a buon fine perché con esso sarà possibile dare risposte in termini di occupazione e di infrastrutture. Questa vasta area di Roma, il Lido, è un monte d'oro che non è mai stato sfruttato per quanto vale. Investire qui vuol dire riqualificare ad esempio il mare di Roma e gli scavi di Ostia Antica". Già, Ostia è "un monte d'oro" . Per quel che oggi già è e, soprattutto, per quel che potrebbe diventare, o, meglio, che la destra al governo in Campidoglio, immaginava potesse diventare: una passerella di casinò, approdi per yacht, centri commerciali, locali, destinati al turismo dei nuovi ricchi. Insomma una Atlantic City de noantri. Avere un piede ad Ostia, meglio ancora sui suoi arenili, è una scommessa a vincere. Non fosse altro perché, in attesa della manna "Waterfront", ogni stagione balneare frutta in media 60 milioni di euro ai 40 stabilimenti spalmati sui 14 chilometri dell'arenile. O, almeno, chi ha partecipato alla spartizione è convinto che lo sia. Come del resto il sindaco uscente di Roma Gianni Alemanno ancora prometteva appena il 2 maggio scorso durante la sua campagna elettorale. E come è tornato a ripetere dall'opposizione, chiedendo al nuovo sindaco Ignazio Marino di fare proprio "il progetto di riqualificazione di Ostia". Anche per questo, per capire come funzionino le cose a queste latitudini è utile uno sguardo al lavoro dell'Ufficio Tecnico del XIII Municipio, diretto, nell'era Vizzani, dall'ingegnere Aldo Papalini. Avere un amico in quell'ufficio vale una fortuna. Perché dopo la gestione della Capitaneria di Porto e quella della Regione, da tre anni le concessioni sono faccenda di competenza del Municipio di Ostia. Così negli anni, Papalini firma 32 "determinazioni dirigenziali" per "lavori di somma urgenza" che appaltano 14 milioni di opere senza gara. E attraverso il suo ufficio tecnico - per ironia della sorte affacciato sulla spiaggia dei Triassi - passano le concessioni demaniali di stabilimenti e chioschi. Come i 5 che, il 28 aprile scorso, vengono sequestrati su mandato del pm Mario Palazzi sull'arenile di Castelporziano, spiaggia nella zona di Ostia levante e nota ai romani come "I Cancelli". La Capitaneria di Porto scopre infatti che quelli che dovrebbero essere modesti capanni in cui dare riparo a sdraio e ombrelloni si sono trasformati in ristoranti sul mare da 150 metri quadrati. Scopre, che a gestire uno di uno dei cinque capanni sequestrati è un dirigente dell'Ufficio tecnico di Ostia, Mario Bellavista, già capogruppo Pdl al XIII municipio, che le concessioni le assegna. E che tra i beneficiati e "abusivi" delle concessioni ci sono anche la moglie, Mara Contu, e la figlia Azzurra. Del resto, nel mondo capovolto di Ostia, la storia di alcune delle concessioni documenta meglio di qualsiasi inchiesta della magistratura quali itinerari segua il governo della cosa pubblica in un territorio che, di fatto, l'amministrazione non controlla, ma distribuisce a chi ne è altrimenti padrone. La concessione per lo stabilimento "Kitesurf" viene assegnata senza bando dall'ingegner Papalini a Italo Mannucci, già vice difensore civico del comune di Roma in quota Pdl. Il "Moma" è gestito da Maurizio Perazzolo, già consigliere regionale con la Polverini. L'"Orsa Maggiore" finisce a Ferdinando Colloca (fratello dell'ex Pdl e quindi Udc Salvatore), candidato alle ultime amministrative con Casa Pound e socio nello stabilimento con la famiglia Spada (che dell'Orsa maggiore ha il 60 per cento), dove per altro la sicurezza è gestita da un ex sottufficiale della Capitaneria di Porto e da un ex agente del commissariato di Ostia. E dove la spiaggia non ha il colore della politica ecco le stimmate delle "famiglie". Dello stabilimento di don Carmine, si è detto. Come di quello dei Triassi, su una striscia di arenile originariamente in concessione alle suore. Ma è arrivati all'"Acuna Matata" che si fa una scoperta. La concessione è assegnata a Cleto di Maria, l'autista dei Triassi. Un arresto a Fortaleza negli anni '90 con un maxi carico di cocaina. Il business degli arenili ha avuto come appendice anche quello dei parcheggi all'esterno degli stabilimenti. Per dirne una, nell'estate del 2012, la gestione degli spazi "con strisce a pagamento" di Ponente venne appaltata ad Armando Spada, l'uomo indagato ora per duplice omicidio (il progetto poi abortì ed è comunque costato agli abitanti di Ostia 50mila euro). Mentre al porto, è Frank l'Iracheno (al secolo Sulaiman Faraj), una passato di legami con la Banda della Magliana, ad aver vinto l'appalto per la gestione del grande parking attorno allo scalo marittimo. Arrestato nel 2004 con l'operazione Anco Marzio, seguita all'omicidio di Frau (che qualche mese prima di essere assassinato aveva vinto l'appalto per la gestione del parcheggio a pagamento della multisala di Ostia "Cineland") per traffico internazionale di stupefacenti, oggi "Frank" passa le sue giornate dentro un gabbiotto e riscuote un euro per ogni auto che parcheggia nel porto. Arenili, Waterfront, traffico di stupefacenti, riciclaggio, parcheggi. L'equilibrio di Ostia è ora a un passaggio cruciale. Che non è scritto soltanto nel futuro giudiziario di don Carmine Fasciani o in quello degli Spada, nella sconfitta politica del centro-destra alle recenti elezioni amministrative. Ma nell'avviso ai naviganti arrivato nella notte tra il 26 e il 27 giugno, quando Michele Senese è tornato in carcere accusato di un vecchio omicidio. La Procura di Roma, con Giuseppe Pignatone, sembra voler aprire una nuova partita. E Senese in carcere ne è la premessa. Come l'individuazione degli assassini di "Baficchio" e "Sorcanera". Colpi di cannone che annunciano verosimilmente una tempesta. O magari un invito alla resa. A soli venti chilometri da Roma. Dove qualcuno ha continuato a ripetere e a far finta di credere per troppo tempo che "la mafia non esiste".

Nel libro “I Re di Roma – Destra e sinistra agli ordini di Mafia Capitale” (2015, editore Chiarelettere), i giornalisti Lirio Abbate e Marco Lillo hanno raccontato che la società Immobiliare Ten di Totti ha ottenuto dal Comune di Roma più di 5 milioni di euro in sei anni, per l’affitto di 35 appartamenti arredati in un residence nell’estrema periferia, in via Tovaglieri a Tor Tre Teste. Il Comune ha pagato 75.000 euro al mese per l’affitto come case popolari, dal 2008 al 2014, un canone definito elevato dagli autori del libro. Abbate e Lillo hanno scritto che il capo della commissione di gara del Comune era Luca Odevaine, ex vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni. Arrestato nelle indagini per Mafia Capitale, Odevaine è stato successivamente condannato a complessivi tre anni e due mesi di reclusione, per vicende legate alla gestione degli immigrati per il Cara di Mineo, in Sicilia. Una condanna è per turbativa d’asta e falso (2 anni e 8 mesi), l’altra per corruzione (6 mesi). Per l’affitto delle case di Totti al Comune nessuno è indagato. Nel libro “Mafia Capitale” Abbate e Lillo raccontano che due palazzi di via Rasella, nel centro di Roma, posseduti dalla Immobiliare Dieci di Totti, sono stati uniti e ristrutturati e ospitano gli uffici amministrativi dei servizi segreti. Da una visura che ho fatto nella banca dati Cerved emerge inoltre che nel Catasto Francesco Totti risulta proprietario di sette fabbricati, a Roma Sud, tutti in regime di separazione dei beni. Il principale è la villa di 21 vani nella quale Francesco abita con la moglie Ilary Blasi e i tre figli, nella zona del Torrino (ometto la via per rispettare la riservatezza). Inoltre Totti possiede un villino di 30 vani in via Lisippo, del valore stimato al Catasto 1,425 milioni, nella zona di Axa, vi abitano la madre e la famiglia del fratello Riccardo. Poi c’è la villa sul lungomare di Sabaudia di 9,5 vani. Ancora, c’è un’abitazione di 4 vani in viale Giorgio Ribotta, all’Eur, con garage di 18 metri quadrati e un locale di 5 metri quadrati della categoria “magazzini e locali di deposito”. Nel Catasto viene stimato il valore di cinque fabbricati, per un valore di 2,39 milioni. Non è stimato il valore della villa al Torrino con 21 vani. Quest’abitazione ha un garage di 150 metri quadrati, che secondo il Catasto vale 333.750 euro.

Così il clan mafioso degli Spada teneva in pugno Ostia. Dallo spaccio in strada, alle estorsioni fino alle attività imprenditoriali, è stata un'ascesa inarrestabile e violenta. Questo racconta l’indagine della procura di Roma che ha portato all’arresto di 32 esponenti della famiglia. Con l'accusa di associazione mafiosa, scrive Floriana Bulfon il 25 gennaio 2018 su "La Repubblica. Due morti a terra hanno segnato il confine criminale tra il prima e il dopo a Ostia. È il 22 novembre 2011 e gli Spada si prendono il potere, diventano mafia. A raccontare la violenta ascesa è l’indagine della procura di Roma che ha portato all’arresto di 32 esponenti del clan con l’accusa di associazione mafiosa. I mandanti di quel duplice omicidio, per l’accusa, sono Carmine Spada, detto Romoletto e suo fratello Roberto, quello che ha tirato indietro il collo per far partire la testata sul naso di un giornalista. Le pistole le impugnano Ottavio detto Marco, oggi nemmeno trentenne ma con un ruolo emergente nonostante la giovanissima età e l’egiziano Nader Amna Saber Abdelgawad. In quell’agguato, a dar mano forte, c’è anche Ruben Nelson Alvez Del Puerto, l’uruguaiano guardaspalle di Roberto Spada. Lo stesso che ha partecipato all’aggressione alla troupe del programma di Rai Due Nemo. La violenta e plateale aggressione davanti alle telecamere si fa sistema. Logica conseguenza, perché in quella zona conquistata il controllo del territorio deve essere affermato e ribadito con ogni mezzo. Con quei colpi d’arma da fuoco esplosi in pieno giorno e a volto scoperto, in quella via Antonio Forni che tutti chiamano ‘la vietta’, si prendono Ostia. Tanto che nei giorni seguenti, lì a meno di trenta chilometri dal Campidoglio, vengono fatti esplodere fuochi d’artificio per festeggiare. A terra restano Giovanni Galleoni, alias Baficchio, e il suo braccio destro Sorcanera, al secolo Francesco Antonini. Quella era la loro roccaforte, legata all’eredità ostiense della banda della Magliana. Gli Spada li fanno fuori e si prendono il loro basto. Non gli basta però monopolizzare lo spaccio e avere una zona in loro esclusiva disponibilità. L’obiettivo è andare oltre la violenza di strada. Occupare la sfera economica, infiltrare la struttura politica e amministrativa. E Ostia, già prigioniera di un Municipio che poi sarà sciolto per mafia, è il terreno fertile per farlo. Con arresto degli esponenti di punta del clan Fasciani nel luglio 2013, “di cui gli zingari erano solo i cani” raccontano alcuni collaboratori di giustizia, l’ascesa è inarrestabile. All’inizio è strada, lo spaccio con le squadre che fanno turni di cinque ore retribuiti 100 euro al giorno, i pestaggi, le estorsioni, poi, una volta conseguito il monopolio, una volta arricchiti ecco l’approdo alle attività imprenditoriali, meglio se da esercitarsi in regime concessionario privilegiato: acquisizione degli stabilimenti balneari o licenze di pubblica sicurezza per l’esercizio delle sale giochi. A casa loro, in quel quadrante attorno alla vietta e piazza Gasparri, tutti pagano il pizzo: il bar, il meccanico, il fruttivendolo, il veterinario. Anche i cinesi. Si aggira su metà dell’incasso mensile. Fanno “società” gli Spada. Le chiamano così, si tratta di prestiti, anche esigui, elargiti con un tasso medio mensile del 60 per cento. Persino al centro anziani. E quando qualcuno non paga arrivano le spedizioni punitive che “Io ti vengo a cercare…prendo tua madre tuo padre vengo dove cazzo stai te nun gioca con me… Ti spezzo tutte le costole. Io pijo le tenaglie e ti strappo i denti”. Ottavio Spada, detto Maciste afferra per il collo un ex dipendente dei Vigili del Fuoco e gli ricorda chi è: “pezzo di merda, te devi sbrigà a damme i sordi ha capito? Io campo di questo lavoro!”. Riscuote al bar Amigos, intorno al 27 del mese. Un debito da 10mila euro a distanza di una sola settimana aumenta di 1.500, ma “c’abbiamo una politica da tené”: per prestiti sopra ai 2mila euro si deve ottenere l’autorizzazione di Ottavio Spada detto Marco che dispone del fondo casa. Altrimenti gli interessi lievitano troppo e i debitori si fanno insolventi. Minacce e violenza sono la regola per ottenere quello che vogliono. Uno dei tanti transfughi che dal clan Baficchio passati agli Spada, costringe la rappresentante di una cooperativa sociale a stipulare un contratto con lui per il noleggio delle attrezzature balneari e ad assumere sua moglie. Le assunzioni sono buone anche per accollarsi il debito, tanto da imporre a un maneggio di far lavorare un debitore degli Spada.

Sanno picchiare duro e ne hanno fatto impresa. Con la loro società di security arrivano a contendersi anche la protezione di un’attività balneare con un’organizzazione campana. I titolari si rivolgono prima agli uni e poi agli altri per evitare il ripetersi di atti intimidatori e sono ben a conoscenza di quello che fanno, tanto che commentando il film Suburra uno spiega: “perché hai visto si sono messi tutti d’accordo zingari e malavita e i politici si sono messi tutti d’accordo nessuno deve fare niente se no prima ogni giorno c’era un omicidio…hai visto gli zingari che potere che hanno preso perché pure loro sono forti perché nessuno è infame…tu non puoi fare l’infame quando sei uno zingaro”. 2000 euro a settimana e gli Spada garantiscono di tenere le taniche per gli incendi lontane. Per un po’ i due clan tentano anche una convivenza forzata, non regge e alla fine gli imprenditori pagano il disturbo ai napoletani: 15mila euro. Gli Spada hanno il lavoro in esclusiva. Da una parte killer e spacciatori alle loro dipendenza, dall’altro stringono legami con la zona grigia e con la politica. Per eludere le misure di prevenzione diventano soci occulti, utilizzano prestanome e gestiscono sale gioco, noleggiano macchinette. Le impongono ai bar. “Una ogni due regolarmente installate”, racconta quello che un tempo era loro sodale “Quella degli Spada non è sotto controllo dello Stato e se ci fossero stati dei controlli dovevano fingere che quella non controllata fosse rotta”. Quando vengono arrestati subentrano i fratelli nella gestione e quando vengono arrestati i prestanome ne cercano altri. Vogliono espandersi, ricercano locali nella Capitale e lungo il litorale laziale. Mettono persino gli occhi sugli storici magazzini romani allo statuto (MAS), uno spazio nel centrale quartiere dell’Esquilino. “Il punto di forza degli Spada consiste nel fatto che sono in tanti”, spiega il nipote di Baficchio Michael Cardoni. Già vedetta e spacciatore il clan lo voleva morto. Pestaggi, avvertimenti in raid notturni punitivi, hanno tentato di portargli via la casa, sono entrati in quella della madre e l’hanno sbattuta fuori. Insieme alla giovane moglie, Tamara Ianni, ha scelto la vita di collaborare con la giustizia. Anche la palestra era di suo zio. Prima della morte l’aveva data in gestione alla moglie di Roberto Spada per la sola di danza e pagava per la locazione. Dopo la morte è diventata loro.

Come le case popolari. Se ne impossessano: “Roberto Spada ha cacciato la madre di uno che non aveva pagato una partita di stupefacente e se l’è presa” ricorda. A confermare le indagini condotte da Polizia e Carabinieri il contributo dei collaboratori. Come il rumeno Paul Dociu, uomo degli Spada già condannato per rapina e violenze. Si occupa di droga, di intimidazioni con molotov lanciate nei locali di un’agenzia immobiliare in pieno giorno o contro un’auto in un luogo dove chi subisce i danni non sporge denuncia, tale è la sfiducia. E’ lui a raccontare di quell’omicidio che ha portato all’ascesa. Casus belli, secondo Dociu, la contesa posizione del titolare di un negozio di ortofrutta ubicato in una zona di influenza dei Baficchio gravato da debiti anche nei confronti degli Spada. Mancanza di rispetto del controllo del territorio. “Ci fu prima una discussione tra Galleoni e l’egiziano Nader (che agiva come esattore di Carmine Spada) …ha minacciato l’egiziano con un coltello. Subito dopo, nella stessa giornata, l’egiziano ha sparato nel cancello del garage di Galleoni e ha riferito tutto a Romoletto. Nei giorni successivi Romoletto e Galloeni si vedono in un bar e c’è un ulteriore scontro”. Le cose però non si risolvono. Lo contatta il giovane Ottavio Spada detto Marco lo porta al McDonald. Davanti a un panino gli dice: “zio Romoletto si era “intoppato” (incazzato ancor di più) e quindi dovevo fare con l’egiziano l’omicidio”. Alla fine non sparerà lui, ma Ottavio Spada. Si occuperà però di nascondere l’egiziano nella sua abitazione. L’hanno fatto pulire con la candeggina per rimuovere le tracce dello sparo, racconta, e Roberto Spada gli fornisce i soldi per garantire la fuga all’estero.

Carmine e Roberto Spada sono accusati di essere i mandanti del duplice omicidio Galleoni-Antonini avvenuto nel 2011. Lo ha detto il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino, durante una conferenza stampa sulla maxi operazione di polizia e carabinieri a Ostia che ha portato all'arresto di 32 persone. Per gli inquirenti, il duplice omicidio di Giovanni Galleone e di Francesco Antonini ha segnato il "punto di erosione del potere criminale dei Baficchio" e la "definitiva ascesa del clan Spada".

Non si deve osare sfidarli. Sono loro a comandare. Così chi dà alle fiamme la macchina e la moto di Fabrizio Ferreri, nipote di Terenzio Fasciani e cognato di Ottavio Spada, va fatto fuori, per poi festeggiare in una Spa. E ci si preoccupa molto per gli attentati a Carmine Spada nel novembre del 2016. La pistola si inceppa per ben due volte e lui si salva. In casa si fanno riunioni mafiose con i fratelli e come un vero boss Romoletto si munisce di una guardia del corpo pronta a dormire a casa sua e a compiere le bonifiche. Hanno dei sospetti sul mandante, sono pronti ad agire, ma vengono indotti a fermare qualsiasi rappresaglia contro gli aggressori per volere di Giuseppe Fasciani, detto Floro, il fratello minore di Carmine, il don che ha tessuto le trame criminali del X Municipio per anni. Sui verbali del procedimento Galleoni e Antonini ci sono le dichiarazioni di Paolo Mariantoni. Aveva reso intenzione di collaborare con la giustizia e riferito particolari sulla responsabilità di Spada e della famiglia Fasciani. Il fatto quindi che in caso di uccisione di Mariantoni le forze dell’ordine immediatamente focalizzerebbero la loro attenzione circa la responsabilità su Carmine Spada e Carmine Fasciani come vendetta.

I Fasciani, la famiglia storicamente alleata e sovraordinata agli Spada nelle gerarchie criminali. Gli Spada si preoccupano di inviare anche 250 euro ogni fine mese don Carmine Fasciani detenuto in regime 41 bis. Un gesto simbolico, volto a ribadire che il legame non è venuto meno. Il clan Fasciani è un'organizzazione mafiosa e "il carattere mafioso del gruppo va riconosciuto” ha scritto la Cassazione nelle motivazioni con cui lo scorso 26 ottobre ha accolto il ricorso della Procura generale di Roma contro la sentenza di Appello che aveva fatto cadere l'aggravante mafiosa. Gli Spada non sono più solo loro manovalanza, sono connessi.

Lo stile Suburra imita il Re Sole. È il segno kitsch del comando, scrive Luca Beatrice, Venerdì 26/01/2018, su "Il Giornale". Andrebbe presa come un paradigma filosofico la lucidità del criminale nero di American Gangster di Ridley Scott interpretato da Denzel Washington e braccato, per tutto il film, dal poliziotto ebreo, uno sfigato e alcolizzato Russel Crowe. Bisogna vivere la propria vita nell'assoluta normalità, senza lasciare tracce anomale né contemplare forme di esibizionismo, perché un buon investigatore capisce subito se qualcosa è cambiato e va a cercarne le ragioni. Lui sobrio, elegante mai sfarzoso, si raccomanda con la moglie vanitosa: «Non ti mettere una pelliccia da 100mila dollari per andare a teatro». Lei disubbidisce, innescando così il meccanismo a catena che porterà alla loro incriminazione dopo anni di latitanza. L'estetica della malavita, peraltro, ha precisi punti di riferimento che cinema e televisione traducono ormai da decenni in precise scelte stilistiche. Tralasciando la magnificenza siculo-americana nella saga de Il Padrino, ma già Michael Corleone era molto critico rispetto allo sfarzo popolano del padre Don Vito- bisogna riandare a due capolavori di Brian De Palma e Martin Scorsese, rispettivamente Scarface e Casinò, adrenaliniche discese negli inferi del kitsch più incredibile e magniloquente. Soprattutto chi viene dai bassifondi, come Tony Montana o Asso Rothstein, non vede l'ora di circondarsi di oggetti barocchi in cui oro e stucchi la fanno da padrone per dimostrare che sì, loro ce l'hanno fatta e ti sbattono sotto il naso la ricchezza travestita da eccesso e cattivo gusto. E se si tratta di patacche non importa, basta che ricordino ipotetici scenari alla Luigi XIV. La retata che ieri ha decimato il clan Spada a Ostia rivela ancora una volta l'abusato stereotipo del criminale coatto, assoluto dominatore delle periferie romane fin dai tempi della Magliana. Sanitari dorati, mobili in stile, troni sui quali si sono accomodate le peggiori facce da galera, suppellettili di dubbio gusto, antiquariato e dipinti antichi sottratti a qualcuno che forse non riusciva a pagare i tassi d'usura. Niente arte contemporanea, troppo cerebrale e minimal per l'educazione estetica dei boss. Roma, peraltro, è immersa nello splendore della magnificenza barocca, una tradizione che va mantenuta anche oggi. All'inizio fu il Dendi, tra gli «eroi» di Romanzo criminale, circondatosi di «meraviglie» che, insieme a gioielli, belle donne, auto sportive, gli permettevano di evidenziare la salita alla scala sociale. Sogni che i soldi possono comprare. Le case degli zingari di Suburra il protagonista guarda caso è soprannominato Spadino- sono state affidate probabilmente agli stessi arredatori e architetti del clan di Ostia. Gente che teme l'horror vacui e accumula tesori di ogni sorta, trasformando i salotti in forzieri e i bagni in piscine termali. L'ultima stagione di Gomorra, invece, ci ha presentato criminali più essenziali, vestiti di nero, quasi si fosse definitivamente consumato lo stacco con il gusto delle generazioni precedenti, sfarzosi e kitsch quanto i colleghi romani. Parlando d'arte, mi sovviene il ciclo fotografico Ricas y Famosas della messicana Daniela Rossel che negli anni '90 riuscì a immortalare le case delle donne figlie o mogli dei boss. Case hollywoodiane stipate di cianfrusaglie tanto brutte quanto costose. E i capi non la presero affatto bene, minacciandola di non esporre le sue opere in Messico. In fondo l'arte non fa altro che imitare la vita e spesso la realtà supera ogni fantasia.

Maledetto chi ne parla, scrive Federica Angeli il 12 aprile 2017 su “La Repubblica”. "A Ostia la mafia non esiste. E che sia maledetto chi ne parla e getta discredito sulla nostra cittadina". A dirlo sono alcuni sindacati di balneari, mafiosi e finte associazioni antimafia. Ma anche cittadini che indignati per l'onta che su Ostia si è abbattuta dopo le operazioni della magistratura - Nuova Alba e Tramonto del 2013 e del 2014 e lo scioglimento del X° Municipio di Roma avvenuto nel 2015 - non accettano l'abitudine spezzata di un mondo che, tutto sommato, andava avanti lo stesso. Capovolto sì, dove la legge dell’arroganza e della brutalità la faceva da padrona, ma funzionava. Tutti andavano a divertirsi nei locali (dei clan), perché l'imprenditoria collusa con criminalità e potere politico portava feste e allegria. Almeno in superficie. L’apparenza era salva. Chi non si gira invece dall'altra parte e tenta di rialzarsi sono coloro che ancora oggi vedono i clan del litorale bussare alla loro porta a chiedere pizzo. "Ci aiuti lei, ci protegga lei", mi implorano facendomi giurare che il loro nome sarà coperto dall'anonimato. Delle forze dell'ordine non si fidano. L'ex dirigente del commissariato di Ostia, Antonio Franco, colui che doveva proteggerli, è stato arrestato per corruzione. Nelle carte dell'inchiesta si leggono telefonate nelle quali avvisava gestori delle sale slot vicine al clan Spada di non farsi trovare, di chiudere bottega perché stava arrivando il controllo da lui stesso commissionato ai suoi agenti. Da una parte le carte in regola per aver organizzato il blitz, dall'altro il vero volto di un poliziotto fedele alla mala. L’intreccio perverso di verità e apparenza. Come quella del business delle palestre: l’ex assessore Sabella chiude la loro palestra simbolo nella roccaforte del clan e, sparito Sabella, ne aprono tre. Una sfida. “Chiudi una mia palestra? E io ne apro tre”. Dimostrare di essere vincitori sul territorio, non vinti. Anche se la loro famiglia è ormai decimata da inchieste, arresti e condanne. Ultimi colpi di coda o nuovi intrecci e compromessi col potere politico?

La piccola Las Vegas de noantri, scrive il 10 aprile 2017 Piero Melati - Giornalista di Repubblica. Segui i sogni. Se segui i sogni non sbagli. I sogni, come i soldi, sono una pista sicura per scoprire la mafia. Da Cuba a Ostia, i boss sognano. Cosa Nostra americana, prima della rivoluzione di Fidel, sognò L'Avana come il primo “Narcostato”. Lucky Luciano accorse da Napoli ai Caraibi, all'indomani del golpe del dittatore Batista. L'isola doveva diventare la base planetaria del traffico di droga, ma anche una Las Vegas: casinò, bordelli, alcol. Poi Castro guidò la rivoluzione e il sogno si infranse. Allora pensarono alla Sicilia indipendente. La mafia soffiò sul fuoco del movimento separatista. Si tenne un importante summit a Palermo, un altro poco dopo a Nuova York. Ma quest'ultimo venne intercettato dal Fbi, i padrini dovettero scappare nei boschi, e intanto in Sicilia l'indipendentismo si spense. Niente “Narcostato” neppure stavolta (anche se poi la mafia saprà ugualmente usare la Sicilia più che bene). Nel film Suburra di Stefano Sollima l'intera vicenda di Mafia Capitale ruota intorno al sogno di fare di Ostia una Shangri-La de noantri: megaporto turistico per sceicchi e petrolieri, case da gioco per la mafia russa, templi del divertimento per nuovi ricchi. Su quel sogno i clan hanno fatto il salto. Dapprima erano concessionari illegali degli stabilimenti balneari, come i primi Casalesi lungo tutto il litorale di Gaeta. E controllavano la droga. Per carità, era tanto. Ma non abbastanza. Sono cresciuti quando hanno concepito il sogno di una Ostia-Las Vegas. Nessuno, dalla Procura di Roma, aveva del resto mai contestato ai clan del litorale il reato di associazione mafiosa. Così loro potevano fingersi “non mafia”. Poi è cambiato tutto. E' arrivato il procuratore Giuseppe Pignatone, sono cominciate le inchieste (la cronista di Repubblica Federica Angeli, minacciata, è oggi sotto scorta). E la pellicola di Sollima ha ribadito che i gangster, quando concepiscono visioni imperiali, è lì che si trasformano in mafia. Non importa se, come Cuba, la Sicilia e Ostia, la loro sindrome napoleonica è destinata alla polvere. Intanto hanno aspirato al cielo. E d'ora in poi avranno sempre più pretese. Come è successo in Colombia, in Messico, dove semplici coltivatori e trasportatori di droga sono poi diventati “cartelli”. E il loro sogno, per il resto del mondo, è diventato incubo.

I fuorilegge di Ostia, scrive l'8 aprile 2017 Attilio Bolzoni su "La Repubblica". Il lungomuro è sempre lì, impasto di cemento e prepotenza, gigantesco corpo di reato a cielo aperto che certifica come anche la legge può diventare fuorilegge. Sono ancora lì anche le sue mafie, quella pidocchiosa e sfrontata e quell'altra più ammanigliata e protetta. Ogni tanto si annusano, si mischiano, a volte fanno anche finta di non conoscersi. Metà Brancaccio e metà Casal di Principe, questa periferia romana è un laboratorio politico-criminale che produce veleni e profitti, malacarne e vergogne. Il mare è privato, sequestrato. Un mare che non si vede mai. Un paio di anni fa in una delegazione comunale ai confini della pineta di Castelporziano mi hanno fatto trovare documenti molto interessanti, le fotocopie (gli originali erano custoditi in cassaforte, in una località segreta per paura che qualcuno li potesse distruggere) delle cartine catastali del lido risalenti al 1992. Confrontandole con le immagini di Google Maps ho potuto verificare com'era e com'è, Ostia prima e Ostia dopo. Un “sacco” che mi ha fatto venire in mente la Palermo sfregiata degli Anni Sessanta. Sono sempre gli stessi i padroni e i padroncini del territorio, con i Triassi o i Senese che un anno scendono di quotazione e l'anno dopo salgono, con i Fasciani che tengono banco nonostante le mazzate giudiziarie, con la tribù degli Spada sparsa nelle “viette” intorno a piazza Gasparri. Il X° Municipio resterà sciolto per mafiosità ancora per qualche mese, nonostante il rumoreggiare nervoso dei più impazienti. Non ci sono più “sceriffi” come il commissario Alfonso Sabella, che da assessore alla Legalità al Comune di Roma aveva provato a riportare alla normalità un quartiere di Roma con più di duecentomila abitanti. Non si mostrano più in prima fila certi personaggi appartenenti a clan politici invischiati in Mafia Capitale, quelli che regolavano il traffico delle tangenti da Ostia e per Ostia. Si manovra nelle retrovie, la banlieue romana rimane un incrocio strategico per esperimenti malavitosi e per mascheramenti che ormai - in realtà – non disorientano più di tanto. Tutto alla luce del sole. Poi c'è la giustizia schizofrenica. In primo grado dice che a Ostia la mafia esiste, in Appello la fa sparire, la Cassazione sentenzia per fortuna che c'è ancora. Ritardi culturali – di una parte di magistratura - che rivelano quanto Ostia sia ancora troppo sconosciuta.

Ostia, Roberto Spada rompe il naso a giornalista. E su Facebook: "Hai fatto bene!" Il componente del clan ha aggredito l'inviato di Nemo Daniele Piervincenzi, reo di avergli fatto una domanda sui rapporti con CasaPound. In un post sui social network si giustifica. E molti utenti lo sostengono: «Giornalisti terroristi», scrive Federico Marconi l'8 novembre 2017 su "L'Espresso". Nel pomeriggio di martedì 7 novembre Daniele Piervincenzi, inviato della trasmissione di Rai2 Nemo, e l’operatore Edoardo Anselmi sono state vittime di una aggressione a Ostia. Il protagonista è Roberto Spada, appartenente all’omonimo clan di Ostia e fratello di Carmine, condannato a 10 anni per estorsione con aggravante del metodo mafioso. Piervincenzi e Anselmi stavano chiedendo a Spada dell’appoggio dato a CasaPound nel corso della campagna elettorale. Spada, indispettito dalle domande, sferra una testata al giornalista e poi aggredisce l’operatore con una spranga. Piervincenzi ha riportato la frattura del setto nasale: operato d’urgenza, ha una prognosi di trenta giorni. Daniele Piervincenzi, inviato del programma di Rai2 Nemo, è stato colpito al volto con una violenta testata da Roberto Spada, titolare di una palestra e fratello del boss Carmine, condannato a 10 anni di carcere. Piervincenzi, che stava incalzando Spada sul suo "endorsement" per il candidato di Casapound Luca Marsella, ha riportato la frattura del setto nasale ed è stato sottoposto a un intervento d'urgenza. Durante l'aggressione, Spada ha utilizzato anche una mazza con la quale ha colpito anche l'operatore della troupe. Sul suo profilo Facebook, Spada ha poi riportato la sua versione dei fatti. Roberto Spada ha giustificato l’aggressione con un post su Facebook, ora rimosso. «Dopo un'ora e mezza di continuo "non voglio rilasciare nessuna intervista"....entrava a forza in una associazione per soli soci... disturbando una sessione e spaventando mio figlio.... voi che avreste fatto???» scrive in un post che sta riscuotendo molto successo sui social network. Numerosi i mi piace e i commenti, tutti a sostegno dell’aggressore. «Hai fatto bene, giornalisti terroristi», «Robé non devi chiedere scusa a nessuno», «Giornalisti terroristi», i commenti più ricorrenti. E ancora: «Semo tutti Spada», versione romana dei tanti “Je suis” che ricorrono di solito dopo gli attentati a sostegno delle vittime della violenza. Ma questa volta è utilizzato a sostegno dell’autore. La politica invece condanna l’accaduto ed esprime il proprio sostegno a Piervincenzi e Anselmi. Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha telefonato al dg della Rai Mario Orfeo per esprimere la propria solidarietà ai due giornalisti. Solidarietà arriva anche da Matteo Orfini, presidente del Pd, che su Twitter scrive: «Se vai a Ostia e chiedi dei rapporti tra gli Spada e CasaPound vieni aggredito. Perché a Ostia la mafia c’è, c’è chi la combatte, ma c’è anche chi la protegge». Anche Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana, esprime il proprio sdegno per la «violenta aggressione» e chiede «agli apparati dello Stato di far rispettare la convivenza civile e garantire la libertà d’informazione». Solidarietà alla troupe Rai arriva anche da Monica Picca e Giuliana Di Pillo, le due candidate al municipio X che si sfideranno al ballottaggio. Da CasaPound interviene invece il vicepresidente Simone Di Stefano. «Ci vuole poco a fare chiarezza. Roberto Spada non è un esponente di CasaPound» afferma il leader dei fascisti del terzo millennio «con lui non condividiamo nulla, se non una sua presenza ad una festa per bambini in piazza 18 mesi fa. Non rispondiamo certo delle sue azioni e la violenza è sempre deprecabile».

Ostia, chi sono gli Spada e perché dialogano con Casapound. Famiglia criminale di origine sinti, ha guadagnato spazio grazie alle inchieste che hanno decapitato l’altra famiglia criminale della zona, i Fasciani, scrive Sara Dellabella il 9 novembre 2017 su Panorama.  “A prescinde che dà lavoro ai ragazzi col suo bar e che la sua palestra è aperta a tutti i bisognosi senza soldi e che a sempre aiutato tutti nel quartiere è facile da casa puntare il dito ma le storie vanno vissute sono 5 anni che tutti i giorni viene tartassato da vari programmi TV compreso le iene vorrei vedere voi se al posto suo in 5 anni avreste risistito così tanto”. Questo è il messaggio che in un italiano stentato Silvano Spada, cugino di Roberto ha lasciato sulla bacheca Facebook in segno di solidarietà. Già perché mercoledì 8 novembre Roberto con una testata ha spaccato il naso, prima, e preso a bastonate poi il giornalista Daniele Piervincenzi e il filmmaker Edoardo Anselmi, del programma di Rai2 “Nemo”. E la bacheca è piena di messaggi di solidarietà contro i giornalisti “pezzi di…” e incoraggiamenti del tipo “sei un grande. Dormi sonni tranquilli, ti voglio bene”. Benvenuti a Ostia. Quartiere della Capitale, bagnato dal mare. Primo municipio a Roma ad essere stato sciolto per mafia e che ha vissuto un commissariamento lungo due anni. Tra dieci giorni in questo quadrante un po’ defilato della città si deciderà chi sarà chiamato ad amministrare per i prossimi anni. Si contendono il municipio due donne: Giuliana Di Pillo del Movimento 5 Stelle e Monica Picca di Fratelli d’Italia. La sinistra è evidentemente morta. Se qualche giorno fa, il candidato presidente di Casapound, Luca Marsella raccoglieva il sostegno di Roberto, oggi tutti provano a togliersi di torno un ospite diventato improvvisamente ingombrante. Però Casapound con il suo 9 per cento di consensi è determinante per il ballottaggio e anche se oggi lo sport nazionale è quello dell’indignazione è innegabile che per la partita elettorale è un tesoretto irrinunciabile.

Chi sono gli Spada? Roberto che fino a ieri risultava incensurato, è fratello di Carmine, per gli amici “Romoletto” che ha alle spalle una condanna a dieci anni per estorsione con aggravante del metodo mafioso. Questo principe de ‘noantri appartiene a una delle famiglie criminali di origine sinti di Ostia che negli ultimi anni ha guadagnato spazio grazie alle inchieste della magistratura che hanno decapitato l’altra famiglia criminale della zona, i Fasciani.

Così nella spartizione del territorio la magistratura, ha finito inconsapevolmente, per dargli una mano. Come nella serie Netflix, Suburra, l’affare principale ad Ostia sono gli stabilimenti balneari dove le concessioni vengono gestite come proprietà private e dove, secondo un dossier di Legambiente, l’87 per cento dei gestori degli stabilimenti nega l’accesso al mare. A Ostia anche un bene di tutti come il mare diventa proprietà di pochi, in barba ad ogni legge e regolamento. Il rapporto degli Spada con l’estrema destra di Casapound non nasce oggi però. Nel 2012, l'allora leader a Ostia, Ferdinando Colloca, poi condannato in primo grado per corruzione con l'aggravante del metodo mafioso, fece una società con il genero di Armando Spada, esponente di peso del clan. Con la complicità dell'ex direttore dell'Ufficio Tecnico del Municipio presero uno stabilimento togliendolo ai proprietari. Per aver scritto su tutto questo e assistito a una sparatoria che coinvolse due Spada, la cronista di Repubblica Federica Angeli è sotto scorta da diversi anni e oggetto di continue minacce, come tanti altri colleghi che seguono la cronaca del litorale e come ieri ci ha ricordato la cronaca. Così che domani i cronisti e i freelance della capitale stanno organizzando una manifestazione proprio davanti alla palestra di Roberto Spada per rivendicare il diritto di fare il proprio mestiere senza subire violenze.

Dalla Dolce vita a Suburra. A Ostia, da tempo, la realtà ha superato la fantasia e quello che è successo ieri ai colleghi di Nemo, mostra che la Capitale non è più quella della “Dolce vita” di Fellini e che nei quartieri comandano gli altri. Non la politica, ma questi signori che hanno creato un welfare alternativo con palestre, bar e aiuti diretti alle famiglie. Come mostra anche la bacheca Facebook di Roberto Spada in queste ore finisce che queste famiglie godono di un solido consenso tra i ceti più popolari, quelli che si sentono abbandonati dalla politica tradizionale, che a Ostia a dire il vero negli ultimi anni è scomparsa. Così finisce che Casapound diventa partner di questo consenso dal basso, trasformando in azione politica la vicinanza agli italiani in difficoltà con forniture di pacchi alimentari e la difesa del diritto alla casa prima. Insomma, Casapound fa quello che una volta faceva il Pci nelle periferie rosse, che oggi sono sempre più tinte di nero. Ostia compresa.

Chi sono gli Spada, a Ostia. L'aggressione a un giornalista sta facendo riparlare dell'enorme quartiere di Roma dove CasaPound prende molti voti e famiglie criminali controllano le zone più degradate, scrive "Il Post il 9 novembre 2017. Ostia è un quartiere enorme nel comune di Roma. Ha 230 mila abitanti e se fosse una città sarebbe la 14esima più grande d’Italia. Il Municipio X di Roma, in cui si trova la città di Ostia vera e propria, è un’area che comprende quartieri residenziali come Infernetto, Malafede, Dragona e Dragoncello, e aree turistiche come il Lido di Ostia, la “spiaggia di Roma”, che attrae ogni estate decine di migliaia di romani. La zona comprende anche aree disagiate, come Nuova Ostia, dove grandi palazzi di edilizia popolare si alternano a infrastrutture fatiscenti e piazze di spaccio. È qui, a Nuova Ostia, che martedì un giornalista del programma Nemo, di RaiDue, è stato picchiato mentre faceva alcune domande sui rapporti tra CasaPound (Roberto Spada, l’autore dell’aggressione è stato arrestato giovedì pomeriggio), che alle elezioni di domenica ha ottenuto uno storico risultato, e gli Spada, una famiglia che alcuni chiamano “clan” e i cui componenti sono stati più volte condannati per reati come estorsione e minacce con l’aggravante del metodo mafioso.

Chi sono gli Spada? Gli Spada sono una numerosa famiglia di origine Sinti arrivata a Roma dall’Abruzzo negli anni Cinquanta. Secondo i magistrati che negli anni hanno indagato su di loro, i capi della famiglia sono anche i leader di un’organizzazione criminale che estorce il pizzo ai commercianti della zona, intimidisce i gruppi di criminali rivali e gestisce l’assegnazione delle case popolari. Circa una dozzina tra membri della famiglia Spada e loro alleati sono stati condannati per tre volte nel corso degli ultimi tre anni e tutte e tre le volte con l’aggravante del metodo mafioso. La prima nel 2016, altre due nel 2017. Tra gli altri è stato condannato anche Carmine Spada, detto “Romoletto”, fratello di Roberto Spada, l’autore dell’aggressione di martedì e considerato dai magistrati il capo del clan. Per il momento, quasi tutti gli esponenti della famiglia processati hanno ricevuto condanne di primo grado. Nel recente passato sono stati descritti come un gruppo in ascesa nella criminalità romana, ma oggi non sono tra i principali gruppi criminali italiani. L’ultima relazione della Direzione Distrettuale Antimafia parla diffusamente delle precedenti famiglie criminali ostiensi (come i Fasciani, su cui torneremo tra poco), mentre agli Spada dedica soltanto una riga in una nota a pié di pagina. Le attività criminali di cui sono accusati i membri della famiglia Spada finiti sotto processo vanno dall’estorsione alle violenze, passando per le intimidazioni. Uno dei loro affari principali, secondo i magistrati, è la gestione delle case popolari. Gli atti dei magistrati parlano spesso di scontri con altre famiglie criminali per il controllo di queste case, che spesso servono come residenza proprio ai componenti dei “clan”. Gli Spada controllano anche diverse palestre a Nuova Ostia, l’area stretta tra piazza delle Repubbliche Marinare e l’idroscalo: è un quartiere costituito in buona parte da case popolari, dove – come in tutte le periferie romane – le strade sono piene di buche, l’illuminazione stradale spesso manca e la raccolta dei rifiuti funziona male, così come gli altri servizi pubblici. In questa parte della città, dove non sono molti ad avere un lavoro o un’abitazione regolare, gli Spada sono diventati negli ultimi anni un misto tra benefattori e aguzzini. Le loro palestre sono state a lungo gratuite per i giovani del quartiere, mentre i membri del clan si adoperavano per aiutare le famiglie in maggiore difficoltà sostituendosi allo Stato.

Cosa c’entra CasaPound? Nel corso dell’ultimo anno, la stampa si è accorta della nascita di un rapporto sempre più stretto tra alcuni esponenti della famiglia Spada e CasaPound, un partito neofascista che ha ottenuto crescenti consensi nelle aree più periferiche e degradate di Roma. CasaPound ha organizzato la distribuzione di pacchi di cibo alle famiglie più povere di quartieri come Nuova Ostia, un’attività che l’ha messi in contatto con chi quelle attività le porta avanti da anni, come la famiglia Spada. Roberto Spada, l’uomo che ha aggredito il giornalista di Nemo e che fino a questo momento è incensurato, ha apertamente appoggiato il candidato di CasaPound al Municipio di Ostia, Luca Marsella. A Nuova Ostia, dove vivono gli Spada, CasaPound ha raggiunto più del 20 per cento dei voti. Secondo diversi giornali, il giorno della votazione i seggi erano presidiati da attivisti di CasaPound e membri e amici della famiglia Spada. Oggi, i dirigenti di CasaPound tra cui Masello, hanno fatto una conferenza stampa per prendere le distanze dall’aggressione.

A Ostia c’è la mafia? Nel 2015 Andrea Tassone, presidente PD del Municipio X, fu coinvolto nell’inchiesta Mafia Capitale per aver fatto favori a Salvatore Buzzi, il socio di Massimo Carminati. Il municipio venne sciolto per infiltrazioni mafiose ed è rimasto commissariato fino alle elezioni di domenica scorsa (Tassone è stato poi condannato a cinque anni). Questo episodio, in cui la famiglia Spada non sembra entrare direttamente, è una delle poche occasioni in cui a Ostia è stata riconosciuta una vera e propria influenza di tipo mafioso. In città nessuno è mai stato condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso, ma in molti hanno ricevuto condanne aggravate dall’utilizzo di metodi mafiosi. Significa che secondo i magistrati in città si era creato un clima di paura, omertà e intimidazione. Tutti quanti sapevano a chi bisognava obbedire e a chi si doveva portare rispetto, senza che ci fosse bisogno di manifestarlo costantemente e in maniera eclatante. Nonostante questo, negli ultimi anni sono stati frequenti le intimidazioni e gli attentati incendiari nei confronti di coloro che non erano disposti a pagare il pizzo alle famiglie che a turno controllavano la città. I gruppi criminali che comandavano a Nuova Ostia, e in alcuni casi riuscivano ad estendere la loro influenza anche su altre aree della città, sono cambiati spesso nel corso dell’ultimo decennio. Scontri interni tra varie fazioni e gli arresti della magistratura hanno decimato una dopo l’altra le famiglie criminali cittadine, portando a un rapido “turnover” tra chi controllava le estorsioni ai commercianti e l’assegnazione delle case popolari. All’inizio del decennio in città comandavano gli eredi della Banda della Magliana, la più grande e potente organizzazione criminale romana, particolarmente forte tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Due esponenti di questo gruppo, Francesco Antonini, detto «Sorcanera», e Giovanni Galleoni, soprannominato «Baficchio», furono uccisi in un agguato in pieno giorno nel 2011. Antonini e Galleoni sono stati gli ultimi a essere uccisi nella fase più violenta della lotta per il potere in città, cominciata negli anni Duemila e terminata con il loro omicidio. Da allora in città ci sono stati ferimenti, gambizzazioni, sparatorie intimidatorie, pestaggi, ma non ci sono più stati omicidi. Dopo gli eredi della Banda della Magliana, in città hanno preso il potere i Triassi, seguiti dai Fasciani (duramente colpiti da una serie di arresti nel 2013) e, infine dagli ultimi arrivati, gli Spada, che compaiono nelle carte dei magistrati come gruppo criminale di una certa rilevanza a partire dal 2013. Anche se oggi gli Spada sono arrivati al punto più alto della loro notorietà nazionale, il potere della famiglia sembra essere entrato in una fase discendente. Gli arresti hanno decimato i suoi componenti più attivi, mentre i media hanno iniziato a interessarsi sempre di più alle loro attività. L’aggressione compiuta da Roberto Spada nei confronti del giornalista di Nemo ha ulteriormente alzato l’attenzione nei loro confronti. Domani, i giornalisti e inviati manifesteranno davanti alla palestra degli Spada – che proprio oggi è stata chiusa per problemi di autorizzazioni. Sabato anche il Movimento 5 Stelle ha annunciato una manifestazione contro la criminalità.

Ostia, le bugie di CasaPound su Roberto Spada e quegli affari della leader Chiaraluce. Dopo l'aggressione al giornalista di Nemo, i vertici del partito hanno negato qualsiasi legame con il fratello del boss di Ostia. Ma le cose non stanno così. Tra il picchiatore e alcuni dirigenti del movimento neofascista c'è un rapporto di profonda amicizia. Ecco le prove, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 9 novembre 2017 su "L'Espresso". «Roberto Spada non è un esponente di CasaPound. Con lui non condividiamo nulla, se non una sua presenza ad una festa per bambini in piazza 18 mesi fa. Non rispondiamo certo delle sue azioni e la violenza è sempre deprecabile». Parola del capo politico del partito neofascista, Simone Di Stefano, che ha commentato così l'aggressione al giornalista Daniele Piervincenzi e all'operatore Edoardo Anselmi, inviati della trasmissione Nemo.

Daniele Piervincenzi, inviato del programma di Rai2 Nemo, è stato colpito al volto con una violenta testata da Roberto Spada, titolare di una palestra e fratello del boss Carmine, condannato a 10 anni di carcere. Piervincenzi, che stava incalzando Spada sul suo "endorsement" per il candidato di Casapound Luca Marsella, ha riportato la frattura del setto nasale ed è stato sottoposto a un intervento d'urgenza. Durante l'aggressione, Spada ha utilizzato anche una mazza con la quale ha colpito anche l'operatore della troupe. Sul suo profilo Facebook, Spada ha poi riportato la sua versione dei fatti. Ciò che Di Stefano ignora, o forse tace consapevolmente, è un fatto facilmente constatabile. L'amicizia di Spada con alcuni suoi dirigenti: Luca Marsella e Carlotta Chiaraluce. Non due militanti qualunque, ma i registi del successo elettorale a Ostia, dove alle ultime elezioni i fascisti del terzo millennio hanno realizzato il record di preferenze della loro storia. Oltre a essere la portavoce del movimento fondato da Gianluca Iannone, Chiaraluce è la fidanzata di Marsella, candidato presidente per CasaPound al X Municipio. Quello di Ostia, appunto, che con quasi 250mila abitanti è di fatto più popolosa di grandi città italiane come Brescia, Reggio Calabria, Livorno o Trieste. Inorgogliti dai consensi ottenuti in giro per l'Italia, tra posti in consiglio comunale e un centinaio di sedi sparse da Nord a Sud, i leader di CasaPound festeggiano la meta del 9 per cento raggiunta a Ostia domenica scorsa. C'era da aspettarselo, dopo due anni di commissariamento per mafia del municipio, con l'ex mini-sindaco Andrea Tassone, del Pd, messo fuori gioco dalle inchieste e dal processo Mafia Capitale, e i candidati del Movimento 5 Stelle che scontano le prime delusioni dei cittadini dopo un anno di governo di Virginia Raggi. C'è però un'ombra ingombrante tra le amicizie dei due neofascisti romani.

A Ostia lo conoscono come “Robé” o “Robertino”. Roberto Spada è il fratello di Carmine Spada, detto “Romoletto”, condannato in primo grado a 10 anni per estorsione aggravata dal metodo mafioso e ritenuto da inquirenti e investigatori al vertice dell'omonimo clan che comanda a Ostia. Il fatto che Spada sostenga CasaPound è un fatto noto. Prima delle elezioni, sulla sua pagina Facebook il fratello del boss di Ostia scriveva infatti: «Il 5 novembre si avvicina (la data delle elezioni, ndr) e sento dai cittadini quasi tutti la stessa cantilena “qua sto periodo se vedono tutti sti politici a raccontarci barzellette, mai visti prima, ...gli unici sempre esclusivamente presenti CasaPound...». Ma non è solo la simpatia politica a legare Spada ai dirigenti del partito neofascista.  Tra la coppia Chiaraluce-Marsella e il picchiatore di Ostia c'è un rapporto di amicizia. E a dimostrarlo è ancora Facebook.

Il 9 settembre, per esempio, Spada lancia accuse pubbliche ai giornali per il trattamento riservato alla sua famiglia, dopo alcuni fatti di cronaca che hanno coinvolto un giovane parente. Seguono decine di commenti di solidarietà. Due portano la firma di Chiaraluce: «Eh Robè, la cosa che più fa rabbia. E a noi spiace, che ci strumentalizzano così...sei incensurato, hai la fedina penale pulita e non sei un politico. Sei un cittadino privato che ha il suo lavoro e la sua famiglia. Non hanno nessun rispetto per i tuoi figli e per i danni e le sofferenze che possono creargli». Non saranno gli unici messaggi: tra i due c'è confidenza. Scorrendo la pagina di Spada troviamo anche qualche like di Luca Ostia, al secolo Luca Marsella, il candidato presidente. C'è un post in cui il picchiatore di Ostia posta una foto mussoliana: «Credere, obbedire, combattere. È l'aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende». Piace a Luca Ostia. E anche Chiaraluce dice la sua: «Inutile dire che l'unica valida alternativa». Facebook immortala anche scene di vita conviviale del fratello di Romoletto, il capo clan. Fine luglio, in diretta dalla spiaggia di Ostia, “Robè” mostra la famiglia impegnata in un barbecue e invita amici e parenti. Tra i messaggi ce n'è uno firmato da Chiaraluce: «Ro, più tardi passiamo!», si legge.

La portavoce di CasaPound Ostia non è solo la compagna di Marsella, il candidato che ha ottenuto un discreto successo elettorale la scorsa settimana. Chiaraluce è soprattutto una donna d'impresa. C'è un filo, infatti, che la lega al potere economico locale. Un filo fatto di partecipazioni azionarie, posti in consigli d'amministrazione e amicizie con famiglie importanti. Tra cortei, volantinaggio e passione per la politica, la dirigente neofascista naviga da esperta marinaia nel mondo economico. Del resto viene da una famiglia di imprenditori. Balneari e nautica, due settori che a Ostia contano parecchio. La famiglia di Chiaraluce ha uno storico rimessaggio di barche, in zona Tor Boacciana, una torre di epoca medioevale sul Tevere. Limitrofa, da un lato, alle rovine di Ostia antica e dall'altro alle case popolari di Nuova Ostia. Per arrivarci si percorre una strada che porta lo stesso cognome di Carlotta: via Tancredi Chiaraluce. Sia lei che il padre fanno parte di alcuni consorzi nautici. La candidata di CasaPound è per esempio da sette anni consigliere nel “Cnl”, il Consorzio nautico del Lazio. Gruppo che riunisce alcuni grossi imprenditori del settore un tempo assai remunerativo e che oggi sta affrontando un flessione di fatturati. Al fianco di Chiaraluce, siede nel Cnl un pezzo da novanta della barche di lusso. Si chiama Massimo Guardigli della Comar Yacht. Brand noto, ultimamente finito al centro delle cronache per un'indagine della guardia di Finanza. Guardigli è infatti imputato per evasione fiscale da un milione di euro, commessa per sei anni consecutivi, secondo l'accusa, usando società basate nell'arcipelago offshore di Madeira. Il processo è in corso, prossima udienza i primi di dicembre. Il padre di Chiaraluce risulta invece titolare di Iniziative nautiche srl. Società che vanta un fatturato di quasi 300 mila euro (ultimo bilancio disponibile del 2014) e che a sua volta ha avuto un ruolo nel consorzio del porto di Fiumara Grande, oggi cancellato. Il babbo della leader del movimento di estrema destra ha fatto parte anche del Consorzio nautico del Tevere. Con ruoli diversi, in quest'ultima realtà, incontriamo Sergio Papagni, un importante imprenditore di Ostia. Insomma, Chiaraluce sembra avere le caratteristiche giuste per garantire a CasaPound consensi e relazioni con il mondo delle imprese. Senza dimenticare il rapporto con gli Spada, oggi presentati come semplici simpatizzanti del partito. Ma con i quali, come dimostrano Facebook e alcune iniziative pubbliche del passato, il rapporto è molto più solido di quanto voglia far credere il capo del partito Simone Di Stefano.   

I grillini organizzano una marcia per la legalità. Meloni querela la candidata pentastellata, scrive il 9/11/2017 Gabriella Cerami su L'Huffington post. Oltre a una partita politica, le elezioni a Ostia sembrano diventate una partita di tennis o di ping pong, con i voti del clan Spada che vanno da una parte all'altra della rete come una pallina impazzita: "Sono i vostri". "No, hanno votato voi". Il giorno dopo l'aggressione al giornalista e al filmmaker Rai da parte di Roberto Spada, e quando manca una settimana e mezzo al voto del municipio sul litorale laziale, i partiti si scaricano addosso colpe e responsabilità in vista del ballottaggio tra la candidata Giuliana Di Pillo del Movimento Cinque Stelle e Monica Picca di centrodestra. Stefano Esposito, già commissario dem a Ostia, e Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia ricordano da subito quando lo stesso Roberto Spada disse di simpatizzare per M5s e che avrebbe votato per loro, condividendo anche un post di Alessandro Di Battista. Risponde Virginia Raggi che in un'intervista al Fatto Quotidiano rilancia la marcia di sabato organizzata dal Movimento a Ostia e sottolineando che M5s "non scende a patti né con gli Spada, né con Casapound, né con chi ha rovinato questo territorio negli anni. Vorremmo che tutti fossero altrettanto chiari". E poi su Giorgia Meloni e sul voto di domenica scorsa aggiunge: "Ritiri quanto ha detto: ma come fa ad accettare i voti di CasaPound? L'ha detto Roberto Spada: uno di quei voti a CasaPound è il suo. La destra esca dall'ambiguità". A questo punto si inserisce CasaPound che in conferenza stampa si giustifica per una foto di 18 mesi fa e che ritrae Roberto Spada con Luca Marsella a un evento in piazza Gasparri a Ostia. "Spada era una persona incensurata e titolare di una palestra legale", dice lo stesso Marsella, neo consigliere di CasaPound nel X Municipio di Roma. "Era incensurato e votava il M5S, il Municipio stava per essere sciolto per mafia", precisa il vicepresidente Simone Di Stefano. Tuttavia, ai tempi, un post sul blog di Grillo prendeva le distanze così: "In queste ore esponenti del clan Spada hanno espresso pubblicamente il loro sostegno a M5s. Del loro sostegno non ce ne facciamo nulla. Lo respingiamo al mittente". Poco importa a Fratelli d'Italia, Meloni continua ad attaccare: "Questa volta per smentire i bugiardi seriali del M5S basta fare una veloce ricerca su internet e vedere come Roberto Spada (quello dell'aggressione di ieri) sia stato un grande sostenitore dei grillini, e lo abbia dichiarato ampiamente. Ma allora, tanto per cambiare, la Raggi pare non abbia capito...". L'intera giornata va avanti così, botta e risposta su Facebook o tramite comunicati stampa. Il capogruppo M5s in Campidoglio Paolo Ferrara dice: "Siamo stati gli unici a dissociarci dal clan Spada a gran voce. Fin dall'inizio! Solo noi abbiamo preso le distanze e dimostrato coraggio". Alla fine Meloni decide di denunciare "per diffamazione la signora Giuliana Di Pillo (candidata M5s a Ostia ndr), che è arrivata ad insinuare che io sia tra i 'mandanti morali' dell'aggressione ai danni di una troupe Rai". Alla fine della giornata, in questo rimbalzo di accuse, CasaPound nega legami con gli Spada e per il ballottaggio a Ostia non dà indicazioni di voto, piuttosto invita i propri elettori ad andare al mare. M5s invita tutti da Fratelli d'Italia al Pd a partecipare alla loro manifestazione ma nessuno andrà definendola "strumentale".

Scopriamo alcuni aspetti della simpatia politica di Spada.

I grillini cavalcano il caso ma il violento tifava per loro. La Raggi accusa la rivale di destra: "Noi in corteo a Ostia". Ma Spada diceva: "M5S puliti, mi candiderei", scrive Massimo Malpica, Venerdì 10/11/2017, su "Il Giornale". Dal testa a testa alla capocciata. La brutale aggressione di Roberto Spada alla troupe della Rai che gli chiedeva conto del suo endorsement pro-Casapound è ormai il primo elemento con cui fare i conti in questo supplemento di campagna elettorale a Ostia, da qui al ballottaggio del 19 novembre. Ma mentre buona parte delle polemiche si incentra su modalità e nettezza della presa di distanza dei «fascisti del terzo millennio» da Spada e dal clan di famiglia, qualcuno sceglie una strada diversa. In particolare il sindaco di Roma, Virginia Raggi, che praticamente dà per scontata l'assoluta organicità dell'aggressore con Casapound, e lo fa per un motivo. Con il movimento politico di estrema destra che è uscito dalle urne col 9 per cento dei consensi, lo scopo della prima cittadina è attaccare Fdi, chiedendo al partito la cui candidata Monica Picca sfiderà al ballottaggio la pentastellata Giuliana Di Pillo di «dissociarsi» non - come ovvio - da Spada e dal suo gesto, ma appunto da Casapound. «La destra esca dall'ambiguità», ha ringhiato Raggi annunciando la «passeggiata per la legalità» sabato a Ostia, e chiedendo alla Meloni di non accettare i voti di Casapound. Ovviamente decisivi nel ballottaggio, che vede le due candidate separate da appena 3,5 punti percentuali dopo il primo turno. In guerra, in amore e in campagna elettorale tutto è permesso, ma l'invito grillino allo smarcamento di Fdi dai voti di Cpi come conseguenza del caso Spada è argomento scivoloso per la sindaca pentastellata. Non fosse altro che all'inizio dell'estate del 2015 proprio Roberto Spada, su Facebook, annunciò tra il serio e il faceto l'intenzione di candidarsi alla presidenza del X municipio della capitale. E intervistato da Radio Cusano Campus, che voleva saperne di più, si affrettò a fare marcia indietro, spiegando che la sua era solo un'idea dovuta al disamore della gente per i partiti tradizionali, e accompagnando il tutto con una dichiarazione d'amore per il Movimento 5 Stelle: «Gli unici che, anziché prendere, restituiscono soldi. Già per quest'azione per me hanno vinto: aiutano il popolo. Perché non dargli credibilità? Sono tanti anni che destra e sinistra fanno compromessi e loschi malaffari». Dunque il fratello del capo del clan Spada non è nuovo agli endorsement, e il primo, clamoroso, lo fece per sposare la causa pentastellata. Oltre alle chiacchiere in radio, Spada in quel periodo condivise anche una foto di Alessandro Di Battista, mostrandosi sedotto dalla rivoluzione a Cinque Stelle. E il tutto nel sostanziale silenzio dei rappresentanti grillini, fino a quando a rompere quel clima un po' così, provvide il grande capo, Beppe Grillo, che arrivando a Ostia per un'altra marcia della legalità penso, saggiamente, di «rimandare al mittente» la promessa del clan di votare per il movimento da lui fondato, spiegando che quel supporto non era affatto gradito. Che cosa poi abbiano scelto di fare alle urne i membri della famiglia Spada non è dato sapere, ma certo un anno dopo, alle comunali del 2016, la Raggi a Ostia fece incetta di voti al primo turno (43,62 per cento contro il 35,26 del dato cittadino) e sbaragliò Roberto Giachetti al ballottaggio (76,12 per cento di preferenze, contro un 67,15% a livello comunale). D'altra parte il dettaglio del «primo amore politico» di Roberto Spada non è sfuggito a Giorgia Meloni, che chiamata in causa dal sindaco per scongiurare alleanze con gli «amici» del clan Spada ne ha approfittato per replicare: «Per smentire i bugiardi seriali del M5S - ha risposto la presidente di Fdi - basta fare una ricerca su internet e vedere come Roberto Spada sia stato un grande sostenitore dei grillini, e lo abbia dichiarato ampiamente. Ma allora, tanto per cambiare, la Raggi pare non abbia capito».

Il video in cui Roberto Spada si dichiara grillino. E il Pd confermava…, scrive giovedì 9 novembre 2017 "Il Secolo d’Italia". Il video risale al 2015 e riguarda ancora una volta il clan Spada. Roberto Spada stavolta parla tranquillamente col giornalista senza aggressioni e testate e dichiara che voterà i Cinquestelle proprio perché lui non è mafioso… A tirare in ballo la vicenda, all’epoca, furono il senatore Esposito e Orfini del Pd. Quest’ultimo aveva detto che i Cinquestelle erano gli idoli dei mafiosi di Ostia.

Quel post di Spada su Di Battista. La testata da parte del fratello del boss del clan Spada al cronista di Nemo sta facendo parecchio discutere. E spunta la "simpatia" grillina di Spada, scrive Luca Romano, Mercoledì 8/11/2017, su "Il Giornale".  La testata da parte del fratello del boss del clan Spada al cronista di Nemo sta facendo parecchio discutere Le immagini mostrano una ferocia inaudita da parte di Roberto Spada. Di fatto il diverbio è nato quando il cronista di Nemo ha fatto qualche domanda sui rapporti tra lo stesso Spada e Luca Marsella, candidato di Casapound al Municipio X di Roma. Ma a quanto pare la passione politica di Spada sarebbe un'altra. Infatti qualche tempo fa, come sottolineava Repubblica, Stefano Esposito, senatore de, ed ex commissario del Pd ad Ostia segnalava un post su facebook di Roberto Spada che aveva condiviso un messaggio di Alessandro Di Battista con tanto di grafico sui sondaggi. Esposito aveva affermato: "Il reggente del clan Spada, Roberto, è un fans di Alessandro Di Battista, come dimostra la foto che pubblico qui di seguito". E a seguire appunto il messaggio di "Dibba". Lo stesso Esposito era stato minacciato da Spada e aveva denunciato tutto su Facebook: "Roberto Spada, autore di un post di insulti, attuale reggente del clan, indagato per minacce. Se il sig. Roberto spada crede di spaventarmi con i suoi metodi da guappo si sbaglia. Il suo sorriso sparirà sotto i colpi della legge, come avvenuto per il resto della sua famiglia. Noi del pd daremo una mano alla giustizia". Ma a quanto pare, due anni dopo, la violenza degli Spada è ben presente a Ostia.

In cella per la testata Ma il boss era in affari col Pd, non coi fascisti, afferma Pietro Senaldi il 10/11/2017 con un video su Libero Quotidiano".  Andranno al ballottaggio i candidati di Cinque stelle e di Fratelli d’Italia e dove i neo fascisti di CasaPound, che non han no dato indicazioni di voto, hanno ottenuto il 9%, un risultato impressionante. È finito in prigione per aver dato una testata a tradimento e spaccato il setto nasale a un giornalista Rai che lo in calzava sul le sue posizioni politiche, delle quali il giovanotto non aveva nessuna intenzione di parlare. Un gesto esecrabile e da condannare. Difendere i cattivi non è mai popolare, e noi non abbiamo alcuna intenzione di immolarci per «Testa di Spada», però ci preme fa re un paio di considerazioni. Il fratello del boss rischia di essere l’unico italiano in cella per aver dato una testata, tant’è che per metterlo in ceppi hanno dovuto appioppargli l’aggravante di contesto mafioso, una circostanza molto difficile da provare, specie se il delitto si è consumato durante un’intervista tv. In pratica, gli hanno inventato il reato su misura. Non è ancora condannato, non c’è pericolo di fuga, tantomeno di inquinamento delle prove, poiché il video del pestaggio ha milioni di visualizzazioni, o di reiterazione del reato. Spada è in carcere a furor di giornalisti, perché da subito tutti gli organi di stampa lo hanno chiesto, ma è probabile che, se si trova un buon avvocato, le autorità sia no costrette a rilasciarlo ben presto. Intendiamoci, noi non abbiamo nulla in comune con quanti hanno fischiato i poliziotti che lo traducevano in galera; al contrario, non ci spiace affatto che passi qual che notte in guardina. Ci chiediamo se questo però, oltre a soddisfare la nostra sete di vendetta e quella della categoria, corrisponda anche alla giustizia. Ci aiuterebbe a crederlo vedere in cella quanti metto no a ferro e fuoco le nostre città durante i cortei giottini che ricorrono periodicamente. È della settimana scorsa la notizia delle assoluzioni per la devastazione di Milano del primo maggio 2015, giorno di inaugurazione dell’Expo. Ci sarebbe piaciuto che i colleghi, che a gran voce hanno chiesto il carcere preventivo per il fratello del boss di Ostia, si fossero indignati per queste assoluzioni e, al prossimo corteo no-Tav o no-Vax, pretendessero la massima fermezza verso i manifestanti. Al momento ci resta il dubbio che Spada sia in galera più che altro per ché ha fatto l’errore di picchiare un giornalista schierato dalla parte giusta. Già, poi ché nello story telling di queste elezioni a Ostia c’è qualcosa che non quadra e che in troppi si dimenticano di ricordare. Daniele Piervincenzi, il cronista di Lucci, è stato aggredito mentre chiedeva insistentemente conto a Spada del perché su Face book avesse appoggiato il candidato di Ca saPound. La tesi che si voleva di mostrare era che CasaPound abbia contatti con i clan di Ostia, un’accusa insistente che ha spinto i neo fascisti a convocare una conferenza stampa per negare ogni legame con la malavita. Ma siccome, come sosteneva Goebbels, a dire una menzogna tante volte diventa vera, ecco che da sinistra il tormentone è ripetuto continuamente, con l’unica variante dell’estensione delle accuse a Cinque stelle. Lo scopo di tutto questo è chiaro: giustificare la sconfitta del Pd a Ostia con le aderenze mafiose dei rivali. Per carità, conosciamo solo superficialmente la situazione criminale del litorale romano. A quanto ci risulta però, il municipio è stato sciolto e commissariato per mafia quando era governato dal Pd e non da M5S o CasaPound e il suo ex presidente, Andrea Tassone, condannato in primo grado a cinque anni nel processo per Mafia Capitale, ha la tessera dei Dem. Gli Spada sono un clan, e quindi per definizione sono apartitici e fanno affari con il potere, di qualunque colore e credo sia. Far li passare per fascisti o grillini è una fake news. Omettere le loro corrispondenze d’amorosi sensi con il Pd è una testata sul naso dell’opinione pubblica. Da indignarsi in questa vicenda, ce n’è parecchio. E non so lo per la violenza di un criminale da cui non ci si può aspettare altro.

Il cronista-rugbista: a mia figlia ho detto che mi ero ferito durante una partita, scrive il 10/11/2017 "Il Corriere della Sera". Roberto Spada, tre giorni fa, ignorava di trovarsi davanti a un ex rugbista: Daniele Piervincenzi, 35 anni, l’inviato di Nemo (RaiDue), è stato un terza linea della Lazio Rugby, a lungo anche capitano dell’Us Primavera. Per ciò... «Per ciò sono rimasto in piedi, lì, davanti a lui. Malgrado tutto lo choc e il dolore per quella testata data a tradimento. In mischia, in vita mia, il naso me l’ero già rotto tante volte. Così, quando la sera sono tornato a casa, per non spaventare mia figlia che è ancora una bambina, le ho raccontato che papà aveva appena finito di giocare una partita». Già, una partita. «Eh sì! Perché il rugby è innanzi tutto un gioco e il combattimento in campo ha delle regole. Nel rugby regna sempre una violenza onesta. Mai infame, gratuita e fuori scala come quella che avete visto». Spada ora è a Regina Coeli. «Sì, ma non provo gioia nel sapere che un uomo è stato arrestato. Anzi, trovo ipocrita che sia stato arrestato per aver rotto il naso a un giornalista, quando là dove vive lui, in piazza Gasparri, a Ostia, si spaccano nasi tutti i giorni». Una parola per il suo aggressore? «Ci prenderei un caffè insieme anche domani, senza rancore. Ma vorrei guardarlo negli occhi, vorrei che mi spiegasse perché l’ha fatto, per ché ha deciso di fare male solo per non rispondere a una domanda». Cioè il rapporto tra gli Spada e CasaPound. «Sì appunto, ma il fatto è che lui all’inizio faceva il guascone, era goliardico, rideva, sembra va a suo agio. Ma poi ha cambiato volto». La sequenza dei colpi è impressionante. «È stato bravissimo il mio amico operatore, Edoardo Anselmi, che per proteggere la telecamera la teneva tra le braccia serrate al petto, ma col volto scoperto ed esposto per ciò alle botte del gorilla che accompagnava Roberto Spada. È stato bravo, Edoardo: ha salvato tutte le immagini». Contento della solidarietà del premier Gentiloni? «Certo! Contento della solidarietà di tutti, anche se noi cronisti sappiamo riconoscere al volo le parole autentiche dal resto. Mi ha fatto molto piacere l’incontro con Mario Orfeo (il dg della Rai, ndr). Abbiamo parlato a lungo davanti a un caffè. Mario l’ho sentito sincero, mi ha chiesto del male che provavo fuori e dentro di me. Così, a fine giornata, davvero mi sono sentito meno solo. E questo mi dà la forza per andare avanti». La prossima missione? «Il tempo di togliere le bende e vado a Napoli, a raccontare il quartiere Ferrovia, che oggi è diventato un suk pieno di africani: Gambia, Zaire, Congo. I napoletani sono qua si tutti scappati». Beh, un altro servizio abbastanza rischioso. «Infatti i miei genitori, Emilio e Patrizia, sono preoccupatissimi. Però ho già fatto loro una promessa». Quale? «Che stavolta, se percepisco anche il minimo cambio d’umore da parte dei miei interlocutori, beh... stavolta mi do».

Ostia è l'inferno da decenni, accorgersene ora è solo ipocrisia. Benvenuti nella realtà. Sono decenni che Ostia è abbandonata alla violenza e all’illegalità, e alla totale assenza della politica. Bene la condanna e l’indignazione per il gesto di Spada, ma per favore, non facciamo Alice nel paese delle meraviglie, scrive Flavia Perina il 9 Novembre 2017 su "L’Inkiesta". Ma che cosa credevate che fossero i clan, ma come la pensavate Ostia? Come una fiction, un soggetto televisivo, come Suburra col capoclan bello e dannato, Spadino, Samurai, «divelti tra machismo e tenerezza» come ha scritto qualche recensione?  E pensavate fosse un romanzo di formazione la storia di questi Spada, credevate fossero attori? Ostia è una testata in faccia, a bruciapelo, al giovane cronista che insiste troppo nel fare le domande. Ostia è quel tipo di violenza lì, che non si ferma nemmeno davanti alla consapevolezza delle telecamere e quindi della certa condanna giudiziaria, anzi: la capocciata televisiva servirà in futuro a fare curriculum, a deliziare gli amici (come si è visto su Fb), a confermare il mito. Ostia come l'abbiamo vista nel video del giornalista Daniele Piervincenzi è la migliore spiegazione del perchè lì, sul litorale di Roma, ormai votano solo parenti e amici dei candidati: domenica scorsa è andato ai seggi il 36 per cento degli aventi diritto, il venti per cento in meno rispetto a due anni fa. Due su tre non credono più né alla destra né alla sinistra, né al Cinque Stelle né ai preti (c'era un sacerdote in lista) e c'è da immaginare che pure se si candidassero Joe Petrosino o i redivivi Berlinguer e Almirante, quei residenti a Ostia resterebbero a casa. Non ci credono più, e come dargli torto? Qui, un anno fa, hanno arrestato pure il capo del commissariato di zona: lavorava per uno dei boss locali delle sale gioco dando una mano per i permessi, avvertendolo delle ispezioni e chiudendo un occhio quando lo vedeva insieme al capoclan Ottavio Spada (fratello di Roberto, quello che ha picchiato il giornalista). Di chi volete che ci si possa fidare, qui? Dei partiti? L'ultimo politico serio che hanno visto è probabilmente Marco Pannella: fu eletto presidente del Municipio nel '92, e anche allora Ostia usciva da un commissariamento sempre per gli stessi motivi: tangenti, racket, usura, abusivismo governato dai clan (più o meno gli stessi clan di oggi). Sono passati quasi trent’anni e siamo sempre lì. Sulla mafia di Ostia girano serie tv di successo, ma la mafia di Ostia se la comanda ancora, e di Pannella in giro non se ne vedono da un pezzo. Dunque bene la condanna, bene l'indignazione, bene tutto. Ma per piacere, non facciamo Alice nel Paese delle meraviglie. Non serviva la testata a un cronista per capire che Ostia è fuori controllo, che alle porte di Roma lo Stato cede il passo all'interesse delle bande e che la politica risulta da tempo sovrastruttura: clan che resistono da tre generazioni sono in grado di stipulare patti con tutti. Stavano alle calcagna del Pd quando governava, poi fecero la corte ai Cinquestelle, costringendo Beppe Grillo in persona a intervenire dopo un messaggio degli Spada di sostegno al movimento. Ora sembrano tifare Casapound, perché magari scommettono sul successo della destra. In realtà chiunque vinca sapranno aggiustarsi come piace a loro, un po' con le buone e un po' con le cattive.  Con il senno di poi, forse a Ostia sarebbe stato meglio non votare per niente. Meglio lasciarla al Prefetto ancora un po', questa città, e tentare la via della bonifica prima di restituire lo scettro ai partiti. Ma ormai è fatta. Ormai, vada come vada. Proviamo solo a capire che non è un film, che questi non sono attori «divelti tra machismo e tenerezza». Sono delinquenti veri. Fanno male.

Gli abitanti di Corleone ora attaccano Saviano: "Diffama il nostro paese". A denunciarlo è il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia di Corleone che attacca lo scrittore Roberto Saviano, che ieri, parlando dell'aggressione di Roberto Spada ai danni di un giornalista Rai ad Ostia aveva paragonato il quartiere romano a "Corleone o Scampia", scrive Luca Romano, Giovedì 09/11/2017, su "Il Giornale". "Per l'ennesima volta, vergognosamente, l'immagine di Corleone e dei suoi cittadini onesti viene diffamata e additata". A denunciarlo è il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia di Corleone che attacca lo scrittore Roberto Saviano, che ieri, parlando dell'aggressione di Roberto Spada ai danni di un giornalista Rai ad Ostia aveva paragonato il quartiere romano a "Corleone o Scampia". "Il risveglio di stamattina ci lascia un po' l'amaro in bocca. Ci dispiace constatare che la nomea di Corleone città della mafia non riguarda solo persone andate avanti a pane e Padrino ma anche Roberto Saviano che da anni "combatte" contro la camorra e incontra quotidianamente persone che a causa della camorra hanno perso parenti, sorrisi e speranza - dicono i ragazzi del Museo sulla mafia di Corleone - L' avevamo invitato a venire: se solo avesse accolto l'invito, si sarebbe reso conto che Corleone sì, ha da raccontare storie di lupare e dolore, ma oggi può raccontare storie di grandi lotte e di riscatto". "Grazie Roberto Saviano per l'ennesima spinta indietro che ci costringi a fare - dicono - Noi barcolliamo un po', ma non perdiamo l'equilibrio e andiamo avanti camminando sulle idee dei giudici Falcone e Borsellino. La legalità ci ha insegnato e ci insegna ancora a splendere di luce propria...non riflessa "caro Saviano". Buona giornata da chi ogni giorno lotta per sentire il fresco profumo di libertà che non ha colore politico". Anche sui social c'è stata una rivolta contro le parole di Saviano. "Che delusione - scrive Patrizia Gariffo su Facebook - Dare un giudizio così netto e senza appelli, senza neanche essere venuto a Corleone. Prima di parlare, è bene pensare un po", mentre lo storico Pasquale Hamel bolla Saviano come "un presuntuoso che ha speculato per creare il proprio personaggio". Dino Paternostro, storico attivista per i diritti di Corleone invita lo scrittore in città: "Roberto Saviano, vieni a visitare Corleone. Sarai mio ospite. Poi, solo poi, potrai dare un giudizio fondato sulla nostra città".

Soldi e casa pagata al commissario. Le infiltrazioni dei clan nella polizia. Arrestato il dirigente Antonio Franco: soffiate per evitare controlli nelle sale giochi, scrive Giovanni Bianconi il 29 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Stavolta il reato contestato non è mafia ma corruzione, solo che ad essere arrestato è l’ex dirigente del commissariato di polizia di Ostia, che secondo il giudice non poteva non rendersi conto del contesto mafioso in cui operava. E nel quale ha «venduto la propria funzione» a un personaggio considerato vicino prima ad esponenti della banda della Magliana e poi del clan Spada: una fetta importante della criminalità organizzata del litorale romano che, al di là della «qualità giuridica» dei reati, si muove tra intimidazioni, condizionamenti e traffici finiti da quattro anni nel mirino di inquirenti e investigatori. Il commissario di polizia Antonio Franco incassava «utilità» e giocava «alle macchinette» dei video-poker (forse truccate, per favorire le vincite) nei locali gestiti dal suo amico Mauro Carfagna, a sua volta legato a un giovane esponente degli Spada, in cambio di informazioni riservate utili a tenerlo lontano da controlli e guai giudiziari. «Riciclaggi e autoriciclaggi sintomi di mafiosità» Questa la tesi del pubblico ministero Mario Palazzi e del procuratore aggiunto Michele Prestipino che, a prescindere dal capo d’imputazione, torna a sottolineare l’aria di mafia che si respira insieme a quella del mare alle porte di Roma. Di cui, nella ricostruzione della giudice Simonetta D’Alessandro che l’ha mandato agli arresti domiciliari, il commissario Franco avrebbe approfittato attraverso una frequentazione «gravemente inopportuna, sospetta e finanche larvatamente solidale». Relazioni pericolose in un contesto di «riciclaggi e autoriciclaggi sintomi di mafiosità», espressione di «un evidente legame corruttivo». A maggio la corte d’appello ha annullato le condanne per associazione mafiosa pronunciate in primo grado contro l’altra famiglia della malavita di Ostia, i Fasciani, sebbene nel frattempo la corte di cassazione avesse confermato (nello spezzone di processo celebrato con il rito abbreviato) la bontà di quell’accusa. Subito dopo Carmine Spada era stato condannato per estorsione «aggravata dal metodo mafioso», e solo pochi giorni fa all’imprenditore del luogo Mauro Balini sono stati sequestrati beni per 450 milioni di euro a causa dei presunti legami con un noto narcotrafficante, nonché opacità imprenditoriali legate al porto di Ostia e altre attività; il suo nome è comparso anche nell’inchiesta sul «Mondo di mezzo» di Buzzi e Carminati per i rapporti con Luca Gramazio, l’ex consigliere regionale ritenuto un «terminale politico» della ipotizzata associazione mafiosa. Adesso ecco il nuovo capitolo del poliziotto «a libro paga», secondo uno dei canovacci più classici del crimine che trova appoggi nelle istituzioni: l’affitto di una casa in cui s’incontrava con un’amica come corrispettivo per le «soffiate» utili a salvaguardare l’amico gestore di sale giochi, presunto «socio occulto» degli Spada e forse riciclatore del clan. Senza accorgersi però di essere sotto controllo da parte dei suoi colleghi della Squadra Mobile di Roma, che ne intercettavano incontri e telefonate. L’11 gennaio scorso, quando già era stato trasferito per un’altra indagine a suo carico, Franco avvertì Carfagna mentre i poliziotti stavano andando a fare un controllo in uno dei locali: «Stanno a venì là... Stanno in borghese... Metti il cartello “bar in allestimento” e spegni i televisori». «Tutto un teorema... una massa de stronzi». Carfagna si mosse immediatamente, ma gli agenti erano già lì e stavano identificando, tra i presenti, proprio Ottavio Spada. Al che Carfagna richiamò Franco: «Fallo lascià perde». Poi dal bar lo rassicurarono: «Lo hanno mandato via, non gli hanno fatto niente...». Pochi giorni dopo, a fronte di uno sfratto esecutivo in un altro locale di Carfagna, il commissario telefonò a un’assistente amministrativa: «Domani ci dovrebbe essere uno sfratto di un amico mio... non dovremmo farlo... una sala giochi ...». A cose fatte fu Carfagna a chiamare il poliziotto: niente sfratto, «per assenza della forza pubblica». Scene di ordinaria corruzione in un ambiente dove la mafia è ammessa da una sentenza e smentita da un’altra, salutata con giubilo (quest’ultima) dal commissario finito agli arresti. «Che spettacolo, capito? È decaduta la mafiosità, otto assoluzioni su diciotto, sai che vuol dire?», lo informò l’amica. E il poliziotto: «Tutto un teorema... una massa de stronzi, questa è la verità».

Mafia a Ostia, nessuno vuol tradurre i dialoghi del clan rom e il processo si blocca. Interpreti frenati dalla paura di ritorsioni. L'impasse emersa durante l'udienza contro Carmine Spada, cugino dei Casamonica. Il presidente del Tribunale scrive al ministro Orlando. A rischio blocco decine di inchieste contro la criminalità organizzata romana, scrive Federica Angeli il 29 dicembre 2015 su “La Repubblica”. "Il processo può subire uno stop: non ci sono interpreti disposti a tradurre i dialoghi in sinti tra gli imputati". L'allarme è rimbalzato da un'aula di tribunale al ministro della Giustizia Andrea Orlando: ci sono procedimenti penali e indagini che rischiano di arenarsi perché i traduttori in grado di comprendere dialoghi in lingua rom di clan della capitale non vogliono tradurre. Il caso finisce così in mano al ministro della Giustizia. È a lui che il presidente del tribunale di Roma Mario Bresciano si rivolge con una lettera-appello in cui spiega la difficile situazione che la procura di Roma si trova ad affrontare. "La questione degli interpreti che hanno timore di ritorsioni dei clan e dunque si rifiutano di tradurre è gravissima. Quando mi è stato rappresentato il caso ho scritto a tutti i presidenti distrettuali. I colleghi di tutta Italia hanno lo stesso problema. Chiedo dunque al ministro della Giustizia di intervenire. Basterebbe un cambio della normativa o un'estensione della legge riservata ai collaboratori sotto copertura per garantire anonimato a questi interpreti rom". La questione è assai complessa ed è scoppiata qualche mese fa quando in un'aula di giustizia, mentre si celebrava il processo per estorsione con l'aggravante del metodo mafioso contro Carmine Spada, capoclan della famiglia rom di Ostia, cugino dei più noti Casamonica, il pm Mario Palazzi ha esposto il problema alla corte. Ovvero: molti dialoghi captati attraverso intercettazioni, appositamente fatti in lingua rom, non vengono tradotti. Meglio: gli interpreti hanno rifiutato di presentarsi in un'aula di giustizia al momento di dover confermare quanto da loro tradotto. Hanno paura e sanno che, una volta finito il lavoro con la Procura avranno ritorsioni pesanti da parte di questi personaggi malavitosi. Preferiscono quindi, come hanno riferito ai magistrati, essere denunciati per favoreggiamento piuttosto che essere presi di mira e sapere che prima o poi questi clan la faranno pagare cara.

LA MAFIA VENETA. LA MALA DEL BRENTA.

Mala del Brenta. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Mala del Brenta è una organizzazione criminale mafiosa nata in Veneto intorno agli anni settanta e in seguito estesasi nel resto dell'Italia nord-orientale. Sebbene sia stata duramente colpita negli anni novanta, dopo l'arresto ed il pentimento del principale capo Felice Maniero, si ritiene che l'organizzazione sia ancora attiva.

Storia. Nel ventennio successivo al secondo dopoguerra, il panorama malavitoso veneto era composto, come nel resto delle regioni dell'Italia nord-orientale, da bande paracriminali di piccolo e medio spessore coinvolte perlopiù in azioni di microcriminalità e ben lungi dal trasformarsi o unirsi sotto un'unica organizzazione a carattere mafioso per il controllo del territorio. In particolare il triangolo tra Mestre, Padova e Chioggia era un'area economicamente particolarmente depressa. A Venezia invece era tradizionale la microcriminalità al pari delle altre grandi città italiane, e come città portuale divenne imperniata sul contrabbando in particolare di sigarette, attività attorno alla quale iniziò già dagli anni '50 a gravitare un abbozzo di organizzazione criminale tesa al controllo, ancor prima dell'affacciarsi della banda del Brenta. Dalla metà degli anni '70 il ben più lucroso traffico di droga cominciò a sostituire pian piano il tradizionale contrabbando di sigarette tra gli interessi della criminalità, attirando con ciò gruppi ben più decisi a conquistarsi uno spazio, e da ciò nacque il sodalizio che imperversò almeno fino agli anni '90. L'arrivo di alcuni esponenti della mafia siciliana costretti al soggiorno obbligato nelle province di Venezia e Padova, in particolare Totuccio Contorno, Antonio Fidanzati, Antonino Duca e Rosario Lo Nardo sul finire degli anni settanta e l'inizio degli ottanta, fu la base per la nascita di un gruppo paramafioso che potesse fare da ponte tra il Nord e il Sud. All'ombra di questi personaggi crebbero e trovarono maturazione le locali giovani leve di una criminalità dai contorni ancora rurali, che tentava generalmente di mutuarne le gesta, le caratteristiche e le imprese.

La nascita. Verso la fine degli anni settanta si forma, tra le province di Padova e Venezia, una piccola banda dedita principalmente a furti di generi alimentari, di bestiame e di pellame capitanata da Felice Maniero, detto Faccia d'angelo. Attorno a lui ruotano personaggi del calibro di Gilberto Sorgato, detto Caruso, Ottavio Andrioli, Sandro Radetich, detto il Guapo, Gianni Barizza, Zeno Bertin, detto Richitina, Stefano Carraro, detto Sauna, Antonio Pandolfo, detto Marietto, e Fausto Donà. Inoltre Maniero stringe alleanze con altre bande criminali del Veneto, come quella dei fratelli Maritan a San Donà di Piave o dei fratelli Rizzi a Venezia. Le attività delinquenziali sue e della sua banda composta da oltre 300 "strumentisti criminali", spaziavano dai sequestri di persona alle rapine, dal traffico di sostanze stupefacenti al traffico d'armi, dal riciclaggio di danaro agli omicidi. Nel passare degli anni il sodalizio spostò i suoi interessi dalle grosse rapine ai danni di laboratori orafi, istituti di credito e uffici postali, ai sequestri di persona, al controllo delle bische clandestine e dei cambisti del Casinò di Venezia, nonché al più remunerativo traffico di sostanze stupefacenti, con diramazioni un po' ovunque, da Portogruaro a Chioggia, grazie ad una struttura sempre più stabile e gerarchicamente inquadrata, con la quale sviluppò la propria influenza anche nelle provincie limitrofe. «Carismatico, imprendibile, Felice Maniero negli anni ottanta regnava con le armi sul Veneto, sul Friuli e sull'Emilia-Romagna. Era il boss della Mala del Brenta, una sorta di piccola ma potente Cosa Nostra della Val Padana che puntava in alto, ad accumulare denaro e potere, attraverso atroci azioni di sangue. E proprio lui, il capo capace di guidare i suoi gregari anche dal carcere, o dai nascondigli nei quali si rifugiava tra una evasione e l'altra, alla fine si è trasformato da carnefice in vittima.» (su Felice Maniero, tratto da "Il Resto del Carlino"). Il salto di qualità può essere considerato la notte del 10 ottobre 1980, "la notte dei cambisti", quando esponenti della banda picchiarono a sangue i cambisti (ossia coloro che prestavano denaro "a strozzo" ai giocatori) del casinò di Venezia, riottosi a versare una parte dei guadagni all'organizzazione; due di essi che continuarono a rifiutarsi, Eugenio Pagan e Cosimo Maldarella, furono uccisi in un agguato a Venezia il 12 novembre 1981. Presunto autore dell'omicidio fu Sandro Radetich, che sparirà nel nulla il 6 gennaio 1984.

La scissione veneziana. La tentata scissione da parte dell'organizzazione veneziana è uno dei fatti più noti e tutt'oggi sotto analisi, appartenenti alla cronaca nera della malavita veneta. Nella seconda metà degli anni ottanta a capo della criminalità veneziana vi erano i fratelli Maurizio e Massimo Rizzi, conosciuti anche come i giudecchini. Costoro, dal centro storico, gestivano i traffici del loro gruppo, dai taglieggiamenti al più remunerativo spaccio di stupefacenti. I Rizzi, che rispondevano comunque a Felice Maniero, non volendo più sottostare all'autorità di Faccia d'angelo, decisero di eliminare Giancarlo Millo, detto il Marziano, lo spacciatore dell'isola del Tronchetto, legato al gruppo dei mestrini. Il Marziano, mentre cenava al bar Caffè al Poggio a Cannaregio il 5 gennaio 1990, fu vittima di un agguato mortale[4]. Secondo le testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia, furono proprio Maurizio e Massimo Rizzi a freddare Giancarlo Millo. Già il 19 febbraio 1986 avevano eliminato Paolo Bogo, ex braccio destro di Silvano Maistrello, che appena uscito dal carcere intendeva riprendere il suo posto nei vari traffici. La sera del 10 marzo 1990 accompagnati da Vincenzo Zampieri, i fratelli Rizzi, assieme al loro cugino Gianfranco Padovan, si recano a Campolongo Maggiore per incontrare Maniero, il quale li aveva invitati a partecipare ad una rapina, convincendoli ad arrivare disarmati all'appuntamento in quanto le armi necessarie le avrebbe procurate lui stesso. Ad attenderli all'appuntamento vi erano lo stesso Maniero, Gilberto Boatto, Gino Causin, Giampaolo Manca, Paolo Pattarello e Paolo Tenderini. Una volta arrivati sugli argini del fiume Brenta, i tre scissionisti capiscono di essere caduti in una trappola. Il primo a scendere dalla macchina è Maurizio Rizzi che abbozza ad una fuga ma viene ferito a colpi di pistola da Paolo Pattarello e successivamente preso a badilate sulla testa da Paolo Tenderini. Massimo Rizzi e Franco Padovan vengono fatti scendere dall'auto poco dopo. Era una Fiat Uno tre porte, scelta appositamente per costringere i tre scissionisti a scendere uno alla volta dal lato destro. Tenderini tenta di strozzare Massimo Rizzi con un cappio che si era portato da casa, ma quest'ultimo resiste e quindi viene anche lui colpito dai colpi di pistola di Paolo Pattarello; Franco Padovan tenta anch'egli una fuga, ma viene freddato dallo stesso Felice Maniero con un fucile mitragliatore M16. Infine su invito di Maniero i tre vengono finiti con un colpo alla testa sempre dallo stesso Pattarello e quindi seppelliti nell'argine. Nonostante le cause dell'assassinio siano ormai più che confermate - l'uccisione di un uomo fedele di Maniero e l'insubordinazione "scissionista" - a causa delle dichiarazioni discordanti dei vari pentiti i mandanti dell'esecuzione sono tutt'oggi sconosciuti. A seguito della sparizione dei Rizzi, Giovanni Giada, uomo fidato di Maniero e navigato malavitoso veneziano, divenne il nuovo capo del gruppo lagunare.

Interessi finanziari e sodalizi criminali. La crescita dell'organizzazione sul territorio Veneto e limitrofo e il progressivo espandersi dei suoi interessi, nonché il sempre maggiore prestigio e popolarità del suo capo, determinò l'instaurarsi di sempre più stretti legami con esponenti di sodalizi mafiosi operanti in altre regioni d'Italia e in altri stati, per lo più in relazione ad esigenze di approvvigionamento di sostanze stupefacenti: in particolare nell'ultimo periodo cocaina. Oltre ai legami con il gruppo mafioso facente capo ai Fidanzati di Milano e a Salvatore Enea, venivano accertati frequenti “rapporti d'affari” con esponenti della Camorra, appartenenti alla famiglia Guida e, più recentemente, a quella dei Giuliano. Felice Maniero era anche amico del figlio del presidente della Croazia Franjo Tuđman, con il quale, durante gli anni 90, pianificò diverse tratte attraverso l'Adriatico per il contrabbando di armi e per il traffico di droga. L'organizzazione ha poi tratto profitto da diversi traffici creati in joint venture con altri sindacati criminali; sono da ricordare in proposito alcuni eventi accaduti tra la metà degli anni '80 e l'inizio degli anni '90, circa le relazioni finanziarie del gruppo con i Pietrobon, una famiglia originaria della Campania che fuggita alla devastazione delle guerre di camorra (Achille, capofamiglia, era allineato con la NCO e fuggì da possibili ritorsioni della Nuova Famiglia) trasferì il proprio fulcro affaristico in Settentrione. Importante poi sarebbe stato anche il contrabbando d'oro rubato in Europa, frutto di rapine messe a segno nel continente a banche, casinò e portavalori, in particolar modo in Francia (per tale supposizione l'apertura di un ulteriore filone investigativo per verificare possibili contatti con il clan dei marsigliesi). A comporre parte del traffico illegale, come emerso da alcune inchieste, in che ruolo però non è stato accertato, anche diversi appartenenti alla guardia di finanza. In questo contesto, relativo ai contatti tra organi dell'ordine e criminalità organizzata, andrebbe quindi inserito l'agguato mortale a un ufficiale della finanza avvenuto a Torino nel 1995.

L'arresto, l'evasione ed il pentimento di Maniero. Nel frattempo Felice Maniero, che allo scadere di un quinquennio di sorveglianza speciale nel comune di origine si era sottratto all'esecuzione di un provvedimento restrittivo emesso nel giugno 1993 dalla magistratura lagunare, per poi essere successivamente catturato a Capri nell'agosto 1993, assisteva in stato di detenzione al processo avviato a suo carico e di gran parte dei componenti il sodalizio da lui capeggiato. Il 14 giugno 1994 però, con un'azione spettacolare, il boss riuscì a fuggire dal carcere di Padova, unitamente ad altri cinque detenuti, alcuni dei quali suoi fedelissimi, avvalendosi, come successivamente accertato, di complicità interne alla struttura carceraria. Quella data segna il diapason ma, al tempo stesso, l'inizio del declino a seguito della collaborazione fornita ai magistrati della distrettuale antimafia di Venezia dallo stesso Maniero, catturato a Torino nel novembre del 1994. Le dichiarazioni del Maniero hanno contribuito a far luce su omicidi ed altri episodi delittuosi, che non avevano trovato soluzione per via della impermeabilità dell'organizzazione e dell'atteggiamento omertoso dei suoi componenti; caratteristiche di un'associazione a delinquere di stampo mafioso, come ha affermato la sentenza della corte d'assise di Venezia del 1º luglio 1994. Al processo di primo grado svoltosi in 92 udienze nell'aula bunker di Mestre la sentenza emessa il 21 dicembre 2008 commina condanne per 539 anni e 8 mesi di carcere e complessivi 650.000 euro a 41 dei 52 imputati. I gradi di giudizio successivi hanno ridimensionato le pene, in particolare quelle a carico degli esponenti delle forze dell'ordine "a libro paga" di Maniero. Il notevole livello di impunità di cui godette l'attività di Maniero (testimoniato anche dai suoi sodali in termini positivi nonostante il suo pentimento) ha fatto insorgere nell'opinione pubblica l'ipotesi che esso fosse in qualche modo "coperto" dai servizi segreti, ipotesi sempre negata da Maniero anche in sede di giustizia.

Il "sodalizio rivierasco". Sulla scorta della collaborazione del suddetto Maniero, nel marzo 1995, il locale gip emetteva numerosi provvedimenti restrittivi a carico dei componenti del “sodalizio rivierasco”, tra cui due appartenenti alle forze dell'ordine, accusati di corruzione ed adesione alla mala del Brenta, mentre altre precedenti indagini avevano permesso di smantellare una vasta organizzazione dedita alle rapine ai danni di istituti di credito, gioiellerie ed uffici postali. Tale ultimo sodalizio, composto prevalentemente da giovani leve del crimine, formatesi intorno ad elementi della “vecchia mala”, che fungevano da collettori con l'organizzazione facente capo al Maniero, operava parallelamente alla stessa, con essa convergendo all'atto della perpetrazione di reati di non minore gravità, quali la fornitura di armi, il traffico di droga e la ricettazione dei proventi delle rapine; reati posti in essere da elementi di spicco del clan rivierasco. Negli anni precedenti fu individuato e deferito all'autorità giudiziaria un gruppo di persone facenti parte della mala del Brenta, che operavano nel reinvestimento dei capitali attraverso la gestione di alcuni casinò della costa istriana nonché a mezzo attività usuraria, che permetteva di rilevare oltre una decina tra immobili ed esercizi pubblici: il flusso circolare del denaro, in entrata ed in uscita dai casinò della ex Jugoslavia, era stato al centro dell'attenzione in un'indagine risalente al 1987, quando venne accertata la complicità di un funzionario di un istituto di credito friulano, nell'occasione tratto in arresto perché parte attiva nella ripulitura di assegni provenienti da quelle case da gioco. Significativa in proposito un'operazione di sequestro di numerosi beni, condotta tra il ‘92 ed il ‘93, a carico del pregiudicato Silvano Maritan, all'epoca - come già detto - a capo di un'organizzazione malavitosa operante nel territorio del basso Piave e collegata al sodalizio di Maniero.

Dagli anni '90 ad oggi. Dopo il 1994 l'organizzazione è andata disciogliendosi anche grazie ai numerosi arresti e prelievi di beni dei suoi membri. Il primo tentativo di rinascita era costituito da un complotto volto a uccidere l'ex boss e pentito Felice Maniero. Per riuscire nell'impresa, i nuovi malavitosi prevedevano di usare un lanciarazzi e altre armi pesanti per colpire la caserma ospitante l'ex boss. Al momento dell'arresto le autorità identificarono come orditori della cospirazione trentatré persone, tra cui noti rapinatori e delinquenti di piccola taglia. In particolare agivano Andrea Batacchi, Mariano Magro, Lucio Calabresi, Nazzareno Pevarello e Stefano Galletto, ed è stato proprio il pentimento di quest'ultimo a consentire alla task force della Direzione anticrimine centrale di sgominare la banda. L'operazione venne condotta dal Pubblico Ministerodi Padova, Renza Cescon, e impiegò circa 400 uomini della polizia di Stato. Il 4 agosto 1996 la denominata "nuova Mala del Brenta" avrebbe messo a segno una rapina ai danni del parco giochi "Mirabilandia" per un valore di circa 350 milioni di lire in contanti.

Ulteriori informazioni, provenienti dalle rivelazioni dei pentiti Stefano Galletto e Giuseppe Pastore, hanno dato vita all'Operazione Ghost Dog, che, una volta portata a termine, ha condannato più di trenta persone tra membri ed affiliati della Mala tra cui i boss Achille Pozzi e Giorgio Fontana, compresi dei poliziotti al soldo dell'organizzazione. Secondo gli uomini della polizia di Stato il bottino messo assieme dal gruppo criminale sarebbe stato di circa 20 milioni di euro e tra gli attentati progettati, oltre a quello di Maniero, ci sarebbe stato quello di Alessandro Giuliano, figlio dell'ex capo della Squadra Mobile di Palermo, Boris Giuliano. Il 26 aprile 2005 fu ucciso dai carabinieri, Luigi Quatela, durante una rapina ad una filiale della Unicredit di Chiampo, a Vicenza, insieme al fratello Ercole, Orazio Remo Pezzuto e Luigi Bestetti, quest'ultimo scampato alla cattura. Successivamente le indagini dei militari hanno permesso il già citato arresto di Giorgio Fontana e Luca Panozzo. Il 13 maggio 2005 viene arrestato dopo cinque anni di latitanza Francesco Tonicello, vecchio boss della Mala del Brenta, mentre faceva l'edicolante alla fermata della metropolitana Vauxhall di Londra. Un mese prima erano stati già arrestati per traffico di sostanze stupefacenti, il fratello Pierpaolo e la cognata Arianna Bonaventura. Il 24 novembre 2008, viene effettuata una vasta operazione contro un'organizzazione criminale finalizzata al traffico di cocaina proveniente dal Sud America, attraverso la Spagna e destinata a Venezia. Tra i 16 arrestati c'è anche il capo della banda e storico boss Silvano Maritan, oltre a lui anche Giancarlo Bettio, il veneziano Lorenzo Crosera, il cubano Rolando Guerrero e due donne Manola Lava e Irene Gorghetto fermate a Mestre. Nel 2008 è stata sgominata una banda di narcotrafficanti e criminali comuni attiva nell'Italia nord-orientale, tra i suoi membri Fiorenzo Trincanato, ex membro dei Nuclei Armati Rivoluzionari ed esponente di spicco dell'organizzazione, ritenuto uno dei capi che presero il posto di Felice Maniero. Tuttavia la banda sembrerebbe essere ancora attiva, come dimostrato dai vari arresti effettuati a seguito di varie operazioni di polizia e da alcune interrogazioni parlamentari, come quella del deputato Daniela Sbrollini del Partito Democratico durante il governo Renzi. Nell'estate del 2009, la corte d'Appello di Venezia ha condannato all'ergastolo Fabiano Meneghetti e Fabrizio Panizzolo detto Bicio, per l'uccisione del gioielliere Gianfranco Piras durante una rapina ad Abano del 19 luglio 2005. Tra i partecipanti al fatto criminoso erano presenti Maich Gabrieli, che proprio grazie alle sue rivelazioni agli inquirenti hanno consentito la loro cattura ed il cugino Emanuele Crovi, morto durante l'agguato. Nel mese di giugno del 2010, vengono arrestati un gruppo di giostrai con l'accusa di furto e rapine a mano armata, tramite le ordinanze di custodia cautelare su ordinanza del gip Elena Rossi. In manette sono finiti alcuni figli dei vecchi componenti della Mala del Brenta tra cui Paolo Brasi, Michele Cavazza, 21 anni, di Conegliano, Naika Gabrieli, 30 anni, di Istrana; Massimo Criscuolo, 35 anni, napoletano d’origine residente a Vedelago, Destin Mbedi Mayeya Cuman, 28 anni, di origine congolese, Luca Marciano, 34 anni, di Treviso, che dopo essere stato rimesso in libertà è fuggito ed è rimasto latitante fino al dicembre dello stesso anno dopo che si è costituito spontaneamente al carcere di Rovigo. All'alba del 18 marzo 2016 viene arrestato dagli agenti della Squadra Mobile di Padova coadiuvati da quelli di Venezia, il vecchio boss Ercole Salvan, che era evaso dagli arresti domiciliari nella sua casa di Sant'Angelo di Piove per una rapina avvenuta il 19 ottobre dell'anno precedente. Oltre a questo nell'ordinanza di custodia cautelare è accusato di una serie di rapine a furgoni portavalori. In manette per favoreggiamento anche Ivano Galbusera sessantacinquenne e proprietario dell'immobile dove viveva il latitante. Il 13 novembre 2016, da poco uscito di prigione, il vecchio boss Silvano Maritan viene arrestato nuovamente per aver ucciso Alessandro Lovisetto. Secondo la dinamica Maritan dopo una passeggiata in centro per San Donà di Piave avrebbe incrociato casualmente Lovisetto. Il rapporto tra i due era deteriorato a causa di una disputa sentimentale che avrebbe coinvolto la ex compagna del boss, frequentatrice della vittima durante il periodo di detenzione di Maritan. Tra i due è nato un feroce alterco, che si è risolto con un fendente alla gola al Lovisetto che dopo alcuni passi è caduto esanime davanti al Caffè Letterario.

Caratteristiche generali. Sviluppatasi negli stessi anni e negli stessi contesti criminali da cui nacquero a Roma la banda della Magliana e a Milano la banda della Comasina, si distinse dalle altre mafie italiane per il carattere rurale mantenuto nel corso degli anni. La mafia piovese si rese protagonista di rapine, sequestri di persona, omicidi e traffici di drogae armi a livello europeo nel giro di pochi anni dalla nascita. Considerata da taluni una vera e propria mafia, e per questo anche soprannominata la quinta Mafia, viene così descritta dalla Prima sezione della Corte d'Assised'Appello di Venezia da una sentenza emessa il 14 dicembre 1996:

«Conclusivamente, può dunque riconoscersi l'esistenza di un'associazione a delinquere finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di delitti contro il patrimonio, contro l'incolumità e la libertà individuale, contro le leggi sugli stupefacenti ed all'acquisizione diretta ed indiretta del controllo di attività economiche, sia lecite che illecite. La stessa risulta aver agito avvalendosi della forza intimidatrice promanante dal vincolo associativo e dello stato di assoggettamento e di omertà che ne è derivato per la popolazione del territorio ove essa ha esercitato il proprio controllo. Appartenenti a tale organizzazione, operante dunque con modalità e protocolli operativi di tipo mafioso, sono risultati soggetti del gruppo cosiddetto della Mafia del Piovese o Mala del Brenta, molti dei quali deceduti per morte violenta conseguente a vicende, interne o esterne, comunque riconducibili alle attività svolte dai medesimi in tale contesto delinquenziale.»

Altre organizzazioni. All'organizzazione della riviera del Brenta si aggiungevano:

I mestrini. Il gruppo criminoso di Mestre - strettamente collegato a quello della riviera - dedito a rapine, estorsioni e traffico di sostanze stupefacenti, che si avvaleva anche del ricavato dell'attività degli "intromettitori", in zona Tronchetto-piazzale Roma di Venezia. Questi ultimi, che rappresentano una figura tipica di operatori della città di Venezia, agiscono quali intermediari tra i turisti ed il mondo del commercio veneziano. Si tratta, per lo più, di motoscafisti abusivi, gondolieri, intermediari di agenzie di viaggio, portieri di albergo, che per la loro attività sono in grado di indirizzare il turista verso determinati negozi, vetrerie, ristoranti ed alberghi. Il giro di affari è stimato in vari miliardi di lire italiane e si presta all'influenza, sotto varie forme, di esponenti della malavita organizzata. Membri conosciuti come "lo zoccolo duro" della banda di Mestre sono: Gino Causin, Gilberto Boatto, Roberto Paggiarin, Paolo Tenderini e Paolo Pattarello.

I veneziani. Il gruppo della laguna, composto da elementi tutti nativi del capoluogo regionale, anch'essi dediti al traffico di sostanze stupefacenti e taglieggiamenti, con l'impiego di capitali provenienti, tra l'altro, dalla gestione di vetrerie di Murano e di locali notturni siti in Venezia, acquisiti ed intestati a prestanomi incensurati, nonché dal controllo degli intromettitori abusivi in zona di piazza San Marco. A capo del gruppo, dopo la morte nel 1978 di Silvano Maistrello e fino al 1990, vi furono i fratelli Maurizio e Massimo Rizzi.

La banda Maritan. Gruppo di San Donà di Piave-Jesolo, nel Veneto Orientale, il cui capo - Silvano Maritan - strettamente legato al citato Maniero della Riviera del Brenta, in passato aveva coltivato vincoli di amicizia con il boss di cosa nostra Salvatore Contorno, durante il periodo del soggiorno obbligato di quest'ultimo in Veneto. Anche l'attività illecita di questo gruppo consisteva, prevalentemente, nel traffico di sostanze stupefacenti.

Tale assetto generò nel corso degli anni sanguinosi regolamenti di conti, sostanziatisi in una serie notevole di omicidi (circa 20 attribuibili all'organizzazione) e nel conseguente, progressivo emergere del citato Maniero come capo temuto e indiscusso.

Sequestrato il tesoro di Felice Maniero, l'ex boss della mala del Brenta. Nel mirino della dda della procura di Venezia e della Polizia valutaria della Gdf due persone che hanno gestito il patrimonio accumulato da "faccia d'angelo". E' stato lo stesso Maniero a rivelarlo ai magistrati perché da un anno non riceveva più soldi dai suoi ex compari, scrive Fabio Tonacci il 17 gennaio 2017 su "La Repubblica". Il tesoro nascosto di “faccia d’angelo” era in Toscana. Ville, 27 macchine di lusso tra cui una Bentley Gt Cabrio, conti correnti intestati a prestanome. Il denaro che l’ex boss della Mala del Brenta Felice Maniero ha accumulato tra la fine degli anni Ottanta e il 1994 con il traffico di droga, le rapine e gli altri reati commessi da quella che una sentenza ha definito “un’associazione a delinquere di stampo mafioso” – sono circa 33 miliardi di vecchie lire - sono stati rintracciati dai pm di Venezia Paola Tonini e Giovanni Zorzi, che hanno chiesto e ottenuto il sequestro di un patrimonio pari a 17 milioni di euro. Le indagini sono nate grazie alle rivelazioni che lo stesso Maniero ha fatto ai magistrati, e hanno portato all’arresto di due toscani di Fucecchio: Riccardo di Cicco (61 anni), marito della sorella di Maniero, Noretta; Michele Brotini (49 anni), il promotore finanziario accusato di essere l’uomo che ha occultato i soldi dell’ex capo della malavita del Nord Est, riuscendo a trasferire contante in Svizzera sottoforma di investimenti finanziari. Felice Maniero in persona ha indicato agli inquirenti quali erano i beni acquistati con il suo denaro, perché temeva che Di Ciccio, dopo la separazione da Noretta, volesse tenersi tutto per sé. Il sistema, per come è stato ricostruito dai finanzieri della Polizia Valutaria e dai magistrati della Dda di Venezia, tutto sommato era assai semplice: Felice Maniero (è tornato in libertà il 23 agosto 2010 con una nuova identità e adesso lavora con il figlio in un’azienda che si occupa di depurazione di acque, come ha rivelato la trasmissione Report) ha passato i suoi 33 miliardi ai familiari e a Di Ciccio, i quali poi hanno “retrocesso” a Maniero almeno 6 miliardi in contanti. Una prassi durata, secondo l’accusa, almeno fino all’estate 2015. E dunque, il tesoro. I soldi della Mala del Brenta sono serviti a comprare un cavallo di razza, tre ville, una a Santa Croce sull’Arno, una Marina di Pietrasanta, una a Fucecchio (la residenza attuale di Riccardo Di Cicco). Ma è soprattutto la lista delle macchine a impressionare, perché gli investigatori sono risaliti a 27 vetture, quasi tutte di fascia alta: 8 Mercedes, una Bentley Gt cabrio, due Porsche Cayenne e una Porsche Carrera 911, due Bmw, e altre vetture. Infine, i conti correnti in Svizzera. Scrive il gip Alberto Scaramuzza, che ha firmato l’ordinanza di arresto: “Avevano acquistato strumenti finanziari di investimento allo stato non precisati, all’inizio allocati in istituti di credito della Repubblica Svizzera e, attualmente, afferenti a conti correnti riconducibili a Di Cicco”.

L’ultimo colpo di Maniero: «Ecco dov’è il mio tesoro e chi ha cercato di rubarlo». Sequestrati 17 milioni di beni. Arrestati l’ex cognato Di Cicco e un promotore finanziario. I verbali dell’ex boss della mafia del Brenta: «Di Cicco si è tenuto 25 miliardi di lire». Che ha investito in ville, Bentley e depositi. Le intercettazioni: «Incastriamo Felice», scrive il 17 gennaio 2017 Andrea Pasqualetto su "Il Corriere della Sera". L’ha rivelato lui stesso all’Antimafia di Venezia. Era il 12 marzo scorso e l’ex boss della mafia del Brenta Felice Maniero, oggi in libertà, iniziò a parlare davanti ai pm lagunari: «Voglio raccontare del denaro che ho guadagnato con i miei traffici illeciti e del suo successivo riciclaggio». Una bomba. Perché fino ad allora Faccia d’Angelo aveva sempre taciuto del tesoro nascosto. Certo, aveva incastrato i complici di vent’anni di rapine, sequestri, traffici illeciti di ogni ordine e grado. Ma del patrimonio mai una parola. Oggi fa due nomi: Riccardo Di Cicco, dentista fiorentino di Fucecchio ed ex marito della sorella Noretta, e Michele Brotini, promotore finanziario di Pisa, arrestati entrambi con l’accusa di riciclaggio. Sarebbe stato Di Cicco a gestire l’ingente patrimonio accumulato da Maniero negli anni della mala: circa 33 miliardi di lire dell’epoca. Attraverso mamma Lucia e la sorella Noretta, ora indagate, «devo avergli dato complessivamente 22 miliardi in tutto, fino al 1994», ha calcolato Maniero. Dopo il 1994, cioè dopo la sua evasione dal carcere di Padova e il definitivo arresto di Torino di cinque mesi dopo, gli fece avere «altri 11 miliardi», questi consegnati da uno dei suoi uomini più fidati, Giuliano Materazzo, e sempre da mamma Lucia direttamente nella mani di Di Cicco nella sua casa di Santa Croce sull’Arno. Sorpresa: mentre spostava il patrimonio collaborava con gli inquirenti, naturalmente senza mai dire alcunché. «Non l’ho fatto perché sarei rimasto al verde». Domanda: perché Maniero ha deciso di «cantare»? «Di Cicco mi ha restituito, dal 1995 e fino a 7-8 mesi fa, circa 5-6 miliardi... Improvvisamente mio cognato ha cominciato a dichiarare di non avere più la liquidità necessaria e alla fine ha rinunciato a vedermi. Nonostante i miei tentativi non sono più riuscito a contattarlo per avere indietro il denaro». E dunque è tutto chiaro: l’ex cognato non versava più e lui gliel’ha fatta pagare. Non avendo nulla da perdere, ha cioè denunciato colui che si è arricchito con i proventi della sua creatura criminale: la mala del Brenta. «Avendomi restituito circa 5-6 miliardi — ha aggiunto — ora ne gestisce sicuramente almeno 25-26. Tenuto conto anche delle perdite che ci sono state con la crisi del 2008». L’ex boss, accusato di autoriciclaggio, parla da finanziere: investimenti, depositi, milioni versati e restituiti e di scorrettezze. Come se fossero i suoi legittimi guadagni: era il grande bottino della banda del Brenta. Fin qui la sorprendente denuncia, corroborata da altri tre interrogatori, l’ultimo del 30 settembre scorso, nei quali aggiunge dettagli, come le borse di soldi che seppelliva in giardino. Gli uomini del Nucleo speciale di polizia valutaria di Roma hanno fatto il resto, scoprendo dove sono finiti i miliardi di lire nel corso degli anni: una villa a Lucca, una casa Fucecchio, un’altra a Pisa, sei Mercedes, tre Porsche, una Bentley, una Range Rover e poi 16 conti correnti (molti al Montepaschi), quattro cassette di sicurezza, 11 depositi e titoli, azioni, fondi. Tutti intestati a vari familiari e tutti sequestrati. Quanto a Brotini, per l’accusa e per il gip Alberto Scaramuzza è colui che ha partecipato a nascondere buona parte del patrimonio. Mentre la sorella Noretta sembrava tramare con l’ex marito contro lo stesso Maniero: «Incastrare! Lo vogliamo incastrare o no?», si scalda al telefono Di Cicco, intercettato. «Ah sì, certo», dice lei. Infine la madre, che l’ex boss aveva di recente convinto a confessare. Ma Noretta ha detto no, intimandole di tacere. Faccia d’angelo non l’ha digerita: «Guarda che se la mamma fa un’ora di carcere vengo giù e ti spacco la testa».

Kings of Crime, Felice Maniero intervistato da Saviano: "In carcere preferivo i terroristi ai mafiosi". Riparte su la Nove la serie ideata, scritta e condotta da Roberto Saviano "Kings of crime". Mercoledì 14 novembre alle 21.15 Felice Maniero, il bandito soprannominato “Faccia d’angelo”, si racconta per la prima volta in una lunga ed esclusiva intervista televisiva, in cui ripercorre tutta la sua vita. Tra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’90 nessun criminale poteva entrare in Veneto senza il beneplacito di Maniero, che trattava da pari a pari con i boss più potenti di Cosa Nostra, camorra e ‘ndrangheta. Evaso da due carceri di massima sicurezza, condannato per associazione mafiosa e sette omicidi, era noto anche per la sua passione per la bella vita, trascorsa tra yacht e ville con piscina. Nel 1994 decise di diventare collaboratore di giustizia, rivelando i segreti della sua organizzazione e facendosi molti nemici. Oggi, dopo aver scontato la sua pena, vive da uomo libero con una nuova identità.

Kings of Crime, Felice Maniero intervistato da Saviano: "Questa vita mi ha tolto l'amore". "Se non ci fosse stata la legge sui pentiti io non mi sarei mai pentito". "Se potessi tornare indietro non lo rifarei, ma non so cos'altro avrei potuto fare. Sono uno che non regge 40 anni da operaio". "Questa vita mi ha tolto la possibilità di un amore vero". Così Felice Maniero intervistato da Roberto Saviano nella prima puntata di Kings of Crime in onda mercoledì 14 novembre. Nel 1994 decise di diventare collaboratore di giustizia, rivelando i segreti della sua organizzazione e facendosi molti nemici. Oggi, dopo aver scontato la sua pena, vive da uomo libero con una nuova identità. Felice Maniero: "Così trattai con gli uomini dello Stato. Ho rimorsi per un solo delitto".

Kings of Crime, Felice Maniero a Saviano: "Restituii i gioielli della Madonna e mi tolsero sorveglianza". L'ex bandito Felice Maniero detto "Faccia d'angelo" racconta a Roberto Saviano di quando fece rubare i gioielli di una Madonna Nicopedia nella basilica di San Marco a Venezia per chiedere un riscatto singolare: li fece restituire a patto che gli togliessero condizioni di sorveglianza "insopportabili". Rivelazioni fatte nella prima puntata di Fox Crime in onda mercoledì 14 novembre su la Nove.

Roberto Saviano intervista l'uomo che fu leader e fondatore della mafia nata in Veneto negli anni 70, ora collaboratore di giustizia. Da oggi, 14 novembre, ogni mercoledì alle 21.25 su Nove, torna "Kings of Crime", le interviste inedite dello scrittore ai protagonisti del crimine, scrive Roberto Saviano il 13 novembre 2018 su "La Repubblica". Quando intervisti un uomo che è stato un capo criminale, il primo obiettivo è capire cosa vuoi ottenere. Inchiodarlo alle sue responsabilità? Denunciare i suoi crimini più nascosti? Rintracciare il suo lato più umano? La mia ossessione è sempre la stessa: mostrare come i boss siano parte della nostra economia, siano capitalisti con mezzi diversi, farne emergere miserie e contraddizioni. E volevo, in questo caso, accendere un riflettore necessario sul nord Italia. Le mafie al Nord esistono da lunghissimo tempo. Per decenni si è negata la loro presenza e la loro esistenza, e questo è stato uno dei più dannosi tabù. Si cerca di relegarle a fenomeno locale, meridionale, di ridimensionarne la potenza economica, di negarne la presenza militare nelle regioni settentrionali o di attribuire tutto questo esclusivamente a gruppi di invasori che dal Sud "infettano" alcune zone del Nord. Non si tiene mai conto che le mafie si sono ramificate nel Nord Italia grazie a un'alleanza con l'imprenditoria e la politica settentrionale. Senza queste sinergie, le mafie non sarebbero mai riuscite a fare il salto di qualità. Il Nord è il motore del Paese e lo è stato anche per le organizzazioni criminali nate al Sud, che hanno investito in imprese e appalti, hanno venduto droga sulle migliori piazze, che hanno riciclato e moltiplicato nei circuiti finanziari i loro soldi sporchi. Ma è esistita una mafia - una sola ad oggi - che al Nord non è solo cresciuta, ma è anche nata. Si è strutturata in Veneto negli anni '70 e il suo fondatore e capo indiscusso è stato Felice Maniero. Ho incontrato Maniero, ora collaboratore di giustizia. Studiando e incontrando boss, killer e gregari di mafia, capisci che si possono dividere in due categorie: quelli che scelgono il crimine contro il mondo e quelli che scelgono il crimine per scalare il mondo. Non si sfugge a questa divisione. Ci sono boss per cui la vita è una guerra in cui ognuno si prende ciò che vuole in base al proprio coraggio, alla propria spietatezza: questi vedono lo Stato come un'altra organizzazione di banditi governata da persone tutto sommato interscambiabili, che si alternano al potere. Il loro guadagno sarà tanto più alto quanto più riusciranno a contrapporsi alle istituzioni, a sfidarle, a batterle. E ci sono boss che, invece, vogliono infiltrare lo Stato e utilizzare il crimine per avere un ruolo istituzionale: non guadagnano dalla alterità rispetto alle istituzioni, ma dall'identificazione con esse, mirano a diventare loro stessi le istituzioni. Il boss Felice Maniero apparteneva alla prima categoria, a quei boss di mafia che valutano l'essere giusto non in relazione al rispetto delle leggi, ma in relazione alla capacità di stare al mondo. Il giusto non è giusto perché indossa una divisa, ma perché risponde a valori che il mafioso stesso valuta come fondamentali, come l'essere feroce, magnanimo col debole, efficiente o sprezzante del pericolo.  La filosofia morale criminale parte da un pilastro chiaro: potere, danaro, donne sono gli obiettivi di tutti: c'è chi è nato con maggiore possibilità di averli e chi deve invece trovare una strada per raggiungerli. Maniero ha una visione del mondo chiara, descrive se stesso come qualcuno che non voleva passare la vita in fabbrica, guadagnare due soldi, rimanere confinato alla provincia. Nato negli anni '50 in un Veneto in miseria, dove in molti avevano scelto la via dell'emigrazione in Sud America, Maniero cresce con il mito dei fuorilegge, che gli sembrano "esseri superiori". A 9 anni la prima pistola, a 12 anni i primi furti ai camion di caffè e formaggio, a 16 la prima rapina in una fabbrica. Dalle fabbriche di scarpe presto si passa ai laboratori di oro, e la vita di Felicetto cambia. Ferrari, viaggi all'estero, yacht: i soldi sono così tanti che non sa come spenderli. Tutti vogliono fare rapine con Felice Maniero, perché con lui si porta a casa la pelle e la grana. I colpi sono studiati da lui in modo meticolosissimo. "La prima cosa che valutavo era il piano di fuga, se non c'era possibilità di un piano di fuga, non veniva fatto niente", ma anche se qualcosa andava storto e si veniva arrestati, Maniero aveva escogitato un metodo efficace per uscire in fretta dai guai: usare le opere d'arte come merce di scambio con lo Stato. Qui Felice Maniero svela la dinamica di una trattativa:

All'alba del 23 febbraio del '79 alcuni uomini entrano nella Basilica di San Marco a Venezia. 

"Sì".

Rubano una collana di diamanti e altre pietre preziose dal quadro di una Madonna...

"Nicopeia".

Esattamente. Valore stimato all'epoca: un miliardo di lire. Qualche settimana dopo, però, i gioielli vengono ritrovati, o meglio, fatti ritrovare. Perché avete deciso di rubare?

"Perché io avevo una pesante sorveglianza speciale, dovevo essere a casa alle 7 e venivo controllato tre volte al giorno... non ce la facevo più! E allora ho fatto fare il furto e poi ho contrattato..."

Quindi era una forma di riscatto, di sequestro con riscatto?

"Eh".

Lo Stato nega, ma in realtà c'è stato un meccanismo di questo tipo...

"Sì. M'hanno tolto la sorveglianza speciale e recuperato i gioielli".

Quindi, il furto delle opere d'arte, in genere, viene usato come forma di ricatto? [...] E con chi avveniva la trattativa? I Servizi? Le polizie?

"Ah, guardi, a me a casa ne arrivavano tre o quattro ogni giorno di potentati".

Cioè uomini dello Stato?

"Sì"

Forze dell'Ordine, Servizi...?

"Sì, sì".

Tra l'inizio degli anni '80 e la metà degli anni '90 l'organizzazione di Maniero gestisce il gioco d'azzardo in Veneto, a Modena e in Jugoslavia. Le bische devono dargli dal 40% al 50% dei guadagni. Ma Maniero riesce a guadagnare anche dal Casinò di Venezia, perché impone il pizzo ai cambisti, cioè coloro che prestano soldi a interessi altissimi ai giocatori che hanno perso tutto ma vogliono continuare a giocare. Il 10 ottobre 1980, in quella che è conosciuta come "la notte dei cambisti", gli uomini della Mala del Brenta arrivano al Casinò di Venezia, cacciano i cambisti fuori a calci e gli intimano di non farsi più vedere prima di aver trattato un accordo con loro. Per quel raid "abbiamo fatto anche due mesi di carcere" ricorda Maniero "ma ne è valsa la pena perché poi mi hanno pagato per quindici anni 2 milioni al giorno. Arrivavano circa 60 milioni di lire ogni mese in contanti, senza fare niente". A quel punto il suo potere sul Nord-Est è tale che sono le mafie a bussare alla porta del bandito Maniero. Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, i Bono e Francis Turatello, che condivide con Maniero lo stesso soprannome: Faccia d'angelo. Ma anche i Misso di Napoli chiedono di fare rapine con lui. La sua ormai consolidata fama criminale riesce ad azzerare i pregiudizi e le diffidenze dei mafiosi verso il boss del Nord. Dai più potenti boss di Cosa Nostra, camorra e 'ndrangheta Maniero era rispettato e temuto, tanto che nessun criminale poteva entrare in Veneto senza il suo sì. Al boss del Brenta non si rivolgono solo per le rapine, ma anche per la droga. A Maniero la coca arriva direttamente dalla Colombia; da lui si riforniscono per il mercato settentrionale anche camorra e 'ndrangheta. Le stesse mafie che vendevano droga in tutta Italia, sul Veneto devono fare un passo indietro, perché lì c'è Maniero. Non appena aveva visto la droga, infatti, il boss del Brenta aveva intuito non solo il grande business che avrebbe potuto ricavarci, ma anche la necessità di occupare quel mercato. Maniero si appella alla solita logica: anche se non vorresti fare soldi con la droga, se non la gestisci tu, chi la gestirà ti eliminerà. 

 Quando iniziate a fare traffico di droga?

"Negli anni '80 quando sono arrivati siciliani, camorristi e 'ndranghetisti a venderla".

Quindi arrivano le mafie storiche a commercializzarla, e lì capite che...

"Che non era possibile non farlo noi altrimenti avrebbero preso il mercato, e li avremmo avuti in casa!" 

È vero che inizialmente lei era contrario al traffico di droga?

"Sì".

Anche perché, tra l'altro, dopo che iniziate a farlo, cominciano ad esserci in Veneto molti morti per droga...

"Eh certo..."

Quindi all'inizio c'era questa contrarietà morale quasi...

"Sì, anche perché noi, non usandola, la criticavamo. Chi prendeva droga non poteva entrare..."

Però di fronte al business non vi fermate...

"Di fronte al business e all'invasione di mafie esterne".

Quanto si ricavava dal traffico di droga? 

"Molto. Guardi, il traffico di droga oggi è l'unica fonte di reddito - a parte il racket, che io non credo sia molto importante - delle mafie". 

Se ci fosse stata la legalizzazione, i suoi affari ci sarebbero stati lo stesso o sarebbero stati fermati?

"I miei affari ci sarebbero stati lo stesso, perché io poco prima di collaborare ho fatto una rapina di quattro quintali di lingotti d'oro, quattro quintali e mezzo, in una banca che serviva gli orafi nel Vicentino. Però per le altre organizzazioni la legalizzazione sarebbe la ghigliottina. Mi chiedo come mai ancora non lo abbiano fatto. Beh, un narcotraffico però controllato, non è che uno va a prendersi un chilo! Deve tirar fuori i documenti, codice fiscale e tutto. E poi se uno Stato acquista la cocaina o l'eroina da un altro Stato, con 50 euro può comprarne 2 chili credo, perché non costa niente... e la può vendere anche a 100 euro, 200, tanto per dire, senza porcherie dentro. E io vorrei sapere la stragrande maggioranza degli italiani dove va ad acquistarla: se va a pagare 200-300 euro per un grammo - dipende dalla qualità - o 5 euro. Il prezzo crolla! Crolla il mercato! E quelli le rapine non le sanno fare, non sanno fare neanche i furti! Per cui vorrei vederli che si ammazzano per una... cassa di pomodoro! Ovvio che bisogna fare una cosa che è molto delicata, però visto che sono 50 anni che imperversa in tutto il mondo e in tutta Italia soprattutto - perché l'Italia è uno dei principali Paesi - perché non provano qua?" 

Per cui, per un narcotrafficante, il nemico principale è la legalizzazione?

"Io ne sono certo. Mi metto nei miei panni di una volta eh..."

Quindi lei da narcotrafficante avrebbe combattuto la legalizzazione...

"Oh! Guardi che hanno il terrore della legalizzazione eh! Tutti, non solo io!"

Ma lei sta ragionando sulla possibilità di legalizzare tutte le droghe, sia leggere che pesanti?

"No, io sto ragionando su come distruggere le mafie. A un prezzo che si pagherà ovviamente..."

Da un ex trafficante non si accettano, certo, lezioni, né indicazioni politiche, ma la testimonianza in questo caso è particolarmente significativa, perché Maniero ammette che per gli affari delle mafie - soprattutto per quelli delle mafie del Sud - la legalizzazione sarebbe stata la fine. La droga della Mala del Brenta devastò una intera generazione e collocò le province venete in cima alle classifiche delle morti per droga. Rapine, furti, sequestri, droga: era in queste forme che si palesava la Mala del Brenta ai veneti, che solo molti anni più tardi, dopo il pentimento di Maniero, ne avrebbero conosciuto davvero le dimensioni e la pericolosità. Volevo capire come ha fatto un uomo del Nord, veneto ad avere il rispetto militare delle organizzazioni militari meridionali che storicamente considerano i settentrionali criminalmente incapaci di vera ferocia, deboli e al massimo in grado di evadere le tasse e far qualche rapina. La risposta la dà Francesco Saverio Pavone, giudice istruttore del maxiprocesso alla Mala del Brenta: durante un processo a Gaetano Fidanzati per traffico di droga, "mentre con altre persone che avevano reso dichiarazioni contro di lui Fidanzati ha inveito dalle gabbie, minacciandoli, bestemmiando, quando ha parlato Felice Maniero, che lo ha sempre guardato negli occhi, non ha mai detto una parola, quasi che ne temesse lo sguardo. Le dichiarazioni più pesanti contro Fidanzati sul traffico di droga sono state proprio di Maniero, e Fidanzati non ha detto neanche una parola..." Maniero fissa negli occhi i boss meridionali, lo sguardo è territorio, conosce le regole, le apprende e le mantiene. Anche sulle condanne a morte agisce come i capi di cui aveva maggior rispetto criminale, come Antonio Bardellino, gli omicidi erano circoscritti ai regolamenti di conti all'interno della banda: "Doveva essere punito o uno che ci voleva uccidere o uno che aveva tradito ed era dannoso. Se non era dannoso, veniva allontanato e non ce ne fregava niente, un divorzio totale. Invece la mafia siciliana, la camorra... ammazzano anche per soldi, ammazzano il miglior amico per convenienza", ci tiene a sottolineare il boss del Brenta, che è stato condannato per 7 omicidi. Per nessuno di questi ha provato rimorso: 

È cambiato qualcosa in lei quando ha fatto l'esecuzione o in fondo non ha pesato questo gesto?

"Non mi ha fatto niente perché queste erano le nostre regole". 

Dopo un omicidio non è mai successo che abbia avuto un tormento?

"No".

Solo per una morte Maniero dice di provare rimorsi: quella di Cristina Pavesi, la studentessa di 22 anni rimasta uccisa durante la rapina della Mala al vagone postale del treno Venezia-Milano il 13 dicembre 1990. Maniero pronuncia ufficialmente le sue scuse alla famiglia di Cristina, sapendo bene che le scuse non potranno riportarla indietro e che, molto probabilmente, non potranno nemmeno essere accettate. Dopo due evasioni da due diverse carceri di massima sicurezza e latitanze vissute tra lussi di ogni tipo, il capo della Mala del Brenta venne catturato l'ultima volta il 12 novembre del 1994 e sei giorni dopo decise di diventare collaboratore di giustizia. Le sue rivelazioni hanno portato alla condanna di quasi cinquecento persone e alla fine della Mala del Brenta.  Maniero, con la sua perenne aria di sfida, è un uomo che - come ha descritto il giudice Pavone - ha gettato il patrimonio della sua intelligenza in imprese criminali. Imprese criminali che hanno generato un dolore esponenziale. Ecco, il dolore: tra tutte le domande che gli ho posto in questa lunga intervista, quella sul dolore è l'unica su cui l'ho sentito vacillare.

Monica Zornetta, "La resa". Tutta la verità su Felice Maniero, Faccia d’angelo. Di Valeria Merlini su “Panorama”. Il crimine piace, le sue facce intrigano, tanto che film, serie tv e fiction impazzano. Se poi il criminale in questione è soprannominato Faccia d'angelo...L'occasione per vederne le immagini è quella della fiction dedicata alla Mala del Brenta con Elio Germano, in onda su Sky cinema 1. L'occasione per leggerne è invece data dal libro La resa. Ascesa, declino e «pentimento» di Felice Maniero di Monica Zornetta. La resa (Dalai editore ) si occupa specificatamente della storia personale e giudiziaria di Faccia d'angelo, il boss della Mala del Brenta, all'anagrafe Felice Maniero. L'autrice, Monica Zornetta, non è la prima volta che si cimenta con la criminalità situata nel Nord est, perché ha già firmato precedentemente due saggi: A casa nostra. Cinquant'anni di mafia e criminalità in Veneto, con Danilo Guerretta sul fenomeno del banditismo dal dopoguerra, e Terrore a nordest con Giovanni Fasanella. Spinta dalla curiosità sul territorio in cui vive attraverso lo sguardo della criminalità, la Zornetta ha scritto il libro il giorno dopo la fine della sorveglianza speciale per Felice Maniero, quindi l'agosto del 2010. Ne è uscito un libro pieno di curiosità e di situazioni inedite, interessante e godibile. Per la sua stesura si è rifatta a sentenze, atti giudiziari, informative di polizia, e poi alle interviste, quelle fatte sul campo, a persone in carcere, a chi ha conosciuto lo stesso Felice Maniero. Un Felice Maniero giovanissimo e noncurante di trovarsi in un luogo di detenzione come quello di Fossombrone, lo hanno messo in contatto con mafiosi del calibro di Luciano Liggio piuttosto che di Bagarella e di Gaetano Fidanzati, con i quali è riuscito a crearsi un rapporto non di sudditanza, ma di collaborazione e dai quali ha appreso come organizzare una struttura concentrata sul traffico della droga. Grazie però alla sua spiccata intelligenza e al suo carisma criminale ha riunito i banditelli locali e li ha organizzati. La Mala del Brenta era mafia, come sostiene l'autrice, ed è stata l'unica associazione di stampo mafioso nata e cresciuta in territori non tradizionalmente interessati dalla mafia, cioè lontano dalla Calabria, dalla Campania, dalla Sicilia e, se vogliamo, dalla Puglia, insomma al di fuori della Mafia, della ‘Ndrangheta e della Camorra. Ciò è stato riconosciuto in tutti e tre i gradi di giudizio e Felice Maniero non è un banale criminale, ma un vero e proprio boss mafioso. L'iconografia che sta dietro alla figura di Felice Maniero, data dalle macchine veloci, dal denaro, dalle belle donne, insomma dalla dolce vita, ne ha accresciuto senz'altro il prestigio. Non si può quindi parlare di una sua caduta vera e propria anche se ovviamente la resa di Maniero allo Stato non è stata una resa da vincente, quanto piuttosto un patto. Quando agli inizi degli anni Novanta Maniero si è reso conto che qualche suo sodale voleva prendere il suo posto, ecco la resa pattuita con lo Stato, in cui Maniero consegna la sua organizzazione, ma chiede e ottiene in cambio che lo Stato gli conceda di lasciar fuori dalle indagini i suoi familiari, le persone più care e vicine, e di concedergli un patrimonio personale quantificato in 250-300 miliardi di vecchie lire. Libero dopo 17 anni, il boss della mala del Brenta ha cambiato vita. Ma qual è la verità sul boss dal caschetto, che amava l'arte e ha tenuto in scacco il nordest per vent'anni? Le ultime immagini di lui lo ritraevano sorridente e con le manette, circondato da poliziotti e giornalisti, e con il suo inconfondibile caschetto. Da allora per Felice Maniero, l'ex boss della Mala del Brenta sono trascorsi 17 anni. Anni contraddistinti da una fruttuosa collaborazione con lo Stato che gli ha consentito di tenere fuori dai processi madre e fidanzata, e di conservare al sicuro i tanti miliardi accumulati durante il suo regno criminale. Anni caratterizzati da silenzi profondi, e dalla tragica fine della primogenita Elena. Oggi, Felice Maniero è un uomo libero e un indaffarato imprenditore. Ha scontato i 17 anni di carcere e può girare senza più alcun vincolo per l'Europa, può fare affari dove più gli pare, anche in quella Croazia dove negli anni d'oro era di casa, vantando un'amicizia particolare con il figlio dell'allora presidente nazionalista Franjo Tudjman. Ha cambiato identità, ma il volto, anche se un po' più invecchiato, è sempre quello di «faccia d'angelo», del boss che ancora giovanissimo faceva affari con i più importanti «uomini d'onore» di Cosa nostra al Nord come Gaetano Fidanzati, Salvatore Enea (l'uomo ponte tra la mafia siciliana e la Banca Rasini di Milano), Alfredo Bono, che ha contribuito a esportare la mafia a Milano e, infine, con Mario Plinio D'Agnolo, il braccio destro di Francis Turatello. Con un'organizzazione di diverse centinaia di uomini, Felice Maniero ha tenuto in scacco il nordest per vent'anni con rapine miliardarie, evasioni spettacolari, sequestri di persona, omicidi, traffici di droga e di armi. Tanto controversa è stata la sua carriera criminale (come mai ha potuto delinquere per tutto quel tempo? È stato coperto da qualcuno?) quanto chiacchierata la sua scelta di collaborare con lo Stato. Oggi dice di essere tranquillo, di sapere di aver pagato poco per quello che ha fatto. Sa che sono in molti a volerlo morto. Ma con la solita sfrontatezza, dice: «Mi vogliono uccidere? Avranno l'acquolina in bocca ma non temo la morte».

Villa e viaggi nella nuova vita di Felice Maniero. È lui. È Felice Maniero, il capo della mala del Brenta. Lo abbiamo incontrato per caso in una via centrale di una città del Veneto. Lo abbiamo seguito, fotografato. Ascoltato. Perché Felicetto parla a voce alta. Scherza e sorride. Gli anni sono stati clementi con lui, è ancora bello e affascinante come un tempo. Non ci sono più i capelli a caschetto, ma la faccia d’angelo, che gli è valsa il soprannome, è rimasta. L’ex boss è tornato libero dall’agosto del 2010, con in tasca un nome e un cognome nuovi. Libero, quindi, di circolare senza vincoli in Europa, eppure è rimasto in Italia, al nord, in una delle città da dove per anni ha gestito i suoi affari. E dove oggi vive sotto protezione, dopo aver tradito tutti i suoi “uomini”. Anche quelli più fidati, come il suo braccio destro Salvatore Trosa, condannato all’ergastolo, e i “mestrini” Gilberto Boatto, Marietto Pandolfo, Silvano Maritan. Centotrenta le manette che Felicetto ha fatto scattare. Oggi, dunque, sono in tanti quelli che hanno un conto aperto con lui e che lo vorrebbero “eliminare” ed è per questo, per tutelarlo, che oggi in queste pagine non possiamo mostrare la sua faccia. Abbiamo il dovere di proteggere un ex boss che gode di una tutela riservata solo ai grandi pentiti, perché, oltre ai documenti di copertura, Felicetto adesso ha uomini delle forze dell’ordine che sorvegliano il suo nuovo domicilio, una villetta dove si è da poco trasferito, libero di dedicarsi alle sue passioni, mostre d’arte e viaggi, spettacoli teatrali e cinema. Maniero ha però rinunciato allo stipendio regolare del collaboratore. Non ne ha bisogno. Allo Stato ha restituito “solo” 30 miliardi di vecchie lire. Quasi nulla rispetto al patrimonio accumulato in meno di due decenni di malavita e di colpi miliardari, come quello al Casinò di Venezia o all’Hotel des Bains del Lido. Perché l’uomo che abbiamo seguito per giorni è stato il capo della Mala del Brenta, l’unica banda del Nord Italia che sia mai stata condannata per associazione a delinquere di stampo mafioso. La gang che ha spadroneggiato nel Nordest tra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’90 contava nel periodo d’oro più di 500 “soldati”. E a comandare era lui, Faccia d’Angelo, un uomo che da solo ha trasformato una banda di ladri di polli in una holding del crimine organizzato. Quella di Felice Maniero, infatti, è stata una società del crimine che controllava il mercato dell’eroina e della cocaina, che metteva a segno rapine e sequestri di persona. «Era in affari anche con il figlio di Franjo Tudjman, il presidente della Croazia», ci dice Giuseppe Pastore, 54 anni, ex braccio destro di Faccia d’angelo. Dei suoi quattro figli, ognuno avuto da una donna diversa, l’unica a portare il cognome dell’ex boss era Elena, la figlia di Agostina Rigato. L’unica a pagare con la vita le scelte del padre. «Felice la chiamava principessa», dice ancora Giuseppe Pastore, «volò giù dalla finestra di una mansarda a Pescara, nel febbraio del 2006». Non aveva neanche trent’anni. Faceva la modella e viveva fra Cortina e Venezia. I suoi amici la conoscevano come Eva Mariani. Un altro nome per proteggersi dal cognome del padre. Il suo corpo fu ritrovato a diversi metri dal muro del palazzo, come se fosse stata gettata dalla finestra da due o più persone per un volo di 15 metri. Solo una settimana prima di quello “strano” suicidio avevano cercato di far saltare in aria Maniero con una carica esplosiva, nei pressi dell’aula bunker di Mestre. «Avevo incontrato Elena pochi giorni prima del suo suicidio», ricorda Giuseppe Pastore, «a cena, in un ristorante di Pescara. Era tranquilla. E c’era anche Felice, suo padre». Perché l’ex boss dalla figlia non si era mai separato. Viveva a pochi chilometri da lei, a Spoltore (Pescara). I funerali si svolsero in una località segreta, nella stessa cittadina dove la bella Elena è stata sepolta, col suo vero nome. Un piccolo cimitero di campagna, ancora una volta a pochi chilometri dalla casa dell’ex boss. Perché lui dalla sua principessa non vuole allontanarsi. Un’altra figlia, di 13 anni, ce l’ha da Marta, che lui considera la donna della sua vita e vive ancora con Maniero: con lei era stato sorpreso e arrestato a bordo dello yacht Lucy, a Capri, nell’agosto 1993. Riuscì a evadere, fu riacciuffato. Tre mesi dopo l’ultimo arresto, alla fine del 1994, Felice Maniero si pente, fa i nomi dei complici, fa ritrovare i corpi dei suoi nemici, uccisi e sepolti sugli argini del Brenta. Sette gli omicidi di cui si accusa, 17 gli anni di carcere che fu condannato a scontare. Da collaboratore, per cui fu presto messo ai domiciliari in una villetta alle porte di Treviso. Perché Maniero trattò con lo Stato. E raggiunse un accordo che servì a tutelare la madre, la sorella e il cugino. Ma soprattutto se stesso e i suoi soldi. «Si era già preparato al pentimento», racconta Giuseppe Pastore, «aveva già previsto tutto, perché Felice è sempre stato un freddo calcolatore». Quel Maniero che oggi ha cambiato vita, ha un’azienda di distributori d’acqua e un solo socio, se stesso. Micaela Landi per Visto, 7 marzo 2014, ripreso su “Il fronte del blog".

Report torna anche sugli indirizzi fittizi dati dai comuni ai senza fissa dimora, dove si era scoperto che solo a Roma ci avevano piazzato la sede 2500 fra aziende e amministratori di società, diventando di fatto irreperibili al fisco e alla giustizia. Oggi Report scopre che in un piccolo paesino del Veneto, in uno di questo indirizzi per i senza tetto, ha messo la residenza il boss della mala del Brenta: Felice Maniero. Che utilizzando anche una falsa identità è anche il rappresentate legale di una società che fa affari con la pubblica amministrazione fregiandosi di marchi ministeriali. E finora nessuno si accorto di nulla!

Felice Maniero ora fa l'imprenditore: "Mi arricchisco grazie allo Stato". Nella puntata di Report del 7 giugno 2015 l inchiesta sull'ex boss della "mala del Brenta", condannato a 33 anni per vari reati, evaso due volte e poi divenuto collaboratore di giustizia, scrive Luca Romano su “Il Giornale”. Ricordate Felice Maniero, l'ex boss della "mala del Brenta"? Soprannominato "faccia d'angelo" (gli hanno dedicato anche una fiction) nella sua lunga carriera criminale ha commesso rapine, assalti a portavalori, colpi in banche e uffici postali, ed è stato accusato di omicidi, traffico d'armi, droga e associazione mafiosa. Arrestato nel 1980, evase due volte. Condannato a 33 anni, la pena gli venne ridotta a 20 anni e quattro mesi. Nel febbraio del 1995 decise di collaborare con la giustizia e, da lì in avanti, per lui iniziò una nuova vita. Dal luglio 2010 è in regime di semilibertà, con una nuova identità. Si torna oggi a parlare di lui perché Report ha scoperto alcune cose interessanti su di lui. Vediamo di cosa si tratta. L'ex "faccia d'angelo" ha la residenza in un paesino del Veneto, Campolongo Maggiore (Venezia). Ufficialmente il suo indirizzo corrisponde a quello di un rifugio per senza tetto. Ma la cosa più sorprendente è che, attraverso una finta identità (Luca Mori), è il rappresentate legale di una società che opera nel settore delle acque depurate e, ovviamente, fa affari con la pubblica amministrazione, utilizzando anche "marchi ministeriali". Un bel cambiamento per un uomo che, nella sua prima vita, è stato un vero e proprio simbolo vivente della criminalità. A chi lo accusa di millantare il "patrocinio dello Stato" lui replica con fermezza: "Nessun sotterfugio, non c'è niente... Si immagini se io vado a fare sotterfugi o robe non legali". A quanto pare l'azienda gode del patrocinio del Ministero delle politiche agricole. Di fronte alla smentita, un po' imbarazzata, che arriva da Roma, Maniero precisa: "Non sono un bugiardo, il ministero è un furbacchione. Io ex, ex di tutto, di bande armate... sono sincero, il ministero è proprio un pinocchio lungo quanto una casa".

Report scova Maniero: è residente a Campolongo e si occupa di acqua. «Non cercatemi, sono in pericolo», scrive “Il Gazzettino”. Si chiama Luca Mori e abita in via della casa comunale 7 (una via inesistente, istituita dal Comune per i senzatetto) a Campolongo ed è un imprenditore nel settore delle acque depurate, con in tasca un paio di brevetti sul sistema di filtraggio. Neppure il sindaco Alessandro Campalto dice di conoscerlo ma Luca Mori non è altri che Felice Maniero, l'ex boss della Mala del Brenta. A scoprirlo i giornalisti di Report, Giulio Valesini in particolare (la puntata andrà in onda stasera), che sono anche riusciti a parlare con lui: Maniero conferma, è lui ad avere in mano il business delle casette delle acque che vediamo in moltissime città venete, è lui a chiudere i contratti con tante amministrazioni pubbliche in tutta Italia anche grazie al patrocinio del Ministero delle politiche agricole. Maniero nell'anteprima della puntata risponde al giornalista: «Il patrocinio l'ha chiesto mio figlio e gliel'hanno dato due anni fa». In realtà pare che il ministero non abbia mai dato alcuna autorizzazione all'azienda di Maniero. Riguardo invece un'intervista apparsa oggi su un quotidiano nazionale, circa il medesimo business delle casette dell'acqua, l'ex boss della mala del Brenta ha voluto replicare con una nota all'Ansa: «Prego vivamente i giornalisti italiani - sostiene - quando decidono di pubblicare articoli in merito al sottoscritto di non andare oltre al Felice Maniero, ulteriori dati riguardanti nomi, citare i figli, luoghi, ecc. rischiano di mettere a repentaglio la sicurezza, già molto fragile, della mia famiglia. Da circa vent'anni non abbiamo alcuna protezione. Anche le mie fotografie pubblicate - conclude Maniero - sono un pericolo reale per noi, la mia fisionomia purtroppo non è molto cambiata».

Felice Maniero: "Sì, ora mi arricchisco grazie allo Stato". Boss e pentito ma adesso anche imprenditore. Il cervello della mafia del Brenta dice la sua verità: "Non c'è nessun sotterfugio, figuriamoci se faccio robe illegali". L'inchiesta di Report su Rai Tre, scrive Enrico Bellavia su "La Repubblica". Felice Maniero risponde tranquillo, perfino spavaldo, come è nel personaggio. E impiega meno di cinque secondi a dire candidamente che sì, Luca Mori è lui, Felice Maniero. Eccolo "Faccia d'angelo", l'ex boss del Veneto, il cervello della mafia del Brenta, uno dei più sorprendenti misteri della storia criminale di questo Paese. Nella sua vita spericolata per ogni impresa c'è sempre l'ombra di una mano amica, di un patto o di un ricatto, di un accordo o di un'alleanza inconfessabile. Da boss e da "pentito" non ha mai smentito la fama di uno dalle aderenze impensabili. E quell'aura di impunità non lo abbandona. La terza vita di Maniero, l'ex boss della mafia del Brenta. Felice, il bandito col volto da bambino, che ha fatto di quel Nord Est, raccontato tra gli altri da Massimo Carlotto, scandagliato da Ilvo Diamanti, investigato da Monica Zornetta, il polo più decentrato della mafia, non si è mai mosso da lì. Con un occhio alla "tradizione" siciliana e la mente aperta ai traffici di una terra di confine dalle mille opportunità. Neanche adesso che ha 60 anni ed è da un pezzo nella sua terza vita. Fa l'imprenditore nel settore delle acque depurate, ha in tasca un paio di brevetti sul sistema di filtraggio. E, naturalmente, fa ottimi affari con le amministrazioni pubbliche. Dall'Emilia alla Puglia. Ci riesce vantando il patrocinio, proprio così, del Ministero delle politiche agricole che in teoria non dovrebbe concedere patrocini ad aziende con fini di lucro, e il bollo di quello dello Sviluppo Economico. Adesso, naturalmente, al vertice dei ministeri negano di avergli mai concesso alcunché. Come non risulta la certificazione sanitaria che pure la sua azienda vanta, sostenendo di essere accreditata anche presso il ministero della Salute. Così, come è sempre stato, Felice Maniero può raccontare la sua verità: "Il patrocinio l'ha chiesto mio figlio e gliel'hanno dato due anni fa". Non c'è niente di strano, a sentire lui: "Non c'è sotterfugi, non c'è niente... Si immagini se io vado a fare sotterfugi o robe non legali". Precisa puntiglioso, del resto, che la dizione del ministero è quella di "Politiche agricole e alimentari", poi, di fronte alla smentita di Roma ribatte: "Io non sono un bugiardo, il ministero è un furbacchione. Io ex, ex di tutto, di bande armate... sono sincero, il ministero è proprio un pinocchio lungo quanto una casa". Parla Maniero, ma senza concedersi una parola in più del necessario. Lo fa con il giornalista di Report, Giulio Valesini, che lo ha scovato, pedinato e filmato a distanza per proteggerlo, fino a intervistarlo a pochi metri di distanza -  il servizio va in onda questa sera -  con l'unica misura di sicurezza che l'ex boss si è concesso: il telefono. Per dire e non dire, alla sua maniera. Perché Felice è un uomo libero, fuori dal programma di protezione per i collaboratori di giustizia, nel quale è entrato al tramonto della sua invenzione criminale: la mafia del Brenta, 500 uomini, tra affiliati, gregari e fiancheggiatori, sul modello delle cosche dei Badalamenti e dei Fidanzati. Ha tradito nemici e amici, ha consegnato 30 miliardi di vecchie lire del suo patrimonio, ha rinunciato alla sua villa ma non si è mai allontanato troppo dal suo territorio. È lì che il suo astro è cresciuto, da nipote di ladro nelle paludi di una regione povera, accompagnando il boom che ha segnato anche la sua ascesa: rapine, estorsioni, sequestri, droga e armi. Soprattutto queste con la vicina ex Jugoslavia. E accordi, tanti, con pezzi dello Stato, non solo italiano. In qualche modo, prima di Riina e dell'attacco al patrimonio artistico, fu Felice Maniero a escogitare un sistema per costringere le istituzioni a trattare con lui. Nell'ottobre del 1991, rubò perfino la reliquia del mento di Sant'Antonio a Padova, per restituirle 71 giorni dopo, incassando un dividendo che nessuno ha mai veramente svelato. Per riciclare, lui cultore della pittura, si era buttato sull'arte: dipinti di De Chirico e Renoir, furono ritrovati in una banca di Lugano. Di protezione ha goduto a tutti i livelli. Lasciando insalutato ospite le prigioni di Fossombrone e Padova. Latitante, poi a rischio ergastolo, quindi "pentito", gradasso e spendaccione, al punto da farsi scaricare dallo Stato, per poi rientrare sotto protezione, testimoniare contro i suoi complici e tornare a godere di sconti di pena e impunità riservati a chi collabora. Ma se lo si può immaginare nascosto chissà dove a camuffare il suo aspetto e a vivere del poco che gli è rimasto, ecco Felicetto "faccia d'angelo" pronto a sorprendere. Dicono che gran parte del frutto della sua collaborazione sia l'immenso patrimonio accumulato e messo al sicuro, dopo la consegna degli spiccioli. Ma anche così la storia è incompleta. Perché quel che l'inchiesta di Report racconta è che Maniero non si è affatto nascosto. Anche la sua terza maschera, quella di Mori ha una sua residenza ufficiale quanto bizzarra: Mori risiede a Campolongo Maggiore, dove Maniero è nato, cresciuto e si è allargato. Una procedura anomala, visto che nel documento c'è scritto che abita in via della Casa Comunale 7, ovvero, all'indirizzo fittizio che l'amministrazione riserva ai senzatetto. "A me  -  dice lui  -  il comune di Campolongo me l'ha spostata lì (la residenza, ndr) ma non so neanche che posto è. Vada al Comune e gli dica come mai è residente a via Della Casa Comunale che non esiste?". Al Comune, che pure prova a scrollarsi di dosso il fardello di una notorietà imbarazzante, nessuno sa nulla e nessuno si è chiesto chi fosse davvero Luca Mori, né tantomeno l'ex braccio destro di Maniero, Fausto Donà, stesso indirizzo fittizio del boss. E a ben vedere non lo ha fatto neppure chi gli ha omologato i brevetti e chi, stando a quanto dice lui, ha accreditato la sua azienda, avviata in società con il figlio, presso i ministeri delle Politiche agricole e dello Sviluppo economico, dove pure qualche veneto di successo è passato. Così Felice si è inventato una vita da imprenditore, un senzatetto con i brevetti, per lanciarsi all'assalto di un settore redditizio. I suoi box popolano i comuni di una fetta d'Italia e dai distributori scorre acqua che assicurano essere limpida e impalpabile. Proprio come lui.

Anni Sessanta-Settanta: l'apprendistato criminale con la mafia siciliana. Così come è accaduto per Lombardia e Toscana, la diffusione del modello criminale mafioso fu dovuto essenzialmente alla presenza, anche se non particolarmente nutrita rispetto ad altre regioni, dei membri delle cosche, in esecuzione di un provvedimento di soggiorno obbligato. La maggior parte dei mafiosi che soggiornarono in Veneto proveniva dalle fila di Cosa Nostra: tra i nomi più noti, Salvatore Contorno, Gaetano Fidanzati, Antonino Duca e Gaetano Badalamenti. Cresciuti alla scuola criminale dei siciliani nel periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, i malavitosi veneti, nei due decenni successivi, s'imposero autonomamente e si distinsero per la ferocia e l'abilità nel controllare i traffici criminali transitanti nella regione. Sempre negli stessi anni, fu convogliata verso il Veneto un'ingente quantità di denaro sporco, proveniente dai numerosi traffici illegali delle mafie e destinato a costruire ed alimentare un sofisticato circuito di riciclaggio, che s'innestò in modo parassitario sul sistema economico legale di una regione tra le più produttive e all'avanguardia dell'intero paese.

Anni Ottanta: esordio con rapine e sequestri per Maniero. Il più clamoroso esempio della capacità di assimilare il modello mafioso e di calarlo nella realtà veneta fu costituito dalla cosiddetta "mala" o "mafia del Brenta". Rapine, sequestri di persona, traffici di droga ed armi, estorsioni: furono queste le principali attività dell'organizzazione guidata dal veneziano Felice Maniero e con basi logistiche nella Riviera del Brenta, tra Venezia e Padova. Nei primi anni di attività, gli uomini di Maniero misero a segno gli spettacolari colpi all'Hotel "Des Bains" al Lido di Venezia (1982) e alla stazione ferroviaria di Mestre (1982) e furono i protagonisti del celebre assalto all'aeroporto di Venezia (1983): i 170 chili di oro rubato presso il caveau della dogana aeroportuale sancirono, infatti, la definitiva consacrazione della banda veneta nel panorama criminale. La mala del Brenta dimostrò la sua potenza, portando a termine contemporaneamente i sequestri Rosso Monti, Andreatta e Bonzado. La terribile fama guadagnata sul campo dal sodalizio criminale veneto si alimentò ulteriormente negli anni successivi: sfruttando abilmente una serie di accordi stipulati con le cosche mafiose per la gestione dei proventi criminali nel nord est, oltre alle rapine, gli uomini di Maniero si dedicarono con profitto al traffico di droga, al controllo del gioco d'azzardo clandestino e al rafforzamento delle pratiche dell'estorsione e dell'usura.

Anni Ottanta-Novanta: la Mala del Brenta, una organizzazione mafiosa. In diverse circostanze, la mala del Brenta diede prova di sapere esercitare un efficace controllo del territorio, imponendo la propria legge. Nel periodo di massima potenza, l'organizzazione, composta inizialmente da una quarantina di elementi, arrivò a contarne quasi quattrocento, tra effettivi e fiancheggiatori a vario titolo. I successi criminali della mafia del Brenta furono possibili grazie alla riuscita integrazione al proprio interno di elementi locali e di esponenti delle tradizionali cosche e grazie anche all'adozione di un modello organizzativo e comportamentale tipicamente mafioso, compresa l'eliminazione di testimoni scomodi e di membri della banda divenuti inaffidabili. Nonostante i numerosi arresti, compreso quello dello stesso Maniero, e una feroce faida interna per la supremazia, scoppiata durante la sua carcerazione, gli affari per la mala del Brenta non subirono flessioni. Dalle carceri di massima sicurezza e dai suoi nascondigli di latitante, "Faccia d'Angelo" continuò a dirigere le operazioni e le attività dei suoi uomini. Sul finire degli anni Ottanta, alle molte attività della banda si aggiunse anche il contrabbando di armi con la ex Iugoslavia, grazie al rapporto di amicizia stretto tra Maniero e il figlio di Franjo Tudjman, destinato poi a diventare il presidente della repubblica croata. Durante il processo, che si aprì il 27 novembre 1993 nell'aula bunker di Mestre e che vide alla sbarra Maniero insieme ad altri 109 imputati, fu ricostruito l'intero percorso criminale della mala del Brenta e furono circostanziate accuse pesantissime: dagli omicidi alle rapine, dalle estorsioni e l'usura al riciclaggio, dal traffico di eroina ai sequestri di persona, per finire con l'accusa più grave, e per certi versi esaustiva, di associazione mafiosa. Le condanne nei confronti dei membri della mafia del Brenta furono esemplari e l'organizzazione fu spazzata via, grazie soprattutto alle rivelazioni di Maniero che fece arrestare più di trecento persone.

Anni Ottanta - Novanta: Verona, la "Bangkok italiana". Dagli inizi degli anni Ottanta oggetto di attenzioni criminali mafiose, nel giro di una quindicina di anni, Verona diventò un punto di snodo dei traffici di droga così cruciale da conquistarsi il triste soprannome di "Bangkok d'Italia". A rendere la città scaligera una piazza strategica per il circuito del narcotraffico europeo contribuì in primo luogo la sua posizione geografica nevralgica, perché centrale lungo le rotte dell'est, del Mediterraneo e del nord Europa; in secondo luogo furono rilevanti gli accordi stipulati tra le mafie italiane e le associazioni criminali mediorientali, su tutte la mafia turca, per il passaggio attraverso gli stessi canali, oltre che della droga, anche di armi leggere e pesanti, di componenti per la fabbricazione di ordigni nucleari e di segreti dell'industria bellica. All'interno di questo patto trovarono spazio numerosi soggetti, in gran numero incensurati e insospettabili, che, singoli o associati con altri criminali, si dedicarono allo spaccio al minuto dell'eroina turca, dell'hascisc e della cocaina colombiana che le organizzazioni siciliane, campane e calabresi fornivano loro, disinteressandosi completamente delle modalità di organizzazione del traffico e ritagliandosi invece ampi margini di utili. Questo scenario davvero inquietante venne alla luce quando, dopo molti mesi di minuziose indagini, in data 14 giugno 1994, scattò a Verona, e contemporaneamente negli altri capoluoghi veneti e in tutta Italia, una vasta operazione delle forze dell'ordine che portò all'esecuzione di 183 mandati di cattura, di cui 66 in carcere. L'operazione "Arena", che scompaginò le fila di questa rete di narcotrafficanti, fu possibile grazie allo sviluppo delle intuizioni investigative che furono alla base della famosa indagine avviata un decennio prima da Carlo Palermo, giudice istruttore di Trento, il quale, nello svelare i meccanismi e i retroscena degli scambi tra droga ed armi, individuò Verona tra le città coinvolte nel traffico.

Anni duemila fino a tutt’oggi. Dalla mafia autoctona al gemellaggio con quella d'importazione. La criminalità organizzata in Veneto sta diventando la nuova Banca di riferimento. “Per gli imprenditori in crisi di liquidità chiunque porti soldi è ben accetto, anche il camorrista o l’affiliato alla ‘ndrangheta, che diventa l’ultima speranza prima del suicidio”. E di suicidi per crisi il Veneto se ne intende, vista la decina di casi degli ultimi sei mesi. Le parole sono di Giuseppe Pisanu, presidente della Commissione parlamentare antimafia chiusa a Venezia. E stando alle relazioni presentate dai prefetti, che riportano indagini svolte dai carabinieri dei comandi provinciali, Ros e Dia, emerge uno ‘spaccato’ in cui lentamente sembra farsi largo sempre più la ‘ndrangheta a ovest e la Camorra ad est della regione. La criminalità calabrese “striscia silente e senza far rumore – dice il colonnello Sergio Raffa, comandante regionale della Direzione investigativa antimafia – è difficile scoprirla perché allaccia rapporti con le imprese locali e molto lentamente le svuota, se ne appropria”. La mappa segnata dalle relazioni è quello di un “quadrilatero” che collega Verona, Vicenza, Modena e Reggio Emilia. Stando alle elaborazioni delle forze dell’ordine presentate in commissione emerge a Verona un gran numero di pregiudicati calabresi affiliati alle cosche. Una presenza che ‘interagisce’ marcando a fondo la società e l’economia. Un dato rilevante è stato portato a conoscenza della commissione: le cosche che si fanno la guerra al sud, in Veneto creano una sorta di alleanza. La ‘ndrangheta è particolarmente attiva nel settore del ciclo del cemento, e, stando alle relazioni, le varie aziende ‘contigue’ alle famiglie calabresi che in terra d’origine si combattono a suon di spari, nel veronese e nel vicentino cooperano insieme, perchè l’obiettivo è far girare i soldi. E così l’ovest del Veneto appare come una piccola Calabria in miniatura, in cui c’è spazio per tutti e dove si pulisce il denaro che viene dalla droga. Si ripropongono così i Dragone e i Grande Aracri di Cutro, gli Anello-Fiumana di Filadelfia, i Vrenna-Ciampà Bonaventura di Crotone, i Papalia-Italiano di Delianuova, i Morabito-Pangallo-Marte di Africo Nuovo, i Bellocco di Rosarno i Piromalli-Molè di Gioia Tauro. E proprio a quest’ultima cosca la Guardia di Finanza Calabrese ha inferto un duro colpo. Nel giugno del 2011 si è chiusa l’indagine ‘Panama’ contro il narcotraffico, la procura antimafia di Reggio Calabria emette 18 ordinanze di custodia cautelare in carcere: tre di queste persone, calabresi di origine, sono residenti a Sommacampagna, Bussolengo e Peschiera (Verona). Un mese dopo la Dia veneta sequestra 3milioni di euro a Domenico Multari, detto ‘Gheddafi’, originario di Cutro e affiliato ai Dragone. Il calabrese è residente a Zimella, sempre nel veronese, e in sette anni di ‘soggiorno’ al nord aveva dichiarato 40mila euro di reddito, mentre viveva in una villa con un sistema di sorveglianza di ultima generazione. L’allarme sulle infiltrazioni criminali in Veneto lo aveva dato anche il Ministro per il Rapporti con il Parlamento Piero Giarda due giorni fa, rispondendo in aula al question time del parlamentare padovano del pd Alessandro Naccarato. Il caso sollevato è quello del fallimento della società Edilbasso, leader dell’edilizia nel padovano. Naccarato ha espresso “particolari perplessità” riguardo al fatto che nella società Faber, che tiene in piedi il ramo ‘sano’ della Edilbasso al fine di pagare i creditori, sono coinvolte persone che hanno avuto ruoli importanti nell’inchiesta “Tenacia” sulla ditta lombarda Perego Strade srl, e che ha consentito l’arresto di Salvatore Strangio, poi condannato in primo grado a Milano a 12 anni per associazione mafiosa. L’anello di congiunzione tra quell’inchiesta e le vicende della ditta padovana si chiama Giovanni Barone, consulente finanziario di 43 anni, romano di nascita e calabrese di adozione, che della Perego strade fu il liquidatore e che per qualche mese ha avuto il 65% delle quote della Faber. Ora nella compagine societaria della Faber appare con il 10% un’altra persona legata alla Perego, ovvero Adriano Cecchi, che della Perego è stato sindaco della società in liquidazione. Cecchi e Barone non sono indagati, ma di Barone il gip milanese scrisse: “Barone è il soggetto, talvolta discusso e contestato da parte dei calabresi tagliati fuori dalla gestione diretta di Perego, al quale viene affidata la sistemazione delle società decotte”. Il consulente finanziario ha precedenti di polizia per reati contro la pubblica amministrazione, resistenza e violenza, falso in genere, falsa attestazione, omessa custodia di armi. “Il fronte della guerra alla criminalità organizzata si è spostato al Nord – commenta Maino Marchi, membro della commissione parlamentare e presente a Venezia – e il Veneto è un terreno florido per la criminalità che ha soldi da investire, solo adesso il Parlamento sta procedendo al recepimento della normativa europea sui tempi certi di pagamento, il rischio è che questa regione si svegli tra vent’anni e si ritrovi come la Lombardia e la Liguria”. Nel frattempo, assieme alla ‘ndrangheta che si insinua, ci sono inchieste già note alle cronache e che riguardano invece napoletani vicini alla Camorra. Come svela l’inchiesta “Serpe”, un’associazione di stampo mafioso dedita all’usura smantellata dai carabinieri e dalla Dia nel 2011, che faceva capo ad una società padovana del campano Mario Crisci, che avrebbe prestato denaro ad usura, con tassi fino al 180%. Vittime i piccoli imprenditori, albergatori o gestori di chioschi, minacciati anche con armi. Una quota degli utili, come ricostruito dal pm Roberto Terzo, andava a Casal di Principe. 23 gli imputati ammessi al rito abbreviato. E poi ancora l’operazione Manleva dei carabinieri con i fratelli napoletani Catapano a spolpare le aziende in crisi del padovano. Camorra e ‘ndrangheta non sono più un tabù per il Veneto, ora che c’è bisogno di soldi, e ora che le banche chiudono le borse, gli imprenditori del Nordest hanno trovato una pericolosa strada per rimanere in vita. Almeno finchè i boss glielo consentiranno. 

"Parlare di mafia in Veneto? Ma se qui la mafia non c'è". Quante volte si è detto e ripetuto: e in Veneto si lavora sodo. Eppure qui sono stati mandati al confino personaggi che hanno contribuito a scrivere alcune delle pagine più importanti della mafia. Qui sono arrivati "Totuccio" Contorno, Salvatore Badalamenti, nipote di quel "Tano" che fece ammazzare Peppino Impastato. Qui Giuseppe Madonia ha potuto condurre i propri business, con la complicità di alcuni imprenditori locali. Ma il Veneto non ha solo importato mafia: l'ha pure creata. In nessun'altra regione italiana, al di fuori di quelle meridionali, è nata un'organizzazione con le caratteristiche del 416 bis. Il Veneto l'ha avuta e l'ha chiamata Mala del Brenta.

Questo è il sunto del libro “A casa nostra. Cinquant’anni di mafia e criminalità in Veneto” di Danilo Guarretta e Monica Zornetta.

Il clan Lo Piccolo puntava a Nordest. Aveva messo gli occhi su una serie di operazioni edilizie a Chioggia (Venezia) e nella zona termale di Abano (Padova). Sono gli sviluppi dell'indagine palermitana che, tra l'altro, ha condotto all'arresto dell'avvocato Marcello Trapani, che continuava a tessere le fila per conto dei Lo Piccolo. Obiettivi: mettere le mani sul Palermo calcio e, soprattutto, «diversificare» al Nord.

Ecco l'articolo pubblicato il 25 settembre 2008 su Nuova Venezia, Mattino di Padova e Tribuna di Treviso.

La mafia in Veneto. Infiltrazioni: un'emergenza nazionale. Lo si sospettava. Meglio, lo si temeva. Bastava ascoltare gli allarmi lanciati da Roberto Saviano, autore di «Gomorra». O prendere sul serio le analisi del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: «La criminalità organizzata è ormai una realtà anche al Nord. E’ nelle regioni più ricche che cerca la maggiore redditività ai suoi investimenti». Bene, se ce ne fosse stato bisogno, ecco la prova provata: la mafia sta arrivando (è arrivata?) pure nel ricco Nordest. Il clan palermitano dei Lo Piccolo aveva messo gli occhi sulla riqualificazione del porto di Chioggia e puntava ad aggiudicarsi una serie di interventi edilizi nella città lagunare così come nella zona termale di Abano. Affari per diversi milioni di euro, messi in piedi con una rete di collusioni in sede locale.

Cosa nostra ha mille vite, come i gatti. E come lo stesso clan dei Lo Piccolo. Salvatore, erede di Bernardo Provenzano, è stato arrestato, insieme con il figlio Sandro, il 5 novembre 2007, dopo 25 anni di latitanza. Qualche giorno prima, per l’esattezza il 25 settembre, aveva fatto in tempo a costituire la società «Petra», quella che appunto doveva operare a Chioggia. Non solo il clan cercava di riorganizzarsi, ma non aveva cessato le mire espansioniste.

Per il Nordest è un brutto risveglio. È vero che la mafia del Brenta di Felice Maniero aveva provato a muoversi in collegamento con le famiglie del Sud. Ma sono vicende che si perdono negli anni e nelle cronache. Il tentato sbarco a Chioggia è un segnale forte, mette in evidenza una precisa strategia: la mafia, prima azienda italiana con 90 miliardi di fatturato (più dell’Eni, per intenderci), pari al 7 per cento del Pil (dati contenuti nel rapporto Sos impresa della Confesercenti), segue l’odore dei soldi. E nel Veneto, finalmente avviato a realizzare le grandi infrastrutture, di soldi da qui ai prossimi 10-20 anni ne gireranno parecchi.

Qualcuno, se vuole, può continuare a pensare che cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta siano problemi del Mezzogiorno. Di più, il cancro del Mezzogiorno, il vero freno al suo sviluppo, il motivo per cui le regioni meridionali non sono appetibili al capitale privato. Non è così. La mafia è un’emergenza nazionale e come tale va affrontata. Perché la piovra, in epoca di globalizzazione, va a caccia di affari ovunque. Figurarsi se si ferma al Sud. A Varese e in Brianza, di recente, è stato scoperto un traffico di rifiuti tossici, l’ultimo megabusiness della malavita. A Milano si sta discutendo sull’opportunità di creare una commissione che vigili sugli appalti dell’Expo 2015, dopo che la Procura di Busto Arsizio ha aperto un fascicolo sui rischi di infiltrazione mafiosa. Ora la storia di Chioggia.

Deve reagire lo Stato, certo. Ma anche per le associazioni degli imprenditori (in primis i costruttori dell’Ance) e dei commercianti è venuto il momento di passare dalle parole ai fatti: bisogna scoprire ed espellere chi ha collusioni mafiose. È la scelta compiuta da Ivan Lo Bello, presidente della Confindustria siciliana. Occorre estenderla a tutte le categorie. E a tutta Italia.

Ma la MAFIA è solo quella che ci convincono che sia, o esistono altre mafie, più subdole ed impunite ??

Esiste una mafia della prostata? Sì, esiste, ed è una mafia potentissima. Non potrebbe essere altrimenti in una gerontocrazia come quella del nostro Paese, dove l’autorità politica, giudiziaria, militare, economica e religiosa è incarnata da persone che nella migliore delle ipotesi hanno superato i 50 anni, più spesso i 60, quasi sempre i 70.

Ai vertici della cupola vi sono gli urologi, che hanno fra le mani, letteralmente, quanto di più intimo appartenga a un uomo. Depositari di reconditi segreti, testimoni di virilità declinanti, ancore di salvezza in patologie tanto frequenti quanto angosciose, a cominciare dai tumori, sono i medici ai quali i maschi si rivolgono meno volentieri. Perciò conviene farseli amici per la vita. Non è un caso che Giovanni Paolo II ricorresse all’urologo di un ospedale distante 520 chilometri dal Vaticano. O che il riservatissimo presidente della più importante banca popolare italiana, oggi defunto, e il presidente di una catena di quotidiani locali si facessero vedere a cena nei ristoranti soltanto col primario di urologia della loro città. O che Indro Montanelli si fosse fatto operare a Verona, anziché a Milano o a Roma, da un luminare trentino.

La Marsilio sta esaminando un j’accuse allucinante che svela le malefatte di questa mafia della prostata. Come autore della casa editrice, ho potuto leggerlo in anteprima. Ne sono rimasto sconvolto. Per ovvi motivi di esclusiva non mi è concesso riferire i dettagli - nomi e cognomi, località, date - implacabilmente elencati in quello che è destinato a diventare un libro-scandalo di 250 pagine, corredato da 140 fotografie che tolgono il fiato, tutte scattate in ambito ospedaliero.

Autore dell’esplosivo memoriale è un famoso chirurgo. Lo chiamerò professor X. Curriculum eccezionale. È titolare di cattedra universitaria e direttore di una delle più importanti cliniche urologiche del Nord Italia. L’incipit testimonia che sa incidere anche con la penna, oltre che col bisturi: «Fin quando diranno bugie su di me, io dirò la verità su di loro». «Loro» sono: il suo maestro oggi in pensione ma tutt’altro che a riposo, alcuni dei suoi medici, la sua caposala, più vari comprimari. Si sono coalizzati e l’hanno trascinato sul banco degli imputati con le accuse di abuso in atti d’ufficio, interruzione di pubblico servizio e mobbing. Il chirurgo s’è accorto troppo tardi che era lui, in realtà, la vittima designata di un mobbing alla rovescia orchestrato allo scopo di provocarne la morte professionale per via giudiziaria.

Il direttore della clinica è stato annientato perché s’è rifiutato di far vincere il concorso per professore associato a un medico del suo staff che non possedeva i titoli necessari, ma che ciò nonostante in ripetute occasioni aveva affermato: «Quel concorso è il mio concorso!». Il professor X non ha tenuto nel minimo conto il fatto che anche il suo maestro avesse pubblicamente dichiarato che l’«aspirante naturale» e il «candidato naturale» del concorso per associato era il medico poi bocciato.

La qualità scientifica e didattica del raccomandato è risultata nettamente inferiore a quella degli altri concorrenti e ciò a giudizio di una commissione indipendente formata come d’uso da quattro professori universitari esterni eletti su base nazionale. Di qui la vendetta contro il professor X che la presiedeva.

Fra l’altro il candidato scartato era reduce da ben 17 concorsi nelle principali città d’Italia, con poco invidiabili risultati: in 12 non s’era nemmeno presentato, in 3 s’era ritirato, in 2 lo avevano dichiarato non idoneo.

Il professor X è stato massacrato dalla mafia della prostata. Condannato a una lunga pena detentiva e al pagamento di una provvisionale stratosferica, non è finito in galera solo perché è incensurato e nel frattempo ha interposto appello. Nel suo caso la giustizia ha funzionato egregiamente: indagini a tappeto; decine di persone interrogate; confronti all’americana; spazio mediatico solo alle tesi dell’accusa; mai un articolo di giornale sul suo interrogatorio, sulle sue ragioni, sulle testimonianze a suo favore; 13 udienze in appena 7 mesi e subito la sentenza. La conclusione era sorprendentemente già scritta nel primo servizio apparso su un quotidiano locale quando fu emesso l’avviso di garanzia: pubblicato nel settembre 2006, anticipava la requisitoria che il pubblico ministero avrebbe pronunciato soltanto tre anni dopo.

È un miracolo che il professor X, noto come una persona corretta ed equilibrata, abbia mantenuto i nervi saldi. Solo un uomo di spessore morale poteva sopportare una prova tanto aspra e alla fine trovare dentro di sé le forze per mettere nero su bianco un dossier nel quale i concorsi truccati, le carriere fatte e disfatte a tavolino, i pazienti rovinati in sala operatoria, i medici che percepiscono lo stipendio senza presentarsi in reparto, rappresentano il meno. A lasciare interdetti sono gli effetti perversi che una fitta ragnatela di amicizie è in grado di determinare: nel caso specifico, una macchinazione che ha distrutto la reputazione del professionista, reo di non essersi piegato allo strapotere, tuttora intatto, del barone della medicina che lo ha allevato e voluto come proprio successore sulla cattedra universitaria. Nel loro ultimo colloquio in presenza di un testimone, tre anni fa, il maestro, uomo di poche parole, aveva concluso lapidario: «Non è il primo e non sarà l’ultimo esempio di parricidio». Sentendosi rispondere: «Vi sono altrettanti esempi di padri che uccidono i figli».

L’anziano urologo che divora le proprie creature - lo chiamerò professor Y - è nato in un paesino della Sicilia. Potrebbe sembrare una trascurabile casualità geografica. Sennonché di questo stesso paesino sono originari: 1) il procuratore capo in servizio all’epoca dei fatti; 2) un maresciallo dei carabinieri, in passato fedele collaboratore del magistrato, che s’è molto interessato all’andamento del concorso e che trascorre le sue giornate battendo i corridoi dell’azienda sanitaria per raccogliervi confidenze, delazioni, lettere anonime; 3) un amico del professor Y strettissimo parente di uno dei tre giudici del collegio che ha condannato il professor X; 4) la famiglia del medico che ha vinto il concorso. Da notare che la prima persona presentata dal professor Y al professor X fu il compaesano carabiniere: «Questo è il maresciallo (...). Ricordalo bene, perché qualsiasi problema tu abbia lui può risolverlo». S’è visto. Allora andavano d’accordo, maestro ed erede.

A proposito di Parentopoli. Il professor Y aveva deciso fin dal 1990 chi gli sarebbe succeduto sulla cattedra e in clinica: suo cognato. Purtroppo per lui, una vicenda imprevista gli ha mandato a pallino il piano: il predestinato ha avuto una crisi mistica, che lo ha portato non solo a disinteressarsi della famiglia e del lavoro, ma anche a mettere a repentaglio la salute dei malati e il buon nome dell’ospedale. Infatuatosi d’un santone che si spaccia per guaritore, ha smesso di operare, ha abbandonato l’attività ambulatoriale, ha cominciato a distribuire immaginette votive agli ammalati e ai loro parenti (e persino agli specializzandi e agli studenti di medicina durante le lezioni), ha ripetutamente invitato i familiari di pazienti con patologie neoplastiche o malformazioni congenite a rivolgersi al guru piuttosto che ricorrere alle cure dei chirurghi. Contro di lui, essendo pur sempre il cognato dell’influente professor Y, non è mai stato preso alcun provvedimento, nonostante si presentasse in reparto solo occasionalmente e solo per connettersi a siti religiosi su Internet. Ciò significa che ha continuato per anni a percepire lo stipendio senza prestare servizio: non operava, non visitava, non faceva il «giro» degli ammalati.

Ai tempi d’oro, il professor Y era impegnatissimo in una casa di cura privata. Di solito vi si tratteneva fino alle 10 o alle 11 del mattino. Intanto in ospedale i suoi medici lo aspettavano sotto il vigile controllo della caposala, poi diventata uno dei testimoni d’accusa contro il professor X. Nel suo libro quest’ultimo documenta inoltre come il maestro sia «sempre stato molto vicino al mondo militare: usualmente un’auto dell’Esercito lo accompagnava in aeroporto per i suoi viaggi privati e lo riportava a casa al ritorno». Il professor Y, benché fuori ruolo, s’è tenuto per quattro anni lo studio che aveva occupato da monarca assoluto per un quarto di secolo. Nei Paesi europei, quando un direttore raggiunge i limiti d’età, saluta e lascia definitivamente il reparto. Non esiste scappatoia che gli consenta di continuare l’attività assistenziale.

Ma come funzionava la clinica quand’era diretta dall’illustre cattedratico oggi a riposo? Leggiamo il memoriale: «Accerto che un professore a contratto della scuola di specializzazione (di cui era direttore in quel momento il professor Y) non è laureato! Appurato il fatto attraverso un colloquio col diretto interessato, lo invito a dimettersi per motivi familiari e a prendersi almeno una laurea breve. Scopro che ci sono irregolarità gravi negli atti operatori relativi ai pazienti privati del professor Y che vengono operati in endourologia. Il professor Y non ha mai fatto endourologia, branca che richiede una specifica competenza, perciò i suoi pazienti privati venivano operati dal dottor Z, anche se sull’atto operatorio figurava come chirurgo il professor Y». Inutile dire che il dottor Z è il candidato bocciato al concorso. «D’altro canto il professor Y operava per interposta persona pazienti ricoverati in regime ordinario che secondo la normativa vigente non avrebbe potuto operare. Ma tant’è: per il dominus si chiude un occhio, e spesso tutt’e due».

In sala operatoria non accadeva solo questo. Nel j’accuse sono elencati episodi terrificanti: «Paziente operato dal professor Y in endoscopia per una resezione di prostata. Un’erezione improvvisa impedisce l’intervento. Usualmente in simili casi si inoculano alfastimolanti diluiti nei corpi cavernosi del pene. Il professor Y iniettò una fiala intera senza diluizione, provocando una grave crisi ipertensiva con conseguente emorragia cerebrale. L’incidente fu interamente coperto. Paziente operata dal dottor (...) in endourologia di chirurgia percutanea per calcolosi renale: morta per intossicazione d’acqua per un difetto di tecnica. Caso indifendibile. Eppure il conseguente strascico giudiziario, grazie al professor Y, si concluse a sfavore della vittima, tanto che la sentenza è riportata su Internet come esempio di ribaltamento della verità». E ancora: «Nefrectomia parziale su paziente privato (dozzinante). Un chirurgo seziona accidentalmente l’uretere lombare, lo “sistema” con una uretero-anastomosi ma non referta l’evento sull’atto operatorio. Il paziente, tuttora ignaro - temo - dell’accaduto, sviluppa una stenosi serrata dell’uretere che richiede plurimi trattamenti successivi. Insomma, una sequela agghiacciante, è l’unico termine appropriato, di complicanze maggiori, sulle quali nessuno ha fiatato, tanto meno la caposala del gruppo operatorio».

Il professor X è stato riconosciuto colpevole di abuso in atti d’ufficio per aver allontanato temporaneamente dalla sala operatoria il dottor Z, che dopo la bocciatura al concorso aveva diffamato il suo superiore e il reparto. Dalla campagna denigratoria al procedimento penale, il passo è stato breve. «Ma se in un processo quattro testimoni dicono che ci sono stati disagi, lamentele, attese, senza ricordare con precisione quando, come e quante volte, e se questi episodi non trovano alcun riscontro in documenti pubblici come la cartella clinica degli ammalati, l’atto operatorio e la scheda anestesiologica, le impressioni di tali testimoni costituiscono una prova? E qualora la risposta fosse affermativa, tale prova mantiene il suo valore anche se altrettanti o più testimoni negano i presunti eventi?», si chiede il condannato nel suo libro. È precisamente ciò che è accaduto nell’aula del tribunale. Il pubblico ministero, nella sua requisitoria, anziché circostanziare le accuse s’è limitato, in assenza delle citate prove documentali e in presenza delle sole testimonianze generiche, a parlare di un «coro di anime» sollevatosi contro l’imputato, aggiornamento poetico del «vox populi, vox Dei». Arrivando a concludere che costui non ha «per nulla a cuore l’interesse dei malati».

Adesso il destino del professor X è nelle mani del direttore generale dell’azienda ospedaliera, che ha già avviato un procedimento per «l’eventuale allontanamento del docente universitario». Il direttore generale ha ben presente che le cliniche di mezzo mondo farebbero carte false per assicurarsi mani e testa del professor X. Ma ha anche ben presente un’altra cosa: il Pm che ha sostenuto l’accusa contro il professor X è, guarda caso, lo stesso che qualche anno fa ha avviato un’inchiesta sulla realizzazione di una struttura ospedaliera. A quanto pare il fascicolo sulla congruità e sulla trasparenza delle procedure adottate per l’appalto sarebbe stato aperto in seguito a una segnalazione del maresciallo camminatore compaesano del professor Y. E a tutt’oggi non è dato sapere quale direzione abbiano preso le indagini.

A questo punto il lettore si chiederà perché il professor X non abbia smascherato a tempo debito la mafia della prostata, come mai abbia tollerato le storture di cui era venuto a conoscenza. La risposta è leale: «Nella vita immagini sempre che certe cose possano accadere solo agli altri. Se stavolta nel tritacarne ci sono finito io, qualcosa vorrà pur dire. Si vede che il destino doveva assegnarmi un compito: far sì che i principi di prudenza, diligenza e perizia si applichino non solo ai medici ma a tutti coloro, magistrati in primis, dalle cui decisioni dipendono molte vite. Non mi sottrarrò al mio destino».

Quando la coscienza bussa alla porta, puoi far finta di non essere in casa. Il professor X le ha aperto.

Nessun nome nell'anticipazione del quotidiano “Il Giornale" - «chiamerò l'autore dell'esplosivo memoriale professor X», si è coperto Lorenzetto - ; ma ovunque informazioni, dettagli, riferimenti. Sia sul luogo dei fatti, sia sulle identità delle persone prese di mira dalle accuse. Accuse pesantissime: errori medici, morti sospette, coperture e silenzi compiacenti.

Il mistero, però, è durato poco. E' bastato incrociare alcuni dati contenuti nel pezzo per mostrare con chiarezza chi fosse il demiurgo. Chi si nascondesse, insomma, dietro al «professor X». «Curriculum eccezionale, titolare di cattedra universitaria e direttore di una delle più importanti cliniche urologiche del Nord Italia», ricamava Il Giornale. Che poi aggiungeva. «Il professore è stato trascinato sul banco degli imputati con le accuse di abuso d'ufficio, interruzione di pubblico servizio e mobbing. (…) Ed è quindi stato condannato a una lunga pena detentiva e al pagamento di una provvisionale stratosferica; ma non è finito in galera solo perché è incensurato e nel frattempo ha interposto appello». Poteva bastare. Un solo soggetto era in grado di combaciare con l'identikit tracciato: è Walter Artibani, ordinario di Urologia al Bo, condannato il 17 luglio 2009 dal Tribunale di Padova ad un anno e sei mesi di carcere, con la sospensione condizionale subordinata al pagamento di una provvisionale di 300mila euro. Per abuso d'ufficio e mobbing. E forse proprio la condanna avrebbe convinto il luminare a scrivere il libro.

LA MAFIA LOMBARDA.

La Mala in mostra, racconto non banale di una città cambiata. Così la criminalità, organizzata e non, è mutata di pari passo con la città che la accoglie, scrive Gianluca Ferraris il 10 Novembre 2017 su "Il Foglio". Ci sono due scatti, fra gli oltre 140 ospitati dalla mostra fotografica “Mala a Milano” (inaugurata giovedì e visitabile fino all’11 febbraio 2018 a Palazzo Morando), che più degli altri raccontano come la criminalità, organizzata e non, sia cambiata di pari passo con le città che la accoglie. La prima istantanea mostra un dispaccio di polizia del 1946, che annuncia il raddoppio della vigilanza nelle tre aree giudicate più a rischio: corso Como, la Darsena e l’attuale quadrilatero della moda. Fa impressione vedere gli odierni santuari dello spritz a 10 euro descritti come “coacervi di rovine bombardate, bottiglierie frequentate da malfattori e case d’appuntamenti d’infimo livello ove è bene non recarsi dopo il tramonto”, ma non è certo l’unico ribaltone evidenziato dall’allestimento di Stefano Galli, già curatore di “Milano - Storia di una rinascita”. Seconda immagine: Ezio Barbieri, il bandito che rapinava soldati americani, fascisti e borsaneristi, è appena stato catturato. Circondato da poliziotti e gente comune, è l’unico a sorridere. Tra la folla qualcuno piange ma nessuno ostacola l’arresto, che l’indomani Dino Buzzati sul Corriere definirà “controvoglia”: Milano è povera ma non ancora incazzata, non con i suoi Robin Hood almeno. E fra le donne di Isola e Lambrate che ogni settimana ricevono da Barbieri farina, fagioli e benzina c’è più di una vedova di uomini in divisa. Siamo nella fase iniziale e più romantica della curvatura criminale, quella in cui la città sotto sotto tifa per i banditi della Lìgera e il sogno di rivalsa covato dentro le casette zeppe di odori e storie parla il dialetto. Nessuno è davvero colpevole perché, in una città impegnata a sopravvivere al Dopoguerra, nessuno è davvero innocente. Più i rullini si riempiono di spaccate in gioielleria, truffe ai dadi e borseggi, più i prefetti che chiedono rigore e sicurezza sono costretti all’angolo da chi disegna traiettorie di continuità storico-ideologica fra Mala e Resistenza. Le armi e il know-how arrivano da lì, del resto. Il clima di giustizia proletaria durerà fino alla rapina di via Osoppo del 1958, il “colpo del secolo”: sette uomini assaltano un portavalori e si portano via 614 milioni di lire senza neanche sparare. Fanno tatatatà con la bocca, imitano il rumore del mitra come hanno sentito fare da un concorrente della Corrida. Li beccano proprio perché Corrado sta per cambiare piattaforma, come si dice oggi, e loro che non vogliono perderselo vanno da Crovetto in San Babila a comprare televisori fuori misura per chi dovrebbe campare col sussidio. E’ con il boom economico che le esistenze di ladri e onesti cambiano di nuovo. Le realtà malavitose di quartiere, integrate in un tessuto urbano frutto di condizioni sociali irripetibili, iniziano a scomparire, soppiantate da una criminalità più golosa che affamata, decisa e senza nulla da perdere. Proprio come le migliaia di meridionali che ogni giorno sbarcano in Centrale in cerca del loro sogno. Forse non a caso, saranno due bande di “furesti” a contendersi Milano e le prime pagine negli anni successivi. I Marsigliesi, startupper del traffico di droga fuggiti dalla Costa Azzurra in cerca di caveau meno blindati e poliziotti meno scafati: troveranno i primi, ma non i secondi. E poi la ditta Cavallero, Lumpenproletariat torinese specializzato in banche e sequestri lampo. La rapina di largo Zandonai del 1967, documentata nelle sue fasi finali da un fotografo della Notte, non è l’unica in cui ci scappa il morto, ma è la prima in cui Cavallero e i suoi uccidono in modo quasi gratuito, per proteggersi la fuga, e segna lo spartiacque di un’epoca. Come se il set di Rocco e i suoi fratelli lasciasse il posto a quello di Milano odia, e la violenza sprigionata dai newcomers fosse gemella di quella a cui quotidianamente iniziano ad assistere le piazze. Fra il 1968 e il 1977 criminali e contestatori si annusano da lontano, e pur senza mai piacersi troppo finiscono per condividere covi e osterie: il residence di via Ripamonti dove svernava il latitante Luciano Liggio ospitava, due piani più su, una comune hippy; la trattoria di piazza Vetra dove nacque il collettivo della Statale nascondeva, nel retro, i bottini che le bande di quartiere lasciavano raffreddare prima di piazzarli ai ricettatori; alla stessa bottiglieria sul Naviglio Grande si dissetavano punk della prima ora e brigatisti della seconda. In giro c’è un’escalation di aspettative e di arsenali che fa evocare agli editorialisti la Chicago anni Trenta: non sarà la prima volta, né l’ultima. Perché nel frattempo in città i gangster con gessato, sigaro e mitra a rotella sono arrivati davvero. Si chiamano Francis Turatello, Angelo Epaminonda, Nunziatino Cono, e a contendere loro il bottino è rimasto solo Renato Vallanzasca, l’ultimo esponente della vecchia mala milanese capace di ritagliarsi un ruolo da protagonista. Al Bel René e ai suoi mille volti “Mala a Milano” dedica un’intera, meritatissima sezione monografica: il ragazzino paffuto del primo fermo per rapina; il dandy con il colletto a punta che irride un giudice; il galeotto intento a fumare dietro le sbarre; il matrimonio in carcere con aragoste, champagne e Turatello in smoking bianco a far da testimone; i tre arresti dopo altrettante fughe. Intorno alle loro storie che già fanno pregustare l’edonismo individualista degli anni successivi, a Milano scorre la Storia: l’omicidio del commissario Calabresi, la morte di Feltrinelli, l’austerity, gli scioperi di massa, le stragi nere. Sparito dalle scene Vallanzasca, i siciliani controlleranno la città per quasi un decennio grazie al loro prodotto di punta: l’eroina, che nel 1981 tocca il suo apice di diffusione e morte con quasi 600 decessi per overdose nella sola Milano. La foto forse più potente dell’intero allestimento è una ripresa dall’alto del parchetto di via Padova, con una decina di persone intente a bucarsi intorno a una panchina. Il mattino dopo, davanti a quella stessa panchina, un prete sta impartendo l’estrema unzione a due di loro, gli aghi ancora nel braccio. I “mafiosi della porta accanto” (Buzzati, again) festeggiano i proventi del business senza preoccuparsi di celarsi all’obiettivo, felici di ostentare le loro imprese rumorose e appariscenti: auto di lusso, donne da esposizione, vita notturna tra ristoranti alla moda, night e bische clandestine. Siamo ormai a metà degli anni Ottanta, la Milano da bere mischia le carte, l’inflazione è a due cifre, il sogno di un’economia e di un crimine più etici sono finiti, i dané comandano, l’anima è venduta. Sta per arrivare l’inchiesta Nord/Sud, che nel 1989 traccerà per la prima volta i contorni dell’opa ’ndranghetista sulla Madonnina. Stanno per arrivare la recessione, Tangentopoli e le droghe sintetiche. Sta per chiudere la Notte, che per anni con le sue foto e i suoi pezzi si è impegnata a fornirci il suo bollettino pomeridiano di morti ammazzati. La malavita non spara più, e i racconti delle sue imprese da queste parti si sono fatti noiosi e ripetitivi, al limite del pastone politico-finanziario, per quanto inquietante. L’ultima istantanea di “Mala a Milano”, profeticamente, mostra una piazza del Duomo deserta, presidiata dalle volanti. Siamo rimasti sul divano a stordirci di Netflix senza accorgerci che della città criminale, come di quella da bere, non resta più nulla. Vallanzasca si è visto revocare l’ultima libertà vigilata per un furto di mutande, della morte di Epaminonda i cronisti si sono accorti con mesi di ritardo lo scorso dicembre, quando non si presentò a deporre in un procedimento per narcotraffico che si trascinava da anni. In aula c’erano tutti i suoi ex luogotenenti, curvi sui bastoni o annientati dall’Alzheimer. “Da generazione in lotta a generazione in rotta”, avrebbe scritto Buzzati se fosse stato lì.

Quando a Milano vincevano i cattivi: Turatello, Epaminonda, Vallanzasca e la mala degli anni 70, scrive Mauro Colombo il 06/04/2018 su Milano Città Stato. Mauro Colombo. Avvocato prima e responsabile di redazione per una casa editrice giuridica oggi, da sempre appassionato di storia e storie milanesi, ho cominciato a collezionare libri e foto sulla mia città, fino a quando è nata l'idea di collaborare con alcuni siti internet di storia locale. Tre anni fa ho aperto un blog e una pagina facebook ("milanoneisecoli"), dove racconto gli aneddoti, i luoghi, i fatti, i personaggi di Milano. Da due anni collaboro con un'associazione culturale nell'allestimento di mostre tematiche sulla città per conto del Comune di Milano. Dopo la violenza spregiudicata profusa a piene mani dalla Banda Cavallero nel 1967 in largo Zandonai, gli anni settanta si presentarono con il loro tragico biglietto da visita. Anni di piombo, anni irrequieti, non solo per le violenze politiche e le contestazioni di piazza, con scontri e morti, ma anche per l’incattivirsi della criminalità, più vera e cruenta rispetto a quella alla quale ci si era abituati in precedenza. Milano era da considerare una vera metropoli, una città europea, in espansione urbanistica, con un milione e settecentomila abitanti (il picco più alto), punteggiata di fabbriche e banche. Insomma, la città più ricca nel ricco nord della penisola. Qui si concentravano lusso, soldi, potere, e di conseguenza, malavita. Come funghi velenosi erano spuntati night club e bische, dove di notte venivano spesi a fiumi i soldi che di giorno erano stati rapinati nelle banche, o estorti con i sequestri di persona. Come se non bastasse, prende forma in quegli anni il terrorismo. E subito dopo, ecco la mafia e la ‘ndrangheta calabrese. La ferocia dilaga per le strade, il sangue scorre a fiumi, non meno di cento morti ammazzati all’anno (tra il 1970 e il 1980). Non a caso imperversano le pellicole cinematografiche del genere poliziottesco. Milano odia, la polizia non può sparare; Il giustiziere sfida la città; Milano violenta, questi i film proiettati sul grande schermo, tanto perchè i milanesi non scordassero cosa li attendeva fuori dalle sale, nella vita reale, quella quotidiana. Uscire di giorno, in certe zone o in certi momenti, poteva essere un azzardo; di notte, una follia. Aumentano i cittadini con il porto d’armi, gli imprenditori viaggiano veloci su Alfa blindate, molti si trasferiscono nelle nuove cittadine satellite nate come risposta alla domanda di maggior sicurezza e benessere. Tra i numerosi protagonisti negativi di quegli anni maledetti, il podio spetta probabilmente a Turatello, Vallanzasca, Epaminonda. Francesco Turatello, detto Francis, inizia a dedicarsi alla gestione della prostituzione e delle bische clandestine all’alba degli anni settanta. Francis, la faccia d’angelo, espande ben presto i suoi traffici dedicandosi alla cocaina, che vende ai facoltosi clienti delle sue bische. Presto mette in piedi una agguerrita banda, composta da un centinaio di uomini senza scrupoli. Figuri come Michele Argento, Franchino Restelli, Gianni Scupola, spadroneggiano in città facendo il bello e il cattivo tempo, terrorizzando cittadini e beffando le forze dell’ordine. La banda Turatello si specializza nei sequestri di persona, un affare redditizio e molto sfruttato. Solo a Milano, se ne contarono 100 nel decennio ’73-’84. La carriera di Turatello termina con l’arresto in Cordusio nel 1977. La sua vita poco dopo, in carcere, nel 1981. Renato Vallanzasca nasce a Milano, cresce tra via Porpora e il Giambellino, diviso fra le due famiglie che il padre aveva messo in piedi. Renato si mostra subito ribelle alle regole e attratto dai furti. Presto conosce il malsano ambiente del riformatorio e poco dopo quello ancora più avvelenato del carcere. Vallanzasca, assieme alla banda che i giornalisti avevano battezzato “della Comasina”, ma anche “dei drogati”, innalza il livello della violenza che Milano subisce quasi impotente. Con gli uomini della sua batteria, tra i quali Mario Carluccio, Franco Carreccia, Rossano Cochis e Antonio Colia (il “Pinella” mago delle fughe in auto a cento all’ora), sottomette la città terrorizzandola con rapine cruente e sequestri di persona. Il 17 novembre 1976, una data indimenticabile nel calendario dei giorni neri per Milano, Vallanzasca e la sua banda tentano l’assalto all’esattoria di piazza Vetra. Accorrono gli equipaggi di due volanti allertate dal direttore dell’adiacente Cariplo. E’ il giovane vicebrigadiere Giovanni Ripani ad intimare per primo l’alt. Presto nasce un fulmineo conflitto a fuoco: un malvivente muore subito, il poliziotto poco dopo, in ospedale. Un secondo delinquente armato è affrontato dall’agente Domenico Fraina, accorso per dar manforte al capopattuglia ormai esangue. Anche in questa sparatoria il rapinatore ha la peggio, finendo al Policlinico in gravi condizioni. Gli altri esponenti della banda fuggono disperdendosi. Grande clamore mediatico ha più tardi il sequestro ai danni della famiglia Trapani, con il rapimento della figlia adolescente. Infine, Angelo Epaminonda, “il Tebano”, l’ultimo protagonista malavitoso prima della grande svolta degli anni ottanta. Siciliano, comincia la carriera criminosa nelle bische di Turatello, e quando questo è arrestato, cerca in tutti i modi di ereditarne potere e ricchezza. Presto, aiutato dalla mafia, passa al redditizio mercato degli stupefacenti, e si circonda di una nutrita schiera di delinquenti drogati detti gli Indiani, o Apaches. Tra loro, spiccano Angelo Scaranello, Demetrio Latella, Santo Mazzei. Epaminonda rende Milano il principale snodo europeo di smercio di cocaina ed eroina, primato che ancora oggi è riconosciuto alla città. Sconvolge la città nel 1979, con la strage di via Moncucco, che rende Milano simile alle violente città americane. Arrestato nel 1984, passa involontariamente lo scettro ai capi di mafia, ‘ndrangheta, e organizzazioni straniere. Con la sua uscita di scena, la mala milanese, quella nata come Ligera, con Barbieri e Ciappina negli anni quaranta, quella quasi eroica della rapina del 1958 di via Osoppo, quella prima dei banditi gentiluomini del calibro di Gesmundo e De Maria, poi violenta e sanguinaria degli anni settanta, finisce per sempre.

 Milano, Vallanzasca e io. Rapine, sequestri, omicidi. Era la Banda della Comasina, guidata da uno dei banditi più mediatici d’Italia. Il suo ex braccio destro, Rossano Cochis, racconta quegli anni di sangue e follia: «Bische, night club, coca, auto, donne e mitra. Eravamo una miscela esplosiva», scrive Piero Colaprico il 23 marzo 2017, su "L'Espresso". Ancora scuote la testa e ride, Rossano Cochis, al ricordo: «C’era un pugile, uno che ha vinto la medaglia alle Olimpiadi e ha conquistato anche il titolo mondiale, e lo portavo io in macchina a una bisca. Era così contento, in quel periodo, che s’è messo a ridere e a gridare dal tettuccio aperto della Porsche il suo slogan e il suo programma. «Per tre cose vale la pena vivere, la coca, la figa e la malavita», così continuava a ripetere nel vento. Eh, insomma, a volte penso che sia un po’ la sintesi di quei nostri anni. Il bandito più carismatico di Milano era Francesco Turatello, Francis Faccia d’Angelo, ed era lui, prima degli incontri di questo pugile, che faceva passare la voce, così nessuno poteva dargli nemmeno un grammo, e non si sgarrava, guai con il Francis». Erano gli anni Settanta, che per Cochis e i suoi compari si chiusero con sei mesi vissuti da mucchio selvaggio. Era il tragico ’76, consumato tra evasioni dalle carceri, sparatorie mortali, sequestri di persona, guerre di gang. Con lui, Renato Vallanzasca e gli altri della banda della Comasina trasformati in un «pericolo pubblico». Oggi, dopo trentasette anni di detenzione, «venticinque sempre in cella», Cochis, detto Nanun, è tornato nelle strade e ha accettato d’incontrarci nello studio del suo avvocato, Ermanno Gorpia.

Arrivato ai settant’anni d’età, l’ex rapinatore conserva la faccia di uno con il quale sarebbe meglio non litigare. Un piccolo dettaglio aiuta a capire: da semilibero era stato mandato a lavorare in una comunità di recupero. Là era facile che qualche parente si presentasse con un paio di amici, per riprendersi i figli fermati per furto. Da quando è toccato a Cochis aprire la porta della comunità agli estranei, quelle scene sono radicalmente cessate. La notizia ci era arrivata da un magistrato di sorveglianza e gli chiediamo se corrisponde al vero: «Sì, andava così, gli spiegavo chi ero, gli motivavo perché insistere non sarebbe servito e che era meglio pensare al bene dei ragazzi, quindi se ne andavano. Strano che proprio uno come me dovesse fare l’uomo d’ordine, eppure…».

Eppure, è un sopravvissuto. Gli altri del gruppo originario? «Ormai», risponde, «sono tutti morti, a parte me e Renato», il bel René, tornato clamorosamente dietro le sbarre per una storia di mutande rubate in un supermercato. E come cominciò la loro storia funesta? «Ero nel carcere di Lodi, in attesa di giudizio, per una rapina che non avevo commesso, e grazie alla legge Valpreda, che stabiliva un tetto massimo alla carcerazione preventiva, uscii. Ero stato rappresentante di un grissinificio vicino a Bergamo, provai a tornare, ma mi dissero “Ti riprendiamo, però niente stipendio, solo provvigioni, se ti va”. Non era un ricatto? Decisi di trasferirmi a Milano e con un altro conosciuto in carcere, Vito Pesce, frequentavo il bar gelateria Adriana, in via Padova. C’erano anche Pino Digirolamo, Franco Cornacchini, Antonio Rossi, Enrico Merlo, insomma, una batteria di rapinatori. Tramite un altro, che è vivo e non nomino, facemmo qualche colpo a Milano, a Vimodrone, poi la Edilnord di Brugherio, la banca del Monte dei Paschi di Siena a Milano 2, che poi rifeci con Renato Vallanzasca nel ’76, appena evaso, e tutt’e due le volte c’erano in cassa esattamente dieci milioni di lire. A proposito, mentre nel ’76 tornavamo nel nostro imbosco, che era a Milano San Felice, ci facemmo al volo anche un’altra banca a Pantigliate e il giorno dopo sul giornale c’era un titolone: “Arrestati tre minorenni, li hanno riconosciuti”. Uhè Renato, leggi, e che cosa facciamo?, dissi. Quando ci presero, chiamammo il giudice Gatti. “Quando l’impiegato è scappato è caduta la macchina per scrivere, in paese c’era un funerale”, insomma gli spiegammo che eravamo stati noi a colpire, così i minorenni vennero scarcerati e noi ci prendemmo 14 anni, anche perché era stata ferita una guardia giurata. Avevamo portato con noi uno che ripeteva “Non me la sento, non me la sento”, sudava freddo, allora gli ho detto di smetterla e di non preoccuparsi, che avremmo fatto tutto noi. Bastava che lui tenesse sotto tiro “il” guardia e stesse calmo. Infatti, ha puntato la pistola e gli ha tirato, e l’ha preso alla gamba, ma si può? Che gente…».

Più si ascolta il flusso di parole di Cochis, più fluisce il magma incandescente di quell’epoca di morte perennemente in agguato. Sembra quasi incredibile confrontare le epoche, ripensare a quanto alto fosse il tasso di violenza quotidiana, spicciola o mortale, comunque inevitabile: «Io fui arrestato per il sequestro e l’omicidio di Carlo Saronio, ma non c’entravo nulla, e lo sanno tutti. Quello che se la cantò, il suo amico, il Fioroni, lo disse espressamente a verbale. “Ho incontrato Cochis insieme con Carlo Casirati, che ha ucciso Saronio con l’iniezione sbagliata, e gli abbiamo proposto di fare il sequestro con noi, ma ha rifiutato”. Chiaro, no? Invece mi mandò a chiamare il magistrato Gerardo D’Ambrosio. “So che lei sa tutto, perciò se lei parla, esce con me da San Vittore stasera stessa. Se invece fa l’omertoso, le spicco il mandato di cattura per sequestro e omicidio”, disse. Beh, gli ho scaraventato addosso la scrivania e m’hanno portato in isolamento sotto il Primo Raggio. Il giorno dopo mi consegnano davvero il mandato di cattura. Allora m’arrabbio e vado sui tetti del carcere, quando mi acciuffano, mi portano a Pisa, poi alla Capraia, poi alla Spezia, da dove evado d’estate, con le lenzuola. E così, aprendo una macchina posteggiata grazie alla chiave della scatoletta del tonno, arrivo a Voghera, poi a Milano, dove ritrovo Vito Pesce e, con lui, Renato Vallanzasca. L’avevo già conosciuto in carcere, per la rapina che aveva fatto al supermercato di via Monterosa. Così, da evaso, andai a dormire con lui, che allora stava con Patrizia Cacace, dividevamo il lettone matrimoniale. E lì per lì, con Marco Carluccio, con Antonio Colia detto Pinella e un bergamasco, Silvio Zanetti, di cui adesso posso fare il suo nome, ho saputo che è morto, nacque l’anima della banda Vallanzasca, quelli che io chiamavo i muli, perché tiravamo gli altri. In questi ultimi anni è apparsa sui giornali Antonella D’Agostino, che poi ha sposato Renato, ma nessuno di noi sa chi è. Anzi la prima volta che l’ho vista era il ’90, o il ’91, ed era la donna di un certo Cicciobello».

Rapine e sparatorie si moltiplicano, un delirio di proiettili circonda la banda come un nugolo di mosche circonda i cadaveri. Oggi si ascoltano non pochi politici straparlare di «città della paura» o commentare il ruolo dei giornalisti, ed è come se si fosse smagnetizzata la memoria: «Noi non evitavamo il conflitto a fuoco, tutto qui». In che senso, Cochis? La spiegazione è brutalmente lineare: «Non c’era uno studio, un piano, niente. Noi arrivavamo su macchine rubate di grosse cilindrata, in cinque. Due uomini che entrano in banca, uno fa la cassaforte e l’altro i cassetti. Due che stanno in strada, con i mitragliatori, e uno fa da palo sulla porta. Sapessi quante volte arrivava una pattuglia e faceva velocemente inversione, noi tiravamo bene, in via Serra a Milano, quando andammo a fare le buste paga dell’Alfa Romeo, io e Mario Carluccio bloccammo da soli sette macchine della questura, e non so quanti caricatori abbiamo sparato. Sì, se penso a molte delle nostre azioni provo rammarico. E poi, guardami, è passata la mia vita, ma come è passata? In una gabbia, ecco come».

Una gabbia rimasta sotto i riflettori. La banda della Comasina, nonostante siano passati i decenni, non viene dimenticata: «L’avvocato Rosica, uno che ci difendeva, ci chiese un favore. Andammo dalle parti di piazzale Corvetto, dove abitava, e Renato rilasciò un’intervista a un giornalista amico dell’avvocato, uno che mi pare lavorava al “Corriere d’Informazione”. Ecco, Renato con le parole ci sa fare» e, da quel momento, diventa uno dei banditi più mediatici d’Italia, di quell’Italia in cui l’Anonima sequestri mette angoscia alle famiglie, il terrorismo incalza, Cosa nostra fa affari al nord (Luciano Liggio, capo della mafia, viene arrestato nel 1974 a Milano, in via Ripamonti) e si muore ammazzati in pieno centro, come accadde in piazza Vetra: «Era il novembre del ’76, eravamo andati là solo per un sopralluogo. L’obiettivo erano le esattorie comunali, ma non da fare quel giorno stesso. Infatti Franco Careccia cammina disarmato, c’eravamo resi conto che un’irruzione armata rischiava di diventare una carneficina, che era meglio filare il furgone Mondialpol e attaccare dopo che caricano le valigie, piazzando dietro il cinema Alcione una macchina di copertura. Dunque, per il sopralluogo ci sono Careccia, Carluccio e un marsigliese. I tre entrano nel bar all’angolo, che è di fronte a una banca e un impiegato chiama la questura, segnalando facce sospette. Così arrivano due volanti e l’agente Ripani scende e spara, colpisce Mario Carluccio al fianco, ma Mario spara a sua volta e centra Ripani con sei colpi, e nel frattempo un altro poliziotto, Zanetti, spara e prende Mario in fronte, e cade accanto a Ripani, sono lì, uno accanto all’altro, e in via Molino delle Armi riesco a caricare Pinella, il migliore di tutti noi, e Renato, e me li porto via. Renato diceva sempre che con me dietro e con Colia davanti sarebbe andato contro chiunque. Colia aveva carisma, lui aveva la batteria della Comasina, io quella di via Padova, Mario Carluccio i rapinatori della Brianza. Ci consideravamo un’élite, ma eravamo una miscela esplosiva. Renato era brillante, divertente, quando si lavorava era molto deciso, anche perché la sua megalomania era troppo forte, non lo faceva arretrare su niente. Tant’è vero che siccome ero stato nei paracadutisti avevamo pensato di attaccare la caserma a Pisa, per prenderci i Fal, non se n’è fatto niente perché avevamo troppa carne al fuoco».

Messi in cima alla lista dei ricercati, cominciano anche con i sequestri di persona. Il più citato è quello di Emanuela Trapani, che aveva sedici anni: «S’è detto anche troppo, lei stessa sa che non è stata trattata male. Una volta, per esempio, s’è lamentata che nella stanzetta dov’era chiusa vedeva la tv in bianco e nero, allora Renato l’ha portata dove stavano gli altri, davanti alla tv a colori e tutti si sono messi in testa il cappuccio per non essere riconosciuti, lei era l’unica a vedere il programma a volto scoperto». Possibile? Una scena che sembra tratta da un quadro di Magritte? «Oppure, un’altra volta s’è lamentata mangiava da schifo, e voleva la pizza, ma solo quella che fanno vicino casa sua. Renato ha detto va bene, ma ai tri or de not soo andà mii in quella pizzeria».

A Milano non s’è mai capito come nacque la guerra tra la banda Vallanzasca e la banda Turatello. Non si davano ombra, frequentavano gli stessi locali, uno del Lello Liguori in corso Europa, uno in piazza Santa Tecla, poi il famoso Derby del cabaret milanese di via Monterosa, un teatrino in Porta Romana dove si esibiva Gianni Magni, il William’s, il New Gimmy, che era di Turatello, e per ballare si andava al Parco delle Rose, ma solo in estate. Perché dunque spararsi addosso? Semplicemente perché esistono notti difficili che non si dimenticano: «Ero con Vito Pesce, venivamo via dalla latteria che aveva in corso Lodi Lia Zennari, era tardissimo, ma andammo giù al night che Francis Turatello aveva in piazza Cantore, a fianco della gelateria Pozzi. Dentro c’erano già Tigre e Spaghettino, io ero con le stampelle e avevo lasciato all’Isola la mia auto, con un mitra nel cofano. Non sapevo che c’era un casino in corso, perché Spaghettino aveva assaltato una bisca di Francis e il mio amico Vito nella stessa bisca aveva cambiato un assegno da 25 milioni per perdita di gioco. Quindi, poteva sembrare che c’entrasse, comunque li lascio a discutere, sono tutti amici, e vado tranquillamente a prendere la macchina, ma quando torno c’è Vito che esce tutto sballato. “Guarda”, ed è pieno di sangue. Allora tiro fuori il mitra e glielo do, lui corre alla porta del night e mitraglia verso le scale, poi salta su in macchina e filiamo. Mi dice che Francis ha acchiappato Spaghettino, gli ha aperto la gola e ha detto al Tigre di bloccare Vito, ma quello ha preso il coltello per tagliare il pane e gliel’ha infilato nella schiena. La lama gli era rimasta dentro, l’ha estratta, è tutta storta. “Rossano, mi dice, non farmi morire, vendicami”. Sono tornato indietro e ho sparato anch’io, sfiorando Turatello».

Da allora, le bande s’inseguono per farsi fuori, anche se nel night sia Pesce sia Spaghettino s’erano salvati: «Una volta ci arriva dritta che portano a Turatello i soldi delle bische, allora io, Renato e Tonino Furiato, che poi morirà nella sparatoria al casello di Dalmine, gli fottiamo tutti i soldi, e non ci siamo tenuti 5 lire, li abbiamo fatti arrivare ai detenuti: “Dite a Francis che stavolta prendo soldi, la prossima volta la pelle”, è il messaggio che lascia Renato. E quasi ci riusciamo in via Mac Mahon, quando vediamo due auto ferme davanti al bar della sorella dell’attrice Agostina Belli e riconosciamo Gianni Scupola e Spedicato. “Se ci sono loro, c’è anche Francis”, allora torniamo indietro, nel frattempo si sono spostati, ma li affianchiamo, Renato si sporge dal finestrino e gli tira due cannonate con la 357 Magnum e filiamo. E l’unico che salta giù dalla macchina chi è? Francis, con la mitraglietta Skorpion, e ci corre dietro. All’altezza di via Caracciolo sento un colpo alla testa, “Renato forse è finita” dico, invece erano pezzi di vetro. La strada fa un saltino, quello mi ha salvato. La sera ho contato tutti i buchi che aveva fatto nella carrozzeria, pareva un gruviera. Quando abbiamo fatto pace, Francis voleva sapere, “Ma chi era quell’autista della madocina?”».

La banda Vallanzasca finisce la sua corsa nel febbraio del ’77: «Renato era andato nella bergamasca per curare un nipote del miliardario Pesenti e io, con Tonino Rossi e Merlo a Torino, per un nipote di Pirelli. Volevano mettere a segno due sequestri e scappare dall’Italia. Renato quando guidava faceva lo scemo, sorpassa a destra, cambia corsia, così qualcuno segnala un auto con tre drogati a bordo e la polizia va a bloccarli al casello. Un agente tiene il mitra puntato, Renato scende dalla macchina e invece dei documenti, come faceva sempre, prende un libretto d’assegni, l’agente istintivamente abbassa il mitra e lui gli spara al volo, centrandolo al cuore. Scende anche Furiato, che spara all’agente a terra, ma dall’altra auto rispondono. Furiato muore, Renato che cercava di prendere il mitra all’agente morto viene centrato al sedere. Riesce a scappare a piedi e vado io a prenderlo. Lo portiamo a fare le lastre in un centro diagnostico di Milano, poi a Roma, dove abbiamo un contatto con un medico. Ma il destino è strano».

Saranno presi tutti, ma non grazie alle indagini: «Ci sono due sorelle che hanno ciascuna un amante, una sta con il medico che cura i criminali, e l’altra con un colonnello dei carabinieri, capito che intreccio? Poi il medico è morto, l’hanno riconosciuto solo dallo stetoscopio, ma non siamo stati noi».

Quel «noi» della Comasina s’è perso. Antonio Colia, uscito dal carcere, è morto in un incidente di moto, e Cochis non è potuto andare al funerale: «Ho il divieto di frequentare pregiudicati e là, per salutarlo, c’era tutta la Milano di quegli anni», dice e, per quanto possa apparire strano a chi non conosce la mala, Cochis diventa talmente triste che smette di parlare.

LE ALTRE MAFIE.

Le nostre mafie sono tra le prime dieci più potenti al mondo, scrive il 16 Febbraio 2019 Vincenzo Musacchio, giurista e presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise, su articolo21.org. Dopo la seconda guerra mondiale, con l’inizio della ricostruzione post bellica e il boom economico, la criminalità organizzata ha potuto ottenere molto potere in tutto il mondo e ha iniziato a gestire un’economia cd. parallela, favorita molto anche dalla globalizzazione e dal web. Gli Stati hanno utilizzato i propri bilanci in vari settori tranne che per combattere la criminalità organizzata che di conseguenza ha aumentato sempre di più il suo potere economico. Molte organizzazioni criminali hanno continuato a crescere e alcune di queste sono così potenti che controllano l’economia globale e la politica e costituiscono oggi una tra le più gravi minacce nel mondo.

Il Messico ha i più grandi cartelli di droga al mondo e il cartello di Sinaloa li governa tutti. Quest’organizzazione criminale riesce a fatturare oltre 10 miliardi di dollari l’anno ed entra facilmente nei gangli dello Stato condizionandolo quasi totalmente. La Sinaloa, tra le più potenti organizzazioni criminali che si occupa di droga per la costante produzione e fornitura di cocaina, marijuana, eroina, e metanfetamina negli Stati Uniti e in almeno sessanta altri paesi in tutto il mondo. Il cartello di Sinaloa è ormai imbattibile perché riesce a combinare in maniera perfetta il traffico di droga con un’eccellente gestione aziendale di tipo economico.  Quest’organizzazione criminale, tuttavia, va ben oltre il denaro, poiché ha una rete efficace di affiliati in una gerarchia collegata a tutti i suoi mercati in tutto il mondo. La figura più importante del cartello di Sinaloa era Joaquin Guzman detto “El Chapo”, considerato il più potente trafficante di droga al mondo dopo Pablo Escobar. Nonostante “El Chapo” sia detenuto, il suo cartello non solo sopravvive ma espande ulteriormente il suo potere criminale nel mondo. Questa mafia usa la corruzione per contrattare con i vari Governi e la forza militare per liberare la concorrenza. Famoso il suo modo di corrompere: “Oro o piombo”?

La mafia russa è un’altra organizzazione criminale molto potente e affonda le sue radici all’interno della vecchia Unione Sovietica e legami con il governo, anche dopo l’avvento di governi democratici. Questa mafia può contare su affiliati sparsi in oltre cinquanta paesi del mondo. La loro roccaforte in Russia è stata fortificata quando hanno ottenuto il controllo di una buona parte dell’economia dopo la morte di Joseph Stalin. Hanno un’enorme potenza di fuoco e abbastanza uomini da incutere terrore anche dal punto di vista militare potendo mettere in crisi anche la sicurezza nazionale. La mafia russa fa affari in vari settori in ogni parte del mondo. Questo impero sembra invincibile con la Russia stessa che riconosce di avere oltre cinquemila organizzazioni criminali operanti a pieno regime nel proprio territorio. Il capo mafia indiscusso è Semion Mogilevich, tra uomini più ricercati dall’FBI, è un uomo potentissimo che vive liberamente in Russia, pur essendo ricercato in quasi tutti i paesi del mondo.

Altro gruppo criminale molto potente è il Mara Salvatrucha, c.d. “MS-13”, di provenienza salvadoregna. Quest’organizzazione nasce come banda di strada ma nel tempo diventa così violenta da influenzare la politica d’immigrazione degli Stati Uniti negli anni ’70. Si è sviluppata a Los Angeles e si è man mano diffusa al resto degli Stati Uniti, Canada e America centrale potendo contare oggi su circa 70.000 affiliati che la rendono una delle più grandi minacce per la sicurezza dell’America. Donald Trump li chiama “animali” e a loro imputa il motivo principale della sua politica d’immigrazione ostile verso gli immigrati centroamericani. L’amministrazione Obama ha collocato loro come la prima organizzazione criminale transnazionale dopo la loro affiliazione con cartelli della droga. Le loro attività principali negli Stati Uniti sono la distribuzione di droga, sequestri di persona, racket e soprattutto l’attività di killeraggio su commissione. Usano uccidere, rubare, stuprare e hanno il controllo di vari territori. Questo gruppo criminale è composto di una popolazione di appartenenza giovanile che giura lealtà a vita. La loro consistenza numerica non diminuisce mai. Interagiscono facilmente con le aree suburbane da cui prelevano i futuri adepti. La maggior parte dei cartelli messicani di droga ora li assume come killer su commissione.

Ibrahim Dawood, il capo assoluto della malavita di Mumbai ha creato un’organizzazione criminale che assume il nome di “D Company” ed estende le sue attività criminali in tutto il mondo. Dawood ha usato quest’organizzazione per eliminare a uno a uno tutta la concorrenza della malavita criminale esistente a Mumbai. Essendo un musulmano, non era apprezzato dalla maggior parte dei rivali indiani e la sua alleanza con i criminali più potenti al mondo è stata la chiave per ottenere il controllo di gran parte dei territori dell’India. Si unì con Al Qaeda per bombardare Mumbai nel 1993 diventando così il più grande nemico del governo indiano. La “D Company”, tuttavia, ha affari in ogni parte del globo: a Londra, Dubai, Singapore e in molti paesi africani ed asiatici. Quest’organizzazione è leader nel contrabbando di pietre preziose e negli ultimi anni si occupa anche di traffico di persone e di organi umani. Ha fornito quasi il 20% dei farmaci europei prima che le forze congiunte tra l’India e gli Stati Uniti li costrinsero ad abbandonare il mercato. Si stima che quest’organizzazione criminale possa guadagnare più di 5 miliardi di dollari l’anno dai sui commerci illegali, nonostante il suo leader sia latitante da oltre trent’anni.

La più potente mafia italiana è senza dubbio la ndrangheta. Il suo fatturato annuo si aggira intorno ai sessanta miliardi di euro l’anno. Si tratta di una criminalità altamente organizzata coinvolta in quasi tutti gli affari economici nel mondo. Il traffico sia di droghe sia di persone è oggi la sua principale fonte di reddito. La ‘ndrangheta, cioè la mafia calabrese, è in realtà la mafia più invisibile e impenetrabile che esista. Per lo stesso motivo, è più potente di quanto sia mai stata un’organizzazione criminale in Italia e aggiungerei in Europa. Muove il 90% della cocaina in Europa. Possiede un’organizzazione specifica di riciclaggio di denaro e penetra spesso lecitamente nel mercato finanziario ripulendo il denaro sporco di altre associazioni mafiose (camorra, Cosa Nostra, mafia foggiana). La ‘ndrangheta è una potenza economica di livello mondiale ed è proprio questo potere che la rende così influente e importante. Quest’organizzazione criminale è penetrata in ogni singolo affare finanziario del pianeta. Finanzia addirittura i partiti politici e determina spesso anche scelte legislative di enti centrali e locali pertanto sarà molto difficile sradicarla. È una specie di alleanza con patto di sangue di 150 famiglie tutte connesse fra loro e tutte legate da vincolo di parentela stretto. C’è una “cupola” ma solo con l’unico scopo di risolvere le controversie tra famiglie. Ogni volta che abbatti una famiglia, un’altra occupa il suo posto. E’ come quando tagli la coda alla lucertola dopo poco la stessa rinasce e più resistente di prima.

Altra mafia ancora molto potente è “Cosa Nostra” siciliana. E’ la più antica mafia italiana che si occupa di prostituzione, traffici di armi illegali e traffico di droga. Si estese al resto dell’Europa e dell’America diventando la madre di tutte le mafie nel mondo. Ai tempi del famigerato boss mafioso Totò Riina il potere di questa mafia era talmente forte da indurre parte delle istituzioni italiane a contrattare con quest’organizzazione mafiosa. Il declino di Cosa Nostra comincia però proprio con la strategia stragista e con le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Oggi, Cosa Nostra non è più così forte, e si occupa di estorsioni, d’infiltrazioni negli appalti e di traffico di stupefacenti e persone. Tuttavia, non dobbiamo mai dimenticare che ancor oggi quest’organizzazione criminale conta oltre 250.000 affiliati.

La Yakuza è la mafia più potente in Giappone. La loro ex immagine di uomini tatuati con le dita tagliate lentamente scompare e i loro metodi si sono civilizzati, ma “Yamaguchi Gumi” è ancora la stessa vecchia Yakuza. Quest’associazione criminale controlla la maggior parte del settore dell’intrattenimento giapponese controllando le produzioni in questi tutti i mass media nazionali. E’ una delle poche mafie ad avere una rete organizzata di accompagnatori professionisti, esperti informatici, cambiavalute e casinò utilizzati per controllare ogni settore dell’economia, compresa la Borsa degli Affari. Sono senza ombra di dubbio uno tra i più pericolosi gruppi criminali poiché riescono a estorcere dirigenti aziendali per influenzare i prezzi azionari nei mercati. La Yakuza non è illegale secondo il Giappone, no, è solo un gruppo di criminali che fanno cose buone. Se i vari clan della Yakuza si unissero tra loro, costituirebbero certamente una delle mafie più potenti al mondo. Tuttavia, i molti gruppi di Yakuza tendono a operare in modo indipendente. La Yakuza può contare su un’enorme potenza di fuoco e su nuovi e lucrosi affari che riguardano il riciclaggio delle scorie nucleari di Fukushima.

Gli Hells Angels, secondo l’FBI, non sarebbero associabili alla struttura propria della criminalità organizzata, anche se vi è chi ritiene siano assimilabili per molti aspetti alla Yakuza con l’unica differenza che sono motociclisti. Hanno una storia che risale agli anni ’40 a Los Angeles. Pubblicamente, essi appaiono come un gruppo di motociclisti civilizzati senza legami con il crimine organizzato. Tuttavia, gli Hells Angels sono il più grande gruppo criminale composto di motociclisti nel mondo. Tra i loro affari vi è l’approvvigionamento di armi e droghe in Australia, Europa e Nord America. Hanno nightclub legali, casinò e altre imprese commerciali che sono utilizzate per riciclare i proventi illeciti. Le loro controparti europee sono le più violente a causa dell’alta concorrenza di altre bande motociclistiche, soprattutto in Spagna e nei Paesi Bassi.

Le Triadi sono il più grande gruppo di criminalità organizzata asiatica dopo la Yakuza. Anche questa mafia è costituita da molte piccole organizzazioni con una gerarchia altamente decentrata. Tra i più potenti gruppi vi è il Sun Yee con oltre 50.000 membri. L’appartenenza totale supera i 100.000 affiliati ma i numeri sono difficili da confermare poiché ogni gruppo conserva autonomia e indipendenza operativa dal leader della triade. La loro struttura non li rende meno pericolosi, spostano grandi quantità di droghe soprattutto cocaina ed eroina per la Cina che rappresenta il 12% del consumo globale di eroina. L’espansione globale delle triadi è stata ampiamente aiutata dalla presenza di popolazioni indigene cinesi a Singapore, Taiwan, Vietnam e Corea. Si occupano anche di tratta di esseri umani che comporta il contrabbando di quasi 100.000 immigrati clandestini negli Stati Uniti, costringendoli a lavorare in nero a loro vantaggio. Hong Kong, attualmente ospita una delle due triadi più potenti in Cina.

La Camorra rientra tra le più potenti mafie dedite alle estorsioni nel mondo. Sono noti per essere molto violenti, estorcere le imprese, in particolare negozi di proprietà straniera. Si occupa anche di droghe e di traffico di persone e armi. La posizione strategica della Campania ha aperto le porte alla loro espansione internazionale nei mercati della droga specialmente in Spagna. Hanno infiltrazioni politiche a livello decentralizzato negli enti locali. La Camorra afferra ogni opportunità per fare affari. Il loro stile criminale è piuttosto unico, gli uomini gestiscono la violenza mentre le donne gestiscono la comunicazione, la contabilità e le connessioni con la politica. Pur mantenendo il loro quartier generale nei sobborghi poveri, sfruttano ancora ricchi quartieri in quasi tutti i paesi Europa, tra cui il Regno Unito e la Germania. Negli ultimi decenni si sono occupati molto di traffico di rifiuti pericolosi. Lo smaltimento illecito dei rifiuti è diventato per la Camorra casalese una vera e propria miniera d’oro, meglio della droga e delle estorsioni. E per tanti anni è stato un business di cui si sono occupati in esclusiva i clan camorristici dei Casalesi.

Da questa breve analisi emerge per noi italiani un dato molto preoccupante e preoccupante. Nella classifica delle prime dieci mafie più potenti e pericolose al mondo ci sono le nostre tre mafie. Questo cosa significa? Per quanto riguarda lo Stato italiano deve riconoscersi oggettivamente che non riesce a infliggere un colpo decisivo alle mafie, a mio giudizio, essenzialmente per una duplice serie di fattori. Il primo riguarda sicuramente la presenza di soggetti affiliati o vicini agli interessi dei clan all’interno delle nostre istituzioni sia nazionali sia, in special modo, locali. Peraltro tale assunto è suffragato anche dalle numerose inchieste giudiziarie che hanno fatto luce su questo fenomeno ma che quasi mai hanno conquistato l’attenzione meritata. Il secondo fattore è certamente tra i più importanti è di valenza culturale. Serve cioè una presa di coscienza di tutti i cittadini affinché la meritocrazia prevalga sulla politica clientelare, sulla dilagante corruzione, terreno fertile per la proliferazione delle nostre mafie che sempre più attraggono soggetti bisognosi di lavoro di protezione. Per combattere la mafia, lo Stato italiano dovrebbe ripensare se stesso da un punto di vista politico, economico, sociale e culturale, riguardo ai suoi vari territori e tra i territori stessi. Una tale riflessione dovrebbe coinvolgere lo Stato ma soprattutto i cittadini (che lo compongono!) e sicuramente avrebbe bisogno di condizioni economiche favorevoli.

Oltre all’Ndrangheta adesso l’Italia sta diventando la base logistica delle mafie straniere, scrive Andrea Pasini il 19 dicembre 2018 su "Il Giornale". Ad Oggi in Italia non ci sono solo gli affari della 'Ndrangheta, della camorra, di Cosa Nostra, perché il nostro paese si è trasformato in un importatore di associazioni criminali straniere. A raccontalo è l’ultima relazione della Direzione distrettuale Antimafia dove si spiega con dati alla mano che ogni 4 indagati per 416 bis 1 è straniero. Le gang cinesi a Nord, i nigeriani e i russi nel Centro-Sud e la mafia albanese che coprono tutta la penisola. Gestiscono il narcotraffico, la tratta degli esseri umani, la prostituzione e infettano l’economia con il riciclaggio di danaro sporco. E nel frattempo si associano ai calabresi, siglano patti di non belligeranza con i siciliani, lavorano insieme ai pugliesi e fanno da manovalanza ai camorristi. Non ci sono solo i tentacoli delle mafie italiane a fare il bello e il cattivo tempo in tutta Italia isole comprese ma adesso si sono aggiunte le mafie estere. Non ci sono solo gli affari della ‘ndrangheta e di cosa nostra ad imperversare dalla Lombardia alla Sicilia. Al contrario, invece, dal 2017 fino ad oggi l’Italia si è trasformata in importatrice di associazioni criminali straniere. A raccontarci tutto questo è l’ultima relazione della Direzione Nazionale AntiMafia. Si racconta di come la ‘Ndrangheta sia ormai stabilmente presente in tutti i settori nevralgici del nostro paese, aggiungerei per nostra sfortuna. Ma quello che desta maggiore sconforto è proprio il fatto che nella relazione gli investigatori analizzano nel dettaglio gli affari sul suolo italiano delle mafie straniere in continua crescita. Già negli anni precedenti, per la verità, gli analisti della Dna avevano dedicato alcuni paragrafi delle relazioni alle mafie extra italiane. Questa volta, però, le pagine utilizzate per raccontare gli affari delle mafie estere sono molto più numerose. Il motivo sono i numeri: i quali ci dicono che praticamente ogni quattro persone che le procure antimafia della Penisola hanno indagato per 416 bis, ce n’é almeno una non italiana. Una proporzione in continua crescita che confermano come le associazioni criminali straniere siano ormai la quarta magia d’Italia. Abbiamo gli albanesi che ormai fanno sinergia criminale con i calabresi. La mafia albanese ha di fatto acquisito il totale controllo della rotta balcanica per trasportare armi e droga. Ma non solo. Perché da qualche tempo gli investigatori si sono accorti di una novità: gli albanesi hanno conquistato i due estremi dell’Atlantico dal Sudamerica, da dove partono i carichi da centinaia di chili di cocaina colombiana, ai porti del Vecchio Continente, dove il prodotto viene distribuito ai compratori. In particolare spiegano gli analisti della Dna nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti, tali gruppi criminali sono riusciti a stabilire propri referenti di fiducia in Spagna, nei Paesi del nord Europa e del Sud America, riuscendo ad assicurarsi un ruolo da protagonisti nella gestione di tali traffici delittuosi, secondo una specifica strategia che gli consente di gestire agevolmente l’acquisto, il trasferimento, la custodia e la vendita di notevoli quantitativi di cocaina proveniente direttamente dai predetti Paesi. Un’attività quella della gestione logistica della traffico di cocaina su scala mondiale in cui Tirana ha ormai sostituito i calabresi. Poi abbiamo i russi. L’allargamento dei confini dell’Ue ha accresciuto gli appetiti delle mafie russe.

Tale scenario annota la Dna ha rappresentato per le organizzazioni criminali russe un’occasione per espandere le proprie attività criminali lungo due direttrici: da una parte le attività illegali, quali il traffico di stupefacenti e di armi, il contrabbando di tabacchi e i reati predatori; dall’altra le infiltrazioni nelle attività imprenditoriali legali, attraverso il riciclaggio degli ingenti profitti delittuosi anche in Italia, attraverso appunto investimenti immobiliari, strutture commerciali e nei più famosi centri cittadini, a cominciare dalle località balneari. In pratica, stanno infiltrando l’economia italiana riciclando il proprio denaro. Poi ci sono i mafiosi cinesi. Il vero settore in cui si muovono i cinesi, però, è ovviamente quello finanziario: un ambito al quale si dedicano i colletti bianchi dei clan dagli occhi a mandorla, ormai completamente inseriti nel tessuto italiano. Recenti acquisizioni info investigative si legge sempre nella relazione sembrano confermare l’operatività, in tale ambito, della cosiddetta terza generazione, cui appartengono liberi professionisti ed imprenditori di origine cinese, nati in Italia, dediti a reati di natura economico-finanziaria. Attraverso tali figure professionali, la comunità cinese si conferma capace di operare anche nel reimpiego di capitali illeciti per finanziare attività illegali e speculazioni lecite, quali l’acquisto di immobili, di esercizi commerciali e di imprese in stato di dissesto, risanate con l’utilizzo di forza lavoro clandestina a bassissimo costo. Un’infiltrazione continua dell’economia italiana, un enorme giro di denaro che alla fine torna in madre patria. Gli investigatori, però, hanno documentato come i cinesi utilizzino sempre meno i circuiti tracciabili per movimentare i propri capitali. Poi passiamo alla mafia Nigeriana una della mafie meno conosciuta ma sempre più forte e feroce. Questa mafia si sta sviluppando con sempre maggiore forza nel centro- sud Italia. Questi clan africani stanno stringendo legami con la camorra e con L’Ndrangheta.

A dettare legge tra i clan africani ci sono proprio i nigeriani di Blak Axe, l’ascia nera, nata negli anni ’70 all’università di Benin City come una confraternita di studenti. All’inizio era una gang a metà tra un’associazione religiosa e una banda criminale, che stabiliva riti d’iniziazione e imponeva ai suoi affiliati di portare un copricapo, un basco con un teschio e due ossa incrociate, come il simbolo dei corsari. Adesso si è trasformata in una vera e propria piovra, con i suoi capi, i suoi affari e i suoi traffici protetti dalla più invulnerabili delle leggi: l’omertà. Quanto ai sodalizi nigeriani confermano gli analisti si tratta di gruppi fortemente caratterizzati dalla comune provenienza etnico-tribale dei suoi membri. Tali elementi garantiscono a ciascun sodalizio un’elevata compattezza interna che ne consente un’efficace operatività nonostante la ricorrente suddivisone in cellule, attive in diverse aree territoriali nonché il riconoscimento dei caratteri dell’associazione mafiosa in diversi procedimenti penali. Tali prerogative hanno consentito alla consorteria criminale di affrancarsi dall’assoggettamento ad altri gruppi criminali e di raggiungere una certa autonomia nei traffici perpetrati, nonché di intrattenere proficui rapporti anche con la criminalità organizzata autoctona, come dimostrano alcuni recenti sequestri di hashish proveniente dal Marocco e destinato alle cosche ‘ndranghetiste e ai clan camorristici. Ed in fine abbiamo i sudamericani. Le mini gang studiano da narcos. Questi sono formate da piccoli clan composti quasi sempre da giovanissimi. Gang queste nate per emulare le gesta delle bande ispano-americane. Proliferano nelle periferie delle grosse città del Nord, dettano legge in intere zone dei quartieri in cui vivono, finiscono sempre più spesso sulle pagine dei giornali per episodi cruenti. La presenza di soggetti provenienti dal Sudamerica si spiega nella relazione della Direzione AntiMafia è finalizzata principalmente all’approvvigionamento del narcotico, in particolare cocaina, a prezzi maggiormente competitivi, grazie ai contatti diretti con i fornitori nei Paesi d’origine. Le gang di periferia, insomma, hanno già iniziato a smerciare droga e dai quartieri più lontani puntano al centro delle città. I baby criminali, in pratica, sono pronti a trasformarsi nei narcos del futuro. Solo che non siamo a Medellin e nemmeno in Colombia, e questa non è una serie di Netflix: sono le periferie italiane dove alle mafie autoctone si sono ormai affiancate quelle di mezzo mondo. Il risultato è un cocktail esplosivo, un’internalizzazione del crimine che parla mille lingue e non sembra conoscere argini. E questo continuo dilagare di gruppi criminali nel nostro paese va immediatamente arginato con decisione, con forza e con intelligenza. Non possiamo permettere che nessun tipo di mafia possa minimamente intaccare il nostro tessuto sociale più di quanto già non stia già facendo nel nostro Paese. Lo Stato deve con forza e determinazione combattere tutti i giorni mettendo in campo una seria e concreta strategia per contrastare tutti i tipi di associazioni criminali e proprio su questo dovrebbe prendere spunto dalle idee che il Procuratore AntiMafia Nicolo Gretteri ha poi e poi volte lanciato alla politica che di contro non ha mai forse voluto prendere in considerazione e che invece avrebbe dovuto prendere visto la grande esperienza che ha maturato suo campo il Procuratore AntiMafia più famoso d’Europa. Anche noi cittadini onesti dobbiamo quotidianamente lottare per dare un aiuto concreto alle forze dell’ordine, alla Magistratura ed allo Stato in questa ardua lotta contro Ndrangheta e tutti i tipi di mafia. Io Andrea Pasini che risiedo in un quadrilatero molto difficile in periferia di Milano tra i comuni di Corsico, Buccinasco, Trezzano Sul Naviglio, Cesano Boscone e Rozzano ci metto la faccia con nome e cognome perché, appunto, vivendo in un territorio difficile dove da tempo sono presenti organizzazioni criminali come mafia, Ndrangheta e le organizzazioni criminali extracomunitarie più variegate di qualsiasi nazionalità vi dico che bisogna avere il coraggio di lottare Senza paura al fianco di chi tutti i giorni combatte queste organizzazioni come le forze dell’ordine e la magistratura perché solo dimostrando a questi criminali che la gente per bene non si fa sottomettere e che non ha paura si potrà estirpare questo cancro e vivere da uomini liberi a casa propria.

Oltre alle nostre mafie c'è di più. Dalla Yakuza alla mafia russa, passando per le spietate organizzazioni criminali di Messico e Colombia.

Con mafia ci si riferisce tradizionalmente a gruppi criminali emersi in Sicilia intorno alla metà del XIX° secolo, associazioni volte a controllare il territorio locale in modo organizzato e secondo precise regole di condotta. Oggi, si utilizza in modo generico e canonico il termine "mafia" per indicare associazioni criminali aventi lo scopo di controllare, gestire e preservare i profitti derivanti da traffici illeciti. Lo scrittore e sociologo storico Antonio Giangrande ingloba nel termine mafia, altresì, gli apparati corporativi leciti come le Caste, le Lobbies e le massonerie deviate. Strutture che usano l'affiliazione ed il potere pubblico di cui sono portatori, o ad essi riconosciuto, per abusarne al fine di soddisfare gli interessi personali e collettivi. E' un sistema parallelo che provoca nei cittadini soggezione ed omertà. Spesso e volentieri troviamo la commistione tra i due sistemi (mafia bianca e mafia nera). Ciò è convalidato dal fatto che spesso sono proprio i membri delle istituzioni a far parte dei sodalizi criminali direttamente o indirettamente (appoggio o concorso esterno mafioso). I traffici della mafia vanno dalle armi alla droga, dalle estorsioni al traffico di esseri umani. Niente è tabù per le mafie di tutto il mondo, e le associazioni di crimine organizzato definite in questo modo sono note per la spietatezza nel gestire le loro attività più lucrose. La multinazionale della mafia ha migliaia di sedi in tutto il pianeta. Nessun Paese al mondo può vantare di non essere afflitto dalla piaga della criminalità, organizzata in clan e "famiglie". Si va da quelle storiche asiatiche, la Yakuza e le Triadi cinesi, alla nostrana mafia siciliana, che ha ben attecchito negli Stati Uniti. E poi, i terribili mafiosi messicani e la potente mafia dell'Est, capeggiata dai boss russi che si distinguono per acume e cattiveria. Molti i tratti distintivi dei mafiosi, che prediligono soprattutto i tatuaggi, mentre qualcuno (come in Giappone) per dimostrare l'appartenenza totale al clan Yakuza si amputa le falangi dei mignoli.

Le Mafie italiane. La ’ndrangheta di origine calabrese in Italia è ormai più potente e pericolosa di Mafia (Cosa Nostra e Stidda) di origine siciliana e Camorra di origine campana. Sicuramente dalle 'ndrine calabresi hanno avuto la genesi la Sacra Corona Unita in Puglia (Salento) ed il sodalizio dei Basilischi in Basilicata. Poi ci sono le mafie autoctone: la mafia foggiana, la mafia romana (Spada e Casamonica), la mafia veneta (del Brenta), ecc È radicata e diffusa nel territorio, dalla Calabria alla Lombardia. Gode della fiducia della criminalità di altri Paesi. Ha costruito il suo impero con i sequestri, si procura il cash con l’usura, investe cifre enormi nel commercio della droga. Fa ormai così parte del tessuto sociale che sembra impossibile sconfiggerla. Oggi la 'Ndrangheta è considerata la più pericolosa organizzazione criminale in Italia, ma è anche una delle più potenti al mondo, con una diffusione della presenza anche all'estero (dal Canada ad altri paesi europei meta dell'emigrazione calabrese). Secondo il rapporto Eurispes 2008 ha un giro d'affari di 44 miliardi di euro. La versione americana di Cosa Nostra è relativamente recente: inizia nella metà del secolo scorso, e si caratterizza subito per la sua abilità di progettare attività criminali ad ampio respiro, senza tuttavia lasciare tracce del suo coinvolgimento. Le sue attività vanno dal racket della protezione al traffico di droga e di armi, fino alla mediazione del business criminale di diverse organizzazioni mafiose. Gli appartenenti a questa mafia sono pochi se paragonati ad altre associazioni criminali, ma sono estremamente selezionati e fedeli al clan, e devono seguire severamente la "regola del silenzio". Chiunque sia "affiliato esterno" non sa mai cosa passi per la testa dei boss o degli affiliati più stretti. "La Cosa nostra" (Lcn) continua a essere la più potente, diffusa e temibile organizzazione criminale negli Usa, al primo posto per fatturato nella classifica mondiale delle mafie. Ha collegamenti stabili con altre organizzazioni criminali e con Cosa nostra siciliana, di cui conserva la struttura: un boss, il suo vice, il gruppo di consiglieri, le truppe. È insediata in almeno 19 stati della Confederazione con le famiglie storiche dei Gambino, Colombo, Bonanno, Genovese, Lucchese, e le più recenti De Cavalcante, Patriarca e Scarfo. I suoi interessi primari sono narcotraffico e riciclaggio, ma anche estorsione, gioco d’azzardo, frodi, usura. Condiziona inoltre i settori economici del trasporto su gomma, delle costruzioni, della raccolta dei rifiuti (tossici, in particolare), ristoranti, distribuzione alimentare, carburanti, abbigliamento, corse dei cavalli, pompe funebri. Controlla diversi sindacati dei lavoratori delle costruzioni, del porto e degli aeroporti di New York.

La Mafia Russa. Nata durante l'Unione Sovietica, ha contatti in tutto il mondo, con un'influenza che non ha pari a livello globale. Gli affiliati vanno dai 100.000 ai 500.000, a livello planetario. Le sue attività sono principalmente traffico di droga e di armi, attività terroristiche, pornografia, frodi telematiche e traffico di organi. La regola primaria è "non collaborare mai con la polizia". Se uno dei membri della mafia russa viene catturato, è facile che venga ucciso non appena rilasciato, visto il potenziale pericolo che rappresenta per l'organizzazione. In Russia, tra i diversi gruppi mafiosi, dominano quelli di: Solntsevskaja Bratva, alla periferia di Mosca (traffico di droghe, estorsioni, riciclaggio, contrabbando); Tambovskaja-Malysevkaja, a San Pietroburgo (droghe, riciclaggio e frode); Izmajlovskaja-Dolgoprudnenskaja, presente anche a New York, Los Angeles, Miami, San Francisco (riciclaggio, estorsioni, furti, traffico di droga e omicidi su commissione); Uralmashkaja, attiva anche in Italia, Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Cina (materie prime, metalli preziosi, droghe e armi). Il gruppo Tambovskaja è quello più influente nella regione nord-occidentale, dispone di una propria rete bancaria, di industrie legali e istituti di vigilanza privata; controlla l’industria dei combustibili e dell’energia, la produzione alimentare, il mercato immobiliare e dell’intrattenimento. Merita un cenno anche la mafia caucasica, strutturata in gruppi su base etnico-religiosa, tra cui spiccano i ceceni. Questi, a Mosca, nei primi anni Novanta, si dedicavano al traffico di autovetture rubate, poi hanno esteso la loro influenza nelle principali città russe, soprattutto nel settore finanziario. Ogni gruppo ha le sue ‘specializzazioni’: i georgiani, sequestri di persona e furti con scasso; gli azeri, il mercato nero dell’ortofrutta; i daghestani e gli armeni, il racket sui piccoli commercianti; gli osseti, rapine e violenze sessuali.

La Mafia Cinese. E' di sicuro la mafia più potente d'Oriente, con sedi in Cina, Malesia, Singapore, Hong Kong, Taiwan, e via dicendo. Molto attiva anche negli U.S.A., è generalmente coinvolta in furti, omicidi a pagamento, traffico di droga, pirateria ed estorsioni. L'organizzazione mafiosa cinese ha inizio nel XVIII° secolo con il nome di Tian Di Hui, che significa "Società del Cielo e della Terra". Tutto nasce dall'occupazione britannica, che favorisce le attività criminali delle società segrete cinese, che vennero definite "triadi". La mafia cinese, con le Triadi (i tre elementi originari confuciani: il cielo, la terra e l’uomo), ha quasi monopolizzato (oltre 4 milioni di membri), in importanti aree mondiali, la tratta delle persone, oltre a narcotraffico, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, estorsione, contraffazione di marchi, riciclaggio. In passato, in Italia era stata definita una mafia ‘Wuton Wutei’ (draghi senza testa e senza coda), per il basso profilo criminale. Ha struttura stratificata, con a capo il Grande fratello (Testa del Dragone) affiancato da un comitato ristretto. Per questa organizzazione – a differenza della mafia italiana – l’uso della forza per il controllo territoriale continua ad essere solo una conseguenza della ricerca del profitto nelle attività commerciali.

Così la mafia cinese colpisce l'Italia. Omicidi, attentati: da Napoli a Prato, le centrali della criminalità cinese crescono a ritmi sempre più veloci, scrive Giorgio Sturlese Tosi l'11 dicembre 2018 su "Panorama". È l’una di notte quando, nel cuore del distretto tessile di San Giuseppe Vesuviano, 30 chilometri da Napoli, un commando di killer armati di pistole e machete entra nell’albergo-ristorante cinese Villa Paradiso. Gli uomini, urlando, si scagliano su tre persone sedute a un tavolo. Vittime e aggressori sono cinesi. Il sangue schizza fin sugli improbabili affreschi di paesaggi asiatici. Una mattanza. Su Zhi Jian, 28 anni, colpito da trentatré coltellate, muore poco dopo in ospedale.

Questo accadeva una notte di maggio del 2006. Undici anni dopo, è il giugno 2017, nella zona industriale dell’Osmannoro vicino a Firenze due pachistani dipendenti di una ditta di trasporti vengono circondati da un gruppo di cinesi mentre caricano un camion. Vengono feriti gravemente, uno a revolverate e l’altro con martellate al petto. La scia di sangue che lega questi due episodi, avvenuti a centinaia di chilometri di distanza, è quella della mafia cinese in Italia (e con mille diramazioni in molte città europee).

Chi è Zhang Naizhong, l’Uomo nero. Per anni, squadra mobile di Prato e Servizio centrale operativo della polizia hanno pedinato, intercettato, ricostruito gli affari di colui che per i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Firenze è il capo dei capi di una potente e feroce organizzazione criminale, con radici nelle regioni cinesi dello Zhejiang e del Fujian e, appunto, «terminazioni» nelle chinatown italiane ed europee: il suo nome è Zhang Naizhong, soprannominato l’Uomo nero. È un imprenditore di successo nel trasporto merci su gomma. Nel nostro Paese si sposta sempre su auto di lusso con autista. Uomo scaltro e spietato, secondo le accuse ha iniziato la sua carriera criminale da clandestino in Francia, a Parigi: qui, negli anni Novanta faceva lo «spallone» nel traffico dei wu ming, i «senza nome» arrivati in Occidente privi di permesso di soggiorno e impiegati poi come manodopera nei laboratori tessili di mezz’Italia. La prima volta Zhang Naizhong è stato arrestato, alla fine degli anni Novanta, nel corso di un’indagine del tribunale di Roma sull’immigrazione clandestina. Scarcerato in breve tempo, ha fondato la società di trasporti Euro Anda, sempre mantenendo i contatti con importanti malviventi in Cina. Parallelamente, ha investito in vari locali notturni della Capitale, in cui è stato accertato lo sfruttamento della prostituzione, anche minorile, e lo spaccio di droghe pericolose come la ketamina. Zhang ci ha saputo fare e, secondo quanto hanno ricostruito gli inquirenti fiorentini, abbinando fiuto per gli affari e violenze contro rivali e clienti, ha raggiunto alla fine il monopolio italiano nel trasporto merci. Illuminante una frase detta ai suoi (e intercettata): «Prima non sapevo come gestire gli affari perché sapevo solo fare il mafioso...». Il tribunale di Napoli lo ha condannato in primo grado per favoreggiamento proprio per la mattanza nell’hotel ristorante Villa Paradiso di San Giuseppe Vesuviano. Ma è stato poi assolto in appello e ha continuato a ingrandirsi lungo le rotte della logistica nel nostro Paese. Stava puntando così a scalare il mercato europeo quando gli agenti del Servizio centrale operativo della polizia e della Mobile di Prato, nel gennaio scorso, lo hanno scalzato dal trono con l’operazione «China Truck», con 53 indagati. A incastrarlo, oltre agli elementi raccolti negli anni dagli inquirenti, un supertestimone: Deshun Weng, alla testa della Eurotransport, una società di logistica rivale di Naizhong. Anche lui è stato coinvolto negli scontri con gli uomini della Euro Anda, ma è soprattutto un insider che conosce i retroscena di molti episodi di violenza, il Tommaso Buscetta di questa inchiesta.

Il business cinese in Europa. Weng ha confermato le tesi investigative e ha raccontato di sparatorie, attentati incendiari, sequestri e omicidi dietro cui ci sarebbe sempre l’Uomo nero. Sullo sfondo, in uno scenario più vasto, una guerra senza esclusione di colpi per aggiudicarsi le tratte su cui viaggiano le merci provenienti dalla Cina. Un business smisurato e un movente più che concreto: nel 2017, l’Agenzia delle dogane ha registrato più di sei milioni di tonnellate di merci cinesi in ingresso in Italia, per un valore di oltre 25 miliardi di euro. Si tratta di milioni di container che sbarcano nei maggiori porti italiani ed europei: il Pireo in Grecia, Napoli, Amburgo in Germania e Bilbao e Valencia in Spagna. Da questi terminali, ogni giorno, muovono migliaia di tir diretti ai depositi di stoccaggio. E da qui viene alimentata in tutt’Europa la rete del commercio al minuto attraverso una flotta infinita di furgoni...È un business destinato a moltiplicarsi con la «Belt and road iniziative», il piano di investimenti da 100 miliardi di dollari che il presidente Xi Jinping vuol destinare a infrastrutture marittime e viarie, inclusi gli scali italiani, per espandere i commerci cinesi in Occidente. Proprio ricostruendo questi percorsi, le inchieste della gendarmeria francese, della guardia civil spagnola, della bundeskriminalamt tedesca hanno trovato punti di contatto con le indagini della Dda napoletana e fiorentina. Dal canto loro, ogni volta che investigatori e magistrati italiani hanno provato a tracciare le linee commerciali su cui si muovono i mezzi della Euro Anda, con sede a Roma in via del Maggiolino, e filiali a Prato, Parigi, Madrid e Neuss, in Germania, si sono imbattuti in un cadavere.

L'operazione "China Truck" e le altre inchieste. In gennaio, luogotenenti e sicari dell’organizzazione di Zhang Naizhong andranno alla sbarra a Firenze. Tra le accuse: spaccio di droga, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, ma anche usura, estorsione e gli immancabili favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e contraffazione di marchi di moda. Tutti reati che, secondo il sostituto procuratore antimafia fiorentino Eligio Paolini, sono serviti a mantenere il potere e a finanziare le attività di trasporti che tale potere hanno alimentato. Il giudice delle indagini preliminari di Firenze ha contestato anche l’aggravante mafiosa: l’assoggettamento degli affiliati, l’intimidazione delle vittime, l’omertà della comunità cinese richiama secondo il gip ruoli e modalità della mafia siciliana degli anni Ottanta, sia pure in modo ancora rozzo e sanguinario. Il tribunale del riesame e la Cassazione hanno tuttavia negato che si tratti di mafia, scarcerando gran parte degli indagati e mettendone altri, come il presunto «capo dei capi», ai domiciliari con il braccialetto elettronico. La complessa partita giudiziaria tuttavia è in corso. «China truck» non è comunque l’unica indagine che ipotizza traffici criminali cinesi in tutto l’Occidente. Altre inchieste svelano punti di contatto inquietanti con l’organizzazione di Zhang Naizhong. In Spagna si sta svolgendo un processo-monstre contro un’associazione a delinquere cinese con interessi nella tratta di clandestini, trasferimenti illegali di miliardi di euro, spaccio di merce contraffatta. A guidarla, secondo l’inchiesta che rischia di coinvolgere personalità di spicco anche istituzionale, ci sarebbe Gao Ping, mecenate d’arte, proprietario di squadre di calcio e amico dei reali di Spagna. Le merci clandestine che ha nascosto a Fuenlabrada, l’enclave commerciale cinese vicino a Madrid, avrebbero viaggiato su camion di criminali cinesi che facevano consegne anche nei depositi di Zhang Naizhong. Ancora: un’inchiesta della guardia di finanza italiana, partita nel 2012 contro 227 imputati e rimasta ferma nel tribunale di Firenze fino alla prescrizione arrivata la scorsa estate, aveva ricostruito il flusso sotterraneo del denaro frutto di attività lecite e illecite, dall’Italia alla Repubblica popolare cinese. Ogni anno, da Prato, attraverso i «money transfer» e la compiacenza di Bank of China, veniva spedito in Oriente oltre mezzo miliardo di euro. Gli inquirenti hanno seguito uno dei corrieri incaricati di inviare il denaro all’estero, il suo nome è Ye Zhekay. In varie tranch ha depositato un milione e 300 mila euro in un’agenzia pratese di trasferimento valuta. Ye Zhekay era il referente di Zhang Naizhong in Francia.

Prato, il fulcro della malavita cinese. In dicembre saranno infine rinviati a giudizio i 92 cinesi indagati per traffico illecito di rifiuti pericolosi dai Carabinieri forestali della Toscana. Hanno scoperto come alcuni trasportatori cinesi di Prato siano stati «collettore» per tonnellate di scarti tessili e plastici. I rifiuti (con la complicità della camorra) venivano raccolti in aziende del Nord e spediti a Shangai come materie prime destinate a nuove produzioni. Oggetti in plastica fuorilegge che la malavita orientale importava clandestinamente, come i 25 milioni di giocattoli pronti per finire sotto gli alberi di Natale e sequestrati lo scorso 26 novembre dalla Finanza in un capannone vicino a Napoli. Intanto a Prato, fulcro della malavita cinese, si continua a sparare. A luglio, in mezzo ai bambini che giocavano in un parco cittadino, due gruppi di cinesi si sono affrontati a colpi di pistola. Poi d’improvviso, alle soglie dei processi che si stanno per celebrare contro le organizzazioni criminali, è cominciata una strana quiete. O, più probabilmente, è un’ennesima e fragile pax mafiosa. 

La storia del capo della mafia cinese in Italia e Europa. Zhang Naizhong, arrestato il 18 gennaio scorso e ora ai domiciliari, solo due mesi prima aveva accompagnato un sottosegretario del governo di Pechino in visita di stato a Roma, per un giro nella capitale. Le intercettazioni svelano le relazioni pericolose, scrive Carmelo Abbate il 16 aprile 2018 su "Panorama". Una stretta di mano nella sede del governo italiano e un messaggio di benvenuto a favore di fotografi e telecamere. Sono le quattro del pomeriggio di lunedì 11 dicembre 2017. Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni accoglie la delegazione della Repubblica Popolare Cinese in visita ufficiale di Stato composta da alcuni ministri, diversi sottosegretari e guidata dal vice premier Ma Kai: "È un grande piacere riceverla qui a Palazzo Chigi e darle il benvenuto nella sede del governo. La sua visita, signor Primo ministro, si inserisce in un quadro di relazioni continue e sempre più forti tra Italia e Cina". Nelle stesse ore, sempre sull'asse Italia-Cina si registrano una serie di telefonate che vengono intercettate dalla polizia italiana. La prima è delle 10 circa del mattino. Da Pechino, Lin Gouchun, detto Laolin, chiama Zhang Naizhong a Roma. Gli dice che un amico, un personaggio importante di Pechino, si trova nella capitale e gli chiede di portarlo a visitare la città e di invitarlo a mangiare. Laolin spiega che un amico in Cina gli ha raccomandato di fare questo, e appena chiuderanno la telefonata gli girerà il contatto su Wechat. Per gli investigatori italiani, Laolin è il capo del ramo malavitoso italiano ed europeo proveniente dalla regione cinese del Fujian, il numero due nella piramide gerarchica dell'organizzazione mafiosa cinese che ha la sua base a Prato. In Cina, Laolin ha comprato diverse miniere di carbone, gli affari italiani li ha lasciati sotto la gestione diretta di un suo fidato luogotenente. Pochi minuti dopo la prima telefonata, sempre Laolin richiama Zhang Naizhong e gli dice che deve mettersi in contatto personalmente con quella persona, perché lui è un "capo di Pechino". Naizhong risponde che lui non sta bene, ha mal di schiena, ma chiederà ad Ashang di portarlo al Colosseo e in Vaticano, poi la sera gli farà trovare un ristorante prenotato. Laolin approva e gli dice di mettersi in contatto direttamente con il "capo di Pechino". Sempre per gli investigatori italiani, Zhang Naizhong è il vertice ultimo della piramide, il numero uno, il padrone indiscusso della mafia cinese in Italia ed Europa. La polizia gli sta alle calcagna da anni, lo considera l'uomo nero, il padrino, il capo dei capi. Dopo le dieci e mezza, Naizhong chiama la segretaria Amei e le ordina di far uscire Ashang con la Mercedes. Il presunto leader di Pechino ha due-tre ore di tempo, deve portarlo in giro e poi riaccompagnarlo dove vuole lui. Poco prima delle 11, Ashang telefona a Naizhong, gli conferma che ha sentito il "capo di Pechino" e si vedranno fuori dall'albergo. Due ore più tardi Naizhong richiama Ashang, il quale riferisce che ha preso la persona, gli ha già fatto vedere il Vaticano e sono diretti verso il Colosseo. Naizhong chiede se lo ha fatto mangiare, Ashang risponde che non c'è tempo, alle 15 e 30 lo deve riaccompagnare in albergo perché ha un incontro con dei "leader" italiani. Nel programma ufficiale della visita di Stato in Italia, alle 16 è fissato il ricevimento del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi. Ashang dice che il "capo di Pechino" gli ha dato appuntamento per le 17 e che dopo vuole andare a vedere la partita della Lazio. Naizhong conferma che ceneranno insieme in un ristorante vicino allo stadio Olimpico, saranno in sei, ci sono anche due amici del "capo di Pechino". Ashang dovrà aspettarli e riportarli in albergo al termine della partita. Nei giorni successivi, ricevute le traduzioni delle trascrizioni delle intercettazioni, la polizia effettua tutti i riscontri e ricostruisce l'identità del "capo di Pechino": un sottosegretario del governo cinese che partecipa a tutti gli incontri ufficiali, anche a quello del 12 dicembre con il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Ma è troppo tardi per fermare quello che, con la conoscenza di poi, è andato in scena per le strade di Roma il giorno 11 dicembre 2017: un cortocircuito diplomatico istituzionale, per cui un esponente del governo cinese si muove in proprio con auto e autista messi a disposizione da colui che è ritenuto dagli investigatori italiani il capo della mafia cinese, e viene scortato dalle macchine della polizia italiana. Pure quando il sottosegretario, a bordo dell'auto del padrino, va a cena con il padrino in persona: Zhang Naizhong. Panorama ha contattato la Farnesina e ha chiesto inutilmente i nomi dei componenti la delegazione cinese in visita ufficiale di Stato in Italia. La domanda alla quale cercavamo una risposta è semplice: davvero un sottosegretario del governo cinese si è accompagnato con l'uomo che dalle nostre forze di polizia viene ritenuto il capo della mafia cinese in Italia e in Europa? Se c'è stato un contatto "proibito", era inconsapevole? Certo, la "presa in carico" per un giro a Roma del sottosegretario cinese non è avvenuta in maniera casuale, ma su precisa richiesta arrivata da Pechino da parte di un uomo, Laolin, che per la polizia italiana avrebbe entrature molto forti grazie al business delle miniere di carbone. Uomo che viene considerato il braccio destro dello stesso capo dei capi, Naizhong. Nell'analisi degli elementi per trovare una risposta alla domanda di partenza, gli inquirenti italiani mettono sul tavolo anche un fatto avvenuto ai primi di dicembre dello scorso anno, poco prima della visita ufficiale in Italia. Succede che il figlio del padrino, Zhang Di, viene arrestato in Cina. Il contatto telefonico con persone in stato di fermo dovrebbe essere vietato, anche a Pechino, ma Naizhong alza il telefono dall'Italia e parla direttamente con il figlio. In videochiamata, come spiega successivamente alla nuora, la moglie di Zhang Di, il quale verrà comunque rilasciato pochi giorni dopo. Nel frattempo, il cerchio della polizia italiana partito dal duplice omicidio di due giovani cinesi, uccisi a Prato nel 2010, sta per stringersi. Il 17 gennaio Zhang Naizhong arriva a Prato in compagnia del figlio. Durante il giro delle sue aziende cambia continuamente auto, i poliziotti che gli sono alle costole alla fine ne conteranno otto. Al ristorante durante il pranzo le persone fanno la fila per essere ricevute. Si avvicinano, lo salutano, si inchinano. La notte, in albergo, dorme sul letto con un uomo che lo protegge a vista dal divano. Al mattino, Zhang Naizhong viene arrestato dalla polizia su ordine della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, che spicca un mandato di cattura per 33 persone, tra le quali c'è Laolin e pure il figlio di Naizhong. Altri 54 sono indagati a piede libero. L'accusa per tutti è di associazione per delinquere di stampo mafioso. Il capo dei capi viene portato in questura, si toglie dal polso l'orologio da 25 mila euro, si sfila anche l'anello con un diamante grosso quanto una nocciola, e si chiude nel silenzio. Rimane per molte ore da solo in una stanza della questura, quando i poliziotti lo accompagnano al fotosegnalamento, tutti gli altri arrestati seduti sulle sedie in corridoio, al suo passaggio abbassano la testa in segno di deferenza. Secondo i magistrati, siamo in presenza di una organizzazione mafiosa che gestisce attività illecite come usura, estorsione, gioco d'azzardo, sfruttamento della prostituzione, spaccio di sostanze stupefacenti, importazioni illegali, commercio di merci contraffatte. Una struttura potente che agisce con discrezione, non si pone mai in aperto antagonismo con lo Stato, e che grazie alla gigantesca quantità di denaro contante ricavato dalle attività illecite è riuscita ad acquisire di fatto il controllo assoluto nel settore dei trasporti delle merci su strada. Tutto ciò, secondo gli investigatori, facendo ricorso ad azioni intimidatorie e violente. A questo riguardo, gli uomini della polizia che hanno condotto l'inchiesta sono anche andati a rileggere diversi omicidi di cittadini cinesi avvenuti in Italia negli anni scorsi, e grazie ai nuovi elementi emersi durante le ultime intercettazioni sono arrivati ad alcuni punti fermi: gli autori degli omicidi erano tutti uomini del giro di Zhang Naizhong, e le vittime erano per la maggior parte concorrenti commerciali nel settore cruciale dei trasporti. In un caso specifico, l'assassinio di Su Zhi Jian, per il quale Naizhong era stato condannato per favoreggiamento in primo grado e assolto in appello, le nuove risultanze investigative della polizia vengono ritenute valide al punto da ipotizzare che Naizhong sia il "mandante" di quell'omicidio. Fin qui le certezze degli inquirenti. Ma il tribunale del Riesame di Firenze l'8 febbraio scorso ha provveduto a raffreddare gli animi. Scarcerazione di quasi tutti gli arrestati, la metà dei quali, compreso Naizhong, spediti ai domiciliari con braccialetto elettronico, e riformulazione dei singoli reati che non sarebbero legati da associazione mafiosa. Un duro colpo quello inferto dai giudici alla Procura, che ha già presentato ricorso in Cassazione e che però negli ultimi giorni ha portato a casa un punto importante a favore dell'inchiesta. Chiamato in causa dai legali degli indagati che chiedevano il dissequestro delle 13 società, due delle quali in Francia e tre in Spagna, otto auto di grossa cilindrata, due immobili e 61 fra conti correnti e deposito titoli, lo stesso tribunale del Riesame di Firenze ha infatti respinto la richiesta e mantenuto il sequestro preventivo sulla base di queste motivazioni: "Le società risultano comunque riferibili a Zhang Naizhong", ed è stata provata l'evidenza di come "il capo dell'organizzazione criminale, Zhang Naizhong, poteva disporre di ingenti quantità di denaro che rappresentano i proventi delle attività illecite poste in essere dal gruppo criminale in questione, quali per esempio la contraffazione, il gioco d'azzardo, l'usura, le estorsioni, lo spaccio delle sostanze stupefacenti e lo sfruttamento della prostituzione". Una conferma evidente che il sodalizio criminale di cui parla la procura esiste e ha al suo vertice il padrino, l'uomo nero, il capo dei capi: Zhang Naizhong.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 17 di Panorama in edicola da giovedì 12 aprile 2018 con il titolo originale "Il boss di scorta".

Il segreto degli ombrelli Made in Cina. Come fanno gli ambulanti a vendere migliaia di ombrelli in tutta Italia? Questione di organizzazione, scrive Giorgio Sturlese Tosi il 28 novembre 2018 su "Panorama". Sono migliaia in tutta Italia, spuntano quando piove e si raccolgono fuori dalle stazioni ferroviarie o nelle piazze più affollate. Sono i venditori abusivi di ombrelli. Noi camminiamo frettolosamente, scansando le pozzanghere, e li percepiamo appena; a volte sono provvidenziali e allunghiamo loro 5 euro in cambio di un ombrello, che spesso durerà giusto il tempo di un acquazzone. Nessuno sa che con quei 5 euro alimentiamo un mercato clandestino che ne vale milioni, e che parte e finisce in Cina: un mercato che è controllato dalle triadi orientali, le organizzazioni mafiose che dalla Repubblica popolare controllano i traffici in tutto il mondo. Da là infatti partono quegli ombrelli, tutti uguali, che bengalesi e senegalesi vendono nelle nostre città, stipati in centinaia di container spediti via mare o ferrovia. Container che vengono poi scaricati nei porti di Napoli, del Pireo, ma anche di Amburgo, dove ormai transita l’80 per cento di tutte le merci cinesi destinate all’Europa. L’organizzazione per la distribuzione della merce è davvero eccezionale, quasi militare. Aggirati i controlli doganali, i parapioggia (che non hanno né certificazione né etichetta) vengono caricati su camion. E qui entrano in gioco le triadi cinesi. Molte inchieste condotte dalla magistratura spagnola, tedesca e francese, e un’indagine recente della Direzione distrettuale antimafia di Firenze (denominata per l’appunto «China Truck», cioè «camion cinese»), hanno scoperto che il trasporto su gomma di merci cinesi è un monopolio delle organizzazioni criminali di Pechino e Shanghai, disposte a contendersi ogni tratta con la violenza. Il risultato è una lunga scia di sangue, che segue i tragitti dei furgoni con morti e feriti a Duisburg, Parigi, Madrid, ma anche a Prato, Roma e Napoli. Il contrasto è difficile. Eppure ricostruire la filiera di questi oggetti di pessima qualità non lo è affatto. A Milano, per esempio, basta seguire le indicazioni degli ambulanti senegalesi che bazzicano vicino alla stazione centrale o nel cuore della Chinatown cittadina, nelle strade e stradine della zona occidentale attorno a via Paolo Sarpi, dove i negozi sono quasi tutti orientali. Il cronista di Panorama finge di voler acquistare 500 parapioggia. Il prezzo che gli viene chiesto è di 1 euro per quelli piccoli e di 2 euro per quelli grandi. In stazione i bengalesi li rivendono rispettivamente a 5 e 10 euro. Ci fanno scendere in grandi magazzini sotterranei dove sono stipati centinaia di scatoloni pieni di pezzi. Fuori piove, e nei magazzini c’è fermento. Chiediamo di vedere la merce, ma i venditori cinesi sono sbrigativi: altri clienti sono già in coda. Il pagamento avviene solo in contanti, e in nero. Fuori, intanto, ha smesso di piovere, ma il venditore che ci ha preso in carico non si preoccupa. Gli ombrelli invenduti, infatti, vengono tutti nascosti nelle edicole gestite dai bengalesi o nei cespugli delle piazze del centro. Gli ambulanti andranno poi a recuperarli al prossimo acquazzone; e gli ombrelli torneranno ad aprirsi, a migliaia. L’Agenzia delle dogane, nel 2017, ha scoperto e sanzionato 444 tonnellate di merce introdotta in Italia dalla Repubblica popolare aggirando le normative fiscali e doganali, per un valore che supera i 13 milioni di euro: la cifra è piccola, e va considerata come indicativa, perché è vero che deriva da controlli sempre più sofisticati, condotti soprattutto sui container nei porti, ma sono pur sempre fatti «a campione» e quindi casuali. Si stima in realtà che per ogni container pieno di merce illegale colpito dalle verifiche dei nostri doganieri, o della Guardia di finanza, ne passino indenni almeno altri 20. In quei container, è ovvio, ci sono anche gli ombrelli che piovono nelle nostre città. Una volta a destinazione, i parapioggia vengono scaricati nelle Chinatown italiane. Sempre a Milano, la Polizia locale ha creato una squadra proprio per contrastare l’abusivismo commerciale, e dall’inizio dell’anno ha sequestrato oltre cinquemila ombrelli e fatto 520 contravvenzioni. La squadra si mette in azione appena comincia a piovere, anche perché gli ombrelli violano tutte le norme di sicurezza: soprattutto quelli più piccoli hanno parti malcostruite, che spesso si rompono e possono ferire. Gli ombrelli cinesi, però, non sono ancora entrati nella «black list» degli oggetti pericolosi la cui vendita è proibita in Europa. Così chi li mette in commercio, se non ha violato norme fiscali o commerciali, non rischia nulla. È difficile dire se il business della pioggia abbia qualcosa a che fare con la vecchia teoria della farfalla, secondo cui se in oriente un insetto sbatte le ali in occidente può scatenarsi un uragano. Una cosa, però, è certa: se a Milano inizia a cadere qualche goccia, a Hong Kong un mafioso sorride.

#REPORTAGE. La quinta mafia italiana: criminalità cinese tra droga, prostituzione e usura. Roberti: “Non abbasseremo l’attenzione su queste organizzazioni”, scrive il 23 novembre 2016 in Difesa e Sicurezza Nazionale Mary Tagliazucchi su "Ofcs.report". Lazio, Toscana, Lombardia, Emilia-Romagna e Sicilia. Queste regioni italiane hanno un comune denominatore: la mafia cinese.  Secondo i rapporti della Dia (Direzione investigativa antimafia, e della Scico (Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata) che l’ha definita la “quinta mafia” italiana, è particolarmente radicata a Roma, Napoli, Firenze, Prato, Milano e Padova. Questo nonostante in Italia sia luogo comune pensare che la mafia sia un “business” esclusivo della camorra siciliana, campana e della n’drangheta calabrese. Ma ad allungare i suoi lunghi tentacoli da tempo ormai c’è anche la “Triade”, che ha come simbolo la testa di un dragone e che nel nostro paese ha trovato un vero e proprio paradiso di loschi investimenti fatto di strategiche alleanze e business milionari con le mafie nostrane. Simile alla mafia siciliana, anche la struttura delle famiglie mafiose cinesi hanno riti d’iniziazione e giuramenti. Per entrarne a far parte sembrerebbe sia richiesto un giuramento di rito, a cui segue l’obbligo di bere una bevanda di infuso di riso in cui sono state versate anche alcune gocce del proprio sangue. Molto spiccato il senso dell’onore e il concetto del perdere la faccia o della vendetta. A questo proposito se qualcuno riceve un gladiolo rosso è il segno della condanna a morte, e chiunque della comunità è legittimato ad ucciderlo.

Green Dragon, Black Society e Red Sun, secondo i report dell’Interpol sono fra le gang criminali cinesi più organizzate. Dopo aver messo “gli artigli” su Milano, sono riuscite infatti ad espandersi anche oltre i confini italiani come in Francia, Svizzera e Austria.

Transcrime, il centro di ricerca di criminologia dell’Università Cattolica di Milano, invece, in un rapporto pubblicato nel 2013, evidenziava come in Italia la mafia cinese investa nel commercio, nel tessile, nella ristorazione e nei numerosi punti di money service. Attività (non tutte ovviamente) che vengono sovvenzionate da soldi sporchi, provenienti dalla gestione illegale dei flussi migratori, dal traffico e spaccio di droga, dallo sfruttamento del lavoro e della prostituzione e nell’usura a danno degli stessi connazionali.  Non solo, fra i vari “affari” della mafia cinese c’è anche il traffico illecito di rifiuti e a seguire il riciclaggio di denaro, la contraffazione e il contrabbando di merci.

I nuovi adepti, come scoperto dalla Polizia di Frontiera, partono principalmente da Hong Kong, definita la “base operativa” della mafia “made in china”. Una volta arrivati in Italia cominciano da subito a seguire gli “affari di famiglia”. E non viaggiano via mare o via terra, stipati in qualche camion o barcone. Partono muniti di un visto turistico, tranquillamente in aereo e facendo scalo negli aeroporti internazionali di Fiumicino o Malpensa.  Poi di loro non si sa più nulla.

La Direzione nazionale antimafia sostiene, sempre nella sua relazione, come le città di Firenze e Prato siano state quelle prese d’assalto dalla criminalità cinese. Riscontrando peraltro maggiori difficoltà a livello investigativo rispetto alle indagini sulle altre cosche mafiose. Questo perché i traduttori e interpreti di lingua cinese, sono insufficienti a ricoprire l’importante e delicato compito delle intercettazioni modus operandi principale nelle indagini di questo genere. Nonostante le evidenti difficoltà a Firenze, tempo fa è stato scoperto un trasferimento di denaro verso la Cina, pari a oltre 4 miliardi di euro, naturalmente eseguito in uno dei loro negozi “money trasfer”.

Anche a Roma, dove riuscire ad indagare ed entrare nella criminalità romana cinese è complicato, si è arrivati però a capire come operano questi clan stranieri.  Infatti, se inizialmente la mafia cinese è arrivata in Italia per gestire l’immigrazione clandestina e le estorsioni all’interno delle loro comunità, in seguito grazie all’apertura di numerosi esercizi commerciali è avvenuta una vera e propria colonizzazione.

Nella capitale fra i quartieri più invasi dai cinesi c’è quello di Torpignattara, zona periferica fra la Casilina e Prenestina, piazza Vittorio, Esquilino e Tuscolana. Tra le “chinatown della capitale”, Torpignattara e piazza Vittorio, hanno visto sorgere, a ritmi inarrestabili, molteplici esercizi commerciali. Questo grazie alla facilità di denaro contante di cui dispongono i clan. Tutto a beffa e danno dei commercianti italiani che, non disponendo di cifre simili, non riescono a competere con loro sull’acquisto o affitto di locali da adibire ad attività commerciale. Ogni cosa viene decisa e preventivata a tavolino da queste organizzazioni che si occupano di tutto: rilevamento dell’attività, la zona giusta, i contatti necessari per l’acquisto, l’arredamento e, cosa fondamentale, la scelta del nucleo familiare (cinese) che andrà a gestire questa nuova attività commerciale. Ma non si tratta di un atto di generosità, tutt’altro. Oltre ad essere sfruttata, la famiglia in questione si vedrà richiedere, a tassi maggiorati, i soldi anticipati. E se qualcosa va storto, le conseguenze possono essere terribili. Perché, un altro dato non da trascurare, è la riconoscibilità di queste persone. I tratti somatici dei cinesi inducono molte volte a confonderli l’uno con un altro. Come scambiare un coreano per un giapponese e viceversa. Questa difficoltà per gli italiani e per le forze dell’ordine stesse, è sfruttata a dovere da questi clan, soprattutto quando all’improvviso un loro connazionale “sparisce”. All’interno della comunità criminale cinese, infatti, gli omicidi sarebbero all’ordine del giorno, ma per gli inquirenti è molto difficile venirne a conoscenza proprio per i motivi suddetti. Al momento della scomparsa del malcapitato, è uso che i suoi documenti vengano presi da un suo connazionale, certi che nessuno se ne accorgerà. Alla famiglia della vittima non resterà che continuare a lavorare per i clan nella speranza di estinguere il debito. Queste persone sono, il più delle volte, immigrati clandestini. Fra i tanti business cinesi il traffico di immigrati clandestini costituisce, di fatto, un traffico di schiavi, con una vera e propria attività di compravendita di esseri umani a fini di brutale profitto. Il clandestino che giunge in Italia rimane strettamente assoggettato al vincolo del debito da estinguere con chi ha pagato il prezzo della sua liberazione, o meglio, del suo riscatto: ciò avviene attraverso il lavoro nelle aziende, tessili e di pelletteria, di proprietà di connazionali, con la costrizione a subire orari di lavoro interminabili, con una retribuzione certamente inadeguata e non proporzionata alle prestazioni. Rapine, furti ed estorsioni sono reati interni alla comunità, consumati da cinesi a danno degli stessi connazionali.

Nel quartiere romano di Torpignattara, i residenti ormai non ci fanno più caso, parliamo di quelli più giovani che vivono la multi etnicità di questa zona fin dalla nascita. Ma chi, invece, molti anni prima ha deciso di vivere qui, non riesce ancora ad accettare questo cambiamento. Il quartiere, infatti, assomiglia sempre di più a una delle tante banlieu francesi. Qui la presenza d’immigrati stranieri raddoppia di gran lunga la percentuale di residenti italiani. Abbiamo cercato di testare gli animi dei residenti.  Una signora, proprietaria di un bar, racconta di come lei stessa sia stata avvicinata da questi clan e di come abbia resistito al loro assalto: “Una mattina, mi sono vista entrare tre uomini, di nazionalità cinese. Parlavano italiano stentato, ma hanno fatto capire subito cosa volevano.  Mi hanno proposto una cifra superiore al valore della mia attività e tutto in contanti”. Una proposta allettante visto i tempi. “Certo – aggiunge la donna – ma questo bar appartiene da tre generazioni alla famiglia di mio padre e seppur con difficoltà ho detto, no. Sono tornati altre tre volte, ma la risposta è rimasta quella”. E se a Torpignattara il business dei clan con gli occhi a mandorla sono gli esercizi commerciali, è piazza Vittorio Emanuele la vera China Town di Roma.  Qui intere strade sono piene di negozi appartenenti ai clan criminali dagli occhi a mandorla, ma la maggior parte di questi (non tutti ovviamente) sono solo delle facciate che nascondono retrobottega dove si svolgono attività legate al gioco d’azzardo e riciclaggio di soldi provenienti da prostituzione e traffico di droga. La prostituzione, in particolare, avviene in appartamenti preventivamente acquistati o presi in affitto sempre dai clan cinesi. Secondo gli inquirenti ogni singola prostituta garantisce alla mafia made in china almeno un migliaio di euro al giorno. I clienti vengono adescati sui vari siti internet o su semplici annunci di giornale. Sembra ci siano addirittura dei centralini adibiti appositamente per smistare le richieste dei clienti. Questo accade non solo a Roma, ma anche a Firenze, Pescara, Milano, Avellino, Palermo, Cesena e Prato.  Proprio qui, un anno fa gli agenti della squadra mobile hanno posto sotto sequestro un locale e hanno eseguito dieci misure cautelari nei confronti di 9 persone di origine cinese.  Il blitz era avvenuto in quello che ufficialmente doveva essere un circolo socio culturale e, invece, in realtà era un vero e proprio night club dove i clienti potevano trovare prostitute cinesi e sostanze stupefacenti come cocaina, ketamina ed ectasy.

E proprio a Milano, nell’ambito dell’attività di contrasto delle bande giovanili cinesi, nell’ottobre scorso sono state arrestate 68 persone di nazionalità cinese. Sequestrati, per un valore di vendita al dettaglio pari a circa 2 milioni di euro, circa 3,5 chili di shaboo, la potente metanfetamina conosciuta come la droga più potente e pericolosa al mondo capace di annientare le coscienze di chi ne fa uso. Il traffico avveniva tra le province di Milano, Monza e Brianza, Cagliari, Cremona, Como, Parma, Pavia, Prato, Rovigo, Treviso e addirittura contestualmente anche in Austria, Polonia, Romania e Spagna e Gran Bretagna. Ma nonostante questo, da parte della polizia, ogni volta risulta difficilissimo arrestarli. Questo perché la Triade fa in modo di usare, in Italia e all’estero, appartamenti a rotazione fra prostitute, spacciatori e normali famiglie cinesi. Tutto, naturalmente, al fine di mandare in confusione le indagini delle forze dell’ordine. Sull’andamento di queste organizzazioni criminali abbiamo interpellato il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, che ha affermato: “Ad oggi, seppur i tentacoli di questa mafia si sono allungati su diverse delle nostre regioni italiane e non solo, stando ai dati dell’ultimo rapporto del 2015 della relazione della Direzione nazionale antimafia, sembra che non vi siano stati ulteriori incrementi di questo fenomeno. Di certo non abbasseremo l’attenzione su queste organizzazioni criminali”.

Blitz della polizia contro la mafia cinese: 33 arresti. L'operazione in diverse città italiane e in Europa ha permesso di scoprire dinamiche, ruoli e alleanze di una vasta organizzazione e il monopolio del traffico su strada di merci di origine cinese, scrive Laura Montanari il 18 gennaio 2018 su "La Repubblica". Avevano quasi il monopolio del traffico su strada delle merci di origine cinese in Italia, Francia, Spagna, Germania e altri paesi. Un giro di centinaia milioni di euro, un calcolo esatto è impossibile al momento farlo. Ma i numeri sono enormi, dicono le accuse. Del resto l’organizzazione scoperta dall’indagine cominciata dalla squadra mobile di Prato ed emersa dall’inchiesta della Dda di Firenze, racconta di un’organizzazione mafiosa cinese che controllava non soltanto la logistica di quello che viene prodotto nelle fabbriche delle varie Chinatown e poi diffuso sui mercati, ma anche bische clandestine a Roma e a Prato, locali notturni, prostituzione, spaccio di droga, estorsione. Trentatré misure di custodia cautelare per cittadini cinesi accusati è far parte di un’organizzazione mafiosa di un gruppo criminale proveniente dal Fujiang, 54 persone indagate. Due anni di indagini per l'operazione chiamata 2China Truck". L’inchiesta parte dal controllo di un'azienda, con sede a Prato che era il cuore dell'attività criminale. Partendo da lì, le indagini si sono ramificate e hanno scoperto una geografia criminale che ha conquistato quasi il monopolio del traffico su strada grazie a un clima di terrore: ricatti, estorsioni, aggressioni all'interno della comunità cinese. Quello che colpisce è l'estensione e di come questa mafia sia cresciuta all'interno dell'Italia e diversi paesi europei inquinando direttamente o indirettamente commerci e imprese. In cima all'organizzazione, secondo le accuse, c’è Zhang Naizhong, 57 anni, residente a Roma e il suo braccio operativo pratese, Lin, ufficialmente residente in Cina nella regione del Fujiang, in realtà il riferimento della mafia per l’area Pratese. Zhang che dai suoi veniva chiamato "l'uomo nero", è stato seguito ieri sera dai poliziotti in borghese della squadra mobile agli ordini di Francesco Nannuncci: era nell’area industriale del Macrolotto di Prato, ha visitato diverse aziende di connazionali e ogni volta che usciva, seguito da uno stuolo di guardie del corpo, cambiava auto. Ha cenato in un ristorante e lì ha ricevuto la visita di altre persone che si inchinavano con deferenza al suo cospetto. Fra le persone arrestate c'è anche una giovane donna, Chen Xiaomian detta Amei, 41 anni, abitante a Prato, segretaria, manager dei capitali leciti e illeciti dell'organizzazione e compagna del boss: nella sua abitazione sono stati sequestrati 30mila euro in contanti. Zhang ha scalato il vertice della mafia cinese in Italia imponendo la 'pace' a Prato dopo una sanguinosa guerra fra bande, costata, come hanno spiegato gli investigatori, numerosi morti in città nel corso degli anni 2000. La sua organizzazione ha potuto così dedicarsi a promuovere infiltrazioni nell'economia legale e a controllare attività criminali compreso usura e raket: "Prima non sapevo come fare gli affari perché sapevo solo fare il mafioso..." dice il boss a uno dei suoi.

Il duplice omicidio del 2010. "L'inchiesta è partita da un duplice omicidio di due giovani cinesi uccisi a Prato nel 2010. Era in corso un guerra fra bande orientali - ha spiegato il paco della mobile di Prato, Francesco Nannucci -, c'erano stati diversi omicidi ogni anno per la conquista dell'economia criminale. Poi questa sequenza di morte si interruppe, per altri anni fino ad ora. Ci fu un ordine a smettere con le violenze. Per noi era impossibile non pensare a un intervento della mafia cinese che impose una sua pace per dedicarsi con tranquillità ai suoi affari senza attirare la nostra attenzione". Il duplice omicidio avvenne in un ristorante e le vittime furono aggredite col machete. Da allora nella città toscana la polizia ha ravvisato una recrudescenza nei rapporti interni alla comunità cinese a Prato in una sparatoria del marzo 2017 in cui non ci furono feriti o vittime, ma danni voluti ad auto: era una spedizione punitiva.

L'inchiesta, coordinata dalla Dda di Firenze, ha previsto misure cautelari scattate oltre che in Italia anche in Francia e Spagna, grazie alla collaborazione delle rispettive polizie. 

 Una lunga indagine, iniziata nel 2011, ha permesso di far luce sulle dinamiche della mafia cinese in Europa e su ruoli e alleanze all'interno dell'organizzazione: la polizia ha evidenziato, in particolare, il quasi monopolio in Francia, Spagna e in altri paesi del traffico su strada di merci di origine cinese, un'egemonia nel campo della logistica, imposta attraverso il metodo mafioso ed alimentata dagli introiti provenienti dalle attività criminali tipiche della mafia cinese.  "Riuscire a individuare una complessa organizzazione mafiosa cinese non è ordinario ma eccezionale - ha detto il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho nel corso della conferenza stampa che si è tenuta in procura a Firenze - . Eccezionale identificare la sua composizione e operatività. Riconoscere i caratteri mafiosi è un fatto quasi incredibile. E' importante tenere alto il livello quando queste associazioni inquinano la nostra economia. Qui si infiltravano nell'economia pulita legale".

Nel blitz che ha portato agli arresti di questa mattina sono stati impegnati gli uomini del Servizio centrale operativo (Sco), delle squadre mobili di Prato, Roma, Firenze, Milano, Padova e Pisa, dei reparti prevenzione crimine oltre a quelli dei reparti volo e cinofili.

L'associazione era composta da soggetti originari di due regioni della Cina, lo Zhejiang e il Fujian, e operava oltre che in Italia anche a Parigi, Neuss, in Germania e a Madrid. I 33 destinatari della misura cautelare in carcere emessa dal Gip di Firenze Alessandro Moneti hanno l'accusa di 416 bis (associazione mafiosa) e altri reati, 21 sono gli indagati a piede libero, di cui 10 sempre per associazione a delinquere di stampo mafioso e 11 per altri reati. La maggior parte dei provvedimenti sono scattati a Prato: 25 indagati, di cui 16 arrestati e 9 denunciati a piede libero mentre sono otto gli arrestati a Roma (dove sono 10 gli indagati). A Milano e Padova sono state arrestate due persone mentre tra Firenze e Pisa gli indagati a piede libero sono 7. Altre 4 persone si trovavano invece già in carcere per altri motivi e due sono i soggetti di origine cinese arrestati in Francia (dove ci sono anche altri due indagati). Infine, due destinatari del provvedimento si trovano attualmente in Cina.

Nell'ambito dell'indagine è anche stato disposto il sequestro di 8 società, 8 veicoli, due immobili e una sessantina tra conti correnti e deposito titoli per un valore di diversi milioni.

Le reazioni. "Sono grato alle donne e agli uomini della Polizia di Stato che hanno lavorato in stretta sinergia con la Magistratura - ha detto il ministro dell'Interno Marco Minniti - andando a colpire al cuore una pericolosa organizzazione, che aveva imposto una vera e propria egemonia nel controllo del trasporto merci su strada, finanziata con gli introiti delle proprie attività criminali". E il procuratore antimafia Cafiero ha aggiunto: "è un risultato, questa indagine, che dà anche contezza di quanto il nostro territorio sia inquinato dalle mafie, non soltanto dalle mafie autoctone ma anche da quelle straniere. La presenza della mafia cinese a Prato si è sempre sospettata, ma oggi abbiamo conferma".

Come funzionava il clan della mafia cinese sgominato a Prato. Una struttura piramidale, ma a rotazione. Dove tutti potevano guadagnare tanto, a turno. E un capo dei capi che comprava corni di rinoceronte, e pretendeva l'inchino, scrive il 18 gennaio 2018 "L'Agi".

Una piramide con un meccanismo circolare, che consentiva a ogni partecipante, a rotazione, di trovarsi all'apice e quindi beneficiare di una certa somma di denaro, o all'ultimo posto, in veste di finanziatore. Questo quanto scoperto dalle indagini sul racket della mafia cinese con l'operazione della Squadra mobile di Prato che su mandato della Dda di Firenze ha arrestato 33 persone per associazione a delinquere di stampo mafioso. Altre 54 sono indagate (La Repubblica).

Il meccanismo piramidale, a rotazione. Il meccanismo 'rotatorio' funzionava in questo modo: a turno si metteva a disposizione dei componenti la gang una somma di circa centomila euro, "da destinare al primo affiliato della lista". Soldi che a utilizzava "per i propri affari". Subito dopo, però "il beneficiario scorreva in fondo alla lista, e il mese successivo concorreva alla dazione" per quello che diventava "il primo". Questo meccanismo interno al clan cinese permetteva, secondo il gip che ha firmato le ordinanze di custodia cautelare in carcere, di raggiungere "diversi scopi". "Si ricicla denaro all'interno di una cerchia ristretta di persone, si garantisce anonimato esterno, non si ricorre a interessi di banche (o di usurai), si può impiegare il denaro (frutto di attività illecite o, quanto meno di evasione fiscale) in maniera del tutto svincolata da ogni contabilità e, quindi, anche per portare avanti altre attività illecite", sottolinea il giudice.

E poi un capo. Il capo dei capi, a Roma. Negozi in centri commerciali italiani, ma anche costosi status symbol particolarmente richiesti in Cina come i corni di rinoceronte e addirittura la prospettiva di una quota in una miniera di carbone in Cina. Erano questi gli investimenti del boss Zhang Naizhong, arrestato oggi nel blitz della polizia contro la mafia cinese. In qualità di capo dell'organizzazione criminale, scrive il giudice nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso, il 57enne dispone di "ingenti quantità di denaro che rappresentano i proventi delle attività illecite poste in essere dal gruppo criminale in argomento, quali ad esempio la contraffazione, il gioco d'azzardo, l'usura, le estorsioni, lo spaccio di sostanze stupefacenti e lo sfruttamento della prostituzione" (Corriere della Sera).

Il gip lo ha definito il capo dei capi; lui stesso nelle intercettazioni ambientali si definisce il 'boss' e per lui, residente a Roma ma con numerosi interessi a Prato, gli 'affiliati' lo riverivano con inchini al suo arrivo. Zhang Nai Zhong è ritenuto l'elemento a capo dell'organizzazione. Alla scena degli inchini hanno assistito gli investigatori della squadra mobile di Prato: Zhang era appena arrivato in Toscana, stava pranzando in un ristorante quando gli investigatori hanno assistito a una vera e propria processione di cinesi, arrivati apposta nel locale per salutarlo con un inchino (Il Messaggero). 

Mafia cinese, matrimonio all'Hilton di Roma in stile Casamonica, scrive Giovedì 18 Gennaio 2018 “Il Messaggero". Un matrimonio da favola all'hotel Hilton di Roma con vista sull'intera città, gli invitati fatti arrivare a bordo di Ferrari e Lamborghini, un conto da 80mila euro saldato in contanti. A certificare il ruolo e il carisma di Naizhong Zhang, quello che per gli investigatori è il 'capo dei capì della mafia cinese in Italia e anche in Europa, è la cerimonia di nozze del figlio, Di Zhang, celebrata a Roma il 6 febbraio del 2013. Al matrimonio partecipano circa 500 invitati provenienti da varie parti d'Italia ma anche dalla Francia e dalla Cina. Il boss si è personalmente occupato di non far mancare nulla ai suoi ospiti: alloggio a sue spese, il noleggio di Ferrari e Lamborghini con autista per portare gli invitati all'hotel, il noleggio di due pullman per far arrivare i quasi novanta invitati provenienti da Prato, tra i quali ovviamente i personaggi più influenti della comunità di origine fujianese con la quale, prima dell'accordo che ha siglato la pace, era in contrapposizione. E proprio intercettando le telefonate in cui gli indagati parlavano dell'organizzazione del matrimonio, gli investigatori hanno avuto l'ulteriore conferma che Naizhong fosse da tutti riconosciuto come il capo dell'organizzazione. In una di queste, a gennaio 2013 e dunque un mese prima del matrimonio, il boss parla al telefono con il fratello che si trovava in Francia. Quest'ultimo teme che, poiché i suoi amici «sono mafiosi», che possa scatenarsi una rissa tra loro, magari dopo aver bevuto. Ma Naizhong esclude categoricamente questa possibilità in quanto è sicuro che nessuno gli mancherà di rispetto: «Se vengono qui da me sanno come comportarsi - dice - ...noi non dobbiamo pensare troppo, sono cose che non ci riguardano...Normalmente non può succedere una cosa del genere, anzi non esiste proprio. Chi è che ha il coraggio di litigare a tavola al matrimonio di mio figlio solo perché è ubriaco? Non esiste. Se qualcuno lo farà è evidente che ce l'ha con me! A me non importa se mi dirà che ce l'ha con qualcun altro, per me ce l'ha con me, perché io sto facendo la festa. Quindi non può accadere una cosa di questo genere».

Inchini e riverenze, il matrimonio di lusso in Ferrari e Lamborghini; in manette il capo dei capi della mafia cinese. Arrestato dalla Polizia, nel corso di un’indagine condotta in tutta Europa, Zhang Nai Zhong, il padrino della mafia cinese in Italia. Fermate altre 32 persone, anche in Francia e Spagna, scrive il 18 gennaio 2018 Alessandro Fulloni su "Il Corriere della Sera".

Riverito con l’inchino. Riverito non con il baciamano. Ma con gli inchini. Sembrano scene e intercettazioni riguardanti la mafia siciliana: sfarzo, lusso, violenza, tanti soldi riciclati in attività lecite e illecite. Però in manette è finito il «capo dei capi» della mafia cinese in Italia. Ovvero Zhang Nai Zhong, 48 anni, ammanettato ieri assieme ad altre 32 persone nel corso di un’inchiesta condotta in tutta Europa ma partita da Prato, dove il «mammasantissima» aveva la sua base operativa anche se viveva a Roma, in un appartamento a viale Marconi. «D’altro canto chi comanda la mafia cinese nella cittadina toscana comanda le organizzazioni criminali cinesi in tutta Europa». Lo hanno sottolineato gli inquirenti della Dda di Firenze che hanno coordinato l’operazione China Truck partita dalle indagini sulle guerre fra bande in Toscana. Al proposito, come esempio, il capo della squadra mobile di Prato Francesco Nannucci ha ricordato un episodio significativo emerso dalle indagini: «Zhang Naizhong, che si faceva chiamare il “capo dei capi” e come tale è riconosciuto dai suoi connazionali, andò a Parigi per risolvere controversie fra gang cinesi. A chi lo accompagnava disse di chiamarlo “capo” davanti a tutti i capi cinesi in Francia. Così fu e nella sua opera di mediazione criminale Oltralpe ebbe successo acquisendo ulteriore potere e prestigio in Europa». Il business dell’organizzazione mafiosa? Attraverso intimidazioni e vere e proprie violenze il gruppo criminale si è impossessato, passo dopo passo, di tutto il sistema di trasporti delle merci prodotte in Cina, infiltrandosi, più con le cattive che con le buone, in attività apparentemente regolari in Italia e in Europa. Ma con i capitali illeciti derivati da contraffazione, gioco d’azzardo, droga, usura, estorsioni, prostituzione Zhang Naizhong, dava ordini da Prato per fare investimenti in attività redditizie: in Cina puntava a miniere di carbone e a oggetti particolarmente costosi, addirittura corna di rinoceronte; in Italia mirava a rilevare attività redditizie legali come un centro commerciale a Firenze, o illegali, come bische per il gioco d’azzardo.

Un matrimonio da favola. Un matrimonio da favola all’hotel Hilton di Roma con vista sull’intera città, gli invitati fatti arrivare a bordo di Ferrari e Lamborghini, un conto da 80mila euro saldato in contanti. A certificare il ruolo e il carisma di Naizhong Zhang, è la cerimonia di nozze del figlio, Di Zhang, celebrata a Roma il 6 febbraio del 2013. Al matrimonio partecipano circa 500 invitati provenienti da varie parti d’Italia ma anche dalla Francia e dalla Cina. Il boss si è personalmente occupato di non far mancare nulla ai suoi ospiti: alloggio a sue spese, il noleggio di Ferrari e Lamborghini con autista per portare gli invitati all’hotel, il noleggio di due pullman per far arrivare i quasi novanta invitati provenienti da Prato, tra i quali ovviamente i personaggi più influenti della comunità di origine fujianese con la quale, prima dell’accordo che ha siglato la «pace», era in contrapposizione. E proprio intercettando...... le telefonate in cui gli indagati parlavano dell’organizzazione del matrimonio, gli investigatori hanno avuto l’ulteriore conferma che Naizhong fosse da tutti riconosciuto come il capo dell’organizzazione. In una di queste, a gennaio 2013 e dunque un mese prima del matrimonio, il boss parla al telefono con il fratello che si trovava in Francia. Quest’ultimo teme che, poiché i suoi amici «sono mafiosi», che possa scatenarsi una rissa tra loro, magari dopo aver bevuto. Ma Naizhong esclude categoricamente questa possibilità in quanto è sicuro che nessuno gli mancherà di rispetto: «Se vengono qui da me sanno come comportarsi - dice - ...noi non dobbiamo pensare troppo, sono cose che non ci riguardano...Normalmente non può succedere una cosa del genere, anzi non esiste proprio. Chi è che ha il coraggio di litigare a tavola al matrimonio di mio figlio solo perché è ubriaco? Non esiste. Se qualcuno lo farà è evidente che ce l’ha con me! A me non importa se mi dirà che ce l’ha con qualcun altro, per me ce l’ha con me, perché io sto facendo la festa. Quindi non può accadere una cosa di questo genere».

Le attività fuorilegge. Le attività di per sé lecite (trasporto di merci, gestione di locali notturni) sono «svolte con modalità tali — scrive il gip Moneti nell’ordinanza — da schiacciare la concorrenza, altre del tutto illecite, quali l’estorsione, lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, il gioco d’azzardo, la contraffazione di marchi, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». «Non è casuale che le indagini abbiano rivelato un passato criminale realizzato in Cina per alcuni degli indagati: Wu Guojun», uno dei 54 indagati, «risulta ricercato per omicidio, reato per il quale stava operando in modo che, attraverso propri parenti, potesse corrompere funzionari di polizia cinese e farsi togliere la foto dai terminali e sostituirla con altra».

Firenze, arrestato boss mafia cinese. Zhang: "Sono il più potente in Europa". Sono state arrestate 33 persone accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso, scrive Giovedì 18 Gennaio 2018 Francesco Bongiovanni su "La Presse". "Io sono il più potente in Europa, non mi sto vantando di me stesso, puoi chiederlo a chiunque". Così Zhang Naizhong, 58 anni, considerato il 'capo dei capi' della mafia cinese in Italia, arrestato oggi a casa sua a Roma nell'ambito dell'inchiesta China Truck, intercettato al telefono, parlava di sé con un connazionale.

Il blitz, scattato all'alba, condotto dalla polizia e coordinato dalla Direzione distrettuale antimafia di Firenze, ha portato all'arresto di 33 persone accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso. Altre 21 persone sono indagate a piede libero, di cui 10 sempre per associazione a delinquere di stampo mafioso. Cuore dell'attività criminale sarebbe un'azienda di autotrasporti di Prato. Partendo da lì nel 2011, le indagini si sono ramificate e hanno alzato il velo su un'organizzazione che gestiva bische clandestine, prostituzione, droga, locali notturni e, infine, il monopolio del commercio e del trasporto delle merci contraffatte. Secondo gli investigatori, la mafia cinese di Prato, dove Zhang detta legge e ha i suoi principali interessi economici, comanda in Europa. La sua fama, nell'ambito delle organizzazioni criminali cinesi, è elevata anche perché, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, Zhang si è affermato riportando la pace tra le due bande che si contendevano gli affari illeciti a Prato, con una scia di omicidi. Un'operazione analoga l'avrebbe portata a termine anche in Francia. E il boss dispensava lezioni di 'mafiosità' agli accoliti. "Nella mafia ci sono le regole della mafia, se una persona non rispetta le regole come fa a continuare a camminare nella strada della mafia?", diceva Zhang Naizhong in un'altra telefonata intercettata, esaltando anche la propria carriera di imprenditore dei trasporti e la sua gestione dei rapporti con i connazionali. "Prima - spiegava al telefono - non sapevo come fare gli affari perché sapevo fare solo il mafioso, ora invece non faccio più il mafioso. Non solo capo mafia. Sono cambiato, ci saranno sei mesi di perdita, ho già previsto anche quanto andrà a perdere e ho previsto anche quando migliorerà l'attività". Zhang Naizhong distingueva, in ordine di importanza, le persone fidate in 'fratelli' e 'amici'. Le persone fidate sono quelle più strettamente legate a lui. I fratelli sono gli associati. Gli amici sono quelli legati, ma non affiliati al gruppo. In altre intercettazioni spiegava a un altro interlocutore, parlando di un affiliato al clan: "Ora piano piano sta accettando questa realtà di stare con noi perché nella mafia ci vuole la strategia per andare avanti, hai capito? Alla mafia di oggi non serve più l'arroganza e la violenza, ci vuole la strategia. La persona che ha la strategia migliore vince, le persone che hanno la strategia peggiore perdono". In un'altra lezione telefonica Zhang diceva: "Specialmente un uomo deve avere un carattere forte. Solo così le persone ti rispettano e ti ammirano. A questo punto i fratelli mi rispettano perché sono il capo e quindi il capo può decidere qualsiasi cosa". Strategia per stabilire alleanze e condurre gli affari, ma anche violenza e terrore. E in una telefonata, infine, il boss riassume la sua filosofia mafiosa: "Io non parlo tanto con le persone, io dico solo due frasi alle persone: se lui è mio fratello oppure mio amico, e basta. E se non è amico è un nemico, se sei un nemico allora sei finito".

Il padrino che viene dalla Cina: come funziona (e fa soldi) la Piovra asiatica in Italia. Estorsioni, usura, droga, prostituzione, omicidi. E fiumi di denaro cash. Per la prima volta le indagini fanno luce sugli affari italiani del boss Zhang Naizhong soprannominato “L’uomo nero”. Contro cui da pochi giorni è cominciato il processo, scrive Lirio Abbate il 15 gennaio 2019 su "L'Espresso". Le auto di lusso si fermano una dopo l’altra davanti all’ingresso di un ristorante cinese a Prato. È sera. Dalle berline tirate a lucido sbucano uomini di bassa statura e robusti, magri e alti, eleganti o vestiti con abiti alla moda. Hanno tutti gli occhi a mandorla e uno dopo l’altro si infilano nel locale con passo svelto. Arrivano a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro - sembra quasi fila indiana - ed entrano composti, in silenzio, puntando dritti al centro della sala del ristorante dove ad attenderli in piedi c’è un signore piccolo e magro, dai capelli corti e neri che indossa un abito scuro. E davanti a quest’uomo s’inchinano tutti con deferenza. Non pronunciano alcuna frase. È un segno di rispetto, anzi un omaggio a quest’uomo che chiamano “il capo”. Poi girano i tacchi, riprendono l’uscita del ristorante e vanno via a bordo delle loro auto. All’anagrafe la persona al centro della sala si chiama Zhang Naizhong, detto anche “L’uomo nero”. Ha 58 anni, è nato nello Zhejiang, provincia orientale costiera della Cina che ha stretti legami con il nostro Paese: lo Zhejiang meridionale e in particolare, la città-prefettura di Wenzhou e i distretti di Qingtian e Wencheng sono la terra d’origine del 90 per cento delle comunità di immigrati cinesi in Italia e in Europa. L’inchino a Zhang non è un semplice saluto a un connazionale venuto dalla Cina, ma il riconoscimento al “capo” che sovrasta sulla comunità cinese di Prato, la seconda più grande d’Europa dopo quella di Parigi. Lui vive a Roma, dove gestisce i suoi affari milionari e i business illegali, e a Prato periodicamente porta il suo saluto come lo porta in giro per le comunità italiane, da Padova a Milano a Torino, fino a Parigi. E in ogni posto in cui arriva è accolto con deferenza. Perché gran parte dei cinesi che vivono in Italia e nelle più grosse comunità europee hanno paura di Zhang, conoscono la sua potenza, sono consapevoli di ciò di cui è capace servendosi della manovalanza criminale. E poi ha un potere economico vastissimo. A gennaio dello scorso anno - quando gli agenti della polizia di Stato sono andati a notte fonda ad arrestarlo su richiesta della procura antimafia di Firenze perché accusato di essere al vertice di una grande organizzazione mafiosa cinese (accuse che il tribunale del riesame toscano ha poi fatto cadere) - Zhang Naizhong dormiva sonni tranquilli, anche perché ai piedi del suo grande letto vegliava su di lui un robusto cinese residente a Prato: seduto su una poltrona, come usano fare i guardaspalle, con il compito di proteggerlo. Da chi non si sa. Ma anche quando dorme Zhang viene guardato a vista dai suoi uomini. Nulla però ha potuto fare il bodyguard quando hanno fatto irruzione i poliziotti: ha alzato le mani e si è limitato a vedere come veniva portato via il suo boss. Zhang NaizhongGli investigatori hanno osservato e controllato Zhang per anni, registrandone le mosse e le conversazioni. Così ne hanno tracciato, attraverso i fatti documentati, un quadro in cui emerge il suo ruolo di vertice di una grande organizzazione che fa affari in vari campi. Non sono episodi parcellizzati, ma legati da un unico filo giallo. Ufficialmente Zhang è imprenditore del settore trasporto merci, con centinaia di tir e furgoni che viaggiano per l’Italia e l’Europa. Queste società però non sono intestate a lui, benché poi “l’uomo nero” incassi tutto. Zhang fa anche prestiti ad usura ed è accusato di controllare sale da gioco illegali, prostituzione, traffici di droga, estorsioni e riciclaggio.

Obiettivo: invisibilità. “L’uomo nero” oggi è a piede libero anche se da pochi giorni per lui è iniziato a Firenze un processo in cui è imputato per diversi reati. Tra questi non c’è la mafia, che però resta ancora in piedi nelle inchieste e pende come una spada sulla sua testa: per farlo arrivare a processo per mafia occorre saper cucire bene i tantissimi fatti documentati dalla polizia di Prato e dal Servizio centrale operativo, dimostrando ai giudici che si tratta di un’unica organizzazione gerarchicamente strutturata che miete terrore e morte non solo in Toscana, ma anche nel resto delle comunità cinesi in Italia e in Europa. Il potere di Zhang Naizhong è ben recepito dalla base della comunità cinese. L’uomo nero riesce a muovere ogni giorno, attraverso i suoi mezzi di trasporto, scatoloni pieni di banconote da 500 euro che formano complessivamente milioni di euro. Cash a volontà consegnato a domicilio ogni giorno in città diverse direttamente a prestanome che acquistano attività commerciali, investono in attività lecite, inquinano l’economia legale di intere città, minano l’imprenditoria sana che paga le tasse. Durante le indagini la polizia ha intercettato una conversazione fra alcuni componenti del clan di Zhang: parlavano tra loro del fatto che la Guardia di Finanza di Roma, in una sua indagine sul traffico di droga, aveva fermato un tir dell’organizzazione proveniente dalla Spagna con un carico di stupefacenti. I cinesi però non erano in fibrillazione per aver perso il carico di droga, ma per uno scatolone pieno zeppo di banconote nascosto fra i trecento colli che trasportava il tir. I finanzieri, controllando, i pacchi hanno fatto la scoperta e il denaro è stato sequestrato. Fino a pochi anni fa, secondo i dati della Banca d’Italia, da Prato partiva ogni giorno verso la Cina un milione e mezzo di euro attraverso money transfer o bonifici bancari. Questi sono i volumi di denaro che circolano nella comunità cinese. E rendono potenti personaggi come Zhang Naizhong ai quali i suoi connazionali si rivolgono per risolvere ogni genere di problema. La strategia di dominio di Zhang nella comunità cinese si è divisa tra la necessaria politica di formale rispetto delle leggi, comprese quelle economiche di mercato, e la gestione degli interessi delinquenziali del clan dell’uomo nero. Rispetto alle istituzioni, la mafia cinese non è mai stata troppo visibile, non si è mai messa in aperto antagonismo con lo Stato, cercando anzi di apparire il meno possibile. Meno ci si fa vedere, meno c’è il rischio di entrare nel mirino delle forze dell’ordine e dei magistrati. Per questo i clan cinesi procedono nell’invisibilità, sfruttando però al massimo il metodo mafioso. Nel tempo, Zhang Naizhong è riuscito a creare una rete e una struttura piramidale della sua organizzazione, mettendo la comunità cinese in uno stato di profonda soggezione e omertà, tanto che molti hanno paura anche solo a pronunciare i nomi dei leader del gruppo davanti alle forze di polizia. L’associazione criminale ha mostrato di possedere una pervasiva influenza e una riconosciuta autorità nell’ambito della comunità cinese in generale - e non limitata ai territori classici di competenza - derivatagli dalla capacità dei vertici del sodalizio di risolvere qualsiasi tipo di problematica e controversia riguardante i propri connazionali. Proprio in virtù di questa autorità riconosciutagli - e della forza intimidatoria esercitata - in svariate circostanze la comunità cinese ha investito i capi del clan del compito di risolvere le loro questioni, riconoscendo a Zhang e ai suoi il ruolo di veri e propri “giudici” informali ma potenti. Ci sono conversazioni registrate in cui donne e uomini si rivolgono al boss per avere aiuto, e la considerano «una cosa logica e giusta».

Basta una telefonata. La necessità della criminalità organizzata cinese non è quella di radicarsi in un territorio, ma in una comunità. Ecco perché l’epicentro di tutti gli affari è Prato, area intorno alla quale ruotano i maggiori interessi del gruppo che, da qui, coinvolgono tutta l’Europa. A Prato c’è tutto il gruppo di Naizhong, c’è la base dell’associazione e tutti gli uomini più importanti dell’associazione, sia a livello di vertici sia a quelli più bassi. Controllare Prato, essere forti a Prato - come spiegano gli investigatori - consente di essere forti in tutta Europa. Il centro degli interessi dell’associazione di Zhang Naizhong è dunque questa cittadina toscana, trampolino per l’egemonia in Italia e in Europa. Basta pensare che le estorsioni ai cinesi le fanno gli stessi connazionali e il taglieggiamento all’interno della comunità è estremamente diffuso. Fino a pochi anni fa capitava che alcuni titolari di aziende di Prato che fanno capo agli asiatici (sono quasi cinquemila le imprese cinesi nella cittadina toscana) denunciassero alla polizia la richiesta di pizzo che ricevevano dai propri connazionali. Gli agenti, indagando, erano riusciti ad arrestare in flagranza di reato gli esattori. Dopo decine di arresti però i malavitosi cinesi hanno cambiato strategia: hanno capito che andare di persona a riscuotere il pizzo era diventato pericoloso e così si sono organizzati diversamente. Adesso imprenditori e commercianti ricevono direttamente dalla Cina la chiamata con la quale viene imposto il pizzo, con conseguente minaccia. Al telefono dicono: «Se non paghi ti bruciamo l’azienda». Bastano poche parole e la vittima capisce che non è uno scherzo, si convince subito. Per il pagamento viene dato un numero di conto bancario in Cina su cui vengono versate con un bonifico on line le somme estorte. In questo modo il clan fa capire alle sue vittime che può sfuggire alle indagini italiane (inutile provare a far denuncia) ma fa comprendere anche l’ampiezza dell’organizzazione piramidale e legata dalla Cina all’Italia fino in Europa. Sono una cosa sola. In qualche modo, si potrebbe paragonare alla ’ndrangheta: ciò che viene ordinato nel piccolo paesino della Locride, può essere eseguito anche in Australia o in Germania. Basta quindi una telefonata dalla Cina in cui le vittime vengono minacciate in Italia e queste eseguono gli ordini, pagano ciò che gli viene richiesto, perché la comunità cinese riconosce la potenza criminale e internazionale del clan. Ci sono intercettazioni sull’organizzazione di Zhang Naizhong in cui si ascoltano persone che chiamano dalla Cina e chiedono ai “colleghi “di Prato se sono stati loro a fare delle estorsioni ad alcuni commercianti amici di Padova. «Sì, sono i miei che hanno fatto l’estorsione», dicono a Prato; e dalla Cina ribattono: «Si potrebbe evitare?». Dalla Toscana rispondono: «Certo, se sono veri amici si può evitare». In Cina insomma sanno perfettamente che l’organizzazione a Prato è abbastanza forte da poter fare estorsioni anche a Padova.

L’alleanza strategica. Il braccio destro di Zhang Naizhong oggi è Lin Guochun detto Laolin, 51 anni, capo della malavita proveniente dalla regione del Fujian in Cina, che opera soprattutto nell’area pratese e fiorentina, ma il cui ruolo è riconosciuto da tutti i fujianesi in Europa. In passato i due gruppi erano separati: quello di Zhang Naizhong e quello di Laolin. C’erano stati anche scontri e conflitti tra i due clan per il controllo del territorio a Prato. Ora questa guerra è stata superata: Zhang e Laolin sono alleati, anche se quest’ultimo ha dovuto accettare un ruolo subordinato, per garantire tranquillità al suo gruppo e mantenere un peso all’interno della criminalità. Quando Zhang Naizhong ha avuto un problema a Parigi con i fujianesi Laolin è andato con lui all’incontro e di fronte a tutti lo ha chiamato “capo”, così legittimando il suo ruolo anche per i fujianesi in Francia. Laolin si è poi trasferito in Cina, ma continua a fare il numero due del clan italiano attraverso il suo luogotenente Xue Bin detto Xiaoliao e viene periodicamente in Italia per mantenere i contatti diretti con Zhang Naizhong e i suoi uomini di fiducia. I due capi hanno stretto un patto criminale che ha consentito al sodalizio di espandere sempre più la propria influenza e i propri guadagni. Laolin, che già controllava i tradizionali settori delinquenziali in mano alla mafia sinica, grazie a Naizhong è entrato da protagonista nel redditizio settore del trasporto merci, mentre Zhang, in virtù dell’alleanza con Laolin, ha potuto contare su un’imponente schiera di affiliati particolarmente inclini alla violenza, temuti nel territorio pratese, ma anche in altre aree, che gli hanno consentito di accrescere la propria influenza ed il proprio incontrastato dominio nel settore trasporti e in altri ambiti criminali. L’alleanza tra i due non si esaurisce al settore trasporti, ma passa anche da altri business illegali, tra i quali il controllo del gioco clandestino, e ogniqualvolta l’uno necessiti dell’assistenza dell’altro: come nel caso di alcune azioni intimidatorie e violente messe in atto dal braccio armato del sodalizio di origine fujianese a Prato, sollecitate da Naizhong o dai suoi uomini di fiducia che gravitano in Toscana. Questo patto tra i due, secondo gli investigatori, non è difficile da spiegare. Laolin era il capo di un’associazione criminale forte, temuta e rispettata a Prato, dove controllava bene il territorio ed era stata in grado di imporsi e affermarsi, anche con la forza, compresi gli omicidi. Numerose indagini lo hanno dimostrato nel tempo. Ma la sua forza non era tale da potersi confrontare con quella di Naizhong e quindi giocoforza ha voluto che tra i due si stringesse una necessaria alleanza dove, comunque, l’ultima parola spetta sempre a Naizhong. È sembrato, in numerose sfumature dell’indagine, che Naizhong sia stato “imposto” a Laolin dalla Cina e che - e questo il capo dei fujianesi lo ha capito perfettamente - se fossero arrivati allo scontro, lui ne sarebbe uscito perdente. Da qui la ovvia decisione di allearsi, di proseguire insieme. Allo stesso tempo, però, Naizhong ha sempre riconosciuto a Laolin un ruolo speciale, quasi di suo pari, apprezzandone le doti criminali e le sue potenzialità di leader. Naizhong è il capo, ma Laolin ricopre una posizione del tutto privilegiata all’interno dell’organizzazione e questo ruolo gli è riconosciuto da Naizhong in più occasioni. E di tutto ciò le vittime innocenti della comunità cinese ancora oggi ne sono a conoscenza. E obbediscono.

"Così la mafia cinese di Prato inquinava l’economia legale". Parla il procuratore antimafia Cafiero De Raho, scrive Andrea Sparaciari il 18 gennaio 2017 su "it.businessinsider.com". «Riuscire a individuare una complessa organizzazione mafiosa cinese non è ordinario, ma eccezionale. Eccezionale identificare la sua composizione e operatività. Riconoscere i caratteri mafiosi è un fatto quasi incredibile». Così il Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, ha commentato l’operazione che giovedì 18 gennaio a Prato ha sgominato la più importante associazione a delinquere di stampo mafioso “made in Cina” mai scoperta in Italia. Una piovra, nata nelle lontane regioni cinesi dello Zhejiang e del Fujian, che dalla città toscana allungava i suoi tentacoli sull’Italia (Roma, Milano, Padova) e sull’Europa (Francia, Germania e Spagna). Complessivamente sono 54 gli indagati: 33 gli arrestati con l’accusa di 416 bis (associazione a delinquere di stampo mafioso) e altri reati, 21 gli indagati a piede libero. Sequestrate anche otto aziende a Prato, Roma, Milano, Parigi e in Germania, oltre a immobili, veicoli e 61 tra conti correnti e deposito titoli per un valore di diversi milioni. Il business principale del clan era nei trasporti, ma l’organizzazione gestiva anche bische, ristoranti, locali notturni e money transfer. È la seconda volta che nella storia giudiziaria italiana viene contestata l’associazione a delinquere di stampo mafioso nei confronti di organizzazioni cinesi. Per il gip, Alessandro Moneti, la banda aveva in sé tutti gli elementi tipici della mafia: assoggettamento, omertà, intimidazione e accaparramento di attività anche lecite. Il fulcro era l’azienda “Anda”, specializzata nel settore della logistica e dei trasporti e che di fatto controllava tutto il settore dell’autotrasporto cinese, un giro d’affari stimato in diverse centinaia di milioni l’anno. Ma era solo una parte delle attività illecite. «L’operatività di questa organizzazione mafiosa sconvolge, da un lato controlla locali notturni, prostituzione, spaccio, usura ed estorsioni, dall’altro con i metodi della violenza, si accaparra aziende nei trasporti infiltrando l’economia pulita legale», ha spiegato Cafiero De Raho, «conseguendo un regime di monopolio in un segmento dell’economia», come quello della logistica, grazie ai «metodi dell’intimidazione e della violenza tipici delle mafie tradizionali italiane». A tirare le fila dell’organizzazione, il 58enne Zhang Naizhong, il Capo dei Capi per gli investigatori, quello che ripeteva ossessivamente: «Il capo sono io. Prima sapevo fare solo il mafioso, ora faccio anche e soprattutto gli affari». E li faceva bene. Per capire quanto fosse potente, era riuscito a imporre la fine della guerra tra bande rivali – sempre cinesi – che tra il 2000 e il 2010 aveva lasciato a Prato oltre sessanta morti, e quella molto simile che aveva insanguinato Parigi. Perché, come la ‘Ndrangheta insegna, gli affari prosperano nel silenzio. Zhang, come i boss di Cosa Nostra, amministrava la “giustizia” mediando tra imprenditori in lite o dirimendo questioni inerenti agli affitti dei capannoni. Il giorno prima di essere arrestato, si era recato in un ristorante dove gli imprenditori locali gli avevano reso omaggio, mettendosi in fila e inchinandosi uno dopo l’altro davanti a lui in segno di sottomissione. Un’azione che per il capo della Mobile di Prato, Francesco Nannucci, «ci racconta l’importanza di questa persona e il peso di questa organizzazione in città. Essere forti a Prato significa essere forti in tutta Europa».

L’operazione di Prato conferma – e per certi versi supera – quanto riportato dalla Direzione Investigativa Antimafia circa la mafia cinese nella sua Relazione semestrale del 2016. Per la Dia, «I network criminali cinesi avrebbero nel tempo raggiunto livelli di assoluto rilievo, risultando in grado di gestire, in autonomia, traffici illeciti di portata transnazionale. Tra questi, si segnalano la tratta degli esseri umani, lo sfruttamento della manodopera clandestina e della prostituzione, il traffico di sostanze stupefacenti, la contraffazione e il contrabbando, cui si affiancano l’usura e la gestione di bische clandestine». A tutto ciò, si deve poi aggiungere la pesante evasione fiscale «realizzata con l’utilizzo di partite iva intestate a prestanome irreperibili», come ha dimostrato l’operazione “Colletti Bianchi” del 16 novembre 2016, che sempre a Prato ha portato a 15 arresti e a 83 indagati, tutti sospettato di appartenere a “un sistema finalizzato alla completa elusione della normativa fiscale, contributiva e alle disposizioni disciplinanti l’immigrazione”.

Per gli investigatori, i proventi, soprattutto quelli derivanti da droga e prostituzione, vengono reimpiegati nell’acquisto di attività commerciali lecite e di immobili. Naturalmente, si deve poi ricordare la ricca attività di produzione di capi di abbigliamento contraffatti: «Contraffazione e riciclaggio rappresentano un ulteriore terreno d’incontro tra le organizzazioni cinesi e le mafie italiane, in primis la Camorra» sostiene la Dia. Le strutture create dalle organizzazioni cinesi per la produzione di massa di beni alterati col tempo avrebbero assunto le stesse caratteristiche delle catene di produzione delle imprese legali, adottando anche sofisticate tecnologie per la precisa riproduzione dei beni. «I profitti così generati verrebbero poi dirottati su canali alternativi al sistema bancario ufficiale, per essere riciclati o per finanziare concittadini», scrivono gli investigatori, «in proposito, sono stati rilevati casi in cui il denaro contante prodotto in nero veniva inviato dall’area fiorentino-pratese verso la Cina, mediante agenzie di money transfer o, da Milano, fatto triangolare su istituti di credito britannici» e da quei conti esteri poi i soldi venivano trasferiti in Cina. Alla luce di tutto ciò, ha perfettamente ragione il dottor Cafiero De Raho quando sostiene preoccupato che: «è importante tenere alto il livello perché queste associazioni inquinano la nostra economia».

La Mafia Giapponese. La mafia giapponese ha nella Yakuza (dal punteggio perdente 8-9-3 = ya-ku-za nel gioco di carte dell’Hanafuda), la massima espressione criminale. È riconducibile sostanzialmente a due modelli: lo Yamaguchi-gumi (a struttura piramidale con l’oyabun – ‘padre’ – capo assoluto) e il Sumiyoshi-rengo (federazione di famiglie con l’oyabun primus inter pares). Ha stretto carattere etnico, in quanto riservata soltanto ai giapponesi, e tipico legame di fedeltà e obbedienza degli affiliati al capo. Da ultimo è nata, per scissione interna, anche una terza organizzazione criminale, chiamata Ichiwa-kai. È presente anche negli Usa, Australia, Filippine, America del Sud; opera soprattutto nel traffico di amfetamine, sfruttamento della prostituzione e della pornografia, gioco d’azzardo, usura, estorsione e traffico di persone; controlla interi comparti dell’edilizia, della speculazione immobiliare e finanziaria, dello smaltimento dei rifiuti. La Yakuza è una delle mafie più sanguinarie ed antiche del mondo. Iniziata come organizzazione per il controllo del gioco d'azzardo nel Giappone del XVII° secolo, i suoi membri sono spesso caratterizzati da imponenti tatuaggi che ricoprono buona parte del corpo. Un altro segno distintivo è una falange mancante dal dito mignolo, spesso offerta al boss del clan di appartenenza come segno di rispetto o gesto di scuse. Ha circa 110.000 affiliati, appartenenti a 2.500 famiglie che gestiscono il traffico di prodotti illegali, pornografia, prostituzione ed immigrazione illegale. La mafia? In Giappone è peggio, scrive Pio D'Emilia su “L’Espresso”. La Yakuza controlla un terzo dei parlamentari, è organizzatissima e quasi onnipotente: anche perché le intercettazioni non esistono e i pentiti neppure. Viaggio nell'incredibile malavita organizzata del Sol Levante. Shinjuku è uno dei quartieri non-stop di Tokyo. Il più vivace, il più rappresentativo della metropoli più cara, più efficiente, più sicura, ma anche più corrotta del mondo. Milioni di banconote passano di mano, spesso avvolte in pudichi foulard multicolori (i famosi furoshiki) a titolo di pizzo, commissioni, tangenti mentre milioni di persone escono ed entrano, di giorno, dalle varie stazioni della metropolitana. Di notte poi molti a Shinjuku ci restano, o ci vengono apposta, per alimentare lo spumeggiante e variopinto mercato della "salute", cioè il mondo della prostituzione, e del bakuto, l'impero del gioco e delle scommesse clandestine. Due voci importanti, non certo le uniche, nel megafatturato (tra 2 e 5 mila miliardi di dollari, a seconda delle stime e dei settori che si includono) della mafia più ricca, potente e "trasparente" del mondo: la yakuza. Un impero nell'impero. Dove tutto bolle, si agita e si assesta lontano da sguardi indiscreti e quando emerge in superficie appare immobile nella sua - apparente - armonia. Paese che vai mafia che trovi. In Giappone, dove le cosche sono regolarmente registrate e i boss hanno un bigliettino da visita e viaggiano in treno, è facile incontrarla. Un po' meno combatterla. La yakuza in Giappone è onnipresente: dal Parlamento, dove secondo il mafiologo Kenji Ino almeno un terzo dei deputati viene eletto o ha comunque rapporti stretti con le cosche, al mondo dell'entertainment, degli appalti pubblici, del commercio e, più recentemente, dell'alta finanza. Per non parlare dei "settori" più tradizionali: estorsioni, strozzinaggio, recupero crediti, prostituzione, mondo delle scommesse legali e, ovviamente, illegali. «La yakuza fa parte della nostra storia», sostiene Manabu Miyazaki, figlio di un boss ritiratosi a vita privata e autore di una illuminante autobiografia, "Toppamono" (Fuorilegge). «Proprio come la mafia per voi italiani», prosegue, «e infatti abbiamo gli stessi problemi». All'ultimo piano di un edificio di Kabukicho, la zona più "vispa" di Shinjuku, c'è un ristorante cinese. Alle pareti ritratti di Mao, di Deng e dei nuovi leader, da Hu Jintao e Xi Jinping, che l'ha appena sostituito. Ma anche di Wuer Kaixi, uno dei leader della rivolta di Tienanmen, ricercato numero uno delle autorità cinesi, oggi esiliato a Taiwan e di cui il proprietario si dichiara amico personale. In una saletta interna, protetta solo da una tendina di stoffa, un cameriere chiede a due clienti di spostarsi. Serve l'intera stanza. Una decina di persone, dal look e accento inequivocabile, entrano nel locale e occupano la stanza. Cominciano a mangiare, bere, e parlare ad alta voce. Cosa che i giapponesi non fanno mai. E infatti sono "chairen", mafiosi cinesi "locali", nati e cresciuti in Giappone. Ma che conservano buoni contatti con la madrepatria e che ormai qui, per almeno tre secoli territorio intoccabile della yakuza, la fanno da padrone. Il tutto senza fare "rumore": qualche rissa ogni tanto, ma neanche un morto. Nel giro di una decina d'anni, hanno mutato la struttura del crimine più organizzato e ordinato del pianeta. Il proprietario del locale è uno di loro. Si fa chiamare Li ed è nel suo locale che, 8 anni fa, è stato siglato uno storico patto tra la Sumiyoshi-kai, seconda "cosca" del Paese, pressoché egemone a Tokyo, e le chairen, prime, improvvisate, "avanguardie" cinesi del crimine. Gruppi di vandali in moto che si divertivano a far casino e spaventare commercianti e residenti. I commercianti, ma non tutti, chiamarono la yakuza per proteggerli. Ma gli altri non ne volevano sapere. A qualcuno (il proprietario del locale dove siamo ospiti) venne l'idea di tentare un accordo. Che funzionò. Gli yakuza aggiornavano i cinesi sugli esercizi che si adeguavano e quelli invece "renitenti" al pizzo, e quelli ci andavano giù sempre più pesanti. Ma solo danneggiamenti, mai violenza sulle persone. Nel giro di un paio di anni il pizzo hanno finito per pagarlo tutti e nel quartiere tutti vivono in pace e tranquillità. Alla "pax mafiosa" partecipano anche i coreani, padroni incontrastati dell'enorme business del pachinko, sorta di flipper verticale che vomita - e ingurgita -migliaia di piccole sfere di piombo, che in caso di rara vincita possono essere convertite in contanti (oltre 20 mila esercizi in tutto il Paese, fatturato ufficiale di 300 miliardi di dollari, quattro volte l'intero export di autovetture) e la polizia, senza la cui benevolenza per non dire complicità non potrebbe funzionare. «Ci siamo capiti subito», spiega Li senza tanti problemi, «proprio mentre i nostri rispettivi governi si guardano in cagnesco, noi ci siamo messi d'accordo: la guerra non piace a nessuno e non fa fare quattrini. Meglio dividersi i compiti, cooperare e prosperare assieme». Il ragionamento non fa una piega: Kabukicho ha il più alto tasso di bordelli, koroshi-bako (bische clandestine dove si spennano i ricconi sprovveduti) e spacciatori per metro quadrato al mondo. La sua popolarità, anche in tempi di crisi, resiste perché tutto è organizzato, "oliato" e sicuro. Una pax mafiosa che oltre a giapponesi, cinesi e coreani, unisce e fa prosperare anche altre e meno organizzate minoranze: israeliani, brasiliani, nigeriani, iraniani. La pax mafiosa, che abbraccia cosche, istituzioni, alta finanza e "utilizzatori finali" è garantita, attualmente, da una "cupola" trasparente al cui centro c'è Tsukasa Shinobu, sesto oyabun (padrino) della Yamaguchi-gumi, la cosca più potente del paese, con oltre 7 mila dipendenti "fissi" e 20 mila "precari" che entrano ed escono a seconda del "mercato", uscito due anni fa dal carcere dove ha scontato sei anni per - incredibile ma vero - porto d'armi abusivo altrui. Già, perché tra le varie leggi adottate negli anni '90 dal governo, e che hanno solo lievemente scalfito il potere della Yakuza, ce n'è una che stabilisce non solo la responsabilità civile del boss di una cosca (che in Giappone sono legali: la polizia ne indica nel suo libro bianco 22 di serie A e 51 di serie B) per i danni causati dai suoi "dipendenti" (i mafiosi in Giappone sono regolarmente assunti) ma anche quella penale. Il tutto in un Paese dove non esiste il reato di associazione a delinquere e tanto meno di "stampo mafioso", le intercettazioni non sono consentite che in casi straordinari e dove non esiste un programma di immunità e protezione per eventuali "pentiti". Se in più si aggiunge il fatto che in Giappone vige la discrezionalità dell'azione penale si capisce perché, nonostante l'immagine di efficienza (il 98 per cento dei processi penali termina con una condanna), la lotta contro il crimine organizzato è più formale che sostanziale. Nel 2012, su 22 mila arresti, solo il 67 per cento degli indiziati è stato poi rinviato a giudizio (vent'anni fa era l'88 per cento) e per reati minori: disturbo della quiete pubblica, lesioni personali, guida in stato d'ebbrezza. Di qui la condanna di Tsukasa, che all'epoca, ammise non solo di aver acquistato due pistole (Beretta, che in Giappone sono le più richieste e sul mercato valgono oltre diecimila euro l'una) ma anche di averle date in dotazione ai suoi tirapiedi. Un vero samurai. Accolto come un eroe, all'uscita dal carcere. Ma molto umile: niente elicotteri, auto blindate, scorte vistose e violente: per tornare a casa, dal carcere, ha voluto prendere il treno, come la gente comune, salutando e inchinandosi, tra lo sconcerto delle guardie del corpo e delle autorità. Del resto le beghe delle cosche in Giappone non creano allarme sociale. Anzi. Un meeting della "cupola" - che si riunisce ogni mese a Kobe - affronta e risolve le questioni sul tappeto con grande efficacia. Le statistiche nazionali, del resto, parlano chiaro. La mafia giapponese ha provocato, negli ultimi 10 anni, appena 32 morti.

La Mafia Messicana. E' una sorta di manovalanza mafiosa. Iniziata negli anni '50 all'interno delle carceri con lo scopo di proteggere gli affiliati, è uscita dalle prigioni per riversarsi nelle strade degli Stati Uniti, dove controlla in parte il traffico di droga. Negli U.S.A. ha circa 300.000 affiliati, spesso tatuati per riconoscersi tra le diverse gang di appartenenza. In Messico le mafie dei narcotrafficanti (11 organizzazioni nel 2011, tra cui il cartello del Golfo, di Sinaloa, della Familia Michoacana, dei Los Zetas, di Juárez, dei Los Arellano, dei Beltran Leyva) hanno diversificato i ‘servizi’ offerti: non più solo commercio di droghe, ma sequestri di persona, estorsioni, protezioni ai commercianti, omicidi su commissione, tratta dei migranti. Con strutture dinamiche e mutevoli, disinvolte nelle strategie e nelle alleanze, così come nell’esercizio di una violenza efferata (oltre 34.000 omicidi tra il 2006 e il 2010), questi gruppi esercitano un penetrante condizionamento sulle istituzioni locali e nazionali, mettendo a serio rischio la democrazia, tanto da far parlare di narco-Stato.

La Mafia Colombiana. Il modello messicano ricorda i ben noti cartelli colombiani di Medellín, di Cali, di Pereira, della Costa e di Norte del Valle, oggi frantumati in decine di strutture di piccole-medie dimensioni (cartelitos) e in diverse formazioni paramilitari: Los Rastrojos, Los Macacos, la Oficina de Envigado, Los Paisas, Los Urabeños, Los Cuchillos e altre, specializzate soprattutto nel commercio delle droghe. Robuste le collusioni mafia-politica: dal 2008 al 2010 sono stati ben 77 i parlamentari incriminati perché collusi con narcos e paramilitari. Negli stessi anni, sono stati sequestrati ben 72 submarinos, i semisommergibili costruiti nella giungla per navigare lungo la costa del Pacifico e trasportare la cocaina negli Usa con l’intermediazione delle mafie messicane. Definito anche "Cartello della droga colombiano", è noto al mondo per il monopolio che detiene, da quasi un secolo ormai, sul traffico di droga, in particolare della cocaina, che trasportano in mezzo mondo attraverso i metodi più disparati, anche sommergibili. Opera in tutto il mondo, grazie anche a profonde infiltrazioni nella politica di alcuni Paesi corrotti. I tre cartelli più importanti della mafia colombiana sono il Cartello di Cali, il Cartello di Medellin (paese natale di Pablo Escobar) e quello di Norte del Valle. I cartelli mafiosi colombiani non si occupano solo di droga: sono stati anche coinvolti in rapimenti ed atti di terrorismo.

La Mafia Israeliana. Per quanto poco conosciuta rispetto alle altre mafie, la mafia israeliana ha il controllo del traffico di droga e della prostituzione in molti Paesi. E' nota per la sua spietatezza, non ci pensa due volte ad uccidere chiunque tenti di ostacolarla. Aiutata dalla mafia russa, quella israeliana è penetrata profondamente all'interno del tessuto politico americano, tanto che si fatica a sradicarla.

La Mafia Serba. Diffusa anch'essa in Europa e Stati Uniti, la mafia serba è coinvolta in diverse attività illecite quali traffico di droga, omicidi a pagamento, racket, gioco d'azzardo e rapine. All'interno delle organizzazioni criminali che compongono la mafia serba ci sono tre clan più potenti: Vozdovac, Surcin e Zemun, sotto i quali si trovano organizzazioni più piccole, per un totale di circa 30-40 associazioni mafiose. La mafia serba è stata particolarmente attiva durante le guerre yugoslave, durante le quali ottenne l'appoggio governativo grazie ad una vasta campagna di corruzione. Leader nel traffico internazionale di cocaina, la mafia serba, talvolta associata a quella montenegrina, ha "agenzie" negli Usa, in Sudafrica e nell’Europa occidentale. Si contano una trentina di gruppi nati dalla ‘frantumazione’ dei due nuclei originari guidati dai capi storici Surcin e Zemun. I serbi, grazie all’alleanza consolidata con i colombiani, sono diventati i principali fornitori della cocaina in Italia, Germania, Austria, Spagna e Regno Unito. Si dedicano anche al traffico di armi, di clandestini, di sigarette e alla falsificazione di denaro. Ciascun gruppo (una decina di persone) ha una rigida gerarchia ed è capace di spostarsi rapidamente, alla bisogna, in altra città o paese. Particolarmente violenta, la mafia rumena, in contatto con italiani, albanesi, ucraini e moldavi, si occupa di tratta di esseri umani, sfruttamento della prostituzione, traffico di stupefacenti, rapine e furti, in particolare con clonazione di carte elettroniche.

La Mafia Albanese. La mafia albanese è un insieme di organizzazioni criminali con sede in Albania, attive in Europa e negli Stati Uniti soprattutto nel commercio sessuale e nel traffico di droga. Sono tra le mafie più violente in assoluto, soprattutto se motivati da vendetta. Non sempre questi gruppi criminali sono organizzati tra di loro, anzi, molto spesso tendono a farsi concorrenza, o a scatenare vere e proprie guerre interne. Si sa davvero poco sulle organizzazioni criminali albanesi, data la difficoltà nel riuscire a penetrarvi. Si sa per certo, però, che molti dei traffici illeciti che provengono dell'Est europeo passano per l'Albania, e sono diretti dalla mafia albanese o serba. In Albania, la "Mafia delle Aquile" domina l’immigrazione clandestina, lo sfruttamento della prostituzione e il traffico degli stupefacenti, utilizzando basi consolidate in Montenegro, Croazia, Slovenia, Serbia e Kosovo. Ha rapporti con omologhi sodalizi attivi nei paesi europei più ricchi. L’appartenenza dei componenti allo stesso nucleo familiare e territoriale, con un unico capo supremo, regole rigide e il ricorso all’omicidio a scopo punitivo, la rendono simile alla ’ndrangheta.

La Mafia Giamaicana. Gli Yardies, immigrati giamaicani giunti nel Regno Unito negli anni '50 nella speranza di migliorare le loro condizioni di vita, sono un'associazione mafiosa che generalmente si riunisce in bande violente che generano profitti tramite il traffico di droga o omicidi su commissione. Non hanno mai provato ad infiltrarsi all'interno di organizzazioni di polizia, e dato che commettono frequentemente crimini che vedono coinvolte armi da fuoco sono spesso rintracciabili e perseguibili, vista la severità con cui vengono trattati i crimini violenti in Gran Bretagna.

La Mafia nigeriana. Anch’essa considerata tra le meno violente, è tuttavia una delle più potenti ed estese, con varie comunità sparse nel mondo, grazie alla sua struttura reticolare, favorita da vincoli tribali e omertosi. Spesso usa come copertura "innocue" associazioni culturali di immigrati o confraternite universitarie, note come "gruppi cultisti", di etnia Bini o Igbo, organizzate dai giovani dell’élite dirigenziale nigeriana, responsabili di omicidi e reati predatori. A partire dal suo radicamento nel paese d’origine, afflitto dagli scontri tra gruppi integralisti islamici e cristiani, tra militari e criminali nella regione petrolifera del Delta, la mafia nigeriana costituisce un’ulteriore minaccia per l’intera regione africana.

QUELLA MAFIA CHE SI FA FINTA DI NON VEDERE. LA MAFIA NIGERIANA.

Il vero volto della mafia nigeriana, che ha in pugno la prostituzione in Italia, scrive Andrea Sparaciari il 16/8/2017 su "it.businessinsider.com". Oltre a Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Stidda e Sacra Corona Unita, l’Italia può “vantare” un altro sodalizio mafioso di tutto rispetto: quello nigeriano, gruppi di criminali che tengono saldamente in pugno il mercato della prostituzione, ma non solo. “ll radicamento in Italia di tale consorteria è emerso nel corso di diverse inchieste, che ne hanno evidenziato la natura mafiosa, peraltro confermata da sentenze di condanna passate in giudicato”, scrive la Dia nella relazione sulle sue attività investigative del secondo semestre 2016. Pagine nelle quali i magistrati spiegano, inchiesta per inchiesta, come i nigeriani siano ormai primari protagonisti non solo del traffico di esseri umani, ma anche della droga, delle truffe online e nello sfruttamento della prostituzione. Un ventaglio di attività al quale gli affiliati alle varie bande provenienti dal Paese centroafricano si applicano con spietata efficienza. “Sul piano generale, tra le attività criminali dei gruppi nigeriani, si conferma la tratta di donne di origine nigeriana e sub sahariana, avviate poi alla prostituzione”, si legge nella relazione, che ricorda come il 24 ottobre 2016 la Polizia di Catania, con l’operazione “Skin Trade”, abbia arrestato 15 persone per associazione per delinquere finalizzata alla tratta di persone e sfruttamento della prostituzione. Idem per le indagini sui gruppi attivi nella zona di Castel Volturno (CE) che sarebbero riusciti “a organizzare importanti traffici di droga e immigrati clandestini, operando altresì nello sfruttamento della prostituzione”. L’operazione Cultus che nel 2014 portò in carcere 34 persone, illustra perfettamente il modus operandi dei nigeriani: le ragazze erano reclutate in Togo, da dove venivano “importate” in Italia attraverso il Benin. Una volta sbarcate, si ritrovavano un debito per il viaggio – in media tra i 40 ai 70 mila euro – e per saldarlo erano costrette a prostituirsi sotto gli ordini di una Maman. Il pericolo della denuncia era scongiurato perché assoggettate psicologicamente attraverso pratiche esoteriche. A questo proposito, molti giornali hanno spesso scritto di “rituali voodoo”… In realtà, si tratta del rito “Juju”, una credenza religiosa praticata nella regione del Sud-Ovest della Nigeria. Il paradosso è che il rituale utilizzato per schiavizzare le donne africane, convincendole che lo spirito racchiuso in piccoli feticci possa causare enormi sciagure a loro e alla loro famiglia in caso di disobbedienza, non nasce in Africa, ma è stato importato dai primi colonizzatori europei, tanto che mutua il nome dal termine francese “Joujou”. Comunque, le indagini hanno dimostrato che oltre al traffico di esseri umani, l’organizzazione gestiva anche i corrieri della cocaina provenienti da Colombia, nonché quelli della marijuana dall’Albania. I proventi venivano poi spediti in Nigeria e Togo attraverso agenzie di money transfer. Secondo la Dia, appare poi assodato che le mafie nostrane appaltino il lavoro sporco ai nigeriani e che questi, quando agiscono da indipendenti, debbano pagare il pizzo a Cosa Nostra e alle ‘ndrine. Una tassa “mal sopportata”, tanto che a volte scoppia lo scontro, come accadde a Castel Volturno nel 2008, quando i Casalesi spararono indiscriminatamente sulle case dei braccianti immigrati, uccidendo sei persone (per altro non affiliate alle bande). Parliamo di bande, perché l’universo della criminalità nigeriana non è monolitico. Tutt’altro: sarebbero almeno una dozzina i gruppi che si contendono il primato, nel Paese africano e all’estero. Per esempio, in Italia è certa la presenza di almeno tre nuclei, divisi da un conflitto sotterraneo e brutale che va avanti da due decenni: la Aye Confraternite, gli Eiye e i temibili Black Axe. Secondo il rapporto “Global Report on Trafficking in Persons 2014” dello United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), con l’operazione Cultus finirono in manette “membri di due gruppi, chiamati Eiye e Aye Confraternite, operativi in alcune parti d’Italia da almeno il 2008”. Due gruppi che “hanno combattuto per oltre sei anni per il controllo dell’area di Roma (Torre Angela, Tor Bella Monaca e Torrenova, ndr)”, affrontandosi con armi da fuoco, spranghe, coltelli e machete. Una lotta che probabilmente ha spalancato le porte ai Black Axe, tanto che il 13 settembre 2016, con l’operazione “Athenaeum”, in Piemonte finiscono in manette 44 persone per associazione mafiosa, spaccio, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e lesioni gravi. L’indagine svela che i Black Axe avevano ramificazioni in buona parte dell’Italia oltre Torino, a Novara, Alessandria, Verona, Bologna, Roma, Napoli e Palermo. Ma il nostro Paese è in buona compagnia: nell’aprile scorso, il capo della polizia di Toronto (Canada), Jim Raymer, ha presentato un’operazione che ha scardinato un’organizzazione di ladri d’auto (anche lì tutti Black Axe) la quale avrebbe trafugato veicoli di lusso per oltre 30 milioni di dollari. Sulla nave diretta in Africa bloccata dalla polizia, sono stati ritrovati suv provenienti anche da Spagna e Belgio. In manette sono finiti, oltre ai ladri, anche rivenditori di parti d’auto, camionisti, impiegati delle compagnie di navigazione e portuali, tutti canadesi doc. In Giappone, invece, nel 2014 fece scalpore l’arresto di un nigeriano gestore di un locale notturno del quartiere a luci rosse di Kabukicho, che costringeva le sue hostess filippine a drogare i clienti svuotandone poi le carte di credito. Si scoprì che il gioco andava avanti da anni e che in totale l’uomo si sarebbe appropriato di oltre 7,5 milioni di euro (soldi spediti in Nigeria dove si stava costruendo un vero palazzo reale). Ma le indagini svelarono anche la diretta partecipazione dei nigeriani nei locali a luci rosse di Kabukicho, nonché i loro legami con la Yacuza nella vendita di eroina, nei furti d’auto, nel riciclaggio di denaro e nell’organizzazione di matrimoni finti. Prostituzione in Italia, furti d’auto in Canada, l’eroina in Giappone, tutte joint-venture che dimostrano quanto i nigeriani siano capaci di stringere rapporti proficui con le mafie locali, adattandosi alle diverse realtà. E non deve stupire: chi gestisce i traffici, contrariamente al credo popolare, non sono illetterati provenienti da sperduti villaggi dell’Africa equatoriale. Spesso, anzi, si tratta di laureati o comunque di persone dotate di cultura superiore. Un dato di fatto che deriva dalla stessa storia della mafia nigeriana.

L’università dei gangster. Le bande mafiose nascono infatti come degenerazione dei gruppi cultisti attivi nelle università della regione del Delta del Niger fin dagli anni ’50, gruppi che si opponevano alla dominazione europea. All’inizio erano semplici confraternite universitarie, ma presto si trasformano in associazioni a delinquere che travalicano i muri dei campus. La confraternita originaria fu quella dei Pyrates, negli anni ’70 subì una prima scissione, dalla quale si formarono i Sea Dogs (i Pyrates) e i Bucanieri.  A loro volta, i Bucanieri diedero vita al Movimento Neo-Black dell’Africa, cioè i Black Axe, che divenne egemone all’interno dell’università di Benin nello stato dell’Edo. Ma anche i Black Axe subirono una divisione, con la quale si formò la Eiye Confraternity. Da lì fu un fiorire di gruppi. Oltre a Black Axe e Eiye, oggi in Nigeria si distinguono per brutalità la Junior Vikings Confraternity (JVC), la Supreme Vikings Confraternity (SVC) e la Debam, scissionisti della The Eternal Fraternal Order of the Legion Consortium. Ognuna di esse ha un’uniforme, propri colori e un’università o scuola superiore di riferimento. Con il ritorno del Paese alla democrazia, nel 1999, in Nigeria si aprì un periodo di lotte furibonde tra i vari potentati politici a livello locale, federale e statale. Fu quasi naturale che partiti e uomini politici assoldassero le confraternite come collettori di voti o guardie del corpo, fino a trasformarle in veri eserciti privati, spesso integrati direttamente nelle forze di polizia locali. Ciò ha permesso ai sodalizi criminali di prosperare e di espandesi all’estero. Europa dell’Est, Spagna, Italia, Giappone, Canada, Sudafrica. Una piovra dalle mille teste che fa affari con tutti: da Cosa Nostra ai narcos sud americani, dai trafficanti d’armi dell’Est ai produttori di marijuana albanesi. A ingrossarne le fila, sono gli studenti universitari e delle secondarie, cooptati sia volontariamente che involontariamente. Negli ultimi anni, però, secondo l’Onu, sarebbero aumentati vertiginosamente anche i membri sotto i 12 anni, bambini di strada utilizzati come soldati. Contrariamente agli anni ’70, poi, oggi esistono anche confraternite tutte al femminile, le più note e temibili sono Jezebel e Pink ladies.

Come funzionano. L’UNODC ha studiato il funzionamento delle confraternite, ecco come descrive il funzionamento degli Eiye: “Il gruppo agisce attraverso un sistema di cellule – chiamate Forum – che operano localmente, ma che sono collegate alle altre cellule radicate in diversi Paesi dell’Africa occidentale, del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’Europa occidentale”. Gli Eiye hanno “una struttura gerarchica rigida, retta da una Direzione. Sebbene ogni forum sia indipendente, i membri hanno un ruolo funzionale specifico e sono uniti tra loro da legami familiari o da altri rapporti relazionali”. Tutte le confraternite hanno un leder carismatico, detto “Capones” (in onore di Al Capone), un comandante in capo, che d ordini ai vari capones locali, dislocati nelle varie università, i suoi generali sul campo. Per divenire capones, la persona “deve aver dato prove inoppugnabili di coraggio e brutalità”. Anche per entrare in una confraternita si deve passare un esame: dopo essere stato scelto, l’aspirante viene sottoposto a un rito iniziatico, che ha luogo di notte, spesso in un cimitero, durante il quale viene drogato, picchiato e costretto a dimostrare il proprio coraggio, meglio se con un omicidio o col rapimento di una donna legata un’altra confraternita. Una volta dentro, al nuovo adepto vengono insegnati il rispetto per la “fortificazione spirituale”, le tattiche di combattimento e l’uso delle armi da fuoco. Qualora il candidato si rifiuti di entrare nella banda o, una volta dentro, voglia uscirne, sa che a pagare sarà – oltre a lui – anche la sua famiglia. Una realtà brutale, che si rispecchia poi nel modo di agire – spietato – delle bande. Una spirale di violenza infinita, già stabilmente impiantata nel nostro Paese e che sta diventando sempre più forte e potente. Una piaga destinata a diventare sempre più purulenta e dolorosa.

Meluzzi: la mafia nigeriana ha assunto il controllo militare del territorio, scrive giovedì 15 novembre 2018 "Imola Oggi". Le cifre pazzesche sui reati compiuti dagli immigrati, Meluzzi: “Basta negazionismo”. “Gli immigrati delinquono di più rispetto al resto della popolazione, sei volte di più. Sette volte di più nei reati sessuali. Incredibile la mafia nigeriana”. Alessandro Meluzzi riporta i dati sulla delinquenza in Italia riferita agli stranieri: “Sono un pericolo enorme e non ci deve essere negazionismo e nessun velo di omertà”. Lo aveva già detto anche il governatore della Campania.

Pd, De Luca: “bande di nigeriani hanno occupato militarmente i territori”, scrive martedì 11 settembre 2018 "Imola Oggi". Vincenzo De Luca contro il suo stesso partito: “C’è un problema di cui il Pd non parla mai. Ci sono zone del paese dove bande di nigeriani hanno occupato militarmente i territori”. Finalmente qualcuno a sinistra inizia a svegliarsi?

La mafia nigeriana in Italia: eroina gialla, prostituzione ed elemosina. Li chiamano «cult», dominano il racket da Torino a Palermo. I legami con i clan di Ballarò. La sottovalutazione di un fenomeno preoccupante e diffuso sul territorio, scrive Goffredo Buccini il 21 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". Non sarà ancora controllo del territorio. Ma l’agguato dello scorso settembre ai giardini Alimonda di Torino contro due poliziotti antidroga circondati e pestati da una trentina di spacciatori africani ci va molto vicino. Siamo tra Aurora e Barriera di Milano, accanto a quel corso Giulio Cesare così multietnico che gli ultimi bottegai locali espongono in vetrina il cartello «negozio italiano». La mafia nigeriana comanda qui: e non solo qui.

Cult. «Ho fatto tre informative a tre procure diverse, Roma, Bologna e Palermo, interessate al fenomeno che si sta espandendo a macchia d’olio in tutta Italia e tutta Europa», ha detto alla Commissione parlamentare sulle periferie il commissario della municipale Fabrizio Lotito, che ha lavorato con la procura torinese. Gerarchia, riti d’iniziazione, cosche chiamate «cult»: «Torino è la città con il maggior numero di immigrati nigeriani, a ruota segue l’Emilia Romagna. Le nostre indagini su questo fenomeno mafioso vedono come attori principali i “cult” nigeriani, nati nelle università nigeriane degli anni Sessanta, poi evolutisi fuori e giunti anche in Italia: hanno struttura verticistica e dalle indagini abbiamo potuto ascrivere il 416 bis, l’associazione mafiosa».

Le vittime. Black Axe, Maphite, Supreme Eiye Confraternity, Ayee sono nomi di «cult» che riempiono ormai da anni le nostre cronache; collegandoli come puntini su un foglio mostrerebbero forse un disegno più ampio, imbarazzante per un malinteso senso di correttezza politica: dibattere pubblicamente sui mafiosi nigeriani offre argomenti ai razzisti nostrani? È vero il contrario, perché le prime vittime dei «don» (i capi cultisti) sono ragazze nigeriane vendute come schiave sulla Domiziana e giovani nigeriani (i «baseball cap») ridotti a elemosinare davanti ai bar di Roma o di Milano per ripagare debiti di famiglia contratti in Nigeria.

Traffici milionari. Da Nord a Sud d’Italia s’avanza così la quinta mafia (dopo Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona pugliese) con i suoi traffici milionari di cocaina dalla Colombia al Canada, la nuova eroina «gialla» spacciata nel nostro Nord-Est e i capi dei capi da sempre insediati a Benin City, che resta la casa madre e sta ai «cult» come San Luca sta alle ‘ndrine. Tecnici e puristi diranno che le mafie da noi sono troppe per farne una classifica, dalla russa all’albanese, dalla cinese alla multiforme mafia romana. Proprio il commissario Lotito lamenta inoltre che la mafia nigeriana sia vista «più come un problema di ordine pubblico». Un errore di valutazione, perché nessuna nuova mafia ha la sua pervasività: mille affiliati stimati in Italia (su circa 93 mila nigeriani immigrati), almeno venti città (Torino e Bologna in testa) e dieci regioni coinvolte nella sua rete che conta in giro per il mondo trentamila affiliati in quaranta Stati.

Da Benin City a Palermo. In Italia i mafiosi nigeriani hanno imparato a muoversi strategicamente. Famosa è un’intercettazione in carcere tra due mafiosi del clan Di Giacomo sui boss di Ballarò, centro di Palermo. «Lì ci sono i turchi» (intendendo persone di colore). «Quali?». «I nigeriani... ma sono rispettosi e poi...immagazzinano» (frase che per gli investigatori avrebbe un senso preciso: i «rispettosi» nigeriani di Black Axe detengono grandi partite di droga in accordo con Cosa Nostra). Al Sud dove le mafie autoctone mantengono il controllo militare, la mafia venuta da Benin City cerca patti, come a Ballarò. Al Nord picchia duro: nel 2017, su 12.387 reati firmati dalla criminalità nigeriana (un quinto di quelli commessi da tutti gli stranieri da noi), 8.594 avvengono al Nord, 1.675 al Centro, 1.434 al Sud, 684 nelle Isole.

«Non hanno rispetto per la vita». Torino è teatro dell’operazione Athenaeum dei carabinieri che fotografa il legame tra Maphite e Eiye. Giovanni Falconieri sul Corriere di Torino ha raccontato di un pentito che descrive i Maphite in termini sconvolgenti: «Sono sbarcati a Lampedusa e la gente ha paura di loro... Non hanno rispetto per la vita, hanno già sofferto troppo per arrivare in Italia». Il tema degli sbarchi inquinati dalla mafia di Benin City ormai emerge. Il giudice torinese Stefano Sala, in quasi 700 pagine di ordinanza, motiva le sentenze su 21 membri di Eiye e Maphite, e accende un faro: «I moduli operativi delle associazioni criminali nigeriane sono stati trasferiti in Italia in coincidenza con i flussi migratori massivi cui assistiamo in questi anni» (...), «tra gli immigrati appena sbarcati vengono reclutati i corrieri che ingoiano cocaina».

Lo stipendio dei capi. Un «don», il capo della struttura locale, può ricevere uno stipendio di 35 mila euro ogni tre mesi. L’entità territoriale minore è la «zona», crescendo si sale al «temple» fino al «murder temple» di Benin City dove si elabora la strategia politica. Sembrano i primi verbali di Buscetta risciacquati nella globalizzazione. Se Torino è la nostra città più permeata dalla migrazione nigeriana, Bologna è considerata «la capitale» del cultismo, lo spaccio nella centrale Bolognina e nelle periferie è da anni in mano ai Black Axe. Ma le ordinanze che si moltiplicano, con le operazioni di carabinieri e polizia, descrivono un’onda assai più lunga: Black Axe, a Palermo, 2016, sul gruppo di Ballarò; Aquile Nere, Caserta, stesso anno. Cults, a Roma, 2014. Niger, Torino 2005. Ancora Black Axe, Castello di Cisterna, Napoli, 2011.

Le schiave. «Noi siamo nate morte», raccontano le schiave nigeriane della Domiziana al sociologo Leonardo Palmisano in un libro prossimo all’uscita, «Ascia Nera». Sono «asce nere», «black axe», i mafiosi che promettono la morte a Palmisano, troppo ostinato nell’indagarne i traffici. I ragazzi venuti da Benin City si sentono ormai abbastanza forti per quest’ultimo, minaccioso passo. Molta acqua è passata da questo allarme del 2011: «Vorrei attirare la vostra attenzione sulla nuova attività criminale di un gruppo di nigeriani appartenenti a sette segrete... riusciti a entrare in Italia principalmente con scopi criminali». Non il delirio di un balordo xenofobo ma l’informativa dell’ambasciatore nigeriano a Roma.

Mafia nigeriana, iniziazione segreta e violenza: a Palermo parla il “Buscetta nero”. Su FqMillenniuM in edicola. Il mensile in edicola da sabato 10 novembre pubblica in esclusiva le confessioni di Austine Johnbull, già membro del Black Axe, il più potente fra i “culti” criminali nigeriani, che ha svelato ai pm di Palermo riti di affiliazione, guerre fra gang e affari illeciti: "In Italia tregua tra i clan per evitare le indagini", scrive Giuseppe Pipitone il 9 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Sette candele a terra, per disegnare una bara. Un tempio con al centro un’ascia e una coppa colma di liquido – una bevanda a base di droghe come erba, noce di cola, foglia di zobo, pepe di alligatore, panadol – che sarà bevuto, al cospetto del Priest, dai cosiddetti ignoranti. “Sono quelli che aspirano a essere affiliati. Vengono picchiati da quattro saggi che li frustano con il keboko, mentre percorrono in ginocchio un tragitto chiamato Slave Trade”, la tratta degli schiavi. Non è l’iniziazione a una loggia massonica. È il rito di affiliazione della mafia nigeriana. Un rituale antico ma che si ripete continuamente, in gran segreto. E non solo in Africa. A raccontare questo, come tanto altro, è Austine Johnbull: ed è il primo pentito della mafia nigeriana, in Italia. Ha iniziato a collaborare con il pm di Palermo Gaspare Spedale alla fine del 2016: da allora ha riempito centinaia di pagine di verbali, che il nuovo Fq MillenniuM pubblica in esclusiva. Ha fatto nomi e cognomi. Ha indicato gli infami. Ha detto chi sono i capi e i sottocapi. Ha ricostruito riti d’affiliazione quasi mistici e più concreti affari di droga. Ha confessato di aver giurato sul suo stesso sangue, quello delle mani, che gli hanno inciso da palmo a palmo. “Se qualcuno nega le mie affermazioni, io posso guardargli le mani: se ha una linea, come la mia, sta mentendo”. “Non voglio più essere contro lo Stato ed è meglio collaborare”: sono le prime parole pronunciate da quello che è diventato a tutti gli effetti il Tommaso Buscetta nero. Per spiegare l’importanza delle sue dichiarazioni – che hanno portato alle prime condanne emesse a Palermo per una mafia straniera – i giudici citano la descrizione che Giovanni Falcone fece del boss dei due mondi: “Un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare con i gesti”. Buscetta ha confermato l’esistenza di Cosa nostra, la sua composizione e il suo coinvolgimento dietro a mattanze e omicidi eccellenti. Johnbull ha spiegato che pestaggi e assassinii tra i suoi connazionali sono qualcosa di diverso da semplici risse finite male. Ha svelato che dalla Nigeria si sta espandendo in tutto il mondo una nuova mafia. Anzi più di una: c’è l’odiata Supreme Eiye, l’organizzazione più antica e più numerosa. Ci sono i Vikings. E poi c’è quella a cui apparteneva Johnbull: Black Axe, l’ascia nera, la più potente e pericolosa. “Per ognuno dei nostri che ammazzano, ci vendichiamo uccidendone 10-15 degli altri. Se ne assassinano uno in Nigeria, poi, è guerra totale”. Per gli investigatori, si tratta di un’organizzazione “di tipo massonico e anche mafioso”, strutturata come “uno Stato confederato con ramificazioni in tutto il mondo”. Se agli inizi del Novecento Cosa Nostra e ’ndranghetasono sbarcate negli Stati Uniti seguendo l’espansione di siciliani e calabresi, oggi anche la mafia nigeriana ha esteso i suoi tentacoli negli altri continenti parallelamente ai flussi migratori. In Italia la Black Axe è presente da prima che Johnbull – nome in codice Ewosa, 34 anni – arrivasse da Benin City nel 2009. Ma in quegli anni dalla Nigeria era arrivato l’ordine di mettere “in sonno” l’organizzazione. Dopo le prime condanne emesse nel capoluogo piemontese a seguito di una serie di regolamenti di conti tra Black Axe ed Eye, “il presidente internazionale di Black Axe ha detto – racconta Johnbull – che quello che è successo al Nord, a Torino, a Padova, negli anni 2005-2006, non deve più esistere”. Questo almeno fino al 2010, quando entra in scena Sixco, nome di battaglia di Osalumaghal Uwagboe. Per Johnbull è lui il “Capo dei capi” della mafia nigeriana. Ed è lui che riorganizza Black Axe in Italia. È il 7 luglio 2013: a Verona, Sixco convoca la festa nazionale dell’organizzazione. “Lì c’era gente che arrivava da tutte le città”, dice il pentito. E a quel punto inizia la liturgia. Gli aspiranti Black Axe vengono picchiati, feriti, umiliati con uno sputo in faccia prima di presentarsi al cospetto del “Capo dei capi”. Ora non sono più uomini come gli altri: sono mafiosi, mafiosi nigeriani. Nel Paese inventore delle mafie.

Mafia nigeriana, “in patria protetta dal governo. E i politici la usano per battere gli avversari alle elezioni”. Il racconto del reporter Eric Dumo, autore di diverse inchieste sui "culti" che dal Paese africano stanno diventando protagonisti del crimine globale. L'Italia fra gli snodi più importanti: su Fq Millennium ora in edicola, in esclusiva i verbali resi ai pm di Palermo dal primo pentito dei Black Axe, uno dei gruppi più potenti e sanguinari, scrive Mario Portanova il 17 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". La mafia nigeriana si espande in Italia, come racconta ai pm di Palermo il pentito Austine Johnbull, i cui verbali sono pubblicati in esclusiva su Fq Millennium, il mensile diretto da Peter Gomez, attualmente in edicola. Ma come operano le gang, detti “culti” dalle loro origini nelle università della Nigeria negli anni Settanta, in patria e nel resto del mondo, dove secondo l’Fbi sono presenti in ottanta paesi e stanno diventando sempre più centrali, specie nel traffico di droga? Lo abbiamo chiesto a Eric Dumo, pluripremiato reporter di The Punch, uno dei più importanti quotidiani della Nigeria, e autore di diverse inchieste sul tema.

In Nigeria tutti i culti sono coinvolti in attività criminali?

«Nei tempi più recenti, molti di loro sì. Per esempio, ci sono politici che li ingaggiano per attaccare gli avversari, specialmente in occasione delle elezioni per le cariche più importanti, locali e federali. Oggi queste gang operano in quasi ogni angolo delle più importanti città nigeriane, dove reclutano ragazzi e ragazze con intimidazioni e minacce».

Per fare cosa?

«Oltre a spaccio di droga, prostituzione e frodi finanziarie di ogni genere, molte di queste gang si dedicano alle rapine a mano armata, per accumulare denaro per finanziare le loro attività illecite e il loro stile di vita. Negli ultimi tempi si registrano coinvolgimenti nel land grabbing e nei sequestri di persona.

La cosiddetta mafia nigeriana è originaria di qualche area specifica del Paese?

«In passato, i culti operavano principalmente nei campus universitari, ma negli ultimi anni si sono rovesciati sulle strade, inquinando comunità un tempo serene e pacifiche. Oggi i culti sono ovunque in Nigeria, anche se con grado di diffusione e modalità operative diverse».

Quali sono i più importanti?

«A parte i Black Axe e gli Eiye (due culti presenti in Italia e già colpiti da condanne per associazione mafiosa, ndr), a livello nazionale ci sono i Buccaneers e i Pirate. Poi esistono dozzine di gang regionali e locali in tutto il Paese. Nel Delta del Niger, per esempio, ci sono culti come Dey Bam, Dey Well, Highlanders e una moltitudine di gruppi pericolosi e spietati».

Che cosa ci può dire di Black Axe e Eiye? Dove sono presenti, in Nigeria e all’estero? Si conoscono i nomi dei loro boss? E quali sono le loro principali attività criminali?

«I Black Axe sono noti per le rapine a mano armata mentre gli Eiye sono più coinvolti in estorsioni e nella criminalità politica. I primi hanno una maggiore diffusione nazionale, mentre gli Eiye hanno la loro roccaforte nel Sudovest della Nigeria, l’area di Lagos, Ogun, Ondo, Oyo, Ekiti e Osun. In ogni comunità, questi gruppi hanno leader altrettanto spietati dei loro “coordinatiori” a livello statale e federale. E’ difficile citare nomi specifici di questi leader, perché cambiano nel tempo».

Queste gang si combattono o cooperano, in Nigeria e all’estero?

«Per lo più si comportano da rivali e si massacrano a vicenda per ogni minima provocazione, ma in certe occasioni collaborano per raggiungere obiettivi comuni. Per esempio, i politici ingaggiano più culti in determinate comunità per manipolare e vincere le elezioni. Offrono loro enormi somme di denaro per essere sicuri che siano tutti sufficientemente soddisfatti per raggiungere l’obiettivo. A parte queste e altre rare occasioni, per lo più i culti non collaborano fra loro».

L’Fbi dice che i culti sono presenti in 80 Paesi del mondo. Secondo i risultati delle sue inchieste, dove sono più forti, e in quali business criminali?

«Penso che fuori dalla Nigeria la loro presenza sia particolarmente forte in Malaysia, Sudafrica, Italia, Spagna, Regno Unito, India e Brasile. In tutti questi Paesi sono attivi nello spaccio di droga e nel traffico di esseri umani. Sono divenuti così spietati che persino la criminalità locale in questi Paesi ha paura di loro. Ormai sono quasi ovunque e terrorizzano cittadini innocenti, in particolare i connazionali nigeriani emigrati che rifiutano di sottomettersi».

Che ruolo hanno i culti nel traffico internazionali di droga? Collaborano con altre grandi organizzazioni criminali?

«Le indagini di Interpol e Fbi hanno dimostrato che non agiscono da sole, ma hanno più alleati in altre parti del mondo, con cui collaborano».

Pensa che la diffusione globale di Culti sia collegato alle ondate migratorie dei nigeriani – naturalmente per la massima parte incolpevoli – come è accaduto in passato per le mafie italiane, per esempio Cosa nostra negli Stati Uniti?

«Sì, il vasto movimento di nigeriani verso altri Paesi del mondo, risultato del sottosviluppo in patria, ha contribuito in modo significativo alla crescita di queste gang nel mondo. Nel disperato tentativo di sfuggire alla povertà, ma anche per espandere il loro raggio d’azione, i membri delle gang si aiutano l’un l’altro a emigrare in Paesi come l’Italia, la Spagna, il Brasile, la Malaysia e altri, per aprire una nuova pagina delle loro carriere criminali. La promessa di una vita migliore e di una ricchezza facile in Europa e in America continua a spingere questo tipo di flussi, che aggiungono problemi a problemi».

I culti sono adeguatamente perseguiti in Nigeria, o godono di appoggi?

«Possono contare su alti personaggi a livello di governo, che li sostengono sistematicamente. Grazie a questo supporto, riescono a sfuggire alle indagini e a evitare le pene più severe in caso di arresto. Possono contare su sostegni anche nella diaspora, il che rende più difficile per le autorità locali contrastare la reale minaccia che rappresentano».

Per quanto ne sa, i culti nigeriani si dedicano anche ad attività lecite? Che cosa si sa su come ripuliscono il denaro sporco?

«Di fatto, solo pochi membri delle gang hanno trovato modi di avviare attività economiche lecite  e di ottenere mezzi di sopravvivenza ufficiali, comunque nella maggior parte dei casi le risorse impiegate provenivano da denaro sporco. Molti creano piuttosto semplici attività di copertura mentre continuano a guadagnare da rapimenti, spaccio, frodi e criminalità politica, per sopravvivere e per mantenere il loro sontuoso stile di vita».

"La mia Castel Volturno preda della mafia nera Lo Stato non esiste più". Il sindaco: «Paese in balìa di Casalesi e nigeriani. Arriva Minniti, mi appello a lui», scrive Nino Materi, Domenica 18/02/2018, su "Il Giornale". Dimitri Russo, 47 anni, sindaco di Castel Volturno (Caserta), ha la faccia simpatica di un dj. La sua «musica» però ha il ritmo della passione politica, quella disinteressata dell'impegno sociale. Merce rara, soprattutto in un territorio dove lo Stato sembra aver deposto non solo le armi, ma anche la bandiera bianca con cui pare essersi arreso al dominio della mafia «bianca» dei clan dei casalesi e a quella «nera» della mafia nigeriana; «sembra» e «pare», verbi che lasciano però un filo di speranza. Del resto, il futuro, a Castel Volturno, non può essere peggio del passato. O del presente.

Sindaco Russo, martedì arriverà il ministro dell'Interno, Marco Minniti. Cosa gli dirà?

«Che a Castel Volturno non si può più andare avanti così».

«Così» come?

«Con una percentuale di migranti che supera qualsiasi livello di tolleranza».

Quanti sono?

«Circa 15mila. Su una popolazione residente di poco superiore ai 25mila».

Irregolari?

«La maggior parte».

Problemi di ordine pubblico?

«Criminalità record».

La storia di Castel Volturno in passato è stata macchiata da clamorosi fatti di sangue, da stragi, da scontri di mafie tra casalesi e africani».

«La violenza è sempre pronta a esplodere».

Lei ne sa qualcosa, di recente è stato schiaffeggiato con l'accusa di essere il «sindaco dei neri».

«Io sono solo il sindaco delle persone oneste».

Ma di «onestà» nel suo paese ce n'è poca.

«Invece ce n'è tanta».

Però stenta a venir fuori.

«Perché c'è paura».

Paura della mafia?

«La nostra e la loro».

La «loro», di chi?

«Dei nigeriani. Che si sono impossessati delle centinaia di villette abbandonate lungo il litorale domizio».

Come hanno fatto a occupare centinaia di case?

«Hanno sfondato le porte e sono entrati. Poi le hanno depredate sistematicamente. Ora fanno da basi operative del mercato di droga e prostituzione».

Castel Volturno è ostaggio di questa gente?

«In piazza si vedono pochissime persone di colore. Il Comune è come se fosse diviso in due: in paese gli italiani, in periferia gli africani».

Ghetti fuori dal controllo dello Stato?

«Lì c'è uno Stato parallelo. Fatto di degrado e illegalità».

«È la bomba sociale evocata di recente da Berlusconi.

«Tutto mi separa da Berlusconi, ma su questo aspetto ha ragione. E magari si trattasse solo di bomba sociale...».

Perché, c'è di peggio?

«Sì, esiste il rischio anche di una bomba sanitaria».

Motivo?

«Tra i migranti si registrano molti casi di tubercolosi, malaria e Aids. Ma nella comunità africana ci si cura con metodi tribali. Lungo il litorale non esistono fogne e l'inquinamento ambientale è un incubo».

Ci vorrebbero ingenti opere infrastrutturali.

«Il governo ha proposto investimenti. Al ministro Minniti chiederò che gli impegni vengano rispettati».

C'è bisogno di sicurezza.

«Più forze dell'ordine e maggiore prevenzione».

Senza dimenticare i finanziamenti.

«Le casse del Comune sono a secco. Da settimane abbiamo in ospedale un feto partorito e abbandonato da una mamma africana. Vorremmo garantirgli una onorevole sepoltura. Ma non abbiamo neppure i soldi per il funerale».

È terribile.

«Lo so».

Il vero volto della mafia nigeriana, che ha in pugno la prostituzione in Italia, scrive Andrea Sparaciari il 16/8/2017 su "it.businessinsider.com". Oltre a Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Stidda e Sacra Corona Unita, l’Italia può “vantare” un altro sodalizio mafioso di tutto rispetto: quello nigeriano, gruppi di criminali che tengono saldamente in pugno il mercato della prostituzione, ma non solo. “ll radicamento in Italia di tale consorteria è emerso nel corso di diverse inchieste, che ne hanno evidenziato la natura mafiosa, peraltro confermata da sentenze di condanna passate in giudicato”, scrive la Dia nella relazione sulle sue attività investigative del secondo semestre 2016. Pagine nelle quali i magistrati spiegano, inchiesta per inchiesta, come i nigeriani siano ormai primari protagonisti non solo del traffico di esseri umani, ma anche della droga, delle truffe online e nello sfruttamento della prostituzione. Un ventaglio di attività al quale gli affiliati alle varie bande provenienti dal Paese centroafricano si applicano con spietata efficienza. “Sul piano generale, tra le attività criminali dei gruppi nigeriani, si conferma la tratta di donne di origine nigeriana e sub sahariana, avviate poi alla prostituzione”, si legge nella relazione, che ricorda come il 24 ottobre 2016 la Polizia di Catania, con l’operazione “Skin Trade”, abbia arrestato 15 persone per associazione per delinquere finalizzata alla tratta di persone e sfruttamento della prostituzione. Idem per le indagini sui gruppi attivi nella zona di Castel Volturno (CE) che sarebbero riusciti “a organizzare importanti traffici di droga e immigrati clandestini, operando altresì nello sfruttamento della prostituzione”. L’operazione Cultus che nel 2014 portò in carcere 34 persone, illustra perfettamente il modus operandi dei nigeriani: le ragazze erano reclutate in Togo, da dove venivano “importate” in Italia attraverso il Benin. Una volta sbarcate, si ritrovavano un debito per il viaggio – in media tra i 40 ai 70 mila euro – e per saldarlo erano costrette a prostituirsi sotto gli ordini di una Maman. Il pericolo della denuncia era scongiurato perché assoggettate psicologicamente attraverso pratiche esoteriche. A questo proposito, molti giornali hanno spesso scritto di “rituali voodoo”… In realtà, si tratta del rito “Juju”, una credenza religiosa praticata nella regione del Sud-Ovest della Nigeria. Il paradosso è che il rituale utilizzato per schiavizzare le donne africane, convincendole che lo spirito racchiuso in piccoli feticci possa causare enormi sciagure a loro e alla loro famiglia in caso di disobbedienza, non nasce in Africa, ma è stato importato dai primi colonizzatori europei, tanto che mutua il nome dal termine francese “Joujou”. Comunque, le indagini hanno dimostrato che oltre al traffico di esseri umani, l’organizzazione gestiva anche i corrieri della cocaina provenienti da Colombia, nonché quelli della marijuana dall’Albania. I proventi venivano poi spediti in Nigeria e Togo attraverso agenzie di money transfer. Secondo la Dia, appare poi assodato che le mafie nostrane appaltino il lavoro sporco ai nigeriani e che questi, quando agiscono da indipendenti, debbano pagare il pizzo a Cosa Nostra e alle ‘ndrine. Una tassa “mal sopportata”, tanto che a volte scoppia lo scontro, come accadde a Castel Volturno nel 2008, quando i Casalesi spararono indiscriminatamente sulle case dei braccianti immigrati, uccidendo sei persone (per altro non affiliate alle bande). Parliamo di bande, perché l’universo della criminalità nigeriana non è monolitico. Tutt’altro: sarebbero almeno una dozzina i gruppi che si contendono il primato, nel Paese africano e all’estero. Per esempio, in Italia è certa la presenza di almeno tre nuclei, divisi da un conflitto sotterraneo e brutale che va avanti da due decenni: la Aye Confraternite, gli Eiye e i temibili Black Axe. Secondo il rapporto “Global Report on Trafficking in Persons 2014” dello United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), con l’operazione Cultus finirono in manette “membri di due gruppi, chiamati Eiye e Aye Confraternite, operativi in alcune parti d’Italia da almeno il 2008”. Due gruppi che “hanno combattuto per oltre sei anni per il controllo dell’area di Roma (Torre Angela, Tor Bella Monaca e Torrenova, ndr)”, affrontandosi con armi da fuoco, spranghe, coltelli e machete. Una lotta che probabilmente ha spalancato le porte ai Black Axe, tanto che il 13 settembre 2016, con l’operazione “Athenaeum”, in Piemonte finiscono in manette 44 persone per associazione mafiosa, spaccio, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e lesioni gravi. L’indagine svela che i Black Axe avevano ramificazioni in buona parte dell’Italia oltre Torino, a Novara, Alessandria, Verona, Bologna, Roma, Napoli e Palermo. Ma il nostro Paese è in buona compagnia: nell’aprile scorso, il capo della polizia di Toronto (Canada), Jim Raymer, ha presentato un’operazione che ha scardinato un’organizzazione di ladri d’auto (anche lì tutti Black Axe) la quale avrebbe trafugato veicoli di lusso per oltre 30 milioni di dollari. Sulla nave diretta in Africa bloccata dalla polizia, sono stati ritrovati suv provenienti anche da Spagna e Belgio. In manette sono finiti, oltre ai ladri, anche rivenditori di parti d’auto, camionisti, impiegati delle compagnie di navigazione e portuali, tutti canadesi doc. In Giappone, invece, nel 2014 fece scalpore l’arresto di un nigeriano gestore di un locale notturno del quartiere a luci rosse di Kabukicho, che costringeva le sue hostess filippine a drogare i clienti svuotandone poi le carte di credito. Si scoprì che il gioco andava avanti da anni e che in totale l’uomo si sarebbe appropriato di oltre 7,5 milioni di euro (soldi spediti in Nigeria dove si stava costruendo un vero palazzo reale). Ma le indagini svelarono anche la diretta partecipazione dei nigeriani nei locali a luci rosse di Kabukicho, nonché i loro legami con la Yacuza nella vendita di eroina, nei furti d’auto, nel riciclaggio di denaro e nell’organizzazione di matrimoni finti. Prostituzione in Italia, furti d’auto in Canada, l’eroina in Giappone, tutte joint-venture che dimostrano quanto i nigeriani siano capaci di stringere rapporti proficui con le mafie locali, adattandosi alle diverse realtà. E non deve stupire: chi gestisce i traffici, contrariamente al credo popolare, non sono illetterati provenienti da sperduti villaggi dell’Africa equatoriale. Spesso, anzi, si tratta di laureati o comunque di persone dotate di cultura superiore. Un dato di fatto che deriva dalla stessa storia della mafia nigeriana.

L’università dei gangster. Le bande mafiose nascono infatti come degenerazione dei gruppi cultisti attivi nelle università della regione del Delta del Niger fin dagli anni ’50, gruppi che si opponevano alla dominazione europea. All’inizio erano semplici confraternite universitarie, ma presto si trasformano in associazioni a delinquere che travalicano i muri dei campus. La confraternita originaria fu quella dei Pyrates, negli anni ’70 subì una prima scissione, dalla quale si formarono i Sea Dogs (i Pyrates) e i Bucanieri.  A loro volta, i Bucanieri diedero vita al Movimento Neo-Black dell’Africa, cioè i Black Axe, che divenne egemone all’interno dell’università di Benin nello stato dell’Edo. Ma anche i Black Axe subirono una divisione, con la quale si formò la Eiye Confraternity. Da lì fu un fiorire di gruppi. Oltre a Black Axe e Eiye, oggi in Nigeria si distinguono per brutalità la Junior Vikings Confraternity (JVC), la Supreme Vikings Confraternity (SVC) e la Debam, scissionisti della The Eternal Fraternal Order of the Legion Consortium. Ognuna di esse ha un’uniforme, propri colori e un’università o scuola superiore di riferimento. Con il ritorno del Paese alla democrazia, nel 1999, in Nigeria si aprì un periodo di lotte furibonde tra i vari potentati politici a livello locale, federale e statale. Fu quasi naturale che partiti e uomini politici assoldassero le confraternite come collettori di voti o guardie del corpo, fino a trasformarle in veri eserciti privati, spesso integrati direttamente nelle forze di polizia locali. Ciò ha permesso ai sodalizi criminali di prosperare e di espandesi all’estero. Europa dell’Est, Spagna, Italia, Giappone, Canada, Sudafrica. Una piovra dalle mille teste che fa affari con tutti: da Cosa Nostra ai narcos sud americani, dai trafficanti d’armi dell’Est ai produttori di marijuana albanesi. A ingrossarne le fila, sono gli studenti universitari e delle secondarie, cooptati sia volontariamente che involontariamente. Negli ultimi anni, però, secondo l’Onu, sarebbero aumentati vertiginosamente anche i membri sotto i 12 anni, bambini di strada utilizzati come soldati. Contrariamente agli anni ’70, poi, oggi esistono anche confraternite tutte al femminile, le più note e temibili sono Jezebel e Pink ladies.

Come funzionano. L’UNODC ha studiato il funzionamento delle confraternite, ecco come descrive il funzionamento degli Eiye: “Il gruppo agisce attraverso un sistema di cellule – chiamate Forum – che operano localmente, ma che sono collegate alle altre cellule radicate in diversi Paesi dell’Africa occidentale, del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’Europa occidentale”. Gli Eiye hanno “una struttura gerarchica rigida, retta da una Direzione. Sebbene ogni forum sia indipendente, i membri hanno un ruolo funzionale specifico e sono uniti tra loro da legami familiari o da altri rapporti relazionali”. Tutte le confraternite hanno un leder carismatico, detto “Capones” (in onore di Al Capone), un comandante in capo, che d ordini ai vari capones locali, dislocati nelle varie università, i suoi generali sul campo. Per divenire capones, la persona “deve aver dato prove inoppugnabili di coraggio e brutalità”. Anche per entrare in una confraternita si deve passare un esame: dopo essere stato scelto, l’aspirante viene sottoposto a un rito iniziatico, che ha luogo di notte, spesso in un cimitero, durante il quale viene drogato, picchiato e costretto a dimostrare il proprio coraggio, meglio se con un omicidio o col rapimento di una donna legata un’altra confraternita. Una volta dentro, al nuovo adepto vengono insegnati il rispetto per la “fortificazione spirituale”, le tattiche di combattimento e l’uso delle armi da fuoco. Qualora il candidato si rifiuti di entrare nella banda o, una volta dentro, voglia uscirne, sa che a pagare sarà – oltre a lui – anche la sua famiglia. Una realtà brutale, che si rispecchia poi nel modo di agire – spietato – delle bande. Una spirale di violenza infinita, già stabilmente impiantata nel nostro Paese e che sta diventando sempre più forte e potente. Una piaga destinata a diventare sempre più purulenta e dolorosa.

Hawala, ecco come fanno lavoratori stranieri, scafisti e terroristi a trasferire soldi senza lasciare tracce, scrivono Lorenzo Bagnoli e Lorenzo Bodrero su "IRPI" riportato il 22 dicembre 2017 su "it.businessinsider.com". Firenze, via Palazzuolo 172 rosso. La Cattedrale di Santa Maria del Fiore dista 15 minuti a piedi. La Stazione di Santa Maria Novella cinque. Il civico corrisponde ad un palazzo anonimo, incastonato tra le case ammassate l’una sull’altra in questa stretta via del centro fiorentino. Su Google, chi cerca “via Palazzuolo 172” trova un nome, Abdalla Osman Hassan, e un negozio, Ilays Money Service. Secondo la Direzione distrettuale antimafia di Firenze, era una banca clandestina che tra il primo gennaio e il 3 ottobre 2017 ha mosso oltre 400 mila euro. Soldi fuori da ogni radar della Banca d’Italia, che si muovono senza lasciare traccia, come fossero contanti. Ilays Money Service appariva come un semplice money transfer, ma dietro questa facciata nascondeva un sistema di passaggio di denaro parallelo. Il cosiddetto hawala. Hawala in arabo significa “trasferimento” o più spesso “fiducia”, che poi è anche la traduzione di “trust”, che da dizionario economico Treccani è un’ “istituto giuridico caratteristico del diritto anglosassone che consente di dar vita a un fondo con patrimonio autonomo, amministrato da un fiduciario”. In soldoni, rappresenta lo strumento previsto dalla legge che scherma le ricchezze offshore di tutto il mondo. Gli hawala, invece, sono quelli illegali per chi non ha santi nei paradisi fiscali. Strumenti finanziari che hanno una storia millenaria, con i quali si fa riciclaggio ed evasione spesso di piccolo cabotaggio, ma che complessivamente raggiungono cifre difficili persino da immaginare. Hawala è diventato, negli anni, il nome con cui si definiscono tutti i “circuiti informali” attraverso cui soprattutto le comunità straniere portano i propri soldi fuori dall’Italia. Rimesse che dalle autorità italiane non vengono né tassate, né controllate: passano di mano in mano in una lunga catena che si basa proprio sulla fiducia. Il tasso di cambio e la commissione vengono pattuiti tra il “banchiere”, l’hawaladar, e il cliente. Il sistema ha tanti altri nomi con cui viene definito, a seconda delle aree geografiche: chiti o hundi nel subcontinente indiano, Stash-House nelle Americhe, Chop Shop in Cina. In pratica, gli hawala “sono una cambiale, un pagherò, un assegno”, spiega Giovambattista Palumbo, presidente di Eurispes e grande esperto del sistema. “I ‘banchieri’ hawala, che si occupano di raccogliere e trasferire all’estero le risorse finanziarie, esercitano spesso attività commerciali legali (cambia-valute, negozianti, commercianti, agenti di viaggio, orefici) e godono di molta fiducia e rispetto nell’ambito delle rispettive comunità”, aggiunge Palumbo. “La loro attività consiste nel garantire il trasferimento delle somme di denaro derivanti dai profitti, leciti ed illeciti (spesso derivanti da lavoro nero o evasione fiscale), ottenuti dai membri della comunità”. Gli hawaladar sono bottegai della finanza, “broker” da strada la cui attività è prevista anche negli ahadith, libri che interpretano i versi del Corano. Esistono varie sfumature di hawala: il sistema può essere davvero l’unico modo per spedire denaro alla propria famiglia in Paesi dove lo Stato non esiste, oppure un perfetto sistema di riciclaggio ed evasione per milioni di euro, sfruttato anche da organizzazioni terroristiche e criminali. Il passaggio di denaro via hawala appare identico a quello di un money transfer. Quest’ultimo funziona così: un cliente va allo sportello e deposita la cifra di denaro da inviare in un altro Paese. L’operatore consegna al cliente un codice, che a sua volta lo manderà al destinatario finale. Quest’ultimo andrà nel giro di 48 ore in un’agenzia della stessa catena di money transfer con in mano il codice e ritirerà la somma di denaro. La differenza per gli hawala sta tutta in chi muove i soldi e nella commissione applicata. L’hawala è decisamente più conveniente. Gli hawaladar, i banchieri, sono persone con tanto denaro a disposizione sulle quali trasferire il proprio debito. Sono loro che anticipano e che fanno circolare soldi. Anticipano il denaro per conto di altri: i debiti e i crediti tra hawaladar, quello dal Paese di partenza del denaro e quello di arrivo, verranno saldati in un secondo tempo, a seguito di centinaia di operazioni. La fiducia, come sempre, è la base millenaria su cui si poggia questo sistema. L’inchiesta fiorentina è arrivata all’esercizio commerciale di Abdalla Osman Hassan da un vecchio camion militare. Il mezzo era stato spedito dalla Toscana alla Somalia aggirando l’embargo che impedisce la vendita di materiale militare nel Paese. Camion simili vengono riempiti di esplosivo e usati come autobombe: l’ultima del 14 ottobre ha ucciso circa 230 persone a Mogadiscio. Il sistema è noto all’Europol come fonte di approvvigionamento di gruppi terroristici almeno dai tempi della prima Al Qaeda guidata da Osama Bin Laden. Più di recente, Chérif Kouachi, attentatore che insieme al fratello ha compiuto la strage alla redazione di Charlie Hebdo nel gennaio 2015, ha ammesso di aver ricevuto attraverso questo sistema 20mila euro dal gruppo di Al Qaeda nello Yemen. L’hawala è poi il sistema usato dai trafficanti di esseri umani per farsi pagare dai migranti che attraversano l’Africa, si imbarcano verso l’Italia e dalla nostra penisola si spostano in tutta Europa. A maggio un’importante operazione della Squadra mobile di Bari ha colpito la rete criminale intorno a Hussein Ismail Olahye, somalo classe 1984 che aveva costruito a partire dal suo money transfer Juba Express un’organizzazione che comprava permessi di soggiorno e titoli di viaggio falsi, pagava trafficanti di uomini, corrompeva ufficiali dell’anagrafe e poliziotti alla frontiera, gestiva spostamenti e pernottamenti tra Somalia, Italia, Germania, Svizzera e Svezia. La sua rete era il punto di riferimento per i somali che desideravano arrivare illegalmente in Italia o da qui spostarsi verso un altro paese europeo. In due anni e mezzo, gli inquirenti hanno individuato spostamenti di denaro per 9 milioni di euro. L’organizzazione aveva anche aiutato, nel luglio 2016, due estremisti siriani entrati in Italia via Malta, già condannati per associazione finalizzata al terrorismo in primo grado dal Tribunale di Brescia. Dal 2007 al 2010, secondo le operazioni Cian Liù, Cian Ba 2011 e Cian Ba 2012 condotte tra Prato e Firenze dalla Guardia di finanza fiorentina sono stati mossi attraverso gli hawala cinesi oltre 4,5 miliardi di euro dall’Italia alla Cina. Spesso frutto di lavoro nero. Le operazioni hanno prodotto 24 arresti e 581 denunce. A febbraio 2017, la filiale di Milano della Bank of China ha patteggiato 600 mila euro di multa: la banca era finita sotto inchiesta per riciclaggio. Nel periodo in esame, aveva ricevuto da un money transfer illegale 2,2 miliardi di euro, per i quali aveva ricevuto 758 mila euro in commissioni. Trasferimenti arrivati poi in Cina, senza che fosse possibile stabilire la reale provenienza. Quattro erano i dirigenti sotto inchiesta, accusati di aver omesso il controllo e frazionato le tranche in pagamenti da 1.999 euro, uno sotto alla soglia massima consentita dalla legge. Mai, fino ad oggi, era stato toccato un patrimonio tanto vasto mosso attraverso gli hawala.

La Mafia turca. Essa controlla gran parte del traffico di eroina (e di persone) che giunge in Europa dall’Afghanistan. Si tratta di una miriade di gruppi relativamente ridotti e autonomi, non verticistici, per lo più con membri appartenenti a un’unica struttura familiare. Infatti, si parla di "famiglie" (o "clan"), alcune delle quali sono curde e, a volte, perseguono finalità terroristiche.

NARCOS.

Narcos (serie televisiva). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Narcos è una serie televisiva statunitense-colombiana creata da Chris Brancato, Carlo Bernard e Doug Miro per Netflix. Tutti i dieci episodi che compongono la prima stagione sono stati resi disponibili sulla piattaforma di streaming Netflix dal 28 agosto 2015. Poco dopo la serie è stata rinnovata per una seconda stagione, pubblicata il 2 settembre 2016. La serie è stata rinnovata per una terza stagione, resa disponibile il 1º settembre 2017. È seguita dalla serie Narcos: Messico, incentrata sull'origine del cartello di Guadalajara pubblicata il 16 novembre 2018.

La serie racconta la storia vera della dilagante diffusione della cocaina tra Stati Uniti ed Europa negli anni ottanta. Le prime due stagioni sono incentrate sulla lotta delle autorità colombiane e della DEA contro il narcotrafficante Pablo Escobar e il cartello di Medellín, mentre la terza stagione è incentrata sulla lotta al cartello di Cali, guidato dai fratelli Gilberto e Miguel Rodríguez Orejuela.

“Narcos: Messico”. La serie tv da seguire per Aldo Grasso. Concepita inizialmente come quarta stagione della serie cult incentrata sulla ricostruzione dei cartelli criminali sudamericani, "Narcos: Messico" (visibile su Netflix) si configura a tutti gli effetti come una storia a sé stante, scrive Aldo Grasso il 22 dicembre 2018 su Io Donna. Concepita inizialmente come quarta stagione della serie cult incentrata sulla ricostruzione dei cartelli criminali sudamericani, Narcos: Messico (visibile su Netflix) si configura a tutti gli effetti come una storia a sé stante, uno spin-off che condivide l’universo simbolico, lessicale ed estetico di riferimento per raccontare una vicenda del tutto nuova e slegata dalle precedenti. Del resto, compiuta nelle prime stagioni la parabola di Pablo Escobar e dei cartelli di Medellin e Cali, raccoglierne l’eredità e procedere secondo una linea di continuità rischiava di trasformarsi in artificio rischioso. Meglio, allora, voltare pagina e trasferirsi in Messico, un altro paese martoriato dal narcotraffico e da guerre di droga che hanno fatto oltre mezzo milione di morti negli ultimi trent’anni. Qui nella zona di Guadalajara, nel “triangolo d’oro” messicano tra Chihuahua, Durango e Sinaloa, s’intrecciano le vicende di Felix Gallardo (Diego Luna), detto “El Padrino”, il più feroce criminale messicano, e di Kiki Camarena, agente statunitense della Dea, l’uomo che cercò di frenarne l’ascesa e che finì torturato e ucciso. Narcos è un brand a tutti gli effetti, con i suoi messaggi e tratti distintivi che trascendono le singole storie. Per chi ama il tormento e la fragilità che spesso popolano l’anima anche dei peggiori criminali.

NARCOS: MEXICO, UNA LETTURA POLITICA. Se la precedente opera aveva suscitato qualche critica per la prospettiva spiccatamente statunitense, severa nei confronti delle istituzioni locali e assolutoria verso le responsabilità degli USA, non si può dire lo stesso di “Narcos: Mexico”. Stavolta la serie, rilasciata lo scorso anno da Netflix e di cui proponiamo una lettura politica, denuncia le oscure trame imbastite dal vicino norteño che, attraverso la CIA, intratteneva rapporti strategici con la criminalità organizzata messicana per avere dalla sua un occulto esercito da schierare contro il “pericolo rosso”.

«Mi spari. Domani quei nomi verranno resi noti. Ma si tenga un proiettile per sé, al sistema non piacciono gli eroi.», scrive Miguel Ángel Félix Gallardo l'11 marzo 2019 su I Diavoli. Narcos: Mexico, rilasciata lo scorso anno da Netflix, ribalta la prospettiva della celebre serie “madre” e stavolta gli Stati Uniti ne escono decisamente meno puliti. Di seguito, una lettura politica dell’opera. Gli ingredienti sono gli stessi che hanno reso Narcos una serie di culto: un ritmo narrativo ben modulato; scenografia e recitazione eccellenti; un ritratto del mondo criminale che sfugge a ogni tentazione moralista; un realismo che non ha bisogno di essere magico, tanto sa essere surreale e impressionante la realtà latinoamericana. Ma chi abbia seguito le cronache messicane degli ultimi vent’anni, o anche solo chi abbia letto i libri di Don Winslow, potrebbe essere rimasto sorpreso davanti a Narcos: Mexico. In apertura, la voce fuori campo ci ricorda che negli ultimi trent’anni in Messico la guerra della droga «ha ucciso mezzo milione di persone. Finora». Ma in questa prima stagione non c’è quasi traccia dell’escalation di omicidi, torture, rapimenti, conflitti fra gang, polizie ed eserciti pubblici e privati che soprattutto dopo il 2000 ha messo in ginocchio uno Stato in balia dei poteri criminali. All’inizio dell’ondata di violenza qualcuno parlò del Messico come di una “nuova Colombia”, un’etichetta fuorviante, poco utile per comprendere quella che è innanzitutto una storia intrecciata con l’evoluzione politica ed economica del paese – e al suo rapporto con gli USA. Forse per questo gli autori di Narcos hanno deciso di staccarsi (quasi) completamente dalle vicende di Medellin e Cali, di Pablo Escobar e dei fratelli Rodríguez Orejuela, per ripartire da zero. La prima stagione di Narcos: Mexico è la storia della spettacolare (e, come vedremo, non irresistibile) ascesa di “El Padrino” Miguel Ángel Félix Gallardo: la nascita di un impero della droga dalla cui successiva lenta e tormentata frammentazione sarebbe derivata la violenza che dilaga ancora oggi. Tutto ha inizio con una grande operazione antidroga: l’Operación Condor del 1976, con cui diecimila soldati federali mettono a ferro e fuoco l’intero stato di Sinaloa, fin dal primo Novecento culla delle coltivazioni di amapola (papavero da oppio) e marijuana destinati al mercato statunitense. Succede sempre così, nella storia del narcotraffico: un forte intervento repressivo che innesca un processo evolutivo, forgiando nuove organizzazioni criminali più ricche, potenti e attrezzate. In questo caso è Félix Gallardo, ex poliziotto, uno dei pochi narcos scampati alla furia dell’esercito, a cogliere l’occasione della disfatta per portare gli affari lontano dalle impervie e polverose strade della Sierra Madre sinaloense. Con una brillante intuizione, ma soprattutto grazie alle preziose entrature politiche ereditate dall’amico ex governatore di Sinaloa di cui è stato guardia del corpo, Félix Gallardo si trasferisce a Guadalajara e da lì va alla conquista del Messico. Affiancato da Rafael Caro Quintero – capace di applicare criteri agro-industriali alla coltivazione della cannabis su larga scala – e dal pittoresco Ernesto “Don Neto” Fonseca Carrillo – forse il personaggio più riuscito della serie, trait d’union tra il mondo rurale del narcotraffico made in Sinaloa e la nuova imprenditoria criminale –, il giovane boss riesce a collocare i suoi fidatissimi uomini, spesso parenti, in tutte le plazas decisive per lo smercio della marijuana negli Stati Uniti. Alcuni diventeranno ancora più celebri di lui (e li attendiamo come protagonisti delle prossime stagioni): i fratelli Arellano Félix, suoi nipoti; il pilota e futuro “Señor de los cielos” Amado Carrillo Fuentes, nipote di Don Neto. Ma soprattutto Joaquín “El Chapo” Guzmán Loera, per anni incontrastato capo dei capi. Grazie alla sua struttura compatta il Cartello di Guadalajara acquisisce presto il monopolio sul narcotraffico messicano. Eppure è solo l’inizio: la polvere bianca rappresenta la vera svolta. Negli anni ’80 Félix Gallardo e soci si accordano con i narcos colombiani, sempre più in competizione con le sue rotte aeree dirette negli USA, per far transitare la cocaina in Messico e trasportarla oltre il Río Bravo. Cambiano gli ordini di grandezza, e il Cartello diventa una delle più ricche e potenti organizzazioni del mondo. Così riassunta, sembra solo la storia di una spregiudicata espansione criminale, di un gruppo di narcotrafficanti capaci di tuffarsi nel più redditizio dei mercati sotto la guida di un leader ambizioso e visionario. Ma Narcos: Mexico è straordinario nel restituire anche le ombre, le collusioni, i risvolti politici e geopolitici di un fenomeno che, come sempre, è ben lungi dall’essere puramente criminale. Gli sceneggiatori mostrano insistentemente come la leadership di Félix Gallardo sia legata, per non dire subordinata, al potere politico. Non si tratta solo della corruzione endemica nella polizia e nel sistema giudiziario: i suoi affari sono protetti da un’agenzia governativa, la DFS. Da anni strumento occulto di annientamento del dissenso per conto del PRI (l’ossimorico Partito Rivoluzionario Istituzionale, rimasto al governo del Paese per 71 anni in quella che, nonostante le forme democratiche, Vargas Llosa chiamò dictadura perfecta), la DFS, anziché combattere la criminalità organizzata come prevedeva il suo statuto, acquisì un ruolo di sovrintendenza su di essa, ricevendo in cambio risorse umane e finanziarie per le proprie attività repressive, oltre che una cospicua fetta della torta per i vari attori del sistema. Insomma, fin dagli anni ‘80 il narcotraffico si innesta su una consolidata struttura di potere nazionale, alle dipendenze di un’élite sfruttatrice che se ne serve accentrandolo e, in qualche modo, disciplinandolo. Solo sul finire della serie Félix Gallardo comincia a manifestare insofferenza per questo stato di cose, salvo poi realizzare che soltanto all’interno del perimetro istituzionale il business della droga può procedere incontrastato. Se la versione colombiana di Narcos aveva suscitato qualche critica per la prospettiva spiccatamente statunitense, severa nei confronti delle istituzioni locali e assolutoria verso le responsabilità degli USA, non si può dire lo stesso di quella messicana. Stavolta la serie sottolinea chiaramente le colpe del vicino norteño, che non si limitano alla cronica incapacità di contenere la domanda di droga all’interno dei propri confini. Da tempo, infatti, la criminalità organizzata messicana, tramite la DFS e i suoi stretti contatti con la CIA, era stata di fatto arruolata nell’esercito occulto della Guerra fredda. E gli sceneggiatori sposano in maniera inequivocabile la tesi secondo cui il sodalizio tra Félix Gallardo e i cartelli colombiani non sarebbe mai avvenuto senza la mediazione di Juan Matta Ballesteros. Si tratta di un noto criminale honduregno a libro paga della CIA e grazie al quale gran parte dei proventi della nuova rotta della cocaina andarono a finanziare le operazioni dei Contras in Nicaragua. Che il narcotraffico non sia solo questione criminale non sfugge a Enrique “Kiki” Camarena, l’altro protagonista della serie, alter ego di Félix Gallardo, integerrimo agente della DEA (la Drug Enforcement Administration statunitense) di origini messicane che, giunto a Guadalajara, contribuisce più di ogni altro a intralciare gli affari del Cartello. I due antagonisti, personaggi dal carattere molto simile per determinazione e intraprendenza, si incontrano sul finire della serie, quando Camarena sta per soccombere al rapimento e alle torture degli aguzzini di Félix Gallardo. Una fine tragica che però, come mostra l’ultima puntata, cambierà per sempre l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti del narcotraffico. Del resto, i cultori di Narcos ricorderanno le parole degli agenti DEA Murphy e Peña (al contrario di Camarena, personaggi fittizi) nella prima stagione colombiana: «Kiki era come Gesù Cristo per noi: era morto per salvarci». Dopo la sua morte, l’intero sistema politico-criminale messicano, e così il modello centralizzato e “istituzionalizzato” del narcotraffico, tenuto sotto controllo anche per impedire ogni degenerazione violenta e socialmente allarmante, comincia a vacillare grazie alle attività investigative e alle fortissime pressioni statunitensi nei confronti del governo. Ma ancora una volta la repressione scatena pericolose trasformazioni criminali, a maggior ragione in un periodo come gli ‘80, quando il Messico affronta le conseguenze di una massiccia privatizzazione dell’economia (che non ha niente da invidiare a quella della Russia post-sovietica) e di un processo di democratizzazione estremamente tormentato. L’epopea di Félix Gallardo e il sacrificio di Camarena preludono dunque alla tragica stagione delle drug wars. Che, come ha scritto icasticamente l’economista Francisco Gonzalez, somigliano «a un uomo che prende furiosamente a calci un alveare, senza avere lo spray con cui neutralizzare le api che ne usciranno agguerrite». In attesa di vederle in scena nelle prossime stagioni, viene da ripensare alle parole con cui la voce fuori campo apre Narcos: Mexico: «Voglio raccontarvi una storia. Ma sarò sincero: non finisce bene. Infatti, non finisce per niente».

Il Mondo dei Narcos: su Nove i segreti di trafficanti e corrotti in prima tv, scrive il 5 Luglio 2018 ilmiogiornale.net. Il Mondo dei Narcos: immaginate di poter esplorare i gangli di un’organizzazione criminale. Di osservarne da vicino la struttura. Di conoscerne il funzionamento, le strategie, gli affari. Ma anche la violenza e la ferocia. Dopo il successo dello scorso anno di Kings of Crime, Roberto Saviano torna su Nove. Stavolta, sul canale gratuito di Discovery Italia lo scrittore presenta Il Mondo dei Narcos. Il programma va in onda in prima tv assoluta lunedì 9 e 16 luglio alle 21.25. Durante le due serate Saviano introduce e commenta una serie di documentari inediti sui signori della droga e della corruzione girati in Colombia e Messico, terre dei narcos più famosi, da Escobar a El Chapo. La serie Il Mondo dei Narcos in onda su Nove è composta da 4 inchieste: “Il Mercato dell’Innocenza”, “Lo Stato di Sinaloa”, “La guerra di Sinaloa” e “Viaggio oltre confine”. Sono state tutte realizzate dal reporter spagnolo David Beriain, autore tra l’altro della serie Clandestino, prodotta da Discovery Networks International e 93 Metros. Tra i massimi esponenti del giornalismo d’inchiesta e non solo europei, Beriain con i suoi reportage getta luce sui cartelli del narcotraffico mondiale, spaziando dai colombiani di Medellín ai messicani di Sinaloa. Come? Andando direttamente alla fonte. E cioè incontrando sicari, chimici, corrieri, giovani boss e poliziotti corrotti. Recentemente, Saviano e Beriain si sono incontrati in Italia per le riprese della nuova stagione di Clandestino. Due talenti e sensibilità che condividono l’obiettivo comune di provare a scoprire e raccontare al pubblico in nome di che cosa agiscono i narcos. E quali sono le loro motivazioni, le dinamiche che regolano le loro vite criminali. Una sfida difficile. Anche per un altro motivo, che Saviano sintetizza così: “Provare a dire al lettore o allo spettatore, anche a migliaia di chilometri di distanza, questa storia ti riguarda”.

Saviano e "Il mondo dei narcos", da Medellin a Sinaloa. Dal 9 luglio sul Nove presenta i documentari di David Beriain, scrive ANSAROMA l'8 luglio 2018. Esplorare i gangli di un'organizzazione criminale, osservarne da vicino la struttura, conoscerne il funzionamento, le strategie, gli affari ma anche la violenza, la ferocia. Dopo il successo di Kings of Crime, Roberto Saviano torna sul canale Nove di Discovery Italia per presentare 'Il mondo dei narcos', in prima tv assoluta lunedì 9 e lunedì 16 luglio alle 21:25. Saviano introduce e commenta una serie di documentari inediti sui signori della droga e la corruzione in Colombia e Messico, terre dei due narcos più famosi, Escobar e El Chapo. Le inchieste sono realizzate dal reporter spagnolo David Beriain, autore della serie Clandestino, prodotta da Discovery Networks International e 93 Metros. Tra i massimi esponenti europei del giornalismo d'inchiesta, con i suoi reportage Beriain getta luce sui cartelli del narcotraffico mondiale, dai colombiani di Medellín ai messicani di Sinaloa, incontrando direttamente sicari, chimici, corrieri, giovani boss e poliziotti corrotti. "Sinaloa - spiega Saviano - è sempre stata una terra povera, difficile, senza grandi opportunità di lavoro. L'illegalità qui è sempre stata tollerata, perché considerata una forma di sopravvivenza. Ci sono villaggi nello stato di Sinaloa dove si calcola il 97% della popolazione sia in vari modi coinvolta nell'attività del narcotraffico. La droga dà lavoro a tutta la famiglia, dai bambini agli anziani. C'è chi si occupa della coltivazione di oppio, e chi della coltivazione della marijuana. Chi controlla il territorio, chi produce la cocaina nei laboratori clandestini, chi la trasporta, chi si arruola nella polizia che dovrebbe far rispettare la legge dello Stato, ma spesso viene pagata per chiudere un occhio". "Sono tante - riflette ancora l'autore di Gomorra - le professioni generate dell'economia del narcotraffico. Ma i narcos non offrono solo lavoro, offrono servizi alla comunità. Quei servizi che lo Stato fatica a soddisfare. Fanno offerte per aprire scuole, costruiscono strade, persino parchi giochi per bambini. Aiutano economicamente le famiglie in difficoltà. Arrivano a donare agli abitanti chiese, statue di santi. Per questo la gente del luogo li considera dei benefattori e li ricambia con il silenzio e la fedeltà incondizionata". Recentemente Roberto Saviano e David Beriain si sono incontrati in Italia in occasione delle riprese della nuova stagione di Clandestino: due talenti e sensibilità che condividono l'obiettivo comune di cercare di raccontare al pubblico in nome di cosa agiscono queste persone (i narcos), quali sono le loro motivazioni, le dinamiche che regolano le loro vite criminali.

Roberto Saviano presenta "Il Mondo dei Narcos": il viaggio di Beriain nell’inferno Messicano della droga. La mini serie si compone di quattro inchieste (“Il Mercato dell’Innocenza”; “Lo Stato di Sinaloa”; “La guerra di Sinaloa”; “Viaggio oltre confine”) divise in due serate e in onda su canale Nove di Discovery Italia lunedì 9 luglio alle 21.15 e lunedì 16 luglio alla stessa ora, scrive Davide Turrini il 9 Luglio 2018 su Il Fatto Quotidiano. Il mondo del traffico della droga messicano osservato da pochi centimetri di distanza. Laboratori di metanfetamine e di lavorazione dell’eroina; passeggiate in mezzo ad infiniti campi di marijuana; interi fortini militarizzati a protezione di gruppi di trafficanti; un giovane boss irrequieto e dal grilletto facile; una prostituta scampata alla vendetta mortale del cartello della droga. Questo è molto altro nelle puntate della mini serie Il Mondo dei Narcos. Quattro inchieste (“Il Mercato dell’Innocenza”; “Lo Stato di Sinaloa”; “La guerra di Sinaloa”; “Viaggio oltre confine”) divise in due serate e in onda su canale Nove di Discovery Italia lunedì 9 luglio alle 21.25 e lunedì 16 luglio alla stessa ora. L’autore dei documentari e protagonista in scena è il giornalista/documentarista David Beriain. Mentre ad introdurre e concludere ogni puntata sarà Roberto Saviano. Proprio in apertura della seconda puntata – Lo stato di Sinaloa – è lo scrittore campano a raccontare la portata impressionante di questo fenomeno criminale. Sinaloa, nella zona centroccidentale del Messico è la “culla del narcotraffico”, spiega Saviano, là dove a fine ‘800 arrivarono migranti cinesi come manodopera e importarono l’oppio. Da ciò, nel corso dei decenni, si è sviluppata la coltivazione/produzione di eroina e marijuana e soprattutto dopo che i colombiani, re incontrastati del traffico di cocaina negli anni Ottanta, subirono una controffensiva statunitense nella rotta del trasporto caraibico, ecco che i messicani già attivi come corrieri e raffinatori si misero in proprio tenendosi il 35%-50% della merce proveniente dalla Colombia per poi rivenderla ad un altro prezzo altamente concorrenziale negli Stati Uniti. Gioco facile soppiantare i colombiani e rendere quella zona del Messico il centro di un nuovo traffico di stupefacenti verso il Nord America e l’Europa. “Il traffico di droga non è nient’altro che la forma più spietata, violenta ed estrema di una legge che governa tutti noi, la legge della domanda e dell’offerta”, spiega Beriain al FQMagazine. “Da una parte abbiamo qualcuno nelle strade di Roma o Madrid che paga da 60 a 75 euro per un grammo di cocaina che nella maggior parte dei casi è pura solo al 30 o 40%. Questo prezzo è il doppio di quello che si spende per un grammo di oro. Dall’altra parte abbiamo un altro ragazzo, che dice: ‘Bene, se sei pronto a pagare questa cifra per un grammo, farò qualsiasi cosa per consegnartelo‘. È assurdo pensare che la nostra società occidentale non abbia nulla a che fare con ciò che accade nella parte di mondo in cui si crea l’offerta. Finanziamo i narcotrafficanti comprando la loro droga e poi pagando le tassefinanziamo la lotta armata per contrastarli”. Impressionante è poi la mimetizzazione di Beriain e del suo gruppo di lavoro nell’essere arrivati letteralmente dentro ai secchi in cui si raffinano eroina e metanfetamine, a ridosso di uomini armati fino ai denti, o di fronte ad un boss pazzo che punta loro la pistola minacciandoli di morte. “A raccontare queste storie non c’è un “io” David Beriain, ma un “noi”. E in questo “noi” al primo posto, e non è pubblicità gratuita, c’è il team di Discovery”, continua il corpulento documentarista spagnolo. “Per ognuno dei nostri racconti ci sono anni di lavoro come preparazione. Un anno l’abbiamo passato solo a Sinaloa. Tutto è fatto con estrema cura e seguendo tre regole. La prima: non mentiamo mai, non lavoriamo sotto copertura e non sottovalutiamo l’impatto che le storie potrebbero avere sui loro protagonisti. La seconda: gli intervistati sono pienamente consapevoli di ciò che stiamo facendo. Non abbiamo telecamere nascoste e chiediamo permesso e accesso per riprendere. Più che giornalismoinvestigativo io lo chiamerei un “inmersion journalism” (giornalismo d’immersione). Vogliamo che il nostro pubblico si senta benvenuto in quei mondi clandestini e off-limits. Terzo: stiamo vicini agli intervistati dal primo all’ultimo istante. A volte quando sei di fronte a una persona che uccide altre persone per vivere, più che essergli di fianco vorresti essere a un milione di miglia lontano da lui. Ma quando ti avvicini ti rendi conto che la distanza non esiste, che ci sono parti di te che puoi trovare in lui o in loro. E questo è davvero fottutamente spaventoso”.

Cocaina tra peluche e vestiti: così i narcos "bucano" l'Italia. Nell'area Cargo di Malpensa ogni giorno vengono controllati migliaia di pacchi: le droghe sono nascoste nei modi più impensabili, scrivono Marianna Di Piazza e Fabio Franchini, Martedì 12/03/2019, su Il Giornale.  A Malpensa Cargo transita più della metà del traffico merci aereo italiano, con 120 voli settimanali e 572 milioni di tonnellate atterrate nel 2018. Nei magazzini dello scalo aeroportuale lombardo tra il via vai di camion e muletti, montagne di pacchi, scatoloni e buste, lavorano gli uomini della Guardia di Finanza. Una realtà complessa, nella quale è fondamentale l'analisi di rischio condotta dai militari sui passeggeri e sulle rotte più "calde", oltre all'imprescindibile apporto delle unità cinofile. Entrando nel capannone all'interno degli spazi doganali dello scalo, troviamo le squadre operative che quotidianamente effettuano accertamenti e ispezioni sulle merci e sulle spedizioni postali, in modo "scientifico". Il tutto, infatti, avviene secondo una logica e un'esperienza che porta i finanzieri a passare al setaccio certi scatoloni, già solo leggendo da dove proviene il pacco o il nome del mittente-destinatario. L'Est Europa, così come il Sud-America (terra di cocainaper eccellenza) o il Sud-Est Asiatico, per esempio, alzano il livello di guardia. Le Fiamme Gialle di Malpensa l'anno passato hanno sequestrato oltre 500 chilogrammi di sostanze stupefacenti: hashish, marijuana, cocaina ed eroina, su tutte. "Quest'ultima, insieme alle droghe sintetiche, ha fatto registrare una preoccupante impennata negli ultimi mesi", ci spiega il Tenente Colonnello Luigi Pardi, Comandante del Gruppo della Guardia di Finanza di Malpensa. Poi, appunto, ci sono loro: i cani antidroga. Le unità cinofile sono una pedina importantissima nella lotta al narcotraffico, anche se l’ondata di nuove sostanze sinteticheriesce a sfuggire anche al fiuto canino. Un po' come la cosiddetta cocaina nera: "La mischiano con il carbone vegetale, così cambia colore e odore, eludendo i nostri cani e anche i narcotest di vecchia generazione" racconta Laura Tripoli, Comandante del 2° Nucleo Operativo. Oltre ai più classici doppi fondi nelle valigie e agli ovulatori – che ingeriscono ovuli pieni zeppi di cocaina ed eroina –, i sotterfugi utilizzati dai mercanti della droga sono dei più impensabili: dai vestiti intrisi di sostanze, alla cocaina liquida nello shampoo, nelle bottiglie di liquore e di vino, passando per quella nascosta nei giocattoli, nelle noci di cocco e nelle scarpe. Hashish, marijuana, cocaina, eroina, khat, Fentanyl, steroidi-anabolizzanti e di droghe sintetiche. In uno stanzino all'interno del magazzino, i finanziari passano al setaccio i sacchi individuati dall’analisi di rischio o dai cani della squadra cinofila comandate dal luogotenente Nunzio Loforese. Nella manciata di minuti che trascorriamo al loro fianco, trovano pillole Viagra, fialette di Nandrolone e Testosterone, oltre a qualche grammo di hashish. "I militari riescono a individuare già dall’aspetto esteriore, toccando le spedizioni, cosa ci possa essere all’interno" ci dice Carlo Alberto Zambito, Comandante del 1° nucleo operativo della Guardia di Finanza di Malpensa. Le identità del mittente e del destinatario del "pacco X" contenente la sostanza illegale vengono verificate con accertamenti investigativi ai quali seguono le analisi in laboratorio per appurarne la composizione chimica.

Ecco il patto tra mafie e narcos, scrive il 4 dicembre 2016 Andrea Muratore su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Nella guerra globale alla droga, che oggigiorno vede i suoi fronti più incandescenti aperti in Messico e nelle Filippine, gli scontri principali coinvolgono apparati di sicurezza governativi (eserciti, forze speciali, corpi di polizia) e specifici cartelli interessati a sviluppare il business del narcotraffico. Accanto a questa dimensione, il mondo del narcotraffico conosce un estesissimo retroterra che si sviluppa ben al di là delle regioni in cui lo scontro assume caratteri militari: l’apparato logistico e il sistema di connivenze politiche e sociali che favoriscono l’affermazione del narcotraffico, infatti, consentono alla droga di giungere ai luoghi ove essa è poi distribuita sul “mercato”, principalmente nei Paesi occidentali. In questa operazione cruciale, le organizzazioni criminali di stampo mafioso giocano un ruolo preponderante: per quanto riguarda il narcotraffico messicano, ad esempio, uno dei motivi che impedisce un contrasto completamente efficace ai cartelli è proprio la presenza di un’alleanza scellerata tra questi e una galassia di organizzazioni criminali, che completano la distribuzione delle droghe oltre il confine statunitense od oltreoceano e annacquano le capacità di reazione del governo sul terreno. Numerose evidenze hanno confermato l’esistenza di “relazioni d’affari” tra le organizzazioni mafiose italiane e la galassia dei gruppi narcotrafficanti messicani. Cosa Nostra ha imbastito nel tempo un’alleanza con il Cartello di Sinaloa e il Cartello del Golfo, mentre un ferreo rapporto si è instaurato tra la ‘ndrangheta e il feroce gruppo dei Las Zetas. Nel giugno 2012 Fox News ha annunciato la conclusione positiva di un’operazione congiunta delle autorità messicane ed italiane che ha portato al disarticolamento del gruppo di trafficanti incentrato sui fratelli Elio e Bruno Gerardi, intermediari che dal porto di Monterrey spedivano verso Palermo centinaia di tonnellate di cocaina ogni anno. Più recentemente, sono noti diversi tentativi di Joaquim “El Chapo” Guzman di estendere ampiamente la rete clandestina di approvvigionamento di cocaina imbastita dalle organizzazioni criminali per collegare le due sponde dell’Atlantico, nei quali sarebbero stati coinvolti anche importanti esponenti di Cosa Nostra interessati a una parte del giro d’affari di 33 miliardi di dollari del narcotraffico europeo. Vera e propria “regina del narcotraffico”, la ‘ndrangheta ha invece la sua relazione privilegiata nell’alleanza tessuta con il gruppo dei Las Zetas, della quale le autorità investigative sono a conoscenza sin dal luglio 2011, quando l’operazione “Crimine 3” della Procura di Reggio Calabria aveva consentito di scoprire come i clan di Gioiosa Ionica, controllanti gli approdi clandestini nel porto di Gioia Tauro, avessero stabilito contatti con gli Zetas attraverso cellule entrate in contatto a New York. Secondo un’inchiesta dell’agosto 2016 condotta da Repubblica, la ‘ndrangheta non avrebbe solo ampiamente sorpassato Cosa Nostra in quanto a radicamento nel mercato della droga mondiale, ma sarebbe addirittura giunta a relegarla in un ruolo marginale: nella città di New York, sembra che il clan degli Ursino, originario di Gioiosa Ionica, sia addirittura giunto a sopravanzare in quanto a influenza nel mondo della criminalità organizzata le storiche “Cinque Famiglie” mafiose della Grande Mela. Sergio Corrado, ricercatore associato al Council on Hemispheric Affairs, ha realizzato un’interessante analisi in cui ha voluto riportato le convergenze e i parallelismi che hanno contraddistinto l’ascesa dei cartelli messicani e delle organizzazioni mafiose italiane. Corrado ha citato l’opinione di Vanda Felbab-Brown, fellow al Brookings Institute, secondo la quale tanto in Italia quanto in Messico l’assenza di una netta presenza del potere statale in determinate regioni avrebbe garantito indirettamente l’ascesa delle organizzazioni criminali. I tentativi dei cartelli della droga messicani di garantirsi un radicamento territoriale ricalcano molto da vicino gli sforzi compiuti nel secondo dopoguerra dalla mafia siciliana per provvedere ad una generale organizzazione dell’influenza delle diverse famiglie e dei vari mandamenti. Tuttavia, la diversità dei contesti sociali e la strutturata reazione militare del governo messicano hanno frenato la costituzione di un sistema gerarchico all’interno dei singoli cartelli, mentre le aspre rivalità tra i diversi gruppi narcotrafficanti hanno impedito la costituzione di solide alleanze o conglomerazioni. Per sfuggire a vere e proprie campagne d’annientamento e sopravvivere alla morte o alla cattura dei loro boss, i cartelli si organizzano su quella che Corrado ha definito una struttura “a basso grado di gerarchizzazione, che lascia potenzialmente spazio a un numero superiore di leader”, con un formato tendenzialmente policefalo. Tale struttura appare sicuramente più simile a quella della ‘ndrangheta, caratterizzata dal suo apparato “orizzontale” di ‘ndrine relativamente autonome le une dalle altre. Le mafie italiane hanno sempre fatto affidamento sui proventi del narcotraffico per costruire la loro piattaforma di potere: nel suo saggio Cosa Nostra, volume fondamentale per indagare le radici storiche dell’organizzazione siciliana, lo storico britannico John Dickie ha individuato con precisione l’inizio del rapporto perverso tra gruppi mafiosi italiani e narcotraffico internazionale nel viaggio del boss siculo-americano Joseph Bonanno a Palermo, cui fece seguito la trasferta in Messico e Canada di Angelo La Barbera nel 1960. Un rapporto stretto e vitale per le fortune di Cosa Nostra, che in seguito è stata imitata con successo anche dalla sua omologa calabrese: ciò rappresenta una testimonianza notevole dell’importanza che il problema del narcotraffico in paesi apparentemente lontani come il Messico assume per l’Italia. Ulteriori organizzazioni criminali imperversano invece al confine tra Messico e Stati Uniti, contribuendo all’esacerbazione della problematica del narcotraffico e sfruttando in maniera bieca anche un’ampia gamma di racket che spaziano dal traffico di esseri umani al contrabbando di armi da fuoco.

Fabrizio Lorusso, in un articolo pubblicato nel settembre 2015 su Narcomafie, ha osservato: “in riferimento ad alcuni gruppi della delinquenza organizzata messicana non si parla più, o non solo ormai, di gangster, cartelli e delinquenti, di tagliagole e sicari, di gang, bande epandillas, ma di vere e proprie mafie. Si tratta di uno stadio superiore di sviluppo dell’organizzazione criminale che acquisisce e consolida codici e strutture, regole e lealtà, discipline e logiche imprenditoriali e da clan”. Tra questi gruppi, numerosi si sono conquistati una nomea sinistra operando in maniera estesa nel mondo del narcotraffico. La gang dei Mara Salvatrucha, generalmente nota come MS-13 e composta principalmente da guatemaltechi, salvadoregni e honduregni, assiste il Cartello di Sinaloa fornendogli valide bocche da fuoco nella guerra contro i Las Zetas e contribuisce al controllo del territorio nelle aree di confine, mentre nello Stato della California si è costituita un’efferata organizzazione mafiosa all’interno della comunità messicana, che contribuisce attivamente al commercio clandestino di cocaina. Lorusso ha inoltre sottolineato come, parallelamente al business della cocaina, anche quello dell’eroina, all’interno degli Stati Uniti stia conoscendo una notevole espansione, trainata principalmente dal gruppo dei Las Zetas e dalle sue “filiali” oltre il confine americano: Los Moicase La Empresa Nueva. Nelle Filippine, invece, sono le Triadi cinesi a detenere un ruolo preminente nel mondo del narcotraffico: l’uccisione del boss Meco Tan nel mese di luglio ha portato in emersione il complesso di interessi che l’articolato sistema di organizzazioni criminali di origine cinese impiantato nell’arcipelago vanta nel mercato della droga. Lo stesso presidente Duterte ha richiamato più volte l’attenzione sull’egemonia delle bande criminali cinesi nel narcotraffico interno al suo paese: nella gestione di un giro d’affari dal valore superiore ad 8 miliardi di dollari sarebbero coinvolti, secondo fonti filippine, almeno nove gruppi criminali cinesi. Sebbene sia intervenuta più volte attraverso l’ambasciatore Zhao Jianua per chiedere maggiori delucidazioni al governo di Duterte, la Cina sostiene attivamente la durissima campagna lanciata dal presidente filippino, vedendo nel suo successo contro le Triadi la causa di una possibile vittoria interna: lo stesso rappresentante a Manila della Repubblica Popolare, dichiarando che “le droghe illegali sono nemiche di tutta l’umanità”, ha chiarito in maniera netta la presa di posizione di Pechino. Tanto la Cina quanto Taiwan si sono dichiarate disposte a compiere ogni azione volta a contenere il traffico transnazionale di sostanze stupefacenti diretti nelle Filippine, le cui rotte sono tuttora poco note. Dalle Filippine al Messico, dunque, la guerra contro il narcotraffico si fa sempre più ad ampio raggio. Il coinvolgimento delle mafie svela un mondo di connivenze, collaborazioni e accordi scellerati che contribuiscono ad incentivare la piaga del traffico di droga e, ora più che mai, ne acuiscono la dimensione di problematica internazionale. Il contrasto alle mafie e il disarticolamento dei cartelli narcotrafficanti dovrà procedere di pari passo. Dall’Italia alle Filippine, dalla Cina al Messico la sovrapposizione tra criminalità organizzata e commercio clandestino della droga garantisce a potenti organizzazioni di gettare le fondamenta dei loro imperi e finanziare attivamente una sfida internazionale alla legalità, che ora più che mai governi, forze di sicurezza e cittadini devono fare propria, contribuendo attivamente per concluderla vittoriosamente.

Storia di Nicola Assisi, il narcos calabrese che riempie l’Italia di coca. Latitante in Brasile, dagli Anni ’90 gestisce il traffico verso l’Europa.  E, a causa delle plastiche facciali, non si conosce il suo volto attuale, scrivono Cecilia Anesi e Giulio Rubino il 18 agosto 2016 su L'Espresso. Nel cuore della notte, fra le alte mura di ferro dei container del porto di Gioia Tauro, Rosario Grasso comincia a sentirsi in trappola. Qualcuno lo sta fregando, ne è certo. Mentre i suoi stessi uomini gli giurano impauriti di essere innocenti, lui stringe nervosamente il cellulare. Dall’altra parte, su una linea che crede sicura, c’è il suo contatto in Brasile. «Che cazzo mi fate fare, vedi che ho la persona legata qua per terra», digita rapido sulla tastiera del suo telefonino dopo avere identificato un possibile colpevole. Grasso è un picciotto della ’ndrangheta, mandato a recuperare 197 chili di cocaina purissima nascosti in un container tra alcuni sacchi bianchi. Nel container però del grosso carico di droga non c’e neppure l’ombra. Come spiegare ai suoi capi che ha perso un carico che frutterebbe almeno venti milioni di euro al dettaglio? È stato qualcuno dei suoi a tradirlo? O peggio ancora, sono i venditori brasiliani che stanno giocando sporco e l’hanno portato ad un passo dal punire i suoi stessi uomini per uno sgarro che non hanno commesso? Fino all’apertura del container era andato tutto liscio: un ufficiale corrotto del porto, che gli ’ndranghetisti chiamano con il nome in codice “il porco”, gli aveva garantito un accesso sicuro al container “msc u356 5753”. Lo stesso numero che i narcos brasiliani avevano consegnato all’intermediario della spedizione, scolpito su una tavoletta di legno. Il container individuato al porto di Gioia Tauro è quello giusto, non ci possono essere errori. Della coca non c’è traccia. In Brasile a ricevere i messaggi di Grasso c’è Patrick Assisi, primogenito del broker Nicola Assisi. Il suo telefono squilla senza sosta. «Digli che quello arrabbiato sono io no loro», scrive in un messaggio Grasso, e poi aggiunge: «Pensavo che mi stavano imbrogliando e ne ho legato uno e piangeva come un bambino, un padre di famiglia…». Di solito la cocaina è posizionata all’apertura del container, affinche il rip-off possa essere rapido e indolore. Invece nelle foto che Grasso invia agli Assisi si vedono solo sacchi bianchi. Il container ne è pieno. Grasso ordina ai suoi di aprirli tutti, ma della cocaina «non c’è nemmeno la puzza». Per proteggersi dalle operazioni di polizia i boss della ’ndrangheta hanno fatto in modo di tenere la struttura dei trafficanti il più possibile separata dalla gerarchia interna ai clan. Invece di mettere a rischio i propri uomini più preziosi, i clan calabresi contano su dozzine di broker ai quattro angoli del globo. Sono specialisti del narcotraffico poliglotti, colletti bianchi, pronti a entrare senza timore nella giungla Amazzonica controllata dai paramilitari colombiani, o a scalare le alture delle Ande pur di stringere la mano direttamente ai produttori e assicurarsi i prezzi migliori. Dopo gli arresti dei piu famosi mediatori della cocaina Natale Scali, Roberto Pannunzi e Marco Rollero Torello, resta ancora libero Nicola Assisi, calabrese classe ‘58 emigrato a Torino negli anni Ottanta, ancora latitante. Riesce a sfuggire alle maglie della giustizia da oltre vent’anni. Assisi è stato il delfino di Pasquale Marando, originario di Platì, che per vent’anni ha gestito i traffici internazionali di cocaina fino a quando nel 2002 è stato eliminato con il metodo della lupara bianca. Adesso, grazie ad una indagine giornalistica, è possibile ricostruire gli ultimi movimenti di Nicola Assisi tra Portogallo e Sudamerica, le “cartiere” brasiliane e gli accordi che ha fatto con i narcos locali. Quando ha iniziato a trattare la coca, Nicola Assisi per i narcos era solo un soprannome, “il nipote”. Nella primavera del 1997 per la polizia italiana il giovane narcotrafficante non ha ancora un nome e nemmeno un volto. In quei mesi la Direzione investigativa antimafia di Torino era a caccia di broker calabresi in Costa del Sol, nel sud della Spagna, che inviavano cocaina sotto la Mole e a Rotterdam. «All’epoca chiaramente usavano le cabine telefoniche, non i cellulari», ricorda Gianni Abbate, ex investigatore della Dia che ha indagato in passato su Assisi. «Eravamo riusciti ad individuare due cabine a Torino, che i trafficanti usavano spesso, e le abbiamo messe sotto controllo», aggiunge Abbate. All’alba del 16 maggio 1997 la Dia inizia a pedinare un uomo che proprio da una di quelle cabine aveva ricevuto l’ordine di assistere “il nipote” in una missione. Seguendolo gli agenti finiscono nelle campagne a nord di Torino, dove scoprono il volto di Assisi. Il calabrese e un suo complice hanno il compito di attendere un camion con un carico di droga per guidarlo ad un magazzino sicuro. Gli agenti danno ai trafficanti il tempo di scaricare, poi intervengono e li bloccano con 200 chili di cocaina: è il più grosso sequestro effettuato fino ad allora. Quando Assisi vede gli investigatori tenta di fuggire. «Cercò di rubare una delle volanti dando un pugno ad un collega», racconta Abbate, «ci sono voluti tutti gli altri agenti per fermarlo». Diciassette anni dopo, mentre Rosario Grasso e i fornitori brasiliani litigano a distanza per mezzo di Patrick, Nicola Assisi ha ormai l’esperienza e l’autorità per gestire quello che potrebbe diventare per i narcotrafficanti un grave “incidente diplomatico” fra i fornitori brasiliani e i compratori calabresi. Nessuno, infatti, aveva tradito nessun’altro. La coca era stata sequestrata a Valencia ma in accordo con gli investigatori italiani il container era stato nuovamente sigillato e lasciato proseguire. Nicola Assisi intuisce la trappola e fornisce al gruppo nuovi telefoni mentre Patrick organizza una nuova piccola spedizione “di prova”. La Guardia di finanza non si lascia ingannare e il “canarino” passa indisturbato. E il clan mangia la foglia. La svolta nella carriera di Assisi arriva nel 2002, quando viene assassinato il suo mentore, Pasquale Marando, il primo a fare accordi direttamente con i cartelli colombiani in Sudamerica, aumentando i margini di profitto. Il vuoto lasciato dal broker è un’opportunità per Assisi, che diventa l’unico in grado di portare avanti il traffico allo stesso livello. Eredita come alleati e compratori le famiglie di Platì a Torino, i Perre e gli Agresta, e un metodo di lavoro che lo porta con successo in America Latina. Il 6 novembre 2007 per lui arriva la prima sentenza definitiva con il bollo della Cassazione. I giudici lo condannano a 14 anni per droga. «Esattamente dieci giorni prima della sentenza, Assisi lascia l’Italia. Prima scappa in Spagna e poi in Sudamerica», spiega a “l’Espresso” l’ex agente Dia, Gianni Abbate, che gli ha dato la caccia. Da allora Assisi si muove nell’ombra. Per altri sei anni nessuno sente nemmeno parlare di lui, ma vari indizi fanno pensare che abbia passato lunghi periodi in Brasile a stringere accordi con i fornitori. È la qualità dei contatti con i cartelli che producono la coca il vero valore di un broker. Secondo Nicola Gratteri, procuratore a Catanzaro e autore di “Oro Bianco”, «i più abili riescono a strappare prezzi bassissimi, anche 1200 euro al chilo». Lo stesso chilo, venduto ai clan dopo il trasporto in Italia, vale già 30 mila euro. «Almeno il 66 per cento del bilancio della ’ndrangheta è costituito dal business della cocaina, circa 44 miliardi di euro l’anno», conclude Gratteri. All’inizio del 2013 il nome di Assisi ricompare sui radar degli inquirenti. È il 20 gennaio e a Torino c’è un freddo da tagliare il respiro, specialmente a un uomo ormai abituato al sole del Brasile. Sotto la Mole compare Patrick Assisi, è in missione per conto di suo padre. Il rampollo entra in un ristorante del centro e prende posto ad un tavolo dove siedono intermediari della ’ndrangheta reggina che gli chiedono di importare per loro cocaina dal Brasile. I compratori saranno gli Alvaro e tramite loro gli Aquino-Coluccio di Gioiosa Ionica. Dal pranzo usciranno tutti soddisfatti, ma non sanno di essere intercettati. Per gli investigatori delle Fiamme gialle mentre Nicola Assisi è latitante, sono i figli a condurre gli “affari” in Italia. Dopo l’incontro i finanzieri scoprono il lusso in cui vive la famiglia Assisi, ufficialmente senza reddito per il fisco, tra Bmw, voli intercontinentali e l’affitto estivo di una villa a Lisbona che gli costa diecimila euro al mese. Gli inquirenti credono che gli Assisi siano in contatto con il gruppo criminale più pericoloso del Brasile, il Premier comando capital (Pcc), oltre che con i cartelli colombiani attivi in Perù con cui organizzano grosse spedizioni verso la Calabria. Il Pcc condivide con i colombiani e i messicani il controllo del cosidetto “Cono Sur”, la parte più meridionale dell’America Latina anche detta “Narcosur” per la crescente importanza che riveste per il traffico di droga. Il Paraguay in particolare sta diventando un Paese chiave per il transito dei carichi di droga destinati all’Europa. Qui piccoli gruppi criminali a conduzione familiare, ma affiliati al Pcc, organizzano le spedizioni. Assisi nell’estate del 2014 si trova proprio qui per nuovi accordi. «Sono in Paraguay, per i telefoni e per lavoro», dice a un suo collaboratore calabrese, e poi aggiunge: «Vedete che sto preparando altro...». Nicola Assisi nel Narcosur fa affari lasciando pochissime tracce. Per tracciare le spedizioni i suoi fornitori brasiliani gli consegnano a mano un pezzo di legno dove è inciso il numero del container con la coca, numero che Assisi comunica poi con messaggistica criptata ai calabresi che devono recuperare il carico. Per rompere il cerchio del narcotraffico, buona parte del lavoro degli inquirenti è focalizzata sul riuscire a “craccare” il loro sistema di comunicazione. Il bisogno di passarsi informazioni a distanza resta il punto debole di ogni trafficante e con gli Assisi i risultati cominciano ad arrivare nella primavera 2014. La Guardia di finanza è infatti riuscita a intercettare e decriptare le chat Blackberry usate dal gruppo. È cosi che hanno scoperto come gli Assisi inviassero grandissimi quantitativi di cocaina ogni mese in Italia. Da quel momento è scattata l’operazione Pinocchio. Di quasi mille chili di cocaina spediti da Assisi in soli quattro mesi, oltre quattrocento sono finiti nel capitolo delle prove a suo carico. Il 27 agosto 2014 Assisi finisce in manette di nuovo. Atterrava a Lisbona dal Brasile, con un passaporto argentino a nome Javier Varela, e la polizia portoghese lo blocca. Mentre le autorità italiane si affrettano a ottenere l’approvazione per l’estradizione, il legale portoghese di Assisi racconta al giudice che non sussiste il pericolo di fuga perché «la sua intera vita sociale è a Lisbona», e il narcotrafficante viene liberato dal braccialetto elettronico che ne controllava i movimenti. Poco dopo, naturalmente, scompare nel nulla. Colpito dalle ultime sventure, Patrick fornisce ai sodali telefoni Sony con chat Android ancora impossibili da intercettare. E così con Nicola di nuovo un fantasma, la famiglia può riprendere le attività. Rosario Grasso, l’uomo della ’ndrangheta al porto di Gioia Tauro, è oggi in carcere in attesa di processo. “Il porco”, l’ufficiale corrotto, non ha ancora un nome per gli investigatori. E un volto certo non lo ha neppure Nicola Assisi, che non è nuovo a operazioni di plastica facciale. Quel che è certo è che il narcotrafficante e la sua famiglia restano forti in Sud America, lasciando poche flebili tracce. La più recente è stata scovata in Brasile. Ad agosto di un anno fa Patrick ha registrato presso uno studio legale di Ferraz de Vasconcelos, una zona povera e degradata di San Paulo, una piccola azienda. Si chiama “Poli Pat 9” e come attività ufficiale commercia cartoleria e prodotti sanitari e informatici e infine offre trasporto su gomma. Quattro business completamente diversi in un’azienda sola. Abbiamo chiesto agli Assisi di spiegare lo scopo dell’azienda e di commentare sulla loro latitanza, ma hanno preferito non rispondere, lasciandoci con il dubbio che “Poli Pat 9” serva ad altro. Perche Ferraz de Vasconcelos è tristemente nota quale centro di riciclaggio di denaro sporco sia per i politici corrotti che per i narcotrafficanti del Pcc.

"Codice Narcos": così la 'ndrangheta gestisce il traffico di droga con il Sud America. Un metodo di comunicazione tecnologico criptato. Che permette agli 'ndranghetisti di gestire il narcotraffico in continuo contatto con i cartelli sudamericani. Chi è coinvolto nel commercio degli stupefacenti riceve un cellulare “protetto” da settemila euro. Perché un solo carico di cocaina può garantire milioni ai clan, scrive Giovanni Tizian il 6 settembre 2017 su L'Espresso. L'enigma al tempo dei narcos è un foglio con codici alfanumerici. Come i nazisti ai tempi del Terzo Reich, i capi della ’ndrangheta hanno creato un modello di comunicazione ultra sicuro. Lettere e numeri mischiati formano combinazioni ordinate, a prova di spia. I narcos però, a differenza delle camice brune, non hanno avuto bisogno di un marchingegno meccanico né di ingegneri esperti per dare forma al loro progetto. Lo hanno elaborato a tavolino: si sono ingegnati durante uno dei soliti summit convocati per stabilire strategie e affari. Serviva uno strumento per bucare lo scudo di cimici e intercettazioni degli investigatori. Insomma, un “Codice narcos”. Alfabeto e dizionario insieme. L’unica chiave per decifrare i messaggi criptati inviati via chat, attraverso telefonini Blackberry modificati per funzionare senza sim card. Per esempio, se volessimo dire al nostro socio d’affari, in Colombia o in Messico oppure a New York o a Rotterdam, che la nave è in arrivo con una tonnellata di “merce”, avremmo a disposizione almeno quattro combinazioni. La versione più elementare inizia con D7, la nave; prosegue con D5, le borse cariche di coca; e termina con BB- A13-A18-A19-A19-A26-A21-A21-A30-A13-A30, una tonnellata. Tuttavia, “nave” potremmo anche scriverla così: A19-A30-A11-A26. C’è però una regola a cui tutti gli utenti del Codice devono attenersi. Il precetto prevede di aggiungere alla fine della frase cifrata altre due combinazioni fasulle, per sviare eventuali spioni estranei alla faccenda. Come nella pellicola premio Oscar “The Imitation game”, anche in questa storia che si dipana tra la Calabria e il mondo sono serviti degli specialisti per risolvere il rebus. Se nel film la ricerca della soluzione dell’Enigma nazista era stata affidata al matematico Alan Turing e ai geni britannici della scuola di crittografia di Bletchey Park, il merito della scoperta dell’alfabeto dei narcos è da attribuire alla squadra di investigatori del gruppo antidroga della Finanza di Reggio Calabria. Due anni di lavoro, giorni e notti tra intercettazioni, pedinamenti, lunghi silenzi e un pizzico di fortuna, per rintracciare la chiave del business più lucroso per la ’ndrangheta e per i suoi partner. In questa storia di sigle, codici, enigmi, quattrini, padrini e detective, è tuttavia necessario fare un passo indietro. E trasferirci in Brasile. Ritornare a una calda giornata di metà ottobre scorso su una delle banchine del porto di Rio de Janeiro. Qui a un certo Toti avevano dato solo poche informazioni sulla “roba” da trattare e un Blackberry per comunicazioni sicure. Toti non aveva fiatato: il tizio con cui trattava non gli piaceva affatto. Voleva portare a termine la missione e poi, con i 350 mila dollari guadagnati, tornare sul suo atollo di Tarawa, a Kiribati, microscopico arcipelago dell’Oceania a Nord Ovest dell’Australia. Toti è un marinaio esperto. Si imbarcava per mesi, poi tornava alla base e da qui ripartiva alla volta di un’altra traversata. Una vita dura, l’unica per lui possibile. Così non è stato difficile per il broker dei narcos ingaggiarlo. Il compito assegnatogli era semplice: a poche miglia dalle coste del porto di Gioia Tauro avrebbe dovuto gettare in mare i 400 chili di cocaina purissima caricati sul mercantile Hamburg “Rio de Janeiro”. Sul Blackberry in dotazione, all’ora X e nella zona rossa di scarico, avrebbe ricevuto un segnale. Solo a quel punto poteva scaricare con le funi la merce caricata in 17 sacche impermeabili, legate a sei taniche galleggianti. La comunicazione sarebbe avvenuta in maniera sicura. Impossibile intercettarli. Alle 7.40 del 19 ottobre Toti si ritrova così sulla poppa della Hamburg. All’orizzonte Gioia Tauro, a sinistra la Sicilia. Il telefono, però, non emette alcun segnale. Tuttavia il marinaio ha notato un’imbarcazione che da qualche miglio segue il mercantile. Sono loro i miei uomini, pensa. Perciò, senza aspettare oltre, mette fine all’estenuante attesa. Lascia andare la corda, che corre lungo lo scafo rapidamente: l’impatto con l’acqua delle sacche è impercettibile, confuso tra la schiuma delle onde. Missione compiuta, dice, e tira un sospiro di sollievo. Ma quando la Hamburg fa scalo nel porto calabrese, famoso per essere un hub mondiale della cocaina, gli agenti del Goa della Guardia di Finanza sono lì ad aspettarlo. Avevano intercettato il carico, e probabilmente i destinatari finali avevano sentito puzza di bruciato e preferito perdere quel mezzo quintale di polvere bianca. Così è Toti a dover rispondere di quel traffico. L’indagine sulla Hamburg e sull’equipaggio di Kiribati comprato dalla ’ndrangheta conferma il ruolo centrale dell’organizzazione mafiosa calabrese nello scacchiere del narcotraffico mondiale. I clan della provincia di Reggio possono contare su una rete capillare talmente estesa e radicata in tutto il globo da potersi comprare l’intero equipaggio di un mercantile. Toti, infatti, ha ammesso di avere avuto dei complici, altri 8 marinai tutti di Kiribati, arrestati con lui e che con lui avrebbero diviso il malloppo dei 350 mila dollari. Se ingaggiare dei poveri marinai può sembrare un gioco da ragazzi, più complesso è comprarsi un comandante esperto abituato a condurre navi mastodontiche che solcano l’Oceano Atlantico. E arriviamo così al giorno in cui per la prima volta i detective intuiscono l’esistenza di un codice segreto per le comunicazioni. Questa seconda inchiesta sul “Comandante” comprato a suon di quattrini viaggia parallela a quella di Toti. Studiando i movimenti dei narco-boss della piana di Gioia Tauro, gli investigatori della finanza scoprono che per dialogare con il “Comandante” usano un codice tutto loro, lo chiamano vocabolario. È lui, il misterioso “Codice narcos”. Un papello con le istruzioni dettagliate per decifrare le comunicazioni tra trafficanti di coca.

Il vocabolario segreto dei narcotrafficanti. «Usiamo quel vocabolario lì». Quando si dice la fortuna. Una microspia intercetta la distrazione di uno degli affiliati. È così che gli investigatori intuiscono l’esistenza di un alfabeto parallelo e cifrato. Una Lonely planet per esplorare i segreti dei trafficanti. Documento eccezionale, inedito anche per esperti segugi come loro. Tuttavia nessun confidente o pentito li avrebbe potuti aiutare. Potevano solo sperare in una perquisizione particolarmente fruttuosa. E solo una volta chiusa l’operazione con gli arresti dei capi clan. La sorte ha assistito la squadra antidroga. Molti di loro sono giovanissimi, affiancati da qualche detective più esperto, memoria della storia criminale della provincia. L’ufficio inaccessibile in cui lavorano è un po’ la loro seconda casa. Tutto ciò che può servigli è lì, nel quartier generale. Monitor, pc, database. Qui non conta soltanto conoscere tecnologie avanzatissime, è necessario leggere il territorio, ascoltare i rumori, i suoni che emette. Soprattutto ora che i mafiosi sono consapevoli della permeabilità degli smartphone e dell’invasività delle intercettazioni ambientali. Per questo si affannano a cercare tecnologie sempre più “protette”. Strumenti che arricchiscono rendendoli inaccessibili con combinazioni misteriose. È nato così il codice narcos. Un ibrido tra passato e futuro. Codici scritti a mano, lettera per lettera, su fogli che funzionano da manuale di istruzioni. Comunicati però via Blackberry, blindati agli intrusi da una modifica che la ’ndrangheta, e non solo, paga fior di quattrini. In pratica il telefono viene staccato dalla linea e funziona senza sim card. Resta collegato a un server estero e in questo modo è in grado di comunicare in un sistema chiuso mettendo in connessione solo gli utenti coinvolti. Impossibile accedervi. Un Blackberry criptato può costare anche 7 mila euro, ci spiega un investigatore, che aggiunge: «Gli ’ndranghetisti coinvolti nei grandi traffici ne usano a decine, lo cambiano spesso e non badano a spese». Un costo di impresa, insomma, al pari dell’equipaggio da ingaggiare e del “Comandante” da corrompere. Questo può voler dire soltanto una cosa: i guadagni di un solo carico sono talmente stellari da permettere di appianare tali spese. Facciamo un esempio. Al “Comandante” per il suo viaggio dal Sud America, sulla nave Poh Lin della compagnia Msc, sono andati 150 mila euro. Cinquanta prima della partenza, il resto dopo. Poi ci sono i costi della “comunicazione”: non meno di 20 mila euro per cellulari criptati da consegnare al comandante e agli altri personaggi coinvolti nella mediazione e nella trattativa. Inoltre ci sono i broker in Sudamerica da pagare, eventuali funzionari e portuali da corrompere. La ’ndrangheta Spa, dunque, per un carico medio da 80 chili ha messo in bilancio 250 mila euro di costi. Molti quattrini, penserete. Briciole in confronto a quanto avrebbe fruttato il carico di merce preziosa sudamericana. “Roba” purissima, pagata non più di 3 mila euro al chilo, che sul mercato italiano ed europeo si triplica quando viene venduta tagliata. In pratica gli 80 chili diventano 240. Rivenduti a grossisti di medio cabotaggio a un prezzo di circa 32 mila euro al chilo fanno quasi 8 milioni di euro. Toglieteci i costi di cui sopra e avrete l’utile netto che avrebbe incassato la mafia calabrese da quel misero carico di nemmeno un quintale. È possibile applicare lo stesso schema al viaggio dei 400 chili sulla motonave Hamburg. In questo caso però i profitti sarebbero stati dieci volte tanto, e i costi di poco superiori. Un’economia parallela, la Narco Economy. Che infetta il mercato di un’Europa distratta, con istituzioni incapaci di arginare il fenomeno nel suo complesso e stati membri che chiudono un occhio sulle ricchezze importate dai clan. I capitali della ’ndrangheta reinvestiti nell’economia tedesca, olandese, spagnola e francese non terrorizzano nessuno e nessuno all’estero li cerca. Questa tolleranza europea ha trasformato il porto olandese di Rotterdam nell’hub più usato dai narcos calabresi e sudamericani. Scalo strategico e meno controllato rispetto al più noto di Gioia Tauro. Già, perché le verifiche che si fanno nel porto calabrese sono all’avanguardia. Questione di business a cui gli olandesi non sono disposti a rinunciare. Più è lunga la sosta del container, e quindi della merce, maggiore è il disagio causato agli operatori che, persa la pazienza, cambiano rotta. I nostri inquirenti sono disposti a rischiare pur di dare l’assalto ai canali di finanziamento dei boss. Altri, evidentemente, no. «Secondo uno studio noi sequestriamo non più del 10 per cento della cocaina che arriva in Europa», denunciava ormai tre anni fa in commissione antimafia l’attuale procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri. Sempre Gratteri segnalava - nei giorni successivi all’arresto del Chapo Guzmán, il narco messicano ritenuto fino alla sua cattura il nuovo Pablo Escobar - che i boss calabresi e i cartelli messicani avevano un intenso rapporto di affari. Si fidano l’uno dell’altro. E forse non è un caso che un tale di nome Ruvalcaba Tomas Jesus Yarrington, latitante dal 2012, sia stato fermato a Firenze il mese scorso. Governatore dello stato del Tamaulipas in Messico ed esponente del Partito rivoluzionario istituzionale, Ruvalcaba è considerato il volto pulito del cartello del Golfo. Il messicano, tuttavia, non viveva a Firenze, ma in una villetta in Calabria. Casualità o un altro indizio della joint venture nata per spartirsi il mercato del vecchio continente. L’Europa a misura di narcos. Anzi, di “Codice narcos”. 

NARCOS. Di Nathaniel Janowitz del 25 gennaio 2016 su vice.com. Gli eredi di El Chapo: chi sono i 10 signori della droga più ricercati al mondo. Dopo la cattura del famigerato boss del cartello Sinaloa, a chi dovrebbero dare la caccia le forze di polizia internazionali? Abbiamo stilato una lista dei trafficanti più pericolosi ancora in attività. Joaquín 'El Chapo' Guzmán, il boss della droga più ricercato al mondo, è stato catturato l'8 gennaio nello stato di Sinaloa, noto come la "culla del traffico di droga messicano" perché luogo di nascita di un gran numero di narcos. Ora che è di nuovo dietro le sbarre - sei mesi dopo la sua spettacolare evasione - l'agenzia americana Drug Enforcement Administration (DEA) ha finalmente potuto stampare la parola "captured" sulla sua foto segnaletica, pubblicata sul sito web dell'agenzia. Ora che El Chapo è stato catturato, ecco una breve guida ai boss della droga più ricercati al mondo.

Ismael Zambada García, detto El Mayo – Cartello Sinaloa (Messico). Ismael "El Mayo" Zambada è una figura leggendaria della criminalità messicana, e secondo quanto si racconta non avrebbe trascorso nemmeno un giorno della sua vita in prigione. Si pensa abbia quasi 70 anni, ed è considerato da molto tempo un leader importante quanto El Chapo per il cartello Sinaloa, nonostante mantenga un profilo decisamente più basso. Zambada e il cartello Sinaloa sono noti per il traffico di una vasta gamma di sostanze stupefacenti, come l'eroina, la marijuana, e le metanfetamine fatte in casa; il gruppo gestisce anche il transito della cocaina sudamericana verso gli USA. Entrambi i boss hanno ottenuto potere con il cartello Guadalajara nel corso degli anni Ottanta. Negli anni Novanta, mentre El Chapo scontava il suo più lungo periodo di detenzione, El Mayo ha continuato a guadagnare sempre più influenza. Nel 2010 lo sfuggente El Mayo ha rilasciato un'intervista alla rivista Proceso, in cui sosteneva che la sua eventuale cattura o la sua morte non avrebbero danneggiato il traffico di droga in Messico, dove ci sarà sempre qualcuno pronto a prendere il suo posto. Molti famigliari di El Mayo, tra cui suo fratello e tre dei suoi figli, sono stati arrestati negli ultimi anni. Il più importante, Vicente Zambada Niebla, è stato estradato negli Stati Uniti nel 2010, per poi dichiararsi colpevole e patteggiare un minimo di dieci anni di prigione. Inizialmente aveva tentato di evitare il processo, sostenendo che prima del suo arresto gli era stata promessa l'immunità se in cambio fosse diventato un informatore della DEA.

Rafael Caro Quintero — Cartello Sinaloa (Messico). Rafael Caro Quintero, nato a Sinaloa, è uno dei fondatori del cartello Guadalajara. È stato catturato nel 1985, nell'operazione lanciata in seguito al rapimento e all'uccisione dell'agente DEA Kiki Camarena. Quintero è stato condannato a 40 anni di carcere, ma un giudice lo ha improvvisamente rilasciato ad agosto 2013 appellandosi a un cavillo. Quando finalmente è stato emesso un nuovo mandato d'arresto, Caro Quintero era sparito da tempo — quasi tutti pensano che si sia nascosto nella regione-roccaforte del cartello Sinaloa, la Sierra Madre. La scarcerazione di Caro Quintero ha scatenato reazioni infuriate negli Stati Uniti, dove il caso Camarena è molto sentito ed è diventato un simbolo per le forze di polizia. Il Dipartimento del Tesoro americano ha sostenuto diverse volte che le aziende legate alla famiglia di Quintero sono rimaste pedine importanti nel riciclaggio del denaro derivante dal traffico di droga. A Sinaloa, alcuni sostengono che Caro Quintero abbia ripreso un ruolo di spicco all'interno del cartello insieme a El Mayo ed El Chapo.

Nemesio Oseguera Cervantes, aka El Mencho — Cartello Jalisco Nuova Generazione (Messico). Nemesio Oseguera Cervantes, alias El Mencho, è uno dei leader più noti del cartello Jalisco Nuova Generazione (CJNG in spagnolo), considerato la seconda organizzazione più importante dopo il Sinaloa per quel che riguarda il traffico di droga in Messico. I due cartelli avrebbero addirittura stretto un'alleanza. Il CJNG è noto per la produzione di droghe sintetiche, soprattutto metanfetamine. El Mencho e il CJNG hanno ricevuto poca attenzione da parte dei media fino al 2015, quando il gruppo ha compiuto degli attacchi diretti contro le forze di polizia nello stato di Jalisco — in particolare a maggio, dopo l'abbattimento di un elicottero militare. Da allora i tentativi di catturare El Mencho si sono intensificati, e le autorità hanno arrestato suo fratello e suo figlio, oltre a diversi altri personaggi di spicco del cartello. Questi arresti hanno causato un'impennata degli omicidi nello stato di Jalisco.

José Adán Salazar Umaña, aka Chepe Diablo — Cartello Texis (El Salvador). José Adán Salazar Umaña è uno dei leader del cartello Texis, che controlla diverse rotte del traffico di droga che passano per El Salvador, e che il boss gestisce per conto dei cartelli colombiani e messicani. Nel 2001 la DEA ha accusato Salazar, anche noto come Chepe Diablo, di traffico di droga e riciclaggio. Il Dipartimento del Tesoro americano ha aggiunto Salazar alla sua "lista dei boss più ricercati" a maggio 2014, bollandolo come un "trafficante di narcotici straniero." Si dice che Chepe Diablo incoraggi i suoi sottoposti a non girare armati, quanto piuttosto a cercare protezione dai poliziotti corrotti. Chepe Diablo è il proprietario di una catena di alberghi e di allevamenti di bestiame, ed è l'ex presidente della prima divisione di calcio salvadoregno. Il Ministero del Tesoro di El Salvador ha condotto una lunga indagine su Chepe Diablo nel 2014 e nel 2015, poi dichiarata chiusa dall'ufficio del procuratore generale. Delle indagini condotte da giornalisti locali emerge che il cartello Texis è in attività dai primi anni Novanta, ma ha mantenuto un basso profilo fino a poco tempo fa. 

Dario Antonio Úsuga, aka Otoniel — Los Urabeños (Colombia). Dario Antonio 'Otoniel' Úsuga è il leader del più grande e temuto cartello colombiano, quello degli Urabeños. Il governo americano offre una ricompensa di cinque milioni di dollari a chiunque sia in grado di fornire informazioni che portino alla sua cattura. L'organizzazione criminale di Otoniel agisce nella regione costiera di Urabà, vicino al confine con il Panama. Oltre a produrre e smerciare cocaina, il cartello opera estorsioni, ed è coinvolto nel traffico di esseri umani. Gli Urabeños, inoltre, avrebbero rapporti molto stretti con gli uomini di El Chapo in Messico. Con 2.000 affiliati, gli Urabeños - conosciuti anche come Clan Usaga, dal nome del suo leader - sono attivi in tutto il paese e hanno dato vita a sanguinosi conflitti con gang e cartelli rivali. L'esercito colombiano e la polizia, di recente, hanno avviato una controffensiva utilizzando persino i bombardamenti aerei, riuscendo ad arrestare un buon numero di membri del gruppo e alcuni stretti collaboratori di Otoniel.

Gerson Gálvez Calle, aka Caracol — Barrio King (Perù). Gerson Gálvez Calle è il criminale più ricercato del Perù, capo di un'organizzazione denominata Barrio King. Gálvez, conosciuto come Caracol, è stato in prigione per dodici anni dopo essere stato condannato per tentato omicidio, furto e traffico di droga. Si pensa che anche dal carcere riuscisse a gestire le operazioni del cartello. Subito dopo la scarcerazione, è svanito nel nulla. Caracol è indagato dall'Interpol. Potrebbe trovarsi oggi in Ecuador o in Brasile. Il suo sogno, secondo quanto riportato da fonti della polizia, sarebbe quello di trasformare il suo cartello in una 'organizzazione totale', in grado di controllare la catena di produzione della cocaina dalla piantagione fino al consumatore. Il Barrio King è accusato di avere esportato centinaia di milioni di dollari di cocaina attraverso i container partiti dal porto di Callao, in Perù, verso il Messico e l'Europa. La pandilla è anche sospettata di avere dato vita a una guerra per il controllo del territorio che ha causato la morte di 140 persone nel 2015. 

Wei Hsueh-Kang — United Wa State Army (Myanmar). Wei Hseuh-Kang è uno dei comandanti dell'UWSA, un'organizzazione di ribelli narcos che controlla vaste porzioni di territorio nell'est del Myanmar — tra cui la regione del 'Triangolo d'Oro', conosciuta per la produzione di stupefacenti. Il gruppo, che è sostenuto dalla Cina, dispone di un esercito di 30.000 soldati armati fino ai denti; la DEA lo descrive come "l'organizzazione di trafficanti di droga più potente del Sud-Est asiatico, e forse del mondo." Le metanfetamine sono la loro 'specialità.' Secondo l'ex direttore della DEA, il 63enne Wei è il "genio della finanza" che gestisce le casse dell'UWSA, "l'amministratore delegato" del gruppo. Gli Stati Uniti sono sulle sue tracce dai primi anni Novanta, offrendo tra l'altro una ricompensa da 2 milioni di dollari a chiunque fornisca informazioni in grado di condurre alla cattura del signore della droga. Se catturato, Wei verrebbe processato anche a New York.

Haji Lal Jan Ishaqzai — Afghanistan. Haji Lal Jan Ishaqzai è diventato uno dei maggiori produttori di eroina in Afghanistan tra gli anni Ottanta e Novanta. Dal 2001 in poi, Kandahar è diventata la sua 'roccaforte' operativa. Secondo quanto riportato in passato, Ishaqzai viveva nella stessa strada del fratellastro dell'allora presidente Hamid Karzai, Ahmed Wali Karzai — il quale avrebbe usato i suoi poteri per proteggere il signore della droga afghano. Dopo la morte di Karzai, nel 2011, la caccia a Ishaqzai si è intensificata. Ishaqzai - tra i ricercati dell'FBI - è stato arrestato nel 2012. Due anni dopo è evaso dalla prigione — avrebbe corrotto gli ufficiali locali con 14 milioni di dollari di mazzette. La sua fuga dal carcere e il suo ritorno alla produzione e al traffico di eroina sono stati motivo di imbarazzo per le istituzioni afghane.

Rocco Morabito — 'Ndrangheta (Italia). Rocco Morabito è un boss della 'ndrangheta, una delle organizzazioni criminali più potenti d'Italia. Cresciuto in Calabria, si è poi trasferito a Milano, dove è diventato 'celebre' per la sua dolce vita nei locali più conosciuti della città — al punto da essere ribattezzato "il re della cocaina." La 'ndragheta ha oltre 60mila affiliati in tutto il mondo, e secondo alcune stime il fatturato di questa 'azienda' criminale sarebbe pari al 3,5 per cento del Prodotto Interno Lordo italiano. Il traffico di droga è uno dei business più redditizi per gli 'ndranghetisti, che mantengono ben saldi i propri collegamenti con i produttori del Sudamerica e dell'America Latina, tra cui il famigerato cartello di Sinaloa di El Chapo. A El Chapo piaceva lavorare con i trafficanti calabresi, che considerava "affidabili perché hanno una grande durezza, più dei colombiani o dei peruviani in genere," come ha spiegato il magistrato antimafia Nicola Gratteri. Morabito è nella lista dei sette supercriminali ricercati dalla Polizia italiana, e potrebbe trovarsi ora in Brasile, dove si sarebbe spostato per rinsaldare le proprie connessioni con i 'signori della droga' locali mantenendo il proprio ruolo come importatore di cocaina in Europa.

Semion Mogilevich, detto 'il boss cervellone' — Mafia Russa (Russia). Semion Mogilevich è uno dei boss più importanti della mafia russa, tra i network criminali più estesi sul pianeta, molto attiva anche sul fronte del traffico di droga. Prima della sua morte nel 2006, l'ex spia del KGB Alexander Litvinenko affermò che Mogilevich aveva un "buon rapporto" con il presidente russo Vladimir Putin. Mogilevich, soprannominato il 'boss cervellone', venne arrestato in Russia nel 2008 per evasione fiscale, salvo poi essere rilasciato l'anno seguente. Nel 2009 l'FBI ha inserito Mogilevich nella sua lista di ricercati: nel 2015, tuttavia, la mancanza di un accordo di estradizione con la Russia - dove il mafioso vive in libertà - ha costretto l'agenzia americana a sospendere la caccia all'uomo.

Keegan Hamilton, Valerio Bassan, Joe Parkin Daniels, Simeon Tegel, Gaston Cavanagh, e Jo Tuckman hanno contribuito alla realizzazione di questo articolo. 

LA MAFIA MESSICANA. LOS ZETAS.

Los Zetas. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Los Zetas è una organizzazione criminale originaria del Messico, impegnata nel traffico internazionale di droghe, nei rapimenti a scopo di estorsione e in altre attività illecite sul territorio centroamericano. Dal momento che si occupa principalmente di affari legati agli stupefacenti, Los Zetas è considerato prima di tutto un cartello della droga. Formatasi inizialmente come gruppo paramilitare, i suoi membri originari erano disertori delle forze speciali dell'esercito messicano e Kaibilies del Guatemala, cosa che ha reso gli Zetas come uno dei più violenti e tatticamente meglio progrediti sul campo. Proprio in visione di queste qualità strategiche, il cartello del Golfo aveva assunto gli Z come propria milizia privata in caso di faide e conflitti (vedi guerra messicana della droga), ma dopo l'arresto di Osiel Cárdenas Guillén, capo storico del cartello, si concluse il lungo periodo di alleanza, segnando l'entrata nel mondo del traffico di stupefacenti degli Z. La Drug Enforcement Administration (DEA) statunitense ritiene i Loz Zetas come il gruppo paramilitare più violento operante in Messico. Recentemente, gli Z hanno iniziato l'attività dei sequestri di persona, specialmente turisti americani, per la richiesta di ingenti riscatti; espandendo, inoltre, le loro operazioni in Europa attraverso il supporto della 'ndrangheta.

Origine del nome. Il nome Los Zetas deriva dal suo primo capo, il tenente Arturo Guzmán Decena, il cui codice radio nella Policía Judicial Federal era "Z1", codice esibito solo a funzionari d'alto rango. Il codice radio per gli Oficiales de comando de la Policía Judicial Federal in Messico era "Y", da cui saltò fuori il soprannome "Yankees" ai suoi appartenenti, mentre per la Policia Judicial Federal a capo di una città era "Z", e i suoi appartenenti furono soprannominati "Zetas".

Storia. Anni '90. Alla fine degli anni '90, Osiel Cárdenas Guillén, capo del cartello del Golfo, iniziò una battaglia per il rintracciamento di membri dei cartelli rivali nel tentativo di assicurare protezione a sé stesso e il suo gruppo. Non avendo a disposizioni uomini sufficienti, Guillén iniziò a reclutare tra le proprie file ex soldati e disertori del corpo speciale Grupo Aeromóvil de Fuerzas Especiales (GAFE) dell'esercito messicano, creando un gruppo di controinsurgenza dedito all'uccisione di narcotrafficanti. La milizia privata fu addestrata da specialisti in tattiche sovversive di Stati Uniti (si ritiene alla Istituto dell'Emisfero Occidentale per la Cooperazione alla Sicurezza), Francia e Israele per: assalto aereo, dispiegamento di forze rapido, tiro di precisione, imboscate, tecniche di controsorveglianza e telecomunicazioni sofisticate, e altro ancora.

Anni 2000. Nel febbraio 2004, un commando armato irrompe in una prigione di Michoacán, liberando 25 Z lì detenuti. Nel febbraio 2007, in un attacco sullo stile strage di Viale Lazio, indossando divise dell'esercito, alcuni Z massacrano cinque poliziotti e due assistenti amministrativi, ferendone molti altri, nella città di Acapulco. Nell'aprile 2007 viene ucciso in un agguato il capo della polizia di Chilpancingo, mentre cenava in un ristorante con la sua famiglia. Nel maggio 2007 viene sequestrato, torturato e ucciso Jacinto Granada, un capitano della Fanteria Messicana. Nel giugno 2007, nelle regioni di Nuevo León, Veracruz, Coahuila e Baja California, vengono messe a segno diverse rapine ai danni dei casinò più prestigiosi. Il 17 settembre 2008 in un'operazione dell'FBI e della DEA americana, dell'ICE messicana a cui hanno partecipato anche i carabinieri del ROS sono state arrestate 200 persone appartenenti ai Los Zetas e ad altre organizzazioni criminali a cui vendevano la droga, tra cui la 'Ndrangheta, nella fattispecie sono stati arrestati Vincenzo e Giulio Schirripa appartenenti all'omonima 'ndrina, la quale faceva parte di un'alleanza con i Coluccio, gli Aquino e i Macrì e con i quali avrebbero importato ogni volta 1000 chili di cocaina.[13]. Sono state sequestrate nell'operazione 16 tonnellate di cocaina e 57 milioni di dollari. Nel giugno 2010 a Monterrey viene arrestato Hector Raul Luna, ritenuto capo dei Loz Zetas nello Stato di Nuevo León.

Oggi. Nel 2012, I Los Zetas hanno il controllo su 11 stati del Messico, diventando così il cartello di droga con il più grande territorio nel paese. Il loro rivale, il cartello di Sinaloa, ha dovuto cedere molti territori ai Los Zetas, passando da 23 stati a 16. Dall'inizio del 2012 il governo messicano ha intensificato le operazioni contro gli Zetas, con l'annuncio di nuove 5 installazioni militari nell'aree di operazioni.

Fatti recenti. Nel 4 novembre 2011 a Città del Messico, un esponente di Anonymous era stato rapito dagli Zetas, in seguito liberato dopo che gli Anonymous minacciavano di rendere pubbliche le connessioni politiche del cartello della droga, se non avessero liberato l'hacker pubblicando online documenti scottanti. Nella notte tra il 3 e il 4 maggio 2012 hanno assassinato nove persone, quattro donne e cinque uomini, appartenenti ad un cartello rivale. Come gesto di intimidazione i corpi delle vittime sono stati esposti in un ponte in Nuevo Laredo appesi per il collo. Il 9 ottobre 2012, la marina messicana confermò l'uccisione del capo Heriberto Lazcano in uno scontro a fuoco con la marina ai confini del Texas. Il 14 luglio 2013 viene catturato a Nuevo Laredo il nuovo capo Miguel Treviño Morales. Il 3 marzo 2015 viene arrestato Omar Treviño Morales (alias Z42), il boss del cartello Los Zetas. Il 9 febbraio 2018 viene arrestato Jose Marea Guizar Valencia il boss del cartello Los Zetas.

Aree di influenza. I Los Zetas hanno campi di addestramento per le nuove reclute simili alle strutture militari d'allenamento del GAFE. Nel settembre 2005 la testimonianza al Congresso messicano del Segretario poi-Difesa Clemente Veg, ha riferito che gli Zetas hanno assunto almeno 30 ex Kaibil guatemaltechi per allenare le nuove reclute perché il numero di ex forze speciali messicane uomini nei loro ranghi si era ridotto. Gli analisti indicano gli Zetas come il più grande gruppo criminale in Messico in termini di presenza geografica. Hanno base principalmente ai confini regionali di Nuova Laredo e Coahuila. Essi hanno posto sentinelle presso destinazioni d'arrivo come aeroporti, stazioni dei bus e strade principali. Per condurre le loro attività criminali lungo i confini, operano nel Golfo del Messico, negli stati meridionali di Tabasco, Yucatán, Quintana Roo, e Chiapas, e negli stati della costa dell'Oceano Pacifico di Guerrero, Oaxaca, e Michoacán e in Città del Messico. Hanno diverse attività anche negli Stati Uniti (Texas) e Guatemala. All'inizio del 2012 si scoprì che operassero anche ai confini settentrionali tra Venezuela e Colombia e abbian collaborato con i Los Rastrojos. Insieme controllerebbero le rotte del traffico di droga: a La Guajira in Colombia c'è la produzione mentre nello stato venezuelano di Zulia, inizia la rotta per gli Stati Uniti e l'Europa.

Rapporti con la 'Ndrangheta. Varie indagini di polizia hanno dimostrato come i Los Zetas siano in stretto collegamento con la 'Ndrangheta calabrese per il traffico internazionale di sostanze stupefacenti. La 'ndrangheta tramite cartelli di famiglie mafiose della provincia di Reggio Calabria (come i Pesce, i Commisso, gli Aquino) importa in Europa tonnellate di cocaina avvalendosi del cartello messicano dei Los Zetas come dichiarato dalla Direzione Investigativa Antimafia nella seconda relazione semestrale al Parlamento italiano 2011.

Tattiche Paramilitari. I Los Zetas sono uno dei gruppi paramilitari meglio armati di tutta l'area centroamericana. Tra le armi che utilizzano vi sono AK-47, AR-15, mitragliatrici MP5 e calibro 50, lanciagranate, missili terra aria ed elicotteri. Inoltre operano attraverso moderne tecniche di intercettazioni ambientali e telefoniche per organizzare i propri crimini. La gerarchia dei Los Zetas comprende inoltre diverse figure:

"Los Halcones" (I falchi) controllano le zone sotto il dominio della banda e comunicano via radio eventuali intrusioni.

"Las Ventanas" (le finestre) ragazzi giovani che in bicicletta o a piedi comunicano ai superiori eventuali movimenti sospetti attorno alle aree di spaccio.

"Los Mañosos" si occupano del commercio di armi.

"Los Leopardos" (Leopardi) prostitute e travestiti che recuperano informazioni dai loro clienti.

"Dirección" (la direzione) composta da circa 20 membri esperti di telecomunicazioni conoscono le informazioni più importanti e partecipano a volte a rapimenti ed omicidi. La struttura dei Los Zetas è una struttura a cellula, fatta per garantire che nessuno della direzione sappia tutto quello che succede, in modo da non poter rivelare le informazioni più importanti anche in caso di arresto o tortura.

LA MAFIA MESSICANA. EL CHAPO ED IL CARTELLO DI SINALOA.

Joaquín Guzmán. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Joaquín Archi Guzmán Loera, noto anche con lo pseudonimo di El Chapo o El Rápido (La Tuna, Badiraguato, 4 aprile1957), è un criminale e signore della droga messicano. Guzmán era il capo di un'organizzazione criminale dedita al traffico internazionale di droga, chiamata Cartello di Sinaloa dal suo stato messicano natale in cui ha la propria base di commercio. La rivista Forbes lo inserì nella lista degli uomini più ricchi del mondo al 41º posto, e oggi ha un patrimonio stimato sui 14 miliardi di dollari.

Biografia. Gioventù. I suoi genitori erano Emilio Guzmán Bustillos e María Consuelo Loera Pérez. I suoi nonni paterni erano Juan Guzmán e Otilia Bustillos, e i suoi nonni materni erano Ovidio Loera Cobret e Pomposa Pérez Uriarte. Per molte generazioni, la sua famiglia ha vissuto a La Tuna. Suo padre è ufficialmente un allevatore di bestiame, come la maggior parte dei conoscenti della cittadina in cui Guzmán è cresciuto; secondo alcune fonti, però, probabilmente è stato anche un gomero (agricoltore di papavero da oppio). Guzmán ha due sorelle più piccole, Armida e Daniele Scuto e quattro fratelli minori: Miguel Ángel, Aureliano, Arturo e Emilio. Ha avuto anche tre fratelli di cui non si conosce il nome, che morirono per cause naturali quando era molto giovane. Il giovane Joaquín abbandona la scuola del terzo grado per lavorare con suo padre ed è regolarmente picchiato insieme ai fratelli; qualche volta fugge nella casa della nonna materna per sfuggire a tale trattamento. La scuola più vicina alla sua casa era distante circa 100 km, quindi El Chapo viene istruito da insegnanti viaggiatori durante i suoi primi anni, proprio come il resto dei suoi fratelli. Con poche opportunità di impiego nella sua città natale, si è dedicato alla coltivazione del papavero da oppio, una pratica comune tra i residenti locali. Durante la stagione della raccolta, Guzmán e i suoi fratelli hanno percorso molte volte le colline di Badiraguato per tagliare il germoglio del papavero. Inoltre si è subito distinto per la vendita di marijuana nel suo quartiere. Suo padre sperpera la maggior parte dei profitti in alcolici e donne e spesso torna a casa senza soldi. Stanco di questa cattiva gestione, El Chapo, all'età di 15 anni, coltiva la propria piantagione di marijuana con quattro cugini (Arturo, Alfredo, Carlos e Héctor) che abitano nelle vicinanze. Con le sue prime produzioni di marijuana sostiene finanziariamente la sua famiglia. Quando è ancora un adolescente, tuttavia, suo padre lo butta fuori di casa, quindi va a vivere con suo nonno, lasciando la sua città natale alla ricerca di maggiori opportunità; attraverso lo zio Pedro Avilés Pérez, uno dei pionieri del traffico di droga messicano, lascia Badiraguato e si “iscrive” alla criminalità organizzata. Durante gli anni '80 lavora per il “dottore” della droga Héctor "El Güero" Palma, trasportando droghe e controllando le loro spedizioni dalla Sierra Madre alle zone urbane vicino al confine degli Stati Uniti e Messico con gli aerei. Fin dall'inizio delle sue iniziative nella criminalità organizzata si dimostra ambizioso e pressa regolarmente i suoi superiori per consentirgli di aumentare la quantità di narcotici da trasportare attraverso il confine. Hector favorisce l’approccio violento e dittatoriale quando si lavora; la sua legge sancisce che, se la spedizione di droga non viene recapitata in tempo, si può uccidere il contrabbandiere sparandogli in testa. Coloro che lo circondano impararono che il truffare o andare con altri concorrenti, anche se offrono prezzi migliori, è molto scomodo. I dirigenti del Cartello di Guadalajara amano l'acume del Chapo, e all'inizio degli anni '80 lo presentano a Félix Gallardo, uno dei maggiori signori della droga in Messico. El Chapo prima lavora come autista per Félix Gallardo poi si fa carico della logistica, coordinando le spedizioni di droga dalla Colombia al Messico per via terrestre, aerea e marittima. D'altra parte, Palma, assicura che le consegne arrivino ai consumatori negli Stati Uniti. El Chapo, presto però, guadagna rispetto e incomincia a lavorare direttamente per Félix Gallardo.

Guerra con il cartello di Tijuana 1989 - 1993. El Chapo, dal canto suo, approfitta della “lite” tra la DEA e Felix aumentando il suo potere nell’organizzazione tanto che, quando Felix viene arrestato nel 1989, induce alla scelta di dividere il territorio del cartello di Guadalajara tra le gang. I fratelli Arellano Félix formano il cartello di Tijuana, che controlla il corridoio di Tijuana, la famiglia Carrillo Fuentes costituisce il cartello di Juárez che controlla la zona centrale di Chihuahua e la rimanente frazione è lasciata al Cartello di Sinaloa sotto i trafficanti Ismael "El Mayo" Zambada, Palma e El Chapo Guzmán che controllano la Costa del Pacifico. Guzmán, in particolare, è responsabile dei corridoi della droga di Tecate, Baja California e Mexicali e San Luis Río Colorado, due frontiere che collegano gli stati di Sonora e Baja California con gli Stati Uniti d'America dell'Arizona e della California. El Chapo ha decine di proprietà in varie parti del paese e le persone di fiducia acquistano le proprietà per suo conto. La maggior parte sono situate in quartieri residenziali e fungono da stoccaggio per droga, armi e denaro. Detiene anche numerosi ranch in tutto il Messico nei quali si lavora l'oppio e la marijuana. Nelle zone di confine tra Tecate e San Luis Río Colorado, ordina di trasportare attraverso aeromobili, utilizzando la cosiddetta strategia frammentaria, che consiste nel trasportare un quantitativo relativamente basso di droga, per mantenere i rischi ridotti. El Chapo inoltre promuove e usa tunnel sotterranei per spostare la merce attraverso il confine e negli Stati Uniti. Confeziona la cocaina in lattine di peperoncino e in svariati altri modi. È il genio del trasporto e in cambio ottiene valigie piene di milioni di dollari in contanti attraverso una rete di agenti doganali e procuratori corrotti. Tra il 1989 e il 1993 si scatena una feroce guerra tra i fratelli Arellano Felix e il Cartello di Sinaloa di cui El Chapo è il boss. L’episodio culmine di questa carneficina si consuma il 24 maggio 1993, quando gli uomini degli Arellano sono informati della presenza del Chapo nel parcheggio dell’aeroporto internazionale di Guadalajara. Circa 20 killer circondano e fanno fuoco sulla Mercury Grand Marquis bianca su cui si crede sia nascosto El Chapo, invece lui è in un'altra auto poco distante. Muore così il cardinale e arcivescovo di Guadalajara Juan Jesús Posadas Ocampo, ucciso da quattordici ferite da arma da fuoco con altri 6 uomini che lo accompagnano. La morte del cardinale inasprisce la caccia ai Cartelli da parte del governo che offre 5 milioni di dollari per ciascuno di essi. Le immagini del volto di Guzmán, sconosciute fino ad allora, cominciano ad apparire nei quotidiani e nella televisione in tutto il Messico. Temendo la sua cattura, El Chapo si nasconde in un ranch a Tonalá, Jalisco, e poi si sposta poi a Città del Messico, in un hotel, per circa dieci giorni dove incontra uno dei suoi associati e gli consegna 200 milioni di dollari per la sua famiglia e altri 200 per assicurarsi che il Cartello di Sinaloa continui le sue attività giornaliere senza problemi, data la sua assenza. Nel 1993 viene scoperto a Tijuana un canale sotterraneo lungo 443 metri che attraversa il confine del Messico con gli Stati Uniti, utilizzato dagli uomini di Guzmán per il traffico della cocaina.

Primo arresto e fuga. Dopo aver ottenuto un passaporto con il falso nome di Jorge Ramos Pérez, Guzmán pensa di stabilirsi in Guatemala. È il 4 giugno 1993. Il suo piano di spostarsi in Guatemala con la sua fidanzata María del Rocío del Villar Becerra, con le sue guardie del corpo e sistemarsi in El Salvador va in fumo: durante il suo viaggio, le autorità messicane e guatemalteche seguono i suoi movimenti. Non basta la fuga di colazione con 1,2 milioni di dollari in favore di un ufficiale militare guatemalteco per permettergli di nascondersi a sud del confine messicano. Viene arrestato il 9 giugno 1993 dall'esercito guatemalteo in un hotel vicino a Tapachula nel Chiapas, vicino al confine, ed estradato in Messico due giorni dopo a bordo di un aereo militare dove è immediatamente portato al centro federale di reintegrazione sociale, chiamato "La Palma" o "Altiplano", una prigione di massima sicurezza in Almoloya de Juárez, con l'accusa di omicidio. Mentre è in prigione, l'impero e il cartello della droga di Guzmán continuano a operare senza sosta, guidati da suo fratello Arturo Guzmán Loera, conosciuto come El Pollo. Gli associati gli portano valigie di denaro per corrompere i lavoratori della prigione e consentirgli di mantenere il suo stile di vita opulento. Con la sua influenza trasforma il carcere nel suo covo, dove incontra e ripartisce ordini ai suoi associati, convive con la sua amante, organizza feste a base di alcool e droga e viene servito e riverito dalle guardie carcerarie. Nel 1999, utilizzando l’infrastruttura messa in piedi per la coca, lancia la novità che arriva dal Sud-Est Asiatico: la Meth, che aumenta considerevolmente il fatturato senza ulteriori spese di trasporto. In poco tempo diventa il re anche della produzione tra le montagne degli stati di Sinaloa, Durango, Jalisco, Michoacán e Nayarit, Guzmán costruendo grandi laboratori di metanfetamina e ampliando rapidamente la propria organizzazione. Ignacio Coronel Villarreal diventa responsabile della filiera Meth; si dimostra così affidabile nell'attività che diviene noto come "Re Cristallo". A causa di una nuova sentenza della Corte Suprema del Messico che ha reso più facile l'estradizione tra il Messico e gli Stati Uniti, El Chapo decide di evadere, quindi corrompe le guardie per aiutarlo. Il 19 gennaio 2001 Francisco "El Chito" Camberos Rivera, una guardia di prigione, apre la porta elettrica della cella di Guzmán che si infila in un carrello per la lavanderia che il lavoratore di manutenzione Javier Camberos spinge attraverso diverse porte e alla fine fuori dalla porta d'ingresso. Si infila nel bagagliaio di un'automobile guidata da Camberos diretti fuori dalla città. La fuga presumibilmente costa a Guzmán 2,5 milioni di dollari. Secondo gli investigatori, 78 persone sono state coinvolte nel suo piano di fuga. Camberos e il direttore del carcere furono arrestati. Dopo l’evasione, ha inizio una spietata guerra contro i cartelli rivali. L'11 settembre 2004 Rodolfo Carrillo Fuentes, Boss del cartello di Juárez, viene ucciso con la sua famiglia in un centro commerciale. Con questo atto, Guzmán è il primo a rompere il "patto" di non-aggressione che i principali cartelli avevano accordato, mettendo in moto i combattimenti per il controllo delle vie di droga provocando più di 60.000 vittime fino al dicembre 2006. La guerriglia è probabilmente appoggiata, dopo la sua elezione nel 2006, anche dal presidente messicano Felipe Calderón che “protegge” in qualche modo il Cartello di Sinaloa permettendo a quest’ultimo di aumentare gli scambi e quindi il potere. Infatti dopo aver annunciato la repressione sui cartelli da parte dell’esercito messicano per contrastare la crescente violenza, dopo 4 anni, gli sforzi non hanno rallentato il flusso di droga o le uccisioni legate al traffico di droga. Tra i 53.000 arresti effettuati fino al 2010, solo 1.000 sono associati del Cartello di Sinaloa. El Chapo spinge i suoi interessi anche a Città del Messico, dopo l’arresto e l’estradizione negli Stati Uniti di Alfredo Beltrán Leyva, boss della città. Si sospetta così che El Chapo collabori con la DEA per favorire l’eliminazione dei suoi nemici, scatenando così rappresaglie ma anche l’eliminazione di altri concorrenti, specie chi controlla il corridoio di Tijuana, i fratelli Valencia che trafficano nel Michoacán, e prendendo il controllo dei traffici anche Chicago, che richiede circa due tonnellate di coca al mese. Si formano così due grandi fazioni: il Cartello di Sinaloa che vede ai confini ovest degli Stati Uniti e il Cartello del Golfo, alleato con i Los Zetas che controllano i confini est del Messico. Del Chapo stupisce la minuziosità con cui cura la sua vita, infatti è così organizzato che gira nei territori da lui controllati tranquillamente, tra i ranch nelle zone di campagna e montuose ma anche in zone turistiche, metropoli molto affollate e all’estero. Si sposta sempre insieme alla sua famiglia e la scorta, ma vanta circa 300 persone che organizzano spostamenti, tappe e vie di fuga alternative del Chapo e dei suoi fedelissimi. Ha sempre un aereo che lo aspetta, ovunque, a massimo 10 minuti di strada e frequenta ristoranti e hotel di lusso. Nel frattempo l’esercito non riesce a catturarlo. Un aspetto singolare avviene quando va al ristorante: entra per prima la scorta, sequestra tutti i cellulari e spiega la situazione. Nessuno uscirà fino alla fine della cena del Boss. Entrano El Chapo e la famiglia, mangiano, ridono e si diverte chiunque; alla fine, prima di uscire paga per tutti. Infine la scorta, quando El Chapo è ormai lontano, rende i cellulari ai presenti. Così facendo non ci sono prove del passaggio. Dal 2009 al 2011 la rivista Forbes ha classificato Guzmán come una delle persone più potenti al mondo, classificandolo rispettivamente al 41°, al 60° e al 55° posto. È quindi il secondo uomo più potente in Messico, dopo Carlos Slim Helu, imprenditore multi-miliardario. È stato nominato il 10° uomo più ricco in Messico (1.140° al mondo) nel 2011, con un valore netto di circa un miliardo di dollari.

Secondo arresto e fuga. Il 22 febbraio 2014, alle 06:40, però, la Marina Messicana (in collaborazione con la DEA e la CIA) trovano Guzmán nell’appartamento numero 401 dell’hotel Avenida de a Mazatlán. Alcuni giorni prima della sua cattura, le autorità messicane avevano effettuato raid in diverse proprietà dei membri del Cartello di Sinaloa in tutto lo Stato. L'operazione che ha portato alla sua cattura ha avuto inizio alle 3:45, dispiegando 10 autocarri della Marina messicana e oltre 65 marines. Una volta neutralizzate le guardie del corpo, che si trovano in hotel, entrano nell'appartamento e trovano El Chapo disteso a letto con sua moglie. Guzmán cerca di resistere fisicamente all'arresto, ma non tenta di afferrare il fucile che è vicino a lui. Secondo il governo messicano, nessun colpo viene sparato durante l'operazione. Guzmán viene scortato e poi trasferito nella prigione di massima sicurezza a Almoloya de Juárez, Stato del Messico, su un elicottero della polizia federale Black Hawk. L'elicottero viene a sua volta scortato da due elicotteri della Marina e uno dalla Forze aeree messicane. Per evitare fughe clamorose come la prima volta la sorveglianza all'interno del penitenziario e nelle aree circostanti viene gestita da un grande contingente militare permanente e con telecamere ovunque, compresa la cella di detenzione. Gli Stati Uniti chiedono con forza l’estradizione, ma per il Messico non è un bene perché mostrerebbe incapacità di gestione degli affari interni e, non indifferente, consegnerebbe l’uomo più influente e potente dello stato in mani statunitensi, quindi prima bisogna processarlo in patria. Questo gli fa guadagnare tempo. In carcere ha regole e spazi molto stretti dove vivere. I vicini di cella sono membri rivali. Le condizioni igieniche sono al limite umano. Succede che l'11 luglio 2015 El Chapo sparisce dalla prigione di massima sicurezza Centro Federal de Readaptación Social n.º 1, alle ore 20:52. Nell’area doccia, l'unica parte della cella non visibile dalla telecamera di sicurezza, El Chapo si cala attraverso un’apertura praticata sul pavimento, in un tunnel lungo 1,5 km, che porta fuori dalla cella nel quartiere di Santa Juanita. Le guardie troveranno il tunnel alto 1,7 m e largo 75 cm, dotato di luce artificiale, condotti d'aerazione e materiali di costruzione di alta qualità e un mezzo di trasporto, una motocicletta su binario, che aveva permesso la fuga. La progettazione era stata fatta da ingegneri assoldati in Germania e con l'acquisto di un terreno distante poco più di 1 km dal carcere. Un abitativo in cemento armato costruito in tutta fretta era servito come punto iniziale per la costruzione del tunnel. Svariati camion avevano fatto avanti e indietro per trasportare i detriti. Un'apparecchiatura laser aveva permesso di arrivare sotto la cella di El Chapo con un errore massimo di 15 cm. Naturalmente con la corruzione ci si era procurati anche le piante delle condutture elettriche e idrauliche del carcere per non commettere errori. Non solo, nessun agente aveva sentito i rumori inevitabili quando la costruzione di una tale galleria era giunta al suo obiettivo.

Terzo arresto. Dopo lo smacco a livello internazionale del governo messicano causato dalla fuga, si palesa altra corruzione a livelli molto alti dell’Intelligence di Stato. Quindi il Messico chiede formalmente aiuto alla Colombia nella gestione della ricattura del narcotrafficante. Il Governo messicano dispiega uomini e si serve di informatori in tutto il paese finché riesce a scovare El Chapo nella città costiera di Los Mochis nel Sinaloa. Dopo una sparatoria e un’altra fuga, prima attraverso un altro tunnel e poi in auto, viene catturato l'8 gennaio 2016. Tenta di corrompere i 3 ufficiali in tutti i modi, ma non riesce. Intanto dopo la cattura, mentre aspettano i rinforzi dell’Esercito messicano, devono a loro volta nascondersi perché 40 membri dell’Esercito del Chapo sono alla sua ricerca per liberarlo. Durante il raid 5 uomini armati vengono uccisi, altri 6 arrestati e un marine messicano ferito. La Marina messicana dichiara di aver trovato due auto blindate, otto fucili d'assalto, tra cui due fucili da cecchino Barrett M82, due fucili M16 con lanciagranate e un lanciarazzi. Subito dopo viene trasferito nuovamente nel supercarcere da cui era evaso. Prima della cattura El Chapo, Il 2 ottobre, incontra Sean Penn e Kate Del Castillo per 7 ore al suo nascondiglio in montagna, dove viene intervistato per la rivista Rolling Stone. Guzmán, che non aveva mai rivelato informazioni in merito al suo traffico di droga a un giornalista, rivela a Penn che possiede una "flotta di sottomarini, aerei, camion e barche" e che fornisce "più eroina, metanfetamine, cocaina e marijuana di chiunque altro al mondo". Un funzionario messicano ha confermato che l'incontro di Penn ha aiutato le autorità a individuare Guzmán, grazie alle intercettazioni telefoniche e alle informazioni delle autorità americane. Si stima che abbia mosso 14 miliardi di dollari in proventi di droga insieme ad altri signori della droga di alto livello. Guzmán viene estradato il 19 gennaio 2017, dopo che il giudice Vicente Antonio Bermúdez Zacarías che segue le procedure di estradizione viene assassinato mentre fa jogging. 17 tribunali federali degli Stati Uniti attendono il narcotrafficante per i reati di cospirazione per importazione e possesso con l'intento di distribuire cocaina, associazione di cospirazione, criminalità organizzata contro la salute pubblica, riciclaggio di denaro, omicidio e possesso di armi da fuoco. L’unica tutela che gli è stata concessa nello scambio è l’impossibilità di arrivare a una condanna alla “pena di morte”. El Chapo è recluso presso l'ala di massima sicurezza del Metropolitan Correctional Center di New York, situato a Manhattan, New York. Il 12 febbraio 2019 a New York, dopo 6 giorni di camera di consiglio, la giuria lo dichiara colpevole in riferimento a tutti i 10 capi di accusa.

Messico, chi è “El Chapo” Guzman, il narcotrafficante estradato negli Usa. A luglio era riuscito fuggire per la seconda volta, ma è stato arrestato e ora consegnato all'America: storia di un criminale diventato icona cult, scrive Rocco Bellantone il 20 gennaio 2017 su Panorama. Joaquin "El Chapo" Guzman, il boss del cartello di Sinaloa considerato il più ricco e potente narcotrafficante del mondo, è stato estradato negli Usa dal Messico. Ecco un suo ritratto, scritto nel periodo della sua ultima fuga. Una fuga dal carcere che sta mettendo pressione non solo sul governo del Messico ma anche su quello degli Stati Uniti. A sedici mesi dal suo arresto, avvenuto il 22 febbraio del 2014, Joaquin “El Chapo” Guzman, leader del potente cartello della droga messicano di Sinaloa, ha scelto un modo spettacolare per riprendersi la libertà. L’11 luglio il boss criminale, considerato il narcotrafficante più pericoloso del mondo, è evaso dal carcere di massima sicurezza di Altiplano, situato circa 90 chilometri a ovest della capitale Città del Messico. È la seconda volta che riesce in questa impresa. Nel 2001, dopo tredici anni passati dietro le sbarre, era infatti riuscito a fuggire dal carcere federale di Puente Grante a Guadalajara, nello Stato di Jalisco, nascondendosi in un carrello della lavanderia.  Per il governo del presidente Enrique Peña Nieto, uscito indenne dalle ultime elezioni di medio termine del 7 giugno, assorbire questo colpo non sarà facile. Dal suo insediamento nel dicembre del 2012 Nieto ha infatti posto come priorità del suo mandato la sicurezza del Paese e la lotta al narcotraffico. Soprattutto nell’ultimo anno, con la cattura di decine di narcotrafficanti di alto livello, si è guadagnato il favore del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il quale ha puntato in maniera convinta su di lui per arginare i flussi di immigrati irregolari e i traffici di droga che attraversano il Messico e arrivano in territorio americano. Con “El Chapo” di nuovo a piede libero, per Nieto la strada torna però di nuovo in salita. 

I tunnel del cartello di Sinaloa. Per fuggire questa volta il capo del cartello di Sinaloa ha scelto la via sotterranea infilandosi in un tunnel e spuntando a 1.500 metri di distanza in un edificio abbandonato senza che nessuno se ne accorgesse. Stando ai dettagli forniti dagli ufficiali della polizia messicana e dai funzionari del carcere di Altiplano, le guardie si erano iniziate a insospettire quando hanno notato che Guzman tardava a rientrare dalla doccia, un’area che per questioni di privacy non può essere sorvegliata dalle telecamere. Una volta sul posto le guardie hanno scoperto un buco che conduceva a un tunnel. L’ingresso era stato ritagliato su misura (C50 x 50 cm) per un uomo di piccole dimensioni come Guzman, conosciuto anche come “Shorty” per il suo fisico tarchiato (è alto 1,67 metri). In tutto il percorso prevedeva tre canali: un primo di un metro e mezzo di profondità, un secondo di 10 metri di profondità e un terzo (collegato al secondo da una scala) lungo 1.500 metri. Non deve sorprendere la tattica di fuga utilizzata da “El Chapo”. Il cartello di Sinaloa, infatti, è specializzato nella costruzione di tunnel di cui da anni si serve non solo per organizzare evasioni ma anche per far arrivare carichi di droga e armi fino oltre il confine con gli Stati Uniti. Una rete di passaggi sotterranei molto sofisticata, dotata di sistemi di ventilazione, elettricità e addirittura binari. “Da anni, gli uomini di Sinaloa usano i tunnel per contrabbandare droga nella zona di Nogales, sul confine tra Messico e Arizona – spiega sul Corriere della Sera Guido Olimpio -. La cittadina è considerata la ‘capitale’ delle narco-gallerie scavate vicino a una grande condotta d’acqua o per collegare accessi creati in edifici poco distanti dal muro. L’altro punto sensibile è quello di Otay Mesa, a sud di San Diego. Dal 1970 sulla frontiera USA-Messico ne sono stati scoperti quasi 180, di misure e costi diversi. Le talpe possono lavorare da 4-5 mesi fino ad un anno. La spesa varia tra gli 800 mila dollari e il milione”.  “Non sarebbe una sorpresa – prosegue Olimpio – se gli ‘amici’ del padrino (Guzman, ndr) avessero mobilitato una squadra di talpe specializzate, quelle che agiscono alla frontiera con gli USA. Esperti consultati dai media messicani sostengono che la realizzazione della galleria per l’evasione ha richiesto un lavoro durato molti mesi, forse un anno. Con gli scavatori – alternati in gruppi da 4 – costretti a spostare montagne di terra. Resta da capire come nessuno se ne sia accorto visto che la casetta dove è sbucato il tunnel non era lontana dal penitenziario. Aspetto che alimenta i sospetti di complicità interne”.

L’arresto del 2014 e i rischi per il Messico. Sfruttando alcuni di questi tunnel “El Chapo” era riuscito a darsi alla macchia per anni prima di venire arrestato nel febbraio del 2014 mentre si trovava in un appartamento modesto insieme alla moglie e alle due figlie gemelle a Mazatlan, città situata lungo la costa del Pacifico a Sinaloa, nello stato in cui è nato e cresciuto. I reparti dell’intelligence americana che all’epoca avevano partecipato al suo arresto hanno raccontato che Guzman pochi giorni prima della cattura era riuscito a scampare a un blitz nella capitale dello stato di Culiacán grazie a un tunnel costruito sotto il pavimento del bagno dell’abitazione in cui si trovava. Un sistema di fuga perfetto: bastava infatti premere un tasto situato dietro lo specchio per far inclinare il pavimento di 90 gradi e dileguarsi nella rete fognaria della città. Poche settimane dopo l’arresto di Guzman, il governo messicano ha deciso di non venire incontro alla richiesta di estradizione avanzata dagli Stati Uniti. Per il Messico occuparsi della sorveglianza di Guzman era diventata una sfida, un motivo di orgoglio. Adesso che invece “El Chapo” è di nuovo libero, la questione diventa di sicurezza nazionale. E risolverla per il presidente Nieto non sarà affatto semplice.

La storia di Joaquin “El Chapo” Guzman. Cinquantanove anni, Joaquin Guzman è il signore della droga più ricercato dell’emisfero occidentale, il narcotrafficante più ricco e potente del mondo secondo la rivista Forbes. “El Chapo” è diventato l’uomo più ricercato del Messico da quando è diventato il leader del cartello di Sinaloa all’inizio degli anni Ottanta. Sinaloa è considerata oggi la più potente organizzazione del narcotraffico nel mondo. Il suo business spazia dalla produzione e dal traffico locale di marijuana al contrabbando di cocaina, eroina e metanfetamine. Il gruppo è inoltre ritenuto responsabile dell’omicidio di più di 10.000 persone nella guerra della droga messicana. Arrestato la prima volta nel Chapas nel 1993 e condannato a 20 anni di carcere, nel 2001 Guzman è riuscito a fuggire dalla prigione di massima sicurezza Puente Grante di Guadalajara, nello Stato di Jalisco. Da allora è diventato un’icona cult in tutto il Messico. I “narcocorridos” gli hanno dedicato decine di canzoni. Anche il suo rapporto con gli Stati Uniti è “speciale”. Dopo l’uccisione di Osama Bin Laden è diventato l’uomo più ricercato dagli USA, che su di lui hanno posto una taglia di cinque milioni di dollari. Inoltre la città di Chicago lo ha nominato “Nemico Pubblico N. 1”, riconoscimento che negli States era stato concesso solo ad Al Capone nel 1930.

 Il secondo arresto nel 2014 e, soprattutto, la fuga dell’11 luglio sono invece storia recente e rappresentano ormai un nuovo capitolo di una storia di criminalità che diventa leggenda ogni giorno che passa.

New York. I segreti di El Chapo nascosti dallo show, scrive Lucia Capuzzi giovedì 14 febbraio 2019

Chi è davvero El Chapo, il boss del narcotraffico, scrive il 22 febbraio 2014 L’Inkiesta. Il capo dei capi dei cartelli della droga messicani, Joaquín "El Chapo" Guzmán, è stato arrestato mentre si trovava in un hotel di Mazatlán, in Messico. La cattura sarebbe il risultato di un'operazione congiunta tra la polizia messicana e quella statunitense. Boss del cartello di Sinaloa, protagonista della terribile guerra che da anni sta martoriando il paese, El Chapo (letteralmente il tappo, il nanerottolo), all'anagrafe Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, era quasi un signor nessuno quando il 19 gennaio 2001 riuscì a evadere attraverso tre livelli del carcere di massima sicurezza di Puente Grande (nello stato messicano di Jalisco), dentro un carro di biancheria sporca, coperto da lenzuola e da un materasso. Così attraversò la soglia del parcheggio - o la porta principale, secondo un'altra versione - e scappò da una delle prigioni in teoria più sicure del mondo. Non era famoso, non vantava una grande fortuna né un grande prestigio: un tipo pienotto, bassino, che non era riuscito a sfuggire alla polizia nelle acque del Suchiate, alla frontiera tra Messico e Guatemala, catturato da un agente della polizia migratoria, incapace di sparare un solo colpo in sua difesa e consegnato alla polizia messicana come l'ennesimo narcos. Un capo con un discreto livello di pericolosità - senza dubbio -, che esercitava un certo controllo sul trasferimento della cocaina verso gli Stati Uniti (primi consumatori di droghe al mondo), però con un così basso profilo che veniva considerato assolutamente gestibile. In sintesi, quasi un signor nessuno, che però non si nascose davanti alle telecamere: in manette e (in teoria) sconfitto, alzò la testa e guardò fisso gli obiettivi. Quando evase dal carcere di Puente Grande, grazie alla complicità di almeno 15 guardie carcerarie che gli permisero di passare i sei punti di controllo per arrivare al parcheggio, (si scoprirà poi che El Chapo spendeva 5 milioni di dollari al mese in mazzette), era letteralmente in mutande. Tredici anni dopo, la sua biografia è diventata tutt'altro che noiosa. Non è più un signor nessuno, oggi è il personaggio principale dei "narcocorridos" (canzoni popolari messicane che narrano le gesta dei narcos), e, soprattutto, era l'uomo più ricercato al mondo sia in America (del Nord e del Sud), che in Europa fino ad arrivare in Australia. «Dai piedi alla testa è solo un uomo piccolo in altezza, ma è dalla testa al cielo che io calcolo la sua grandezza. Lui è il migliore tra i migliori e chi non ci crede ne stia fuori, ha conosciuto la miseria, la ricchezza, rispetta chi lo rispetta e giustizia chi lo disprezza», questa strofa è solo un esempio delle numerose canzoni dedicate al Chapo, al quale si allude in più centinaia di migliaia di canzoni ascoltate dal Pacifico fino alla Patagonia Argentina. Raccontano la sua storia, di come riuscì a scappare dal carcere e a costruire il suo impero. Non tutti esaltano la sua figura, alcuni lo accusano di avere cominciato una guerra assurda, altri addirittura negano che sia mai esistito. In molti affermano che dietro la produzione di questo tipo di musica ci sia sempre lui, uno dei pochi giri d'affari legali che comunque produce un ulteriore introito. Circondato da leggende che narrano la sua storia El Chapo, 56anni, sei figli ufficiali e tre mogli, l’ultima sposata appena diventata maggiorenne in una cerimonia a cui hanno partecipato diversi politici e ufficiali di polizia locali, ha nel tempo rafforzato la struttura della sua holding di narcotraffico, creando franchising e laboratori negli Stati Uniti, in Europa e recentemente anche in Asia, a Hong Kong. Durante il 2001, anno della sua fuga, ha stipulato alleanze con altri grandi capi del narcotraffico fino a trasformare la mappa mondiale del traffico di droga. Per la Procura Generale della Repubblica (PGR), El Chapo opera su tutto il territorio messicano. Per l'Europol (l'ufficio di polizia europeo), è riuscito a penetrare in Europa e in Oceania. Per le autorità di Hong Kong, El Chapo avrebbe stretto rapporti con le due Triadi (le organizzazioni criminali locali) più potenti: la 14K e la Sun Yee On, con base in Hong Kong, Taiwan e Cina. 

Gli affari del Chapo, invece di risentire della guerra alla droga dichiarata dall'ex presidente Felipe Calderón (2006-2012) che ha causato più di centomila morti e migliaia di desaparecidos (scomparsi), si sono rafforzati. Se si osservano i numeri riportati dalla PGR si può vedere come i più grossi colpi non vennero dati alla sua organizzazione. Oppure era già talmente potente - e con tante persone sul suo libro paga - che riuscì a resistere agli attacchi. Fatto sta che l'Istituto Federale di Accesso alle Informazioni (Infomex) rivela che gli arrestati di quel periodo furono piuttosto i nemici del "Chapo". Nonostante la guerra, quindi, il capo dei capi continuò la sua vita più o meno tranquillamente. Secondo quanto diffuso da Wikileaks tempo fa, l'ex segretario alla Difesa messicano, il generale Guillermo Galván Galván, aveva riferito ad alcuni diplomatici Usa che Guzmán era in grado di andare e tornare da almeno 10-15 punti del mondo per evitare di essere catturato. Intorno a lui, una forza speciale di 300 uomini e donne. I metodi per imporre la presenza della sua organizzazione vanno dall'omicidio di funzionari pubblici, al controllo a distanza di paesi, città e stati in tutto il Messico e replica lo stesso schema in Sudamerica, negli Usa e in Australia. Un suo profilo criminologico scritto da esperti della PGR lo ritrae come un tipo "seduttore e protettivo", capace di creare "relazioni di fiducia" e in questo modo garantirsi il successo della struttura societaria; un uomo che non perdona i suoi nemici e non vacilla al momento di rompere alleanze. È solidale con tutti, riesce a infondere negli altri una sensazione di timore reverenziale a tal punto che è difficile che qualcuno si ribelli o che lo contraddica. Al momento di vendicarsi, rimane freddo e lucido: «uno dei suoi punti di forza è riuscire a gestire la frustrazione, e per questo le sue vendette non sono di una persona impulsiva. La sua risposta è freddamente calcolata», riporta il profilo. Come nella tortura della goccia cinese, El Chapo indebolisce un po' alla volta i suoi avversari per poi dare loro il colpo di grazia dopo averli fatti soffrire a lungo. Raccontano che El Chapo si nascose per anni da qualche parte nella Sierra Madre Occidentale, dove si poteva arrivare a cavallo dopo otto ore di viaggio o in aereo. Lì è nato il 4 aprile del 1957, imparando ad andare scalzo tra colline ripide e spinose. Un ragazzo semplice, che nel 1980, ad appena 23 anni e con solo la licenza elementare, ha fondato il cartello della droga diventato rapidamente il più potente, cosa che gli ha permesso in poco tempo di togliere il monopolio dello spaccio ai colombiani. È diventato un uomo feroce, che però non rinuncia a mangiare nel suo ristorante preferito. La leggenda racconta infatti che, nel 2007, entrò in un ristorante a Culiacán – città nel Messico nordoccidentale, la più grande dello stato di Sinaloa – e senza fare troppe sceneggiate mandò i suoi scagnozzi a confiscare i cellulari di tutti i presenti. Una volta in possesso dei telefoni, El Chapo mangiò con grande serenità e appena finito restituì soddisfatto i cellulari e pagò il conto all’intero ristorante. Lo stesso uomo che andò, senza maschere, al funerale di suo figlio - ucciso a 22 anni - e pianse davanti a tutti. Dopo l'uccisione di Osama Bin Laden, capo di Al Qaeda, El Chapo divenne il ricercato numero uno per le polizie di tutto il mondo, più di Semion Mogilevich, capo della mafia russa, o Matteo Messina Denaro, il capo dei capi di Cosa Nostra. Nel 2009, la rivista Forbes aveva calcolato che la fortuna accumulata da Guzman ammontava a più di un miliardo di dollari e lo aveva inserito nella lista delle persone più ricche del mondo (il primo capo narcos che venne inserito nella lista fu Pablo Escobar). Da allora la pubblicazione lo ha inserito ogni anno tra i più ricchi del mondo, almeno fino al 2013. E, poiché nella lista rientrano solo coloro che posseggono più di un miliardo di dollari, gli affari del Chapo erano stati meno redditizi che in passato. Ma c'è un'altra lista in cui Guzman era stato inserito: da mesi ormai era considerato il "nemico pubblico numero uno" della storia di Chicago, superando addirittura Al Capone. «Nessun criminale merita questo titoli più di Guzmán Loera, per il suo potere nefasto e la sua crudeltà spietata. A confronto, Al Capone sembra un dilettante», ha dichiarato il presidente della Commissione contro il Crimine Usa, J.R. Davis. La domanda però è un'altra. Che ci faceva El Chapo a Chicago? Perché gli interessava tanto? Semplice, Chicago era la base che utilizzava per trasportare la droga in Australia, dove non solo è il principale distributore di cocaina ma ha anche elaborato nuovi procedimenti per creare droghe sintetiche. Fino a oggi, la taglia sulla sua testa messa dall'FBI era di cinque milioni di dollari. In Messico, valeva 30 milioni di pesos (più di due milioni di dollari). Nessuno l'ha mai denunciato. 

Le troppe verità ignorate nel processo al narco-boss, ritenuto colpevole dalla corte federale di Brooklyn, scrive Avvenire il 14 febbraio 2019. E' stato il «più grande processo per narcotraffico della storia statunitense». I media internazionali non si stancano di ribadirlo. Tanto che per garantirne lo svolgimento in sicurezza, per quasi tre mesi, le autorità hanno bloccato il ponte di Brooklyn due volte al giorno. Joaquín El Chapo Guzmán Loera ha monopolizzato, però, l’attenzione ben oltre i confini della Grande mela. Dal 13 novembre alla scontata sentenza, l’altro ieri, la saga del più famoso boss messicano, ideatore del cartello di Sinaloa è stata sviscerata nei minimi dettagli. Soprattutto quelli macabri. Fino a creare una versione fuori dallo schermo della serie “Narcos”. Con tanto di “lieto fine”; almeno per la giustizia americana: El Chapo è stato dichiarato colpevole dei dieci capi di imputazione. «Una vittoria», ha tuonato il procuratore distrettuale Richard Donoghue: «Il messaggio è chiaro, non importa il potere che hai: non c’è scappatoia per i narcotrafficanti». Eppure, dietro i riflettori, il processo a El Chapo lascia un retrogusto amaro. All’overdose di particolari truculenti non ha corrisposto una pari profondità di analisi su quanto accaduto nell’ultimo decennio di narco-guerra. Anzi, si ha la sensazione che i “non detti” di El Chapo resteranno rinchiusi con lui a vita nel carcere di massima sicurezza sulle Montagne rocciose. Nel corso del dibattimento, i testimoni – a partire dal “pezzo forte” dell’accusa: Jesús El Rey Zambada, fratello del braccio destro del boss – hanno rivelato tangenti milionarie versate dal leader di Sinaloa ai vertici del governo messicano. Inclusi – ha affermato El Rey – gli ex presidenti Felipe Calderón e Enrique Peña Nieto. A parte qualche timida smentita, però, le sue parole sono cadute nel vuoto. Niente è stato fatto per verificarle o negarle. Come pure sono rimasti in ombra le reti tessute dal boss per garantire l’impunità ai narcos di Sinaloa. Legami tuttora forti, dato che la banda sopravvive, pur indebolita dall’uscita di scena del capo. In ogni caso, il cartello di Jalisco Nueva Generación è già pronto a sostituirla. Lo “show” di El Chapo è finito. Quello del narcotraffico messicano, invece, continua.

L’intervista segreta di «El Chapo» con Sean Penn: “Fornisco più droga di chiunque altro al mondo”. Il re dei narcos ha incontrato l’attore nel nascondiglio dove si trovava durante la latitanza. Il colloquio pubblicato su “Rolling Stones”. L’Fbi ha seguito il divo di Hollywood e portato le autorità messicane alla cattura, scrive il 10/01/2016 Paolo Mastrolilli su La Stampa. «Io fornisco più eroina, metamfetamine, cocaina e marijuana di chiunque altro nel mondo. Ho una flotta di sottomarini, aerei, camion e navi». E’ con orgoglio che El Chapo rivendica il suo ruolo di re mondiale del traffico di droga, nell’intervista rilasciata all’attore americano Sean Penn per la rivista “Rolling Stone”, dal luogo dove si nascondeva dopo la sua rocambolesca fuga dal carcere messicano in cui era detenuto. L’intervista, pubblicata ieri sera, è l’ultimo capitolo di una storia sempre più sorprendente. “El Chapo” Guzman aveva ricevuto Penn nel proprio nascondiglio in ottobre, registrando anche dei video. Per la prima volta ha ammesso di essere un trafficante, spiegando che «nella regione dove sono nato e cresciuto non c’era altro modo di sopravvivere». Guzman ha aggiunto che «la droga distrugge, ma se non ci fossi io qualcun altro continuerebbe il traffico». Quindi ha spiegato che «non sono violento. Devo difendermi, ma non sono mai io che comincio i problemi».

PENN, «ESCA» INCONSAPEVOLE. El Chapo è stato appena riarrestato, e il governo messicano sta valutando la sua estradizione negli Stati Uniti. Poco prima di essere catturato, il narcotrafficante aveva anche contattato anche esponenti di Hollywood per girare un film sulla sua vita, che ha contribuito a mettere la polizia sulle sue tracce. E sarebbe stata proprio l’intervista concessa a Sean Penn a contribuire a far luce sul covo del boss. Lo ha confermato la procura messicana. L’Fbi avrebbe infatti seguito l’attore e individuato così il nascondiglio. Un’esca inconsapevole, dunque, anche se Penn era convinto di essere seguito: «Sono convinto che la Dea (l’agenzia anti-droga americano, ndr) e le autorità messicane seguissero ogni mio movimento in Messico», si legge nell’introduzione dell’intervista. «Nel momento in cui sono atterrato, sono diventato sospettoso di tutto», ha aggiunto l’attore rivelando che durante la preparazione dell’intervista era costretto «a usare telefonini una sola volta e poi buttarli, indirizzi email anonimi e messaggi criptati».

LA CENA SEGRETA. L’incontro si è svolto il 2 ottobre scorso in una località remota del Messico nello stato di Durango, al confine con quello di Sinaloa. Vi partecipò anche l’attrice messicana Kate del Castillo, intermediaria tra Sean Penn e il Chapo. Un faccia a faccia durato 7 ore: «Abbiamo mangiato, bevuto e parlato circondati dalle guardie del corpo del boss», racconta il divo di Hollywood. Anche se le parti avevano concordato che, dopo il primo faccia a faccia nelle selve, sarebbe seguita un’intervista formale otto giorni dopo, questo secondo incontro non ci fu mai. Tuttavia El Chapo inviò a Penn una registrazione video con le risposte alle domande che l’attore gli aveva mandato.

L’INCHIESTA. Le autorità messicane, intanto, hanno avviato un’indagine su Sean Penn. Lo rivela la Abc citando fonti del governo messicano. L’incontro è stato ottenuto grazie alla mediazione di Kate del Castillo, attrice messicana di telenovelas nonché amica del boss. La Castillo era anche presente quando i due si sono visti. Fonti del governo messicano riferiscono che l’intervista della star di Hollywood ha contribuito alla cattura di «El Chapo», spiegando che le autorità, venute a sapere dell’incontro, hanno monitorato i movimenti di Sean Penn, il che ha portato a individuare un ranch dove si trovava Guzman.

Catturato “El Chapo” il più potente narcotrafficante del mondo. Netflix pubblica serie su El Chapo. Sean Penn teme per la vita. Secondo l'attore statunitense il documentario potrebbe metterlo in grave pericolo, scrive Lucio Di Marzo, Sabato 21/10/2017, su Il Giornale. È in corso una battaglia legale che coinvolge l'attore e regista Sean Penn e il servizio di televisione in streaming Netflix. Al centro della querelle la pubblicazione di un serie documentaristica incentrato sull'incontro tra Penn, l'attrice messicana Kate Del Castillo e il boss del narcotraffico Joaquin Guzman, meglio noto come El Chapo. Fu in seguito a questo episodio che, mentre il trafficante era alla macchia, Penn pubblicò un lungo articolo su Rolling Stones, che finì in pagina solo un giorno dopo la cattura da parte delle autorità locali. Secondo documenti visti dal New York Times i legali dell'attore starebbero in tutti i modi cercando di far fare un passo indietro a Netflix sulla pubblicazione di The Day I Met El Chapo: The Kate del Castillo Story. La ragione principale sta in una lettera in cui l'avvocato Theodore J. Boutrous Jr. mette in chiaro che "se il film fare spargere del sangue, questo sarà sulle mani di Netflix". Alla base di questo avvertimento la convinzione di Penn che la serie possa metterlo in pericolo. Il documentario è incentrato largamente sulla testimonianza dell'attrice messicana che con lui incontrò El Chapo. L'attore statunitense sostiene che gli spettatori potrebbero trarre l'impressione che lui abbia aiutato il Dipartimento della giustizia a catturare il latitante. E non sono bastate le rassicurazioni da parte della produzione. "Il signor Penn - si legge in una lettera a Netflix - potrebbero essere in pericolo".

Sean Penn è indagato dalle autorità messicane per la sua intervista esclusiva a El Chapo, il barone della droga messicano, pubblicata su Rolling Stone. Lo rivela la Abc citando fonti del governo messicano, scrive Panorama il 2 ottobre 2018. Penn ha incontrato segretamente El Chapo il 2 ottobre scorso, prima del suo arresto e mentre era ancora un superlatitante cercato ovunque, per una intervista, la prima dopo tanti anni. Nell'intervista, organizzata dall'attrice messicana Kate Del Castillo, che ha interpretato una drug queen messicana in una soap opera, Penn racconta che il boss del cartello di Sinaloa, considerato il più grande narcotrafficante del mondo, voleva far girare un film sulla sua vita.

Le ricerche del boss. Indagata anche Kate del Castillo, l'attrice messicana che ha organizzato l'incontro tra Penn e il narcotrafficante e che, secondo il racconto dell'attore, ha fatto da interprete durante il colloquio tra i due. Le autorità messicane ora vogliono sapere tutto: ogni passo di quel rapporto speciale che legava la 43enne al boss del cartello di Sinaloa, nato da uno scambio di tweet nel 2012 e diventato un patto di fiducia tale da indurre il megatrafficante a concedere l'intervista, a ricevere i due in un luogo segreto nel cuore della giungla, certamente una delle tappe nella latitanza durata dall'evasione a luglio fino alla cattura nei giorni scorsi.

Il business e il racconto nell'intervista. Penn e El Chapo si sarebbero dovuti rivedere ma poi l'appuntamento è saltato perché l'esercito messicano aveva intensificato le ricerche del boss proprio nella zona in cui era avvenuto il primo incontro. I due hanno "mangiato, bevuto e parlato" circondati dalle guardie del corpo del boss per sette lunghe ore. Penn ha riferito anche del livello di "sicurezza" imposto all'operazione, rivelando che durante la preparazione dell'intervista era costretto "a usare telefonini una sola volta e poi bruciarli, indirizzi e-mail anonimi, messaggi criptati". Ciononostante l'attore era convinto di essere pedinato: "Sono convinto che la Dea (l'agenzia anti-droga americana) e le autorità messicane seguissero ogni mio movimento in Messico. Fin dal momento in cui sono atterrato, sono diventato sospettoso di tutto".   L'intervista è stata finita al telefono e con un video in cui El Chaporisponde alle domande che Penn gli aveva rivolto. "Sono quello che vende più eroina, metamfetamine, cocaina e marijuana al mondo". Così El Chapo si è vantato del suo business. "Ho una flotta di sottomarini, aerei, camion e barche", ha proseguito il boss, che ha persino chiesto all'attore se negli Usa il nome di El Chapo fosse famoso. Parlando della violenza nel business degli stupefacenti ha persino tentato di giustificarsi. "Io cerco solo di difendermi. Non attacco mai briga per primo". 

Donald Trump. Tra i tanti temi toccati nell'intervista di Sean Penn, c'è anche Donald Trump. A ottobre, dopo le esternazioni del candidato repubblicano contro gli immigrati messicani, era uscita la notizia che il super boss di Sinaloa aveva offerto una taglia da cento dollari per la testa del milionario, vivo o morto. "Gli ho chiesto di Trump", ha raccontato Penn. "Lui mi ha sorriso e poi ha esclamato, 'Ah! Mi amigo!".

La reazione degli Usa. In Messico sono determinati a fare massima chiarezza. Mentre Washington si infuria per il tono con cui il narcotrafficante racconta le sue gesta nella "cosiddetta intervista": "Il modo spocchioso con cui parla di quanta eroina fa circolare nel mondo, compresi gli Stati Uniti, fa andare su tutte le furie", ha detto il chief of staff della Casa Bianca Denis McDonough intervistato dalla Cnn. Interpellato poi nello specifico sul ruolo di Sean Penn e sulla sua posizione, McDonough non si è sbilanciato ma ha osservato che la situazione "solleva diversi quesiti interessanti per lui e per gli altri coinvolti". Già prima dello scoop di Sean Penn e all'indomani della cattura di El Chapo, Usa e Messico erano tornati a parlarsi sul destino del narcotrafficante, per il quale a più riprese Washington aveva richiesto l'estradizione in Usa. Adesso, dopo rigide resistenze, il Messico sembra disposto a considerare le richieste americane, con la possibilità che El Chapo venga processato negli Stati Uniti in tribunali federali e per almeno sette rinvii a giudizio per accuse di traffico di droga e omicidio.

El Chapo, Sean Penn: "Polemiche su incontro hanno oscurato il mio vero scopo".  L'attore rompe il silenzio e risponde alle accuse: "Mi sento in pericolo, volevo contribuire al dibattito sulla lotta alla droga", scrive il 15 gennaio 2016 La Repubblica. Sean Penn rompe il silenzio e parla a 60 minutes della Cbs dicendo di avere un "terribile rimpianto" per il suo incontro con El Chapo Guzman. "Ho il rimpianto che le polemiche su questa vicenda abbiano oscurato quello che era il mio vero scopo - spiega - ossia quello di contribuire al dibattito sulle politiche per la lotta alla droga". "Vorrei essere chiaro, il mio articolo ha fallito", continua, riferendosi al pezzo uscito sulla rivista Rolling Stone. La sua intervista a El Chapo andrà in onda in formato integrale domenica sera. Penn è convinto di essere stato in grado di ottenere l'incontro con El Chapo perché non è un giornalista tradizionale. E a suo parere nessun giornalista tradizionale ci sarebbe riuscito. "Sappiamo che il governo messicano si sente chiaramente molto umiliato dal fatto che qualcuno abbia trovato il boss prima di loro", ha rivelato la star. "In realtà nessuno lo ha trovato prima di loro - ha continuato - Non siamo più intelligenti della Dea e degli 007 messicani. Abbiamo solo avuto un contatto grazie al quale siamo stati in grado di avere un invito". Penn ha dichiarato di sentirsi in pericolo, dopo che il governo messicano ha rivelato che l'attore ha avuto un ruolo nella cattura di El Chapo. Ma dice di "non aver paura per la sua vita". L'attore, quando Charlie Rose nel programma “60 minutes” della Cbs gli ha chiesto se pensava di essere stato messo nel mirino dalle autorità messicane, ha risposto con un secco "sì". L'incontro segreto tra l'attore e il boss di Sinaloa, avvenuto dopo la fuga del boss dal carcere, avrebbe in realtà aiutato le autorità messicane a trovare El Chapo. L'accusa sarebbe per riciclaggio di denaro. Ma la conferma dell'incontro avvenuto tra la star e El Chapo durante la latitanza del boss del narcotraffico, di cui gli Usa chiedono l'estradizione, e soprattutto i contenuti del colloquio messi nero su bianco per la celebre rivista, hanno mandato "su tutte le furie" la Casa Bianca, come ha affermato il capo dello staff Denis McDonough interpellato dalla Cnn, sottolineando come la posizione di Sean Penn e degli altri personaggi coinvolti nella vicenda (in primis l'attrice di telenovela Kate del Castillo, che ha avuto un ruolo cruciale nell'organizzazione dell'incontro, ndr) ponga dei quesiti.

El Chapo violentava le 13enni, sono le "mie vitamine". Nuovi orrori in processo a narcoboss. Giuria inizia a deliberare, scrive ANSA il 04 febbraio 2019. Le drogava e le violentava: più erano giovani più erano "vitamine" per la sua vita. Dettagli shock emergono dal processo di droga del secolo in corso a New York, quello ai danni di El Chapo, il re della cocaina a capo di un impero da 14 miliardi di dollari. Oltre ad aver stuprato una delle sue amanti, Joaquin Guzman Loera - il vero nome di El Chapo - violentava di routine ragazze giovanissime, anche di 13 anni, e talvolta le drogava prima con "sostanze in polvere". Una donna conosciuta come “Comadre Maria” sottoponeva periodicamente a Guzman foto di ragazze selezionate appositamente per lui: per un costo di 5.000 dollari, le giovanissime prescelte da El Chapo venivano trasferite sulle montagne della Sierra Madre, dove il boss viveva, e stuprate dal boss del narcotraffico e dai suoi uomini. “Comadre Maria” sarebbe stata anche l'intermediaria per il presunto pagamento da 100 milioni di dollari da El Chapo all'ex presidente del Messico, Enrique Pena Nieto. I dettagli shock arrivano mentre la giuria si appresta, a partire da lunedì, a riunirsi per iniziare a deliberare al termine di un processo durato 10 settimane, in cui El Chapo ha parlato in una sola occasione. "Non testimonierò. Mi hanno consigliato questo, e io sono d'accordo" ha detto. La sua difesa in tribunale è stata centrata nel dipingere Ismael 'El Mayo' Zambada - il suo partner nel Cartello di Sinaloa - come il vero cattivo mentre El Chapo era dipinto come un esponente di basso livello. L'unica altra occasione in cui il re della droga ha manifestato emozioni è stato l'ingresso nell'aula di tribunale di Alejandro Edda, l'attore che lo interpreta nella serie Narcos di Netflix. Lo ha salutato e gli ha sorriso con un'espressione soddisfatta: il sogno del cassetto di El Chapo è da sempre quello di un film sulla sua vita e aveva incontrato, perseguendo questo obiettivo, Sean Penn. Dopo 25 anni vissuti nell'ombra e non una ma due fughe storiche da carceri messicane, El Chapo attende ora la sua sentenza. Contro di lui sono stati mossi 10 capi d'accusa, dal traffico droga al riciclaggio di denaro passando per il possesso illegale di armi. Il suo impero - secondo l'intelligence - è già passato di mano con il fratello e il cognato che ne hanno preso il comando nel segno della continuità. Accanto al re della droga, nonostante le amanti e gli stupri, la moglie: non ha perso neanche un'udienza in tribunale. Nel giorno della testimonianza di una delle amanti del re della droga, El Chapo e sua moglie si sono presentati in aula vestiti esattamente dello stesso colore, mostrandosi uniti. "Lo ammiro come l'essere umano che ho incontrato e sposato" ha detto di recente Emma Coronel Aispuro, la moglie El Chapo, in una intervista al New York Times, descrivendo il boss un padre "molto presente per le loro figlie: si adorano".

Emma, giovane moglie di El Chapo: «Mio marito, privato dei diritti umani», scrive vanityfair.it il 17 febbraio 2019. Nata nel 1989 in California, fa parte di una famiglia vicina al mondo della droga ed è impegnata nella difesa del suo uomo sui media. E pare che avrà accesso a un patrimonio di 14 miliardi. Sembra essere arrivata l’ora per Joaquín «El Chapo» Guzmán. Dal 1991, il famoso narcotrafficante messicano è entrato e uscito più volta dal carcere, mettendo in atto fughe piuttosto spettacolari. È l’unico detenuto ad essere uscito due volte da una prigione di massima sicurezza. Eppure, con il processo negli Stati Uniti, dove è stato estradato, quelle imprese fuorilegge sembrano essere arrivate alla fine. Il 13 novembre è iniziato il dibattito contro El Chapo, capo del Cartello di Sinaloa, uno dei più sanguinari del Messico, davanti a un corte federale di Brooklyn, New York. È accusato di 17 reati, tra cui avere fatto arrivare sul territorio americano 155 tonnellate di cocaina. Il narcotrafficante più famoso dopo il colombiano Pablo Escobar Gaviria rischia l’ergastolo. Da quel giorno, a ogni udienza, è sempre in seconda fila una giovane donna, Emma Coronel Aispuro, moglie di El Chapo. Nata nel 1989 a Santa Clara, California, Coronel Aispuro ha deciso di non perdersi nemmeno un dibattito del marito, ed è diventata protagonista delle scene. Quando si raccontano i mostruosi dettagli degli omicidi a cui El Chapo avrebbe partecipato non fa una piega, non si lascia intimidire neanche quando a testimoniare ci sono le presunte amanti del marito. A differenza di quelle di Escobar, le donne nella vita di El Chapo hanno sempre perso nella ricerca dell’equilibrio tra essere complici o amanti. Quasi tutte sono finite tra le sbarre o latitanti. Emma invece no. È riuscita a non essere indagata e come moglie dell’imputato può non testimoniare. Anche se ci sarebbero messaggi di testo in cui il marito le chiede di nascondere delle armi durante una perquisizione della polizia, prima della fuga dal carcere Altiplano nel 2015. Emma è impegnata nella difesa del marito sui media, non solo perché è il padre delle sue figlie, ma perché lo considera una vittima di abuso, una persona alla quale sono stati violati i diritti umani. In un’intervista concessa alla rivista Time, la ragazza ha detto di conoscere un’altra persona rispetto a quella che descrivono nelle udienze: «Non riconosco mio marito in quelle dichiarazioni contro di lui […] Anzi, lo ammiro per come l’ho conosciuto, credo nella persona che ho sposato». Il matrimonio è avvenuto nell’estate del 2017, quando lei era ancora adolescente. L’incontro tra i due sembra non essere stato casuale. Cresciuta a Durango, un paesino rurale, Emma era vicina al mondo del traffico di droga. Il padre era uno dei capi di una rete del Cartello di Sinaloa – guidato da El Chapo – e uno dei suoi fratelli era pilota del narcotrafficante, già ricercato dalle autorità americane. Emma ha vinto un concorso di bellezza del Festival del Café y la Guava. Alla pubblicazione britannica Emma raccontò che all’inizio il rapporto con l’uomo – 32 anni più grande di lei – era solo una bella amicizia, che poi con il trascorrere del tempo è diventato amore: «Quando ho compiuto 18 anni ci siamo sposati in una cerimonia molto semplice con la famiglia e gli amici più vicini». Si dice che El Chapo abbia 19 figli con almeno 6 donne diverse, ma è Emma la più mediatica. Jack Riley, ex agente della DEA, raccontò a The New York Post che la ragazza è più di una «moglie trofeo», ha un ruolo importante nel circolo intimo del narcotrafficante. «Lui (El Chapo) è un genio delle pubbliche relazioni», spiegò Riley. «E ha coinvolto Emma nella strategia di denunciare il trattamento che ha ricevuto per guadagnare tempo nel processo». Solo una volta la ragazza ha perso il controllo – forse non a caso – durante un’udienza a dicembre. Quando il procuratore mostrò un fucile AK-47, lei è scappata fuori dalla sala con le figlie. Emma ha avuto due gemelle, Emali e María Joaquina, con El Chapo, che oggi hanno 7 anni e vivono in Messico: «Sono stata costretta a lasciare le mie figlie per accompagnare mio marito, perché sono l’unica persona della famiglia che può stare vicino a lui a New York […]. Lui è stato sempre un padre molto presente. Le bambine sono l’adorazione del padre, e anche il padre lo è per loro». Poche volte però l’hanno visto in libertà. Secondo il quotidiano The New York Times, la Grande Mela non è un luogo ostile per Coronel, che passeggia per il Central Park, mangia sushi a Brooklyn, visita l’Empire State e guarda i Yankees allo stadio, accompagnata da un paio di amiche e l’avvocatessa. Le piace distrarsi a New York quando non fa troppo freddo, ma non la sera, perché di notte preferisce dormire e recuperare forze per il processo. Si dice che la tranquillità di Coronel si basa nel fatto che, nonostante il marito probabilmente sarà condannato all’ergastolo, lei avrà accesso ad un patrimonio di circa 14 miliardi di dollari. Su Instagram aveva fino a poco tempo fa un account con più 240mila follower, dove raccontava in immagini una vita piena di lussi. Per la Dea, si trattava di un «atteggiamento surreale di ostentazione di una ricchezza accumulata dal marito, sappiamo tutti in che modo». Ma lei non molla. Riconosce che la sua vita è cambiata, ma «non mi considero una mamma single. Sono una mamma che in questo momento non può avere il sostegno del marito. Ho però fiducia che la famiglia starà bene […] Questa situazione è pesante e difficile. Tuttavia, mantengo la mia fede. Sono convinta che Dio ci pone degli ostacoli che possiamo superare».

Gratteri: “El Chapo considerava la ‘ndrangheta un partner affidabile”, scrive il 12 gennaio 2016 Agostino Nicolò su luinonotizie.it. “Joaquin Guzman, ‘el Chapo’, ha esportato tonnellate e tonnellate di cocaina verso gli Stati Uniti e verso l’Europa. E in Europa, non solo in Italia, la ‘ndrangheta ha il quasi monopolio dell’importazione di cocaina”. Lo ha detto a Voci del Mattino, Radio1 Rai, Nicola Gratteri, procuratore della Dda di Reggio Calabria. Gratteri: “‘El Chapo’ considerava la ‘ndrangheta un partner affidabile”. “I maggiori porti d’Europa, come Amsterdam, Rotterdam, Anversa o anche le coste del nord della Spagna sono appannaggio quasi esclusivo della ‘ndrangheta. C’è anche un bel po’ di camorra interessata soprattutto al traffico dalla Spagna verso l’Italia ma la ‘ndrangheta è ormai leader in questo settore. Lo è perché è molto credibile nel panorama internazionale, perché ha una struttura molto dura, molto rigida, ma anche perché ha tanti soldi. E poi riesce ad avere stabilmente in Sudamerica, soprattutto in Colombia e in Perù, decine e decine di broker che stanno lì per acquistare tonnellate di cocaina”. “La ‘ndrangheta diversifica gli acquirenti come uno Stato che si diversifica le importazioni di greggio o di gas, non compra azioni solo di una società o di una multinazionale, tiene aperti più canali perché se viene meno uno non si può interrompere il circuito. El Chapo – ha spiegato il magistrato antimafia – considerava i calabresi affidabili perché hanno una grande durezza, più dei colombiani o dei peruviani in genere”. “E come ho potuto vedere, i messicani sono feroci, fanno la gente a pezzi con la motosega – ha continuato Gratteri -, tagliano la testa di una persona e su quella testa ci cuciono quella di un maiale, o appendono ad un ponte una decina di persone per diversi giorni. Ho visto anche la popolazione inneggiare al terrorismo messicano, perché lì i terroristi, che sono al contempo narcotrafficanti, costruiscono scuole, ospedali, strade, si sostituiscono allo Stato e quindi creano consenso”. “Negli ultimi anni abbiamo notato che le organizzazioni criminali terroristiche messicane somigliano sempre più alla ‘ndrangheta. Mentre prima i cartelli messicani s’interessavano solo all’acquisto e alla distribuzione della cocaina all’ingrosso – ha osservato ancora Nicola Gratteri – oggi le organizzazioni messicane hanno mutuato dalla ‘ndrangheta il controllo del territorio. Incidono e interferiscono insomma sugli scambi commerciali, sull’economia, sul potere e anche sulla politica e sul sistema elettorale”.

l boss del narcotraffico e i legami con la 'Ndrangheta, scrive il 10 Gennaio 2016 Francesco Sorgiovanni su Antimafia duemila. Tratto da: ilquotidianoweb.it. "El Chapo": "I calabresi affidabili, sono come noi". Il boss messicano arrestato, tra gli uomini più ricercati al mondo, aveva rapporti molto stretti con le cosche calabresi. Tutti i retroscena e i rapporti. "Sono più affidabili, sono come noi", ripeteva sempre ai suoi “El Chapo”, il boss messicano del narcotraffico internazionale, riferendosi agli uomini della ‘Ndrangheta calabrese. Joaquin Guzman Loera, alias El Chapo, 59 anni, il padrino indiscusso del più poderoso cartello messicano di narcotrafficanti, quello di Sinaloa, uno dei criminali più ricercati al mondo, è stato arrestato. E’ stato riacciuffato all’alba di venerdi dopo un’intensa e sanguinosa sparatoria che ha visto protagonisti i marines messicani e le forze del narcotraffico pronti a difendere il loro boss con un immenso arsenale composto da fucili, pistole, lanciagranate e addirittura due veicoli blindati. I marines hanno fatto irruzione nella casa dove si nascondeva, a Los Mochis, nel suo Stato natale di Sinaloa, nel corso del blitz hanno perso la vita cinque persone e ne sono state arrestate sei. A tradirlo è stata la sua vanità. Il boss del narcotraffico era intenzionato a realizzare un film autobiografico per il quale aveva preso contatto con attrici e produttori. El Chapo, il “tozzo”, così definito per via della sua bassa statura, ha sempre cercato, in ogni situazione, da carcerato o da latitante dopo le sue “spettacolari” evasioni, di dimostrare ai “partner” stranieri con cui era in affare, di essere un interlocutore affidabile per le forniture di cocaina, crack e altre droghe sintetiche. Tra questi “partner” spiccava la ‘ndrangheta calabrese, regina incontrastata del mercato della polvere bianca in Europa, proprio grazie ai rapporti prima coi narcos colombiani e con uno dei più forti cartelli della droga messicani, Los Zetas, e dopo lo stesso El Chapo. Un legame di fiducia consolidato tra le due organizzazioni criminali. Nelle pagine di “Oro bianco”, il libro scritto dal Procuratore Nicola Gratteri e da Antonio Nicaso, si legge che per il boss messicano la ‘ndrangheta è “l’alleata ideale per esplorare il crescente mercato europeo, dove la cocaina tira molto più dell’oro e del petrolio”. Fino a diventare, quindi, il “principale fornitore di droga per la ‘ndrangheta, che partendo dal Messico arriva in Italia passando per il continente africano”. Quello tra la Calabria ed il continente americano, comunque, è un rapporto che va ben oltre il traffico di droga. Il continente infatti è anche luogo di riparo per personalità in diretto contatto con le famiglie storiche della ‘ndrangheta, per la quale gestiscono gli “affari esteri”. E i grossi flussi di droga, fino a tonnellate. La cocaina partita dal Centro e dal Sud America arriva in Italia facendo scalo in piccoli porti di stati africani ad alto tasso di corruzione e caos e da qui entrerebbe nel grande mercato europeo attraverso i porti spagnoli e olandesi. Da lì viene poi gestita dalle ‘ndrine calabresi, ormai da anni leader nel mercato degli stupefacenti. L’Italia entra nella clientela dei cartelli a partire dal 2008, proprio grazie al lavoro di intermediazione che dagli States fanno le famiglie di Gioiosa Jonica, nella Locride. Fino a quel momento i calabresi si erano serviti di “broker”, non direttamente collegabili alle ‘ndrine, che smerciavano la droga proveniente dai cartelli colombiani di Medellín e Calí. Uscito di scena Pablo Escobar (signore indiscusso del Cartel de Medellín) e decapitato i concorrenti del Calí, il controllo della droga è passato in mano a gruppi paramilitari come le Farc o l’Autodefensas Unidas de Colombia di Salvatore Mancuso (con il quale la ‘ndrangheta avrebbe intrattenuto rapporti nel commercio della cocaina) anche se i colombiani hanno dovuto lasciare il passo ai cartelli messicani, che negli anni Ottanta “studiavano” presso i colombiani facendogli da corrieri. La cronaca giudiziaria degli ultimi anni, dall’operazione “Solare” a “Crimine” ha dimostrato i collegamenti tra narcotrafficanti messicani e ‘ndrangheta, con le famiglie calabresi “regine” del narcotraffico mondiale, Molè, Piromalli, Pesce, Mancuso, Aquino, Coluccio, Barbaro, Agresta, Sergi, Marando, Nirta, Strangio, Pelle, Vottari, Morabito, Bruzzaniti, Palamara, Cua Pipicella e Maesano. A Rosarno si racconta anche che i Bellocco abbiano avuto contatti diretti con El Chapo. L’oligarca della cocaina che da venerdì è di nuovo in carcere.

Processo El Chapo, ''Alleato non gli strinse la mano, ed eliminò il fratello''. Pubblicato: 20 Novembre 2018 da Antimafia duemila. A raccontarlo un testimone al processo in corso a New York. E' iniziato il processo contro Joaquin 'El Chapo' Guzmán. In una delle prime testimonianze al processo, blindatissimo, in corso a New York contro l'ex capo assoluto del cartello di Sinaloa, emergono i primi atroci racconti sulle attività che il narcotrafficante metteva in atto. Il fatto che è stato affrontato riguarda l'uccisione del fratello del boss di un clan alleato perché questi gli aveva mancato di rispetto: al termine di un incontro non gli aveva dato la mano. Da questo episodio si scatenò una sanguinosissima faida nel corso della quale fu ucciso per vendetta anche un fratello minore di El Chapo. Era il 2004 ed era appena terminato un faccia a faccia tra quest'ultimo e Rodolfo Carrillo Fuentes, fratello di Vicente Carrillo Fuentes potente capo del cartello di Juarez. El Chapo, secondo la testimonianza, allungò la mano per salutare l'interlocutore ma questi lo lasciò col braccio teso andandosene senza nessuna stretta. El Chapo - ha raccontato Jesus 'El Rey' Zambada, un ex sicario del cartello di Sinaloa oggi pentito - se la legò al dito: "Era molto contrariato e disse che lo avrebbe ucciso". Fu così che tempo dopo Rodolfo Fuentes fu assassinato. Zambada ha anche raccontato che gli fu ordinato di pagare almeno 250 mila dollari a un ufficiale dell'esercito messicano per evitare la cattura del Chapo, che è stato latitante tra il 2001 e il 2014. Grazie a quei soldi l'operazione sarebbe fallita. Per ringraziarlo El Chapo invitò Zambada e la moglie tra le montagne di Sinaloa dove si nascondeva e si vantò delle sue armi tra cui anche un bazooka. E la pistola preferita dal boss, una calibro 38 che sul manico aveva le sue iniziali e dei diamanti.

Chi ha venduto la testa del Chapo, re dei narcos. In Messico nel mondo del narcotraffico era un’autorità quasi mistica. Su di lui pendeva una taglia da 5 milioni di dollari. Aveva costruito il più grande gruppo criminal-industriale (il cartello di Sinaloa) sul modello della mafia. E aveva imparato la lezione: per dominare bisogna farlo nell’ombra. Ora un’epoca si chiude, scrive Roberto Saviano il 24 febbraio 2014 su La Repubblica. Perché avremmo dovuto dare massima attenzione a un boss messicano arrestato? Perché conta più di un ministro e forse persino più di un governo. L'economia italiana più prolifica è quella criminale, il capitolo più imponente di questa economia è il narcotraffico, il capo messicano arrestato due giorni fa è un leader nel trafficare coca anche in Europa, quindi è anche un leader dell'economia italiana. Sillogismo semplice. In molti credono di conoscere El Chapo. Lo immaginano come uno dei tanti boss criminali. E anche per lui è scattato il solito meccanismo mentale: credere di sapere chi sia un criminale, un narcotrafficante. Falso. In realtà quello che si conosce, se non si approfondisce, se non si segue il dettaglio, è solo una sceneggiatura. I governi europei continuano a non occuparsi dei cartelli del Messico sino a quando - come sta già avvenendo -  non saranno i cartelli messicani a occuparsi dell'Europa. El Chapo, ossia "il Tarchiato", chiamato così perché piccolo e tozzo, al secolo è Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, ed è il capo del Cartello di Sinaloa, il gruppo criminal-industriale messicano che ha rivoluzionato il mondo della cocaina. Lo seguo da anni, archivio le informative su di lui, ascolto ciò che giornalisti messicani e americani dicono di lui, cerco di mapparne gli affari, le fughe, le debolezze. El Chapo si è formato alla scuola del migliore dei maestri, El Padrino Miguel Ángel Félix Gallardo, l'uomo che spostò l'asse mondiale del narcotraffico dalla Colombia al Messico: gli sforzi anti-droga delle autorità colombiane con il supporto degli Stati Uniti dell'era Reagan diedero un duro colpo ai cartelli colombiani di Medellín e Cali. I colombiani, messi alle strette, capirono che sarebbe stato più conveniente affidare la distribuzione della droga negli Usa ai narcos messicani - che fino ad allora erano stati solo semplici trasportatori - in modo da ridurre i rischi che il controllo delle consegne fino agli Stati Uniti comportava. E a comandare è chi distribuisce, non più chi produce. Così i messicani diventarono i nuovi padroni mondiali della droga e El Chapo Guzmán ben presto fu il più potente dei padroni. El Chapo ha una visione chiara del suo tempo: il mondo occidentale non può farcela, i diritti sono in contraddizione con il mercato, quindi comprende che i Paesi occidentali hanno bisogno di “territori” senza leggi, senza diritti. Il Messico ha la coca, gli Usa i consumatori; il Messico ha forza lavoro a basso costo, gli Usa ne hanno bisogno; il Messico ha soldati a migliaia, gli Usa hanno le armi. Il mondo è colmo di infelicità? Arriva la risposta: coca. El Chapo ha compreso questo. E così è divenuto il re. El Chapo nel mondo internazionale del narcotraffico possiede l’autorità mistica del Papa, ottenuta con una campagna di consenso sociale che l’ha reso autorevole come Obama, e ha una genialità nel vedere nuovi spazi di mercato che lo trasforma nello Steve Jobs della coca. Iperboli che servono a mostrare la particolarità del personaggio. El Chapo sa una cosa: la democrazia è corruzione, chi la pensa al contrario è un ingenuo. Tutti sono corruttibili, basta trovare il punto di rottura. Paga e ti sarà dato. Nei paesi dove c’è poca corruzione è possibile perché è più conveniente l’onestà della disonestà, ma El Chapo sa che arriverà anche il loro momento in cui tutto è in vendita, la propria anima e il proprio figlio. Tutto. Per strutturare il suo cartello usa il modello italiano, il modello al mondo più efficiente in tema di mafie. Seguendo la tradizione delle famiglie calabresi, campane, siciliane crea un gruppo fidato di parenti o di gente della Sierra che conosce bene. Nomina un “consigliere”, recluta sicari tra ex militari in grado di usare armi pesanti: serietà, professionalità, efficienza. Sono queste le caratteristiche richieste per lavorare nell’organizzazione del Chapo. Ci sono anche alcune regole da seguire: mai usare la violenza se non necessaria e mai ostentare la ricchezza guadagnata, troppo controproducente. Lo ripeteva sempre il Padrino: per dominare davvero bisogna farlo nell’ombra. E infatti El Chapo rimane nell’ombra e nell’ombra governa un impero che cresce a dismisura. Viaggia in incognito. La gente comincia a raccontarsi di averlo riconosciuto ma è vero una volta su cento. Mentre le mafie italiane vengono incastrate dalle intercettazioni, Chapo, sfruttando la crisi economica, è arrivato a corrompere i manager delle compagnie telefoniche per fare in modo che le linee usate dal suo cartello non fossero tracciate. Per trasportare la droga negli Stati Uniti, El Chapo e i suoi uomini utilizzano tutti i mezzi disponibili: aerei, camion, automotrici, autocisterne, auto e, infine, tunnel sotterranei, la loro specialità. La sua cattura è stata seguita dal Messico con un’apprensione pari a quella per una finale dei Mondiali e superiore a quella di una campagna elettorale presidenziale. Il narco più ricercato del mondo è stato catturato insieme a un suo collaboratore alle 6,40 (ora locale) del 22 febbraio 2014 nell’hotelresidence Miramar, nel centro di Mazatlán, Stato di Sinaloa, grazie a una mega-operazione condotta dalla Marina militare messicana in collaborazione con la Dea statunitense, nella quale sono stati impiegati due elicotteri e sei unità terrestri di artiglieria, anche se non è stato sparato neppure un colpo. Il latitante più pericoloso del Messico, l'uomo sulla cui testa gli Usa avevano da anni messo una taglia da 5 milioni di dollari, si nascondeva a Sinaloa. Come i boss italiani, un capo messicano non si allontana dal centro del suo potere. Forse, in 13 anni di latitanza, da quando cioè era evaso dal carcere di massima sicurezza di Puente Grande, non si era mai spostato da lì, da quella terra che gli ha dato grandezza e offerto protezione. Tutto parte da Sinaloa, nel Messico nord-occidentale, ma il suo impero va ben oltre i confini di quello Stato schiacciato tra la Sierra e il Pacifico. La rivista Forbes nel 2009 lo inserisce nella lista degli uomini più ricchi del mondo. El Chapo teme investimenti esclusivamente finanziari, come tutti i capimafia del mondo confida nella “roba”: case, fattorie, terreni. E soprattutto usa i suoi soldi per alimentare una rete di corruzione, indispensabile per portare avanti indisturbato i suoi affari. Talmente indisturbato che fino ai primi anni ’90 la Dea a malapena sapeva della sua esistenza. Eppure coca, marijuana, anfetamine, la maggior parte delle sostanze che gli americani hanno fumato, pippato e ingoiato negli ultimi 25 anni, è passata dalle mani dei suoi uomini. Era dal 13 febbraio che l’operazione militare mirata alla sua cattura era partita: le forze dell’ordine erano riuscite a individuare varie abitazioni di Culiacán, sua roccaforte, dove El Chapo era solito soggiornare. Lui è sempre stato maestro nel costruire tunnel per far arrivare la droga negli Usa e quest’arte gli è venuta buona anche per nascondersi: alcune di queste abitazioni, infatti, erano collegate tra loro da cunicoli sotterranei. Pare che più volte nei giorni scorsi i militari siano stati vicini ad agguantare il boss ma lui è sempre riuscito a scappare. Negli ultimi mesi vari membri del cartello di Sinaloa erano stati arrestati: così si è stretto il cerchio intorno al Chapo. All’inizio della settimana, la polizia aveva effettuato un’incursione anche nella casa della sua ex moglie, Griselda López: qui erano state trovate alcune armi e un tunnel che finiva nelle fogne. Proprio le fognature venivano utilizzate da El Chapo per spostarsi da una parte all’altra della città, di tunnel in tunnel, di nascondiglio in nascondiglio. La cosa che ha lasciato tutti sorpresi è che El Chapo è stato sorpreso in un residence di Mazatlán, quindi di una città, un porto turistico: non era nascosto tra le montagne della Sierra, come molti credevano. Per anni si sono rincorse notizie di arresti fasulli o di una sua possibile uccisione. Per questo il giorno dell’arresto nessuno poteva credere che fosse accaduto davvero. Su Twitter migliaia di messaggi: “Sarà davvero lui?”. In tanti non hanno nascosto la loro delusione e vicinanza al leader di Sinaloa, e molti di questi messaggi erano in lingua inglese. È stato persino creato l’hashtag #FreeChapo, Chapo libero. Messaggi che raccontano lo stato reale del mondo di oggi molto più di tanti articoli e meeting politici. Ora tutti pensano che El Chapo riuscirà a comandare dalla cella. L’ultima volta che fu catturato, nel 1993, fu poi trasferito nel carcere di massima sicurezza di Puente Grande (Stato di Jalisco) che si trasformò lentamente nella nuova base da cui continuava a dirigere i suoi affari, coccolato da compagni di detenzione, cuochi, guardie penitenziarie e prostitute che regolarmente gli facevano visita. Tutto sommato non era male per lui “soggiornare” a Puente Grande. Otto anni più tardi, però, El Chapo non poteva più permettersi di rimanere dietro le sbarre: la Corte suprema aveva approvato una legge che rendeva molto più semplice l’estradizione nelle carceri statunitensi dei messicani con carichi pendenti oltre confine. Un trasferimento in un penitenziario americano avrebbe significato la fine di tutto. El Chapo scelse allora la sera del 19 gennaio 2001. Una delle guardie del carcere, Francisco Camberos Rivera, detto “El Chito”, aprì la cella del capo di Sinaloa e lo fece accomodare nel carrello della lavanderia, pieno di panni sporchi. Lo spinse attraverso corridoi incustoditi e porte elettroniche spalancate, fino ad arrivare al parcheggio interno del penitenziario, dove c’era un solo uomo di guardia. Come nei migliori film d’azione americani, El Chapo saltò fuori dal carrello e raggiunse il portabagagli di una Chevrolet Monte Carlo. El Chito mise in moto e lo condusse verso la libertà. El Chapo aveva pagato la sua fuga a suon di mazzette dentro al carcere ma, grazie anche a quella fuga hollywoodiana, divenne un eroe, una leggenda. Aveva scontato solo 8 anni dei 20 a cui era stato condannato, e da quel giorno divenne uno degli uomini più ricercati, non solo del Messico. La conferma della cattura del Chapo è stata concitata quasi quanto la cattura stessa. All’inizio si trattava solo di indiscrezioni non confermate: la notizia viene diffusa alle 9,54 dall’agenzia Associated Press, che aveva ricevuto la soffiata dell’arresto da un funzionario statunitense rimasto anonimo. Ma per ore le autorità messicane non confermano. Nel frattempo, però, le voci sull’arresto del Chapo cominciano a rincorrersi sui siti di tutto il mondo. Una conferenza stampa annunciata dalle autorità messicane per le 11,30 (ora locale) viene poi annullata dalla Segreteria di Stato, cosa che porta a pensare che in realtà l’arrestato non sia veramente El Chapo. Comincia però a circolare la foto di un uomo a torso nudo, con i baffi, tratto in arresto da un militare in mimetica. Sembra proprio lui, ma sono passati 13 anni dalle ultime foto ufficiali, potrebbe anche essere uno che gli somiglia. L’attesa della conferma della cattura del Chapo tiene con il fiato sospeso. Alle 12,08 il ministro dell’Interno Miguel Ángel Osorio Chong annuncia una nuova conferenza stampa per le 13. Smentiranno o confermeranno? Il dubbio si assottiglia quando alle 12,33 le autorità messicane confermano alla Cnn la cattura del Chapo. Alle 13,20 la sua foto sparisce dalla lista dei più ricercati della Dea. È la conferma americana. Brucia di qualche minuto quella messicana, data dal presidente Enrique Peña Nieto, che con un tweet esprime gratitudine per il lavoro delle forze di sicurezza. In realtà è un’autocelebrazione per il colpo più importante dall’inizio del suo mandato. Alle 14,04 un elicottero della polizia federale atterra davanti ai giornalisti raccolti nell’hangar della Marina. In conferenza stampa le autorità ratificano ciò che ormai tutti sanno: El Chapo è stato catturato. Spiegano dove e come è avvenuto l’arresto. Il Procuratore generale della Repubblica fa l’elenco delle persone arrestate e dei beni sequestrati: 13 persone, 97 armi lunge, 36 armi corte, due lanciagranate, 43 veicoli, 16 case e 4 fattorie. Manca solo un dettaglio: il protagonista. Ed eccolo, alle 14:11, fare il suo ingresso sulla scena: i fotografi lo immortalano mentre attraversa il piazzale per salire su un elicottero della polizia federale. Jeans neri, camicia bianca, capelli e baffi ben curati. Appare un po’ stanco e per nulla spavaldo, mentre i militari della Marina in mimetica lo tengono per le braccia e gli abbassano la testa. Nessuna presentazione ai media, solo queste poche immagini a conferma dell’arresto. Alle 15 viene data notizia che El Chapo è stato rinchiuso nel Penal del Altipiano, il carcere che si trova ad Almoloya de Juárez, nello stato del México, ma non è da escludere una sua imminente estradizione negli Stati Uniti. Le autorità americane hanno già annunciato che la chiederanno. È ciò che temono di più i narcos. Lui che usa tunnel per spedire coca e esseri umani negli Usa ha due figlie con regolare passaporto americano. Ad agosto 2011 la giovane moglie Emma, cittadina americana, diede alla luce due gemelle partorite in tutta tranquillità in una clinica a Lancaster (vicino a Los Angeles), seguita dall'antidroga, che non poté fare niente perché la ragazza, allora ventiduenne, era incensurata. Era stata accompagnata lì dagli uomini del Chapo. Unica precauzione: la donna lasciò in bianco il nome del padre sul certificato di nascita delle bambine. Ma tutti sanno chi è. La cronaca della cattura del Chapo è un evento che il Messico ricorderà per sempre. Per il Paese — e non solo — questa cattura può significare una svolta epocale. Non solo perché la cattura del Chapo potrebbe far sperare nell'inizio di una nuova epoca nel contrasto ai cartelli del narcotraffico, ma anche perché segna sicuramente la fine di un'epoca: quella dei padrini, dell'aristocrazia del narcotraffico, dei cartelli fondati - come le mafie italiane - su valori quali l'onore e la lealtà nei confronti degli affiliati. Chapo è forse l'ultimo erede della vecchia generazione di narcos, che ora lascia il passo a quella nuova, quella del “narco 2.0”, dalla violenza abusata e ostentata, per strada come su internet; il narcotraffico dei boss che non durano più di qualche mese, eliminati da faide interne o dalla loro stessa tracotanza. Dopo la tanto attesa conferma, accanto ai messaggi di esultanza delle autorità messicane e statunitensi, sui social network sono comparsi anche messaggi di gente comune, che vedeva nel Chapo un eroe, un benefattore, un dio messicano. La reazione più diffusa è quella di incredulità: “El Chapo è troppo furbo per farsi beccare”. Anch’io credo sia impossibile che il potere del Chapo, in un momento di così grande forza, possa essere stato bloccato da un arresto. Le ipotesi sono molte, forse ha deciso lui che era giunto il momento di farsi catturare perché aveva intuito essere l’unico modo per il cartello di fare affari, essendo ormai troppo “politicamente rilevante”. Oppure ha capito che stava per esplodere una faida: il suo fedelissimo El Mayo aveva rilasciato — secondo indiscrezioni — una strana dichiarazione dalla latitanza, affermando che le nuove generazioni del cartello di Sinaloa erano pronte a prendere il potere. Come dire: o gli lasciamo spazio o se lo prenderanno. Forse per Chapo farsi arrestare è stato un modo per farsi da parte senza essere ucciso. O più semplicemente i suoi l’hanno venduto. El Mayo (che ha perso molti uomini recentemente) temeva di essere ammazzato, dicono a bassa voce. Qualcuno sostiene che Chapo voleva farlo arrestare per avere meno pressione su di sé e invece El Mayo lo ha fatto con lui. La stampa si aspettava la cattura di El Mayo e invece è arrivato Chapo. L’unica certezza è l’ambiguità. Difficile che questo arresto sia solo frutto di un’azione di polizia perché, lo sanno tutti, a Sinaloa niente accade se non per volere del Chapo. Il re è morto, viva il re.

El Chapo, sorpresa nel covo del boss dei narcos: trovato un libro di Saviano, scrive leggo.it. ​Uno dei più grandi boss della droga messicani 'fan' di Roberto Saviano che a loro ha dedicato un libro. Nel video pubblicato da 'El Universal', si vede chiaramente che in uno dei nascondigli utilizzati durante latitanza da Joaquin 'El Chapo' Guzman, il narcotrafficante arrestato dalle autorità locali la scorsa settimana, c'era anche il libro-inchiesta sul traffico della droga "Zero Zero Zero" dello scrittore napoletano. Dopo la sua fuga dal carcere di massima sicurezza di El Altiplano, lo scorso luglio, ricostruisce il sito messicano, El Chapo decise di nascondersi nella zona della Sierra Madre Occidentale. Pur trascorrendo le giornate in maniera precaria, lontano dal lusso, il latitante 58enne, leader del Cartello di Sinaloa, vestiva "alla moda" e stava attento alla sua immagine, in particolare se riceveva visite importanti. Alcuni mesi dopo l'evasione, i militari messicani sono riusciti ad entrare in uno dei suoi nascondigli, nella zona tra Durango e Sinaloa, ma il boss della droga era già scappato. Tuttavia, dell'operazione effettuata il 6 ottobre, nella comunità di Las Piedrosas, El Universal è riuscito ad ottenere un video. Nelle riprese si vedono, tra le altre cose, anche alcune camicie costose di diversi colori e tutte della stessa marca: "Barabas". E proprio nello stesso filmato si vede anche il libro di Saviano sul letto. Il racconto di Saviano. «Mi chiamano a tarda notte e mi avvertono: hanno trovato ZeroZeroZero, il tuo libro, nel covo del Chapo. Non ci credo. Mi inviano il video girato dai marines messicani e lo vedo: ZeroZeroZero sul letto del Chapo». A scriverlo su Facebook è lo scrittore napoletano Roberto Saviano. «Mi sembra di tornare indietro nel tempo - aggiunge Saviano sul social network - quando trovarono Gomorra nel covo di Michele Zagaria, boss del casalesi. E prima ancora nel rifugio di Francesco Barbato, capo casalese di nuova generazione. Bunker, abitazioni squallide, dove i boss vivono come topi e dove provano a capire cosa si scrive su di loro». «Chiudo la telefonata, sono stordito. Ancora una volta - penso - tutto si complicherà. Stiamo a vedere», scrive infine, pubblicando il link del video in cui appare il suo libro.

LA MAFIA COLOMBIANA. IL CARTELLO DI CALI’.

Cartello di Cali. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il Cartello di Cali (in spagnolo: Cartel de Cali) fu un cartello di droga del sud della Colombia, intorno alla città di Cali. Ha avuto una grande influenza negli ambienti politici iniettando grandi quantità di denaro, soprattutto nel partito liberale, ma anche, in misura minore, nel partito conservatore. Secondo alcune stime, al culmine del suo potere il cartello di Cali controllava l'80% delle esportazioni di cocaina dalla Colombia verso gli Stati Uniti. Gilberto Rodríguezfondò il cartello agli inizi degli anni '70 con suo fratello, Miguel Rodríguez, e insieme a "Chepe" Londoño e "Pacho" Herrera. Negli anni '80 l'organizzazione entrò in guerra con l'altro grande cartello colombiano, il cartello di Medellín, capeggiato da Pablo Escobar. Il cartello si avvalse anche dell'aiuto di un gruppo di vigilanti armati definitosi Los Pepes (acronimo di Popolo Perseguitato da Pablo Escobar), che avevano tutti, come unico scopo, uccidere il boss.

Il cartello di Cali ha partecipato a operazioni di "pulizia sociale", uccidendo centinaia di "indesiderabili". Tra gli indesiderabili, prostitute, bambini di strada, ladruncoli, omosessuali e senzatetto. Il cartello di Cali formò squadre della morte, chiamate "grupos de limpieza social", che ne uccise centinaia. Molti corpi degli assassinati sono stati trovati nel Río Cauca. Negli anni '90, il cartello ha combattuto i guerriglieri delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia). Alcuni inquirenti hanno osservato come il cartello si sia notevolmente frammentato negli ultimi anni e non avesse avuto più lo stesso potere di una volta, a causa dell'inasprimento delle leggi colombiane contro i narcotrafficanti e della sempre maggiore rilevanza che stavano acquistando altri cartelli, prima considerati minori, tra cui il cartello di Norte del Valle. Politicamente, il cartello di Cali era orientato su posizioni filo-governative e liberali.

LA MAFIA COLOMBIANA. PABLO ESCOBAR ED IL CARTELLO DI MEDELLIN.

Cartello di Medellín. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il cartello di Medellín fu una vasta organizzazione di narcotrafficanti, con base nella città di Medellín, in Colombia, operante negli anni settanta e ottanta in Colombia, Bolivia, Perù, America Centrale, Stati Uniti, Canada ed Europa. Fu fondato e gestito da Pablo Escobar, dai fratelli Ochoa e da José Gonzalo Rodríguez Gacha, soprannominato El Mexicano. Nel 1993 il governo colombiano, coadiuvato dagli Stati Uniti e con la collaborazione del cartello di Cali, orientato su posizioni filo-governative e di destra e di gruppi paramilitari di destra riuscì a smantellare definitivamente l'organizzazione con l'uccisione o la cattura di tutti i suoi membri. Il cartello finanzia le campagne elettorali dei politici della regione di Medellín, tra cui Álvaro Uribe, il futuro presidente del paese.

Storia. La nascita del cartello. Il contrabbando ha sempre fatto parte della vita colombiana, ma fino agli anni '70 era limitato alle sigarette, alle automobili, alle televisioni. Negli Stati Uniti era invece in corso la stagione d' oro degli hippies e i piccoli contrabbandieri colombiani osservano con crescente attenzione il diffondersi dell'uso della marijuana: inizia così la sempre più estesa riconversione delle piantagioni di caffè in campi di marijuana. A metà degli anni Settanta la richiesta di cocaina comincia a salire vertiginosamente: i colombiani fiutano il grande affare, per due soldi comprano le foglie di coca, che nelle prime rudimentali raffinerie clandestine nella Foresta Amazzonica vengono trasformati in pasta di coca e poi in cocaina vera e propria. Sfruttando le rotte utilizzate qualche anno prima per la marijuana, il traffico di cocaina dalla Colombia conobbe un rapido sviluppo, trasformandosi nel corso di un decennio in un impero internazionale della droga. Basti pensare che nel 1982 l'esportazione di cocaina dalla Colombia aveva ormai superato quella del caffè, arrivando a rappresentare il 30% delle esportazioni totali del Paese. Numerosi criminali e uomini d'affari colombiani cominciarono a interessarsi al narcotraffico, attratti dagli elevatissimi profitti. Fu in questi anni che Pablo Escobar (allora dedito a furti e rapine) conobbe José Gonzalo Rodriguez Gacha (mercante di smeraldi) e i fratelli Ochoa (appartenenti a una famiglia della ricca borghesia colombiana), ed iniziarono a collaborare, proteggendosi a vicenda e prendendo le informazioni logistiche. Dietro la creazione vera e propria del Cartello c'è un fattore scatenante: il 12 novembre 1981 il contingente M-19 (uno dei principali gruppi della guerriglia colombiana) aveva sequestrato Marta Nieves Ochoa, sorella di Fabio, Juan David e Jorge Luis, chiedendo un ingente riscatto. I fratelli Ochoa organizzarono allora una riunione nell'hotel Intercontinental di Medellin invitando oltre duecento boss della droga, tra questi Pablo Escobar, Carlos Lehder e Jose Rodriguez Gacha chiedendo ai mafiosi di formare un fronte unico sotto lo slogan soli siamo forti, insieme saremo invincibili: il cartello di Medellin era nato. Significativo fu poi il contributo di Carlos Lehder, trafficante di marijuana che suggerì agli uomini del Cartello di esportare cocaina negli Stati Uniti tramite piccoli aerei privati, di cui uno dei maggiori esportatori fu George Jung.

L'industria della cocaina. La grande impresa della cocaina era alquanto complessa e riproduceva uno schema di natura verticale, comprendente varie fasi:

la coltivazione delle piante, gestita dai contadini colombiani che si occupavano di immense aree di centinaia di migliaia di ettari, sotto il controllo del Cartello di Medellín;

la protezione delle piantagioni, da difendere e mimetizzare attraverso la vegetazione e la tutela dei militari;

l'acquisto delle foglie di coca e di sostanze chimiche per produrre la pasta di base, diretto da una parte verso gli indigeni e la popolazione locale e, dall'altra, verso i fornitori industriali;

il trasporto delle materie prime, convogliate nei luoghi di destinazione;

la produzione della pasta basica e, quindi, del semilavorato nonché il suo trasporto;

la raffinazione in laboratorio della pasta prodotta e infine il confezionamento della cocaina, una fase che risulta essere molto importante poiché è pensata per sfuggire ai controlli delle forze dell'ordine;

la vigilanza sui depositi, sulle piste clandestine, avvantaggiandosi delle caratteristiche fisiche dell'ambiente;

l'organizzazione delle transazioni, mediante accordi presi sulla parola, di cui difficilmente si trova traccia;

il riciclaggio, per cui i capitali che l'organizzazione ha in mano sono investiti in settori come il turismo, la ristorazione.

L'esperienza del MAS. Con il successo delle operazioni nel traffico di droga, alcuni tra i più importanti narcotrafficanti cominciarono ad acquistare vasti appezzamenti di terra; se da un lato ciò permetteva loro di riciclare i proventi dell'attività illecita, dall'altro li inseriva pienamente nella società colombiana dell'epoca, dotandoli di un potere politico enorme. Alla fine degli anni ottanta i trafficanti di droga erano ormai i maggiori proprietari terrieri in Colombia. Gran parte delle loro terre veniva utilizzata per l'allevamento del bestiame oppure veniva lasciata incolta. In questi anni i boss del narcotraffico cominciarono a munirsi di eserciti privati. Tra la fine del 1981 e l'inizio del 1982, a Puerto Boyacá, ebbe luogo una serie di incontri tra membri del cartello di Medellín, militari colombiani, membri della società statunitense Texas Petroleum, politici, piccoli industriali e ricchi allevatori. Da questi incontri nacque il MAS (acronimo di Muerte a Secuestradores, "Morte ai rapitori"), organizzazione paramilitare incaricata di difendere gli interessi economici dei fondatori, di reprimere i fenomeni di guerriglia e di fornire protezione per le élite locali, minacciate da rapimenti ed estorsioni. Già nel 1983 le statistiche del governo colombiano indicano 240 omicidi politici compiuti dal MAS; furono colpiti soprattutto leader locali, funzionari pubblici e fattori. L'anno seguente fu creata la ACDEGAM (Asociación Campesina de Ganaderos y Agricultores del Magdalena Medio, "Associazione allevatori e fattori del Medio Magdalena") per gestire l'organizzazione e le pubbliche relazioni del MAS, oltre che per fornire una facciata legale a vari gruppi paramilitari. L'ACDEGAM si impegnò nel promuovere politiche anti-sindacali, minacciando chiunque fosse coinvolto in organizzazioni di supporto per i diritti dei lavoratori e dei contadini. Le minacce trovavano poi conferma negli attacchi e negli assassinii operati dal MAS contro coloro che venivano considerati "sovversivi". L'ACDEGAM costruì inoltre delle scuole il cui scopo dichiarato era la creazione di un ambiente educativo "patriottico e anti-comunista", costruendo inoltre strade, ponti e cliniche. L'ACDEGAM stessa si occupava della gestione del reclutamento per le organizzazioni paramilitari, del deposito delle armi, della propaganda e dei servizi medici. Nella prima metà degli anni '80 l'ACDEGAM e il MAS conobbero una crescita significativa. Nel 1985 i narcotrafficanti Pablo Escobar, Jorge Luis Ochoa, Gonzalo Rodríguez Gacha, Carlos Lehder e Juan Matta-Ballesteros cominciarono a convogliare ingenti risorse verso l'organizzazione in modo da garantire l'acquisto di armi, equipaggiamento e l'addestramento delle truppe paramilitari. Il denaro investito dal MAS in progetti sociali venne così destinato al rafforzamento dell'organizzazione. Furono acquistate armi moderne dall'esercito e dall'armeria colombiana INDUMIL, oltre che tramite trattative private. L'organizzazione possedeva computer e gestiva un centro di comunicazioni che agiva coordinatamente all'ufficio statale di telecomunicazioni. Il MAS possedeva anche numerosi elicotteri e aerei, con trenta piloti a sua disposizione. Inoltre furono assunti istruttori militari statunitensi, israeliani e britannici.

Il conflitto con il governo colombiano. Quando fu stipulato un trattato tra gli Stati Uniti e la Colombia che permetteva una facile estradizione dei boss di Medellín, molti di questi furono estradati negli USA e arrestati. Tra i fautori di questo accordo vi furono il Ministro della Giustizia colombiano Rodrigo Lara Bonilla, l'ufficiale di polizia Jaime Ramírez e numerosi giudici di Corte Suprema. Questa politica portò a numerosi conflitti tra la polizia colombiana e i trafficanti di Medellín. Molti di questi furono eliminati. Tra i morti vi fu anche lo stesso ministro Rodrigo Lara Bonilla, che fu ucciso nel 1984 nella sua auto durante l'ora di punta da un gruppo di motociclisti. Quest'omicidio fu l'atto finale che convinse il Presidente della Colombia, Belisario Betancur, a firmare l'estradizione di Carlos Lehder e di altri importanti boss del cartello. Jaime Ramírez, ufficiale di polizia che aveva eseguito numerosi sequestri di droga provocando ingenti perdite al cartello, fu ucciso sull'autostrada, speronato da un'altra auto e poi finito a colpi di arma da fuoco. Sua moglie e i suoi due figli furono solo feriti.

Operazioni statunitensi. Gli agenti della DEA e della US Customs operarono molti arresti e sequestri di cocaina utilizzando informatori sotto copertura. I testimoni più importanti furono Barry Seal e "Max". Seal era un aviatore statunitense, incaricato di trasportare illegalmente la droga negli Stati Uniti per conto del Cartello. Quando venne catturato, decise di aiutare il governo statunitense a sconfiggere il Cartello, fornendo molti nomi e dettagli sui percorsi della cocaina, che portarono a molti arresti. Il Cartello si vendicò facendolo assassinare. Max, al quale il Cartello aveva ordinato di uccidere Barry Seal, rifiutò il compito. Più tardi contribuì a trovare e imprigionare l'assassino di Seal, e collaborò con la DEA fornendo molte informazioni.

Paura dell'estradizione. Probabilmente il problema più grande che il Cartello di Medellín e gli altri trafficanti dovevano affrontare fu il trattato di estradizione tra Stati Uniti e Colombia, che permetteva alla Colombia di estradare negli USA qualsiasi Colombiano accusato di traffico di droga, per essere lì processato. Questo fu un grosso problema per il Cartello poiché non aveva influenza negli Stati Uniti, pertanto i processi probabilmente avrebbero portato alla reclusione. Fu proprio la paura dell'estradizione a spingere Escobar e altri soci del Cartello ad investire in 'violenza': la dura lotta per ottenere l'annullamento del trattato di estradizione, incluse omicidi di politici e magistrati, autobombe, e infine sequestri, tutte azioni che avevano l'obiettivo di incutere terrore e indurre il Governo alla resa.

La fine del cartello. Il Cartello perse molto del suo consolidato potere e della sua influenza dopo l'uccisione o la cattura di molti dei suoi individui di punta per mano della Polizia colombiana, in particolar modo del Bloque de búsqueda, un gruppo creato appositamente per arrestare i leader e collaboratori del cartello. Molti dei suoi associati rimasti in libertà e dei vecchi membri sono però ancora attivi sulla scena internazionale della droga.

Operazione "Ossessione": quando i Mancuso ospitavano il narcos di Pablo Escobar, scrive Lunedì, 28 Gennaio 2019, Il Lametino.  Narcos colombiani e ‘ndraghetisti calabresi. Un legame privilegiato e consolidato negli anni che trova riscontro anche dalle carte dell'operazione “Ossessione” coordinata dalla Dda di Catanzaro che ha dimostrato come i vertici dell'organizzazione, dalla Calabria o dal nord Italia, fossero in grado di disporre di canali diretti di approvvigionamento di cocaina dalla Colombia, dal Venezuela e dalla Repubblica Dominicana, oltre che dall'Olanda. Nella rete della Guardia di Finanza insieme ad altre 21 persone è finito anche un narcotrafficante colombiano, Julio Andres Murillo Fugueroa, di 44 anni. Fugueroa, secondo quanto riferito dagli investigatori, veniva ospitato dai calabresi a Milano per pianificare gli arrivi della cocaina dai Paesi dell'America Latina. Il colombiano, secondo l'accusa, in passato ha collaborato con i guerriglieri colombiani e con Pablo Emilio Escobar Gaviria, capo storico del "cartello di Medellin" tra gli anni '80 e '90 del secolo scorso. Circostanza confermata anche da una intercettazione captata dagli investigatori tra i fratelli Salvatore Antonio e Fabio Costantino.

“Costantino Salvatore Antonino: Però ti posso dire una cosa... lui la credibilità in Colombia ce l'ha...

Costantino Fabio: Chi?

Costantino Salvatore Antonino: Lui... in Colombia ce l'ha la credibilità... sicuro... perché questo ha fatto lavori molto grossi... io lo sapevo che era grosso grosso grosso... i soldi li contavano... ora non ci restano tante cose perché è dovuto andare negli Stati Uniti che lo volevano ammazzare… che ha preso un lavoro non so di quanti milioni con i guerriglieri... poi l'ha aggiustato perché lui aveva a che fare con i guerriglieri, con l'ex... Pablo Escobar... lui la casa sua aveva... la casa di Pablo Escobar l'aveva lui”.

Pablo Escobar. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Pablo Emilio Escobar Gaviria (Rionegro, 1º dicembre 1949 – Medellín, 2 dicembre 1993) è stato un criminale colombiano, uno dei più noti e ricchi trafficanti di cocaina e marijuana della storia. Conosciuto come Il Re della cocaina, è considerato come il criminale più ricco in assoluto, con un patrimonio stimato di oltre 40 miliardi di dollari nei primi anni novanta. Nel 1983 ha inoltre avuto una breve carriera politica, venendo eletto alla Camera dei rappresentanti. Pablo Emilio Escobar Gaviria nacque a Rionegro, il terzo di sette figli dell'agricoltore Abel de Jesús Escobar Echeverri e Hermilda Gaviria, un'insegnante di scuola elementare. Da adolescente crebbe per le strade di Medellín. Cominciò la sua carriera criminale commettendo piccoli furti e truffe.

Carriera criminale. Nel 1974 venne arrestato per furto d'auto, in seguito al quale venne trasferito nel carcere di Ladera, dove incontrò un importante contrabbandiere del luogo, Alberto Prieto. Dopo la scarcerazione, Escobar cominciò a lavorare per Prieto e, grazie al contrabbando, venne a conoscenza del nascente business della cocaina[4], nel quale iniziò a diventare protagonista nel 1975. La sua fama crebbe dopo che un narcotrafficante di Medellín, noto come Fabio Restrepo, fu assassinato nel 1975 – apparentemente proprio da Escobar – dopo aver acquistato 14 chilogrammi di droga. In seguito gli uomini di Restrepo furono informati che da quel momento avrebbero lavorato per Escobar. Quando il suo business guadagnò notorietà, Escobar divenne noto a livello internazionale. Corruzione e intimidazione caratterizzavano il sistema colombiano durante l'apogeo di Escobar. Egli praticava un'efficace strategia nota come plata o plomo, in spagnolo letteralmente argento (soldi) o piombo, che consisteva nel proporre una alternativa a chi trovava sulla sua strada: lasciarsi corrompere o morire. Per applicare questa strategia, controllare le operazioni, 'eliminare' gli informatori, gli infiltrati o semplicemente chi potesse intralciare i suoi affari, Escobar si circondò fin dai primi anni di un gruppo di guardie personali, perlopiù giovani provenienti dalle comunas, che avevano il compito di organizzare gli spostamenti del capo, salvaguardare la sicurezza nella sua tenuta Napoles e, soprattutto dalla fine degli anni '80, organizzare omicidi, stragi con autobombe, sequestri.

Il successo. Quando il suo impero raggiunse la massima espansione, la rivista Forbes stimava che egli fosse il settimo uomo più ricco del mondo, controllando l'80% della cocaina del mondo e il 20% delle armi illecitamente circolanti[6]. La sua organizzazione possedeva flotte di aerei, navi, veicoli costosi, così come ricche proprietà e vasti appezzamenti di terreno: le stime indicano che il cartello di Medellín incassasse 30 miliardi di dollari l'anno al suo momento più alto (circa 80 milioni di dollari al giorno). Ciò nonostante, Escobar era considerato un eroe per molti abitanti di Medellín, si trovava a suo agio nelle relazioni con il pubblico e riuscì ad accreditarsi la fama di benefattore dei poveri al fine di ottenere consenso politico. Fanatico degli sport, fece costruire stadi di calcio sponsorizzando squadre locali, ma anche scuole e ospedali, coltivando così la sua immagine anche nella veste di "Robin Hood" distribuendo talvolta denaro ai poveri in cambio di fedeltà. La popolazione di Medellín, infatti, lo aiutava spesso fornendogli coperture, nascondendo informazioni alle autorità, o in ogni altro modo. Pablo Escobar, interessato a essere amato quanto temuto, venne così mitizzato da buona parte della popolazione povera colombiana nonostante le stragi senza precedenti di civili, poliziotti e militari colombiani di cui era responsabile.

La carriera politica. I primi passi di Pablo Escobar nel mondo della politica iniziarono con l'elezione a consigliere comunale di Envigado, nel 1979. Nel 1982 Escobar iniziò ad interessarsi alla politica nazionale, accettando di candidarsi in una lista del Movimento Rivoluzionario Liberale, una formazione che appoggiava la candidatura di Luis Carlos Galán, del partito Nuovo Liberalismo[4]. Tuttavia, a causa dei sospetti legati alla natura truffaldina della fortuna di Escobar, Galán decise di rifiutare pubblicamente l'adesione del Movimento Rivoluzionario Liberale. Nonostante ciò, Escobar venne presentato al politico Alberto Santofimio Botero, leader della formazione politica Alternativa Liberal, del quale il narcotrafficante divenne presto esponente di spicco. Grazie al progetto "Medellín sin Tugurios", un piano per costruire oltre cinquecento abitazioni per famiglie povere, Escobar ottenne una grande popolarità nella propria città natale, tanto da essere definito "un Robin Hood" da una nota rivista colombiana. Al termine di una dura campagna elettorale, Pablo Escobar venne eletto alla Camera dei Rappresentanti, il 14 marzo 1982. La carriera politica di Escobar subì un duro colpo quando il quotidiano El Espectador pubblicò, il 25 agosto di quell'anno, la notizia che il narcotrafficante era stato arrestato nel 1976 per essere stato trovato in possesso di un carico di cocaina. Il 26 ottobre la Camera privò Escobar dell'immunità parlamentare, e il narcotrafficante si dimise il 20 gennaio 1984.

La guerra contro lo Stato e il Cartello di Cali. Pablo Escobar visse come una profonda umiliazione il fallimento della sua carriera politica[4], e si mise in moto per vendicarsi contro quelli che identificava come i responsabili. Il suo primo obiettivo fu il Ministro della giustizia Rodrigo Lara Bonilla, che più di tutti si era battuto alla Camera per denunciare le attività illecite di Escobar, assassinato da dei sicari il 30 aprile 1984. La paura delle ripercussioni causò un esodo di tutti i narcotrafficanti colombiani, che si rifugiarono a Panama, il cui leader, il generale Noriega, aveva una lunga storia di collaborazione con i cartelli del narcotraffico. Nell'estate di quell'anno, elementi dell'M-19 informarono Escobar che alcuni membri del governo sandinista del Nicaragua erano disposti ad accoglierlo. Escobar vi si stabilì con la famiglia e con il socio d'affari José Gonzalo Rodríguez Gacha, con cui cominciò a studiare delle rotte per introdurre cocaina negli Stati Uniti d'America dal suo nuovo avamposto. È in questa occasione che Escobar venne in contatto con il pilota americano Barry Seal, che agiva come informatore per le agenzie americane. In occasione della spedizione di un carico, Seal scattò delle fotografie ad Escobar e Gacha, fornendo una prova inconfutabile delle attività criminali del narcotrafficante. Barry Seal sarebbe stato successivamente assassinato a Baton Rouge il 19 febbraio 1986 da sicari del Cartello di Medellín. Le foto pubblicate dai giornali colpirono non solo Escobar, ma anche il regime sandinista, che si vide costretto a cacciare il narcotrafficante dal Paese, per mettere a tacere le accuse di appoggio a un'organizzazione mafiosa. Il capo del Cartello di Medellín fece dunque ritorno in Colombia. Nel giugno del 1985 Iván Marino Ospina, membro dell'M-19, informò Escobar del piano del gruppo guerrigliero di attaccare e occupare un edificio governativo. La scelta finale cadde sul Palazzo di Giustizia, sede della Corte Suprema, e luogo dove erano custoditi i fascicoli relativi alle indagini su Escobar, che finanziò parte dell'operazione nella speranza di ottenere un vantaggio personale. L'attacco avvenne il 6 novembre, protraendosi per due giorni. Dodici magistrati vennero assassinati e un incendio distrusse completamente le carte relative ai processi e alle estradizioni. Il 12 dicembre 1986, dopo mesi di uccisioni a danni di magistrati, avvocati e giornalisti, la Corte Suprema colombiana annullò il trattato di estradizione con gli Stati Uniti, siglato sette anni prima[15]. La decisione fu duramente contestata dal quotidiano El Espectador, nemico di vecchia data di Escobar, ritenendo che l'annullamento dell'estradizione avrebbe rafforzato il narcotraffico. Deciso a mettere a tacere gli articoli contro di lui, Escobar fece uccidere il direttore del giornale, Guillermo Cano Isaza, che venne assassinato il 17 dicembre. Nonostante l'annullamento dell'estradizione, la persecuzione dei nemici di Escobar non terminò. Il 13 gennaio 1987, l'ambasciatore colombiano in Ungheria venne raggiunto dai colpi di pistola di un sicario di Escobar. Il 13 gennaio 1988, un'autobomba esplose davanti all'edificio Monaco, una delle abitazioni di Escobar, uccidendo due persone. L'ordigno era stato piazzato da uomini del Cartello di Cali. Il narcotrafficante non si trovava in casa, ma nell'esplosione rimasero coinvolti la moglie e i figli[4]. Esistono due versioni del perché iniziò la guerra tra le due più grandi organizzazioni mafiose colombiane. Secondo la prima, Escobar avrebbe provato del risentimento per il mancato appoggio materiale del cartello di Cali alla sua strategia stragista. La seconda ipotesi è che Escobar avesse chiesto la consegna di un uomo di Hélmer Herrera Buitrago, uno dei boss del cartello di Cali, che aveva avuto una relazione con Jorge "El Negro" Pabón, un amico di vecchia data di Escobar che in quei giorni viveva all'edificio Monaco. Herrera si sarebbe rifiutato, decidendo di colpire per primo il nuovo nemico. Qualunque fosse il motivo alla base dell'azione, la bomba segnò l'inizio del sanguinoso conflitto tra i due cartelli.

Gli anni novanta e la caduta. Nel 1991 Escobar si consegnò spontaneamente alle autorità colombiane per evitare l'estradizione negli Stati Uniti, consapevole che non avrebbe potuto avere la stessa influenza che ebbe in Colombia. Il processo con cui Pablo Escobar giunse ad un accordo con il governo della Colombia che evitasse l'estradizione è stato raccontato da Gabriel García Márquez nel suo libro Notizia di un sequestro. In questo libro si spiega come Pablo Escobar avesse ordinato una serie di sequestri di giornalisti colombiani molto importanti per forzare la mano al governo colombiano affinché accettasse di non estradarlo negli Stati Uniti. Tra i sequestrati c'erano Diana Turbay, Maruja Pachón e Beatriz Villamizar (rispettivamente moglie e sorella di Alberto Villamizar che avrebbe avuto un ruolo determinante nel finalizzare l'accordo tra governo e Pablo Escobar), Pacho Santos e Marina Montoya. Escobar fu rinchiuso nella sua prigione privata di lusso, La Catedral, che gli fu permesso di costruire come ricompensa per essersi costituito. Aveva infatti negoziato un accordo con il governo colombiano che prevedeva 5 anni di confinamento obbligatorio nella sua prigione in cambio di non essere estradato. Il premio Nobel Gabriel García Márquez scrive nel suo libro che quando Pablo Escobar vi entrò, questa avesse davvero l'aspetto di una prigione, ma che in meno di un anno sia stata trasformata da Escobar in una lussuosa fortezza. Ciò provocò uno scandalo tanto che il governo colombiano si decise a trasferire Escobar in un'altra prigione. Inoltre, Escobar mostrava ben poco rispetto per l'accordo, essendo stato visto più volte al di fuori per assistere a partite di calcio, fare compere a Medellín, frequentare feste e altri luoghi pubblici. Lui stesso invitò la nazionale di calcio colombiana a giocare una partita nel campetto adiacente la sua prigione. In seguito il portiere Higuita saltò il Campionato del mondo del 1994 poiché riconosciuto colpevole di favoreggiamento della prostituzione. Un articolo apparve sulla stampa locale, mostrando foto della cella piena di ogni comfort, e rivelando che Escobar aveva fatto uccidere molti suoi soci in affari che erano andati a trovarlo a La Catedral. Il 22 luglio 1992 il governo decise di spostare Escobar in una prigione più convenzionale, ma i suoi contatti gli permisero di conoscere gli intenti del governo e di evadere al momento giusto da La Catedral. Nello stesso anno il reparto speciale dell'esercito statunitense Delta Force (e poi anche quello della marina dei Navy SEAL) furono dispiegati per la sua cattura. Con l'acuirsi del conflitto crebbe il numero dei suoi nemici e un gruppo conosciuto come Los Pepes, che riuniva i perseguitati da Pablo Escobar e dai suoi complici, cominciò una sanguinosa campagna nella quale più di trecento tra collaboratori e parenti di Escobar vennero uccisi e gran parte delle loro proprietà distrutte. Alcuni osservatori[chi?] affermano che i membri del Bloque de Búsqueda e delle intelligence statunitensi e colombiane, nei loro sforzi per punire Escobar, fossero collusi con Los Pepes o comunque coordinassero le attività del Bloque de Búsqueda e dei Los Pepes. Questo coordinamento sarebbe stato raggiunto tramite la condivisione delle informazioni di intelligence, per permettere ai Los Pepes di smontare la montagna organizzativa che proteggeva Escobar e i suoi pochi alleati rimasti. Tutto ciò porta a discutere circa il ruolo che gli Stati Uniti d'America hanno giocato nel raccogliere informazioni di intelligence, poiché parte di queste informazioni furono poi utilizzate dai Los Pepes nelle loro azioni di giustizia sommaria. A ogni modo, la guerra contro Escobar terminò il 2 dicembre 1993, quando una squadra colombiana di sorveglianza elettronica, il Bloque de búsqueda, utilizzando la tecnologia della triangolazione radio fornita dagli Stati Uniti, lo localizzò in un quartiere borghese di Medellín. Con l'avvicinarsi delle autorità, ne seguì uno scontro a fuoco con Escobar e la sua guardia del corpo, Alvaro de Jesús Agudelo (a.k.a. "El Limón"). I due malviventi tentarono di fuggire correndo attraverso i tetti delle case adiacenti per raggiungere una strada secondaria, ma entrambi furono uccisi dalla polizia nazionale colombiana. Escobar subì colpi di arma da fuoco alla gamba e al busto e un colpo di arma da fuoco mortale attraverso l'orecchio (i parenti sostengono si sia suicidato con il colpo alla testa). Dopo la morte del suo leader, il cartello di Medellín si frammentò e il mercato della cocaina presto venne dominato dal cartello di Cali fino alla metà degli anni novanta, quando anche i leader di quest'ultimo furono uccisi o catturati. Nell'ottobre del 2006 morì la madre Hermilda Gaviria. Il 28 ottobre 2006 le autorità ne approfittarono per esumare il cadavere di Escobar, alla presenza e con il consenso della vedova María Victoria, per un test sul DNA volto a confermare la reale identità della salma. Vi furono delle voci che la riesumazione fosse servita anche a dirimere la presunta paternità di un figlio illegittimo, smentite dai familiari. Il 22 febbraio 2019, alla presenza del sindaco di Medellin e dei parenti delle vittime di Escobar, è stata demolita la leggendaria residenza e simbolo della ricchezza del capo del cartello di Medellin. Il palazzo “Monaco” di otto piani, che un tempo ospitava sulle sue pareti dipinti di artisti famosi e veicoli di lusso nel suo parcheggio, è stato fatto crollare con una carica controllata di 200 chilogrammi di esplosivo. Nel luogo in cui sorgeva l'edificio, sarà realizzato un parco chiamato "Inflexión" che ospiterà una scultura e una lapide in omaggio alle 46.612 vittime della guerra del narcotraffico nella città.

Pablo Escobar, tutto sul re della cocaina colombiano, scrive Rosanna Donato il 23 marzo 2018 su mondofox.it. Un uomo spietato. Un assassino. Un narcotrafficante. Questo è stato Pablo Escobar, il capo del cartello di Medellin. Scopri tutto sul re della cocaina colombiano. Un uomo spietato, senza scrupoli e disposto a tutto pur di ottenere ciò che voleva. È stato questo Pablo Escobar, registrato all’anagrafe come Pablo Emilio Escobar Gaviria, che - oltre ad essere stato un politico - fu il più noto trafficante di cocaina della Colombia. Non a caso venne soprannominato Il Re della cocaina colombiano. Sei pronto a scoprire tutto sul più potente e ricco criminale sudamericano? Bene, cominciamo.

Pablo Escobar: biografia. Escobar nacque a Rionegro l’1 dicembre 1949 e ben presto divenne il trafficante di droga più ricco della storia. Il suo patrimonio stimato, infatti, superò i 30 miliardi di dollari già nei primi anni '90. Il criminale fu il terzo di sette figli nati dalla relazione tra l'agricoltore Abel de Jesús Escobar Echeverri e la maestra delle elementari Hermilda Gaviria. Cresciuto per le strade di Medellín, Pablo iniziò presto la sua carriera criminale, accompagnando le sue giornate con piccoli furti e truffe e collaborando con i contrabbandieri (inizialmente di elettrodomestici). Un furto d’auto lo portò a farsi arrestare dalla polizia nel 1974. Dopo il trasferimento nel carcere di La Ladera dove incontrò il famoso contrabbandiere Antonio Prieto, Pablo Escobar incominciò a lavorare per quest’ultimo dopo la sua scarcerazione. Nel 1975 iniziò la sua scalata al potere nel settore del contrabbando della cocaina, la droga che proprio in quel momento stava prendendo piede a livello mondiale. Con la morte di Fabio Restrepo, noto spacciatore locale di Medellín che venne assassinato dal signore della droga, Escobar prese il comando. Gli uomini di Restrepo dovettero sottostare a lui soltanto. In poco tempo Escobar divenne conosciuto a livello internazionale: il Cartello di Medellín controllava gran parte della droga che entrava negli Stati Uniti, Messico, Porto Rico, Venezuela, Repubblica Dominicana e Spagna. Ma il vero scopo di Pablo era quello di sostituire lo stato colombiano, creando uno stato a sé: quello dei Narcos. Il noto trafficante di droga non mancò di corrompere ufficiali governativi, giudici e altri politici per raggiungere il suo obiettivo, uccidendo inoltre chi non era disposto a collaborare con lui. La strategia di Escobar per ottenere il sostegno delle personalità più influenti e dei suoi uomini venne chiamata "plata o plomo" ("soldi o piombo") e consisteva nel proporre sempre una alternativa a coloro che incontravano la sua strada: lasciarsi corrompere o morire. Pablo Escobar non fu solo un criminale. La politica iniziò ad avere un ruolo centrale nella sua vita sin dal 1982, quando si candidò in una lista del Movimento Rivoluzionario Liberale il cui leader era Luis Carlos Galán. Quest’ultimo però rifiutò l’adesione al partito di Escobar per via della sua fortuna, conquistata in maniera illegale. Eppure Pablo Escobar riuscì a farsi un nome anche in campo politico, grazie ad Alberto Santofimio Botero, leader della formazione politica Alternativa Liberale. Ormai esponente di spicco del partito, Escobar mise in atto un piano chiamato “Medellín sin Tugurios”, che prevedeva la costruzione di case per le famiglie più povere. Sarebbero state oltre cinquecento le abitazione che presto avrebbero dato un tetto sotto la testa ai più disagiati. In seguito alla sua campagna elettorale, il 14 marzo 1982 Pablo venne eletto alla Camera dei Rappresentanti. Ma qualcosa andò storto: il 25 agosto del 1982 il quotidiano El Espectador rese pubblica la notizia dell’arresto di Escobar nel 1976 per possesso di un carico di cocaina e ciò gli provocò la revoca dell’immunità parlamentare, fatto che lo portò a presentare le dimissioni. Pablo Escobar si vendicò di tutti coloro che non lo appoggiarono, a partire dal Ministro della giustizia Rodrigo Lara Bonilla. I narcotrafficanti colombiani si rifugiarono a Panama per paura delle ripercussioni. Nell’estate del 1984 Escobar e la sua famiglia, insieme al suo socio in affari José Gonzalo Rodríguez Gacha, si trasferirono in Nicaragua grazie all’ospitalità di alcuni membri del governo sandinista. A Nicaragua Escobar e il suo socio iniziarono a progettare il modo per introdurre la cocaina negli Stati Uniti d’America dal loro nuovo quartier generale. In questa circostanza Escobar conobbe il pilota americano Barry Seal, anche informatore delle agenzie americane. Durante la spedizione di un carico, però, Seal scattò delle fotografie a Escobar e Gacha e così facendo fornì le prove delle attività illegali dei due. Ancora non sapeva che presto (19 febbraio 1986) sarebbe stato assassinato a Baton Rouge, in Louisiana, dai sicari del Cartello di Medellín. In seguito il re della droga tornò in Colombia. Il 6 novembre 1985 Escobar venne a sapere di un possibile attentato al Palazzo di Giustizia, sede della Corte Suprema. In questo luogo erano custoditi i fascicoli relativi alle indagini sulla sua persona e per questo Pablo decise di finanziare l’attacco, così da ottenere vantaggi per sé stesso. Il bagno di sangue che ne seguì colpì la Colombia così tanto che la Corte Suprema del paese decise di annullare il trattato d'estradizione esistente con gli Stati Uniti. Ancora una volta il quotidiano El Espectador contestò la scelta della Corte Suprema e allora Escobar fece assassinare il direttore del giornale, Guillermo Cano Isaza. Il 13 gennaio 1988 gli uomini del Cartello di Cali fecero scoppiare un'autobomba davanti alla casa di Escobar, provocando la morte di due persone. Così ebbe inizio la guerra tra le due più grandi organizzazioni criminali colombiane. Dopo essersi consegnato alle autorità colombiane nel 1991 per evitare l’estradizione, Escobar dovette sostenere un processo che si concluse con la carcerazione effettiva nella prigione privata La Catedral, che lo stesso narcotrafficante costruì. Un accordo con il governo infatti prevedeva 5 anni di confinamento obbligatorio nella sua prigione e il pagamento del debito estero colombiano in cambio della non estradizione. Il 22 luglio 1992 il governo decise di trasferire Escobar in una prigione meno lussuosa, soprattutto per via delle sue uscite dal carcere ingiustificate per assistere a partite di calcio, fare compere a Medellín, frequentare feste e altri luoghi pubblici.

Pablo Escobar: la morte. Escobar riuscì ad evadere dalla prigione prima che il trasferimento fosse messo in atto. Delta Force e Navy SEAL iniziarono una vera e propria caccia all’uomo che si concluse il 2 dicembre 1993: una squadra colombiana di sorveglianza elettronica, utilizzando la triangolazione radio fornita dagli Stati Uniti, lo localizzò in un quartiere di Medellín. In questa occasione Escobar e la sua guardia del corpo, Alvaro de Jesús Agudelo ("El Limón”), tentarono di fuggire sui tetti, ma vennero entrambi uccisi dalla polizia colombiana. Pablo morì a causa di alcuni colpi di arma da fuoco alla gamba e al busto. Ma il colpo mortale fu quello che gli attraversò l’orecchio. Stando ad alcune rivelazioni raccontate dal figlio Juan, in realtà Pablo si sarebbe suicidato con un colpo in testa in quanto ormai braccato dalle autorità. Circa 25mila persone parteciparono alla sua sepoltura, tra cui la maggior parte dei poveri di Medellin che da lui furono ampiamente aiutati. La sua tomba venne posta al Cimitero Jardins Montesacro di Itagui. Nell'ottobre del 2006, quando morì la madre Hermilda Gaviria, le autorità ne approfittarono per esumare il cadavere di Escobar e fare un test sul DNA volto a confermare la reale identità della salma.

L'eredità di Pablo Escobar: i nuovi signori della droga. Dopo la morte di Pablo Escobar, il cartello di Medellín perse il dominio sul narcotraffico. A conquistare il mercato della cocaina fu il Cartello di Cali, che mantenne il potere fino alla metà degli anni '90, quando vennero assassinati o imprigionati i suoi leader. Ai tempi il cartello di Cali, fondato dai fratelli Gilberto Rodríguez e Miguel Rodríguez, insieme a "Chepe" Londoño e "Pacho" Herrera agli inizi degli anni ’70, controllava l'80% delle esportazioni di cocaina dalla Colombia verso gli Stati Uniti. Da sempre in lotta contro il cartello di Medellín, il cartello di Cali si avvalse del sostegno dei Los Pepes (acronimo di Popolo Perseguitato da Pablo Escobar), i quali avevano come unico obiettivo quello di uccidere Escobar. Con l'inasprimento delle leggi colombiane contro i narcotrafficanti e la nascita di nuovi cartelli sempre più imponenti, come quello di Norte del Valle, il cartello di Cali si frammentò perdendo così la sua supremazia.

La famiglia di Pablo Escobar: moglie, figli e fratelli. Moglie, amanti e figli di Escobar. Pablo Escobar sposò Maria Victoria Henao nel marzo 1976. Maria nacque nel 1961 in Colombia. Fu il fratello maggiore di quest’ultima, che lavorò con Pablo durante i primi anni, a presentarle il re della droga. La famiglia di lei, però, non vedeva di buon occhio questa unione per via del basso status sociale di Pablo. Successivamente Escobar intraprese una relazione con la giornalista Virginia Vallejo. Maria sapeva tutto di questa storia e anche delle altre amanti di Pablo ma non lo abbandonò mai. La coppia ebbe due figli: Juan Pablo Escobar Henao e Manuela. Quest’ultima era la figlia prediletta dal re della cocaina, tanto che lui soddisfava ogni sua richiesta. In seguito alla morte del padre, Manuela e la sua famiglia fuggirono dalla Colombia a causa delle rappresaglie contro di loro. Dopo aver vissuto in Ecuador, Sud Africa e Perù, si trasferirono in Argentina. Manuela decise di cambiare il suo nome in Juana Manuela Marroquin Santos e da allora ha quasi condotto una vita tranquilla e privata lontano dalle luci della ribalta. Juan Pablo Escobar invece nacque il 24 febbraio 1977. Oltre ad aver cambiato il suo nome in Sebastián Marroquín, è oggi un architetto e scrittore.

I fratelli di Pablo Escobar. Pablo Escobar fu il terzo di sette figli, tutti nati dall’unione tra l'agricoltore Abel de Jesús Escobar Echeverri e la maestra delle elementari Hermilda Gaviria. Roberto de Jesús Escobar Gaviria è uno dei fratelli di Pablo, ex contabile del Cartello di Medellín, responsabile dell'80% della cocaina contrabbandata negli Stati Uniti. Insieme a Roberto, completano la famiglia i fratelli Luis Fernando Escobar, Alba Marina Escobar, Luz María Escobar, Argemiro Escobar, e Gloria Inés Escobar.

Pablo Escobar: il patrimonio e i soldi scomparsi. All’apice della sua carriera criminale, secondo la rivista Forbes, Escobar era il settimo uomo più ricco del mondo e controllava l'80% della cocaina del mondo e il 20% delle armi illegali in circolazione. La sua organizzazione possedeva flotte di aerei, navi, veicoli costosi, ricche proprietà e vasti appezzamenti di terreno. Il cartello di Medellín incassava oltre 30 miliardi di dollari l’anno (si parla di circa 60 milioni di dollari al giorno). Eppure una parte dei soldi di Pablo Escobar scomparve nel nulla. Come è possibile? Nonostante le ricerche delle autorità e quelle effettuate da due agenti subacquei che lavoravano per la CIA, Doug Laux e Ben Smith, per un documentario targato Discovery Channel, nessun tesoro è mai stato trovato. Pare che di questi soldi un miliardo all’anno venisse perso a causa dei topi e dell’umidità che danneggiavano le banconote. Secondo The Sun, però, mancherebbero all’appello ben 50 miliardi di dollari. Che fine avrà fatto il denaro?

Serie TV, film e libri ispirati alla vita di Pablo Escobar.

Pablo Escobar. Il padrone del male. Di recente il figlio di Pablo Escobar, Juan Pablo Escobar, ha scritto un libro in cui ha raccontato tutti i retroscena riguardanti la vita del padre: Mio padre seguiva la mafia italiana e prestava attenzione soprattutto alla storia di Totò Riina. Non so se lo ammirava ma lo imitava. Apprese alcuni suoi metodi per fare guerra allo Stato, anche se non hai mai avuto relazioni con la mafia italiana. Si è ucciso da solo. I periti me l’hanno confermato. Furono minacciati per non scrivere la verità sui documenti ufficiali perché le autorità volevano una verità diversa per la fine di questa storia. Ci sono registrazioni telefoniche di mio padre che, parlando di quando le autorità l’avrebbero intercettato, dice che si sarebbe ucciso di fronte a loro. Lo avevano portato di fronte alla decisione di morire lui o di veder uccidere tutta la sua famiglia. Questo ha rivelato Juan Pablo Escobar nel libro Pablo Escobar. Il padrone del male.

Narcos. Se tra i libri più letti sul re della Cocaina c’è Pablo Escobar. Il padrone del male, tra le serie TV più seguite degli ultimi tempi troviamo Narcos. Il noto narcotrafficante è il protagonista delle prime due stagioni del progetto, nato nel 2015 e prodotto da Netflix. La serie TV racconta la storia vera della diffusione di cocaina tra Stati Uniti ed Europa negli anni ’80, che avvenne grazie al cartello di Medellín. Due agenti della DEA vengono incaricati di guidare una missione per catturare e uccidere Pablo Escobar, interpretato dall'attore brasiliano Wagner Moura.

Pablo Escobar: el patrón del mal. Nel maggio 2012 è stata trasmessa su Caracol TV la serie TV Pablo Escobar: el patrón del mal, che ha battuto ogni record d’ascolto in Colombia. Attualmente la serie TV è disponibile su Netflix.

The Infiltrator. Tra i film che parlano o citano Pablo Escobar è presente The Infiltrator(2016), ispirato alla vera storia di Robert Mazur, agente speciale dello U.S. Customs Service che negli anni '80 si infiltrò nell'organizzazione di Escobar per smascherare il sistema di riciclaggio del denaro usato dal criminale. L'agente federale Mazur lavora sotto copertura per infiltrarsi nel traffico di droga di Pablo Escobar. Insieme al collega Emir Abreu e all'agente inesperta Kathy Ertz, Mazur riesce a stringere amicizia con Roberto Alcaino, uomo di fiducia di Escobar. Mazur rischierà la sua stessa vita per portare all'accusa 85 personalità coinvolte nel traffico della droga. Saranno accusati anche numerosi banchieri corrotti che hanno gestito un vasto impero internazionale grazie al riciclaggio di denaro sporco.

Blow. Altro film che vede tra i suoi personaggi Pablo Escobar è Blow (2001), diretto da Ted Demme. La storia è basata su un romanzo di Bruce Porter su George Jung e vede come protagonista un trafficante di droga legato al cartello di Medellín, attivo negli anni '70 e '80. Ad interpretare il personaggio principale è Johnny Depp (George Jung), mentre il ruolo di Escobar è affidato a Cliff Curtis.

Escobar: Paradise Lost. Nel 2014 Pablo Escobar è stato interpretato da Benicio del Toro nel film Escobar: Paradise Lost, la cui trama è incentrata sul giovane canadese Nick. Quest’ultimo pensa di aver trovato il paradiso quando raggiunge il fratello in Colombia. Una laguna turchese, una spiaggia d'avorio, onde perfette - è un sogno per questo giovane surfista canadese. Durante il suo soggiorno in Colombia incontra Maria, una splendida ragazza colombiana. I due si innamorano follemente e tutto va benissimo fino a quando Maria presenta Nick a suo zio: Pablo Escobar.

Escobar - Il fascino del male. Il 19 aprile 218 arriverà sul grande schermo la pellicola Escobar - Il fascino del male, che vede tra i suoi interpreti principali Javier Bardem e Penélope Cruz. Il primo veste i panni del noto trafficante di droga, mentre la Cruz ricopre il ruolo di Virginia Vallejo, l’amante di Pablo. Il film, il cui titolo originale è Loving Pablo, è stato presentato alla 74a Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.

Le citazioni e le frasi più famose di Pablo Escobar. Tra le migliori citazioni e frasi di Pablo Escobar ne troviamo alcune che denotano una certa sicurezza in sé stesso del signore della droga, parecchia logica da strada e una particolare convinzione in ciò che dice e pensa: se dice una cosa, la fa. Senza curarsi delle conseguenze. Ecco una selezione delle sue massime più celebri.

A volte io sono Dio. Se dico che un uomo muore, muore quello stesso giorno.

Ci sono duecento milioni di idioti, manipolati da un milione di uomini intelligenti.

Solo chi ha sofferto la fame con me e mi è stato vicino quando ho attraversato un brutto momento a un certo punto della vita, può mangiare alla mia tavola.

Se devi fare una cosa non lo dire. Falla e basta.

La tua vita è il risultato delle tue azioni, non delle intenzioni.

Ti osservano, ti criticano, ti invidiano e alla fine ti imitano.

Insomma, non si può certo dire che Pablo Escobar, il Re della cocaina colombiano, fosse un uomo da imitare. Anzi, la sua storia è la dimostrazione di quanto il desiderio di raggiungere i propri obiettivi possa essere più forte di qualsiasi legge morale. 

Pablo Escobar e il cartello di Medellìn raccontati dall’ex trafficante di droga George Jung. Intervista esclusiva al narcotrafficante americano di Pablo Escobar: storia e personaggi del cartello di Medellin raccontati da chi ne ha fatto parte, scrive Marco Romandini il 30 settembre 2016 su wired.it. La storia del narcotraffico colombiano è ancora piuttosto intricata e densa di dubbi per essere riportata fedelmente. Permangono incertezze sia sulle dinamiche che sul peso specifico delle diverse figure all’interno dell’organizzazione. Nonostante la leggenda, i racconti e un’ottima serie televisiva come Narcos incoronino Pablo Escobar come il boss del cartello di Medellìn, altri astri ruotavano molto più silenziosamente attorno al bianco sole colombiano. Il maggiore dei fratelli Ochoa, Jorge, possedeva per esempio quello status sociale a cui El machico aveva sempre puntato ma mai ottenuto veramente. Stimato proprietario di cavalli di razza e personaggio influente nell’alta società, ha sempre amato tenere un basso profilo come narcotrafficante. Ma per molti era lui, politicamente, il pezzo grosso del cartello. Tra gli uomini più votati all’azione c’era invece Josè Gonzalo Rodriguez Gacha, detto El Mexicano, che le cronache raccontano persino più spietato di Escobar. Prima di legarsi al cartello trafficava in smeraldi. Fu ucciso dalla polizia colombiana (qualcuno sospetta con l’aiuto degli americani) nel 1989. L’altro boss di Medellìn – insieme a figure più nascoste e mai balzate alla cronaca – era il cavallo pazzo Carlos Lehder – omosessuale, con una passione per i Beatles e Adolf Hitler – attualmente ancora in prigione dopo una sentenza di 135 anni ridotta a 55 per aver testimoniato contro l’ex dittatore di Panama Manuel Noriega. Così lo ricorda lo scrittore Gabriel Garcia Marquez nel suo libro A ruota libera: “Gestiva discoteche per giovani senza badare alle perdite, eresse una statua a John Lennon nella città di Armenia, pubblicava un giornale di estrema destra nazionalista stampato con inchiostro verde in omaggio all’erba da fumare, e si presentava con la sua scorta di pistoleri alle riunioni del Congresso, sbellicandosi dalle risa e appoggiando i piedi sulla ringhiera”. Lehder, forse più tollerato che amato all’interno dell’organizzazione, ebbe un ruolo chiave nella storia del cartello. Prima della sua entrata in scena, i colombiani gestivano il traffico in modo ancora grezzo, esportando piccoli quantitativi con numerosi viaggi. Fu lui a rivoluzionare il commerciograzie all’utilizzo di aeroplani dedicati e a una nuova strategia. Idee che aveva avuto in prigione, precisamente all’Istituto correzionale di Danbury. A dargliele era stato il suo compagno di cella, un trafficante di marijuana che prima di finire al fresco era arrivato a guadagnare con i suoi soci un milione e mezzo di dollari odierni al mese. Come? Trasportando da Puerto Vallarta, in Messico, 300 chili di erba a bordo di uno Cherokee 6; la comprava a 20 dollari al chilo e la rivendeva a 15 volte tanto negli Stati Uniti. La pacchia era finita al Playboy Club di Chicago, dov’era stato arrestato con il suo carico. In tribunale aveva anche provato a giustificarsi, dicendo che era assurdo mandare in galera un uomo solo per aver attraversato una linea immaginaria con un sacco di piante, ma per sua sfortuna il giudice la vedeva in modo molto più pragmatico. Capelli rossicci e un passato da hippie nella California degli anni ’60, l’uomo era conosciuto nel giro come Boston George o El americano. Il suo vero nome è George Jung ed è diventato famoso al grande pubblico dopo essere stato impersonato da Johnny Depp nel film Blow di Ted Demme. Nella serie televisiva Narcos ha probabilmente ispirato agli sceneggiatori il personaggio di The Lion, interpretato da Jon-Michal Ecker, il ragazzo che si vede in qualche apparizione proprio accanto a Lehder. Quell’incontro in prigione tra i due, che fu fondamentale per gli sviluppi del cartello, non avvenne per caso. Almeno stando alla visione metafisica di George, a cui abbiamo chiesto di spiegare i dettagli delle operazioni. “La definirei serendipità – racconta -, furono gli dei del caos a metterci nella stessa cella. Avevamo gli stessi obiettivi e tutto il tempo per parlarne. Non eravamo molto organizzati, diciamo che eravamo un’organizzazione disorganizzata, ma la rete grosso modo c’era già. Avevo semplicemente pensato che sostituendo il carico di marijuana con quello di coca, potevamo trasportarne di più e guadagnare cento volte tanto. Carlos ne parlò con Escobar e all’inizio facemmo una prova alla vecchia maniera colombiana, con piccoli quantitativi. Avevo cinque valigie contenenti ognuna due chili di coca. Nulla rispetto ai programmi per il futuro, ma era comunque un inizio: quei dieci chili avrebbero fruttato oltre un milione e mezzo di dollarinegli Stati Uniti. Con un po’ di fortuna la merce sarebbe arrivata per il giorno del Ringraziamento e le vacanze di Natale… proprio un bel Bianco Natale!”. Tutto, racconta, andò come previsto. “Ci vollero quattro giorni d’auto per arrivare a Caracas, dove mi aspettava la mia socia Louise. Le diedi le valigie mettendomi d’accordo che ci saremmo visti a casa mia a Cape Cod. Non ebbe problemi con la dogana negli Stati Uniti, le valigie erano ben costruite con cellule in fibra di vetro e piene di vestiti di ogni genere, insieme ai soliti regali da turisti. Louise era abbronzata e aveva pure una racchetta da tennis in mano per dare l’impressione della brava ragazza americana. Ci incontrammo tre giorni prima del giorno del Ringraziamento del 1976, poi da lì iniziai a immettere la coca nel mercato”. Ecco come. “Due settimane prima di Natale noleggiai un Learjet a Los Angeles e presi due prostitute a Park Avenue per premiarmi. Volevano far parte del Mile High Club Otto e fui contento di realizzare le loro fantasie. Poi andai a trovare il mio contatto in California. Arrivai nella sua casa sulla spiaggia e gli diedi il regalo di Natale: mezzo chilo di coca e le due ragazze. Mi disse che aveva già preso accordi per una rete di distribuzione nella zona sud della California e che l’avrebbe venduta a più di cinquantamila dollari al chilo. La coca diventò di moda. “La gente di Hollywood era pronta a prendere tutto ciò che potevamo vendergli, facendoci così una bella pubblicità. Seguendo il loro esempio, i ricchi rampolli incominciarono a portarsela dietro. Tutti dicevano: “Cazzo, hai provato la cocaina?”. Stava diventando la cosa da fare e anche le donne iniziavano ad amarla. Un ragazzo che non avesse provato la coca, ai loro occhi era come se non avesse mai scopato. Tutti erano alla ricerca di coca e noi dovevamo soddisfare le loro esigenze. Avevamo una missione”. La missione ha successo. La domanda aumenta e i traffici si susseguono senza sosta, perché la materia prima non scarseggia mai. Il rifornimento dalla Colombia è infatti assicurato da El machico, il boss, Pablo Escobar. “Pablo aveva otto anni meno di me – racconta Jung – ventotto, circa la stessa età di Carlos, ma era già molto potente. Una volta andammo in montagna, alla periferia di Medellìn, a bordo di un piccolo piper. Quando atterrammo sulla pista trovammo quindici poliziotti ad aspettarci. L’aereo era circondato. Io ero nel panico, lui invece uscì con calma, parlò col comandante e mi fece segno di scendere. Erano tutti d’accordo. Pablo si vantava di pagare funzionari pubblici e polizia per proteggere i suoi traffici. È come nel poker, paghi uno stake alto per giocare forte”. Plata o plomo. Escobar poteva scegliere di usare i soldi ma anche la forza, senza farsi troppi problemi a uccidere. “Un pomeriggio – continua George Jung – le sue guardie si presentarono con un tizio di mezz’età e di corporatura robusta con le mani legate dietro la schiena. Lo fecero inginocchiare e lui piangeva e chiedeva pietà. Pablo lo guardò e mi disse ‘scusa un attimo‘, si avvicinò al poveraccio, prese la 45 e gli fece schizzare il cervello. Poi tornò da me e mi chiese cosa volessi per cena”. Escobar amava quelle dimostrazioni di potere, dice George, che se da una parte non poteva stare tranquillo, dall’altra sapeva che il loro era soltanto un rapporto d’affari. “Certo, avevo paura. Ho avuto paura in tutta la mia vita, ero un drogato della paura, ma la paura mi guidava e non mi terrorizzava. In quel momento Pablo era solo un imprenditore con un prodotto e io avevo qualcosa di cui lui aveva bisogno. Quando gli parlai del Messico, volle sapere del mio traffico d’erba. Non era mai stato là e aveva anche poca conoscenza del contrabbando. Era un ex ladro di macchine che ora era seduto sopra una miniera d’oro di cocaina, ma aveva bisogno di qualcuno per spostarla da lì. Chi meglio di me?”. Diventando il protégé di Escobar, il suo uomo in America, inizia la bella vita tra party, donne e strisce. Poi una parola di troppo, anzi due, nome e cognome del suo contatto fatti a Carlos – Richard Barile – e viene estromesso dal giro: “Cesare si trovava sui gradini del Senato romano e fu pugnalato dal suo migliore amico, un paio di migliaia di anni più tardi è toccato a me. Ma non ho più rancore per com’è andata, ci siamo seduti tutti a un tavolo e abbiamo deciso di giocare la nostra partita”. A peggiorare i rapporti tra i due ex amici, l’arrivo sulla scena di Robert Vesco, un latitante fuggito con più di duecento milioni di dollari da una società privata, che ne aveva donati duecentomila illegalmente per la rielezione di Nixon nel 1972. Un personaggio ambiguo, scaltro, potente e pericoloso. “Sembrava un hippie – dice George –, quando lo vidi la prima volta aveva la barba lunga e una quarantina di chili in più, jeans e felpa. Invece era un genio del crimine e della finanza. Mise in testa a Carlos l’idea di Norman’s Cay nelle Bahamas come base dei traffici e da lì tutto precipitò, il nostro rapporto e la nostra carriera”. Nel suo libro I re del mondo, Don Winslow scrive che c’è una differenza sostanziale tra il narcotraffico di marijuana e quello di cocaina, perché l’erba inibisce l’ambizione, mentre la coca la alimenta al massimo, facendoti volere sempre di più e rendendoti paranoico verso i tuoi stessi collaboratori. Usando una frase da surfisti, si potrebbe dire che “con la coca non si condivide la stessa onda”. Così chiedo a George, che ha esperienza in entrambi i mercati, cosa ne pensa. “È proprio quello che è successo – risponde -, tutto si è evoluto in qualcosa che è andato oltre la logica, un sacco di persone sono rimaste ferite e molte altre sono andate in prigione. La ragione non faceva più parte del nostro teatro shakespeariano”. Carlos Toro, un pilota degli aerei, definirà il feudo di privato di Lehder, l’isola di Norman’s Cay, una specie di Sodoma e Gomorra, dove le donne giravano nude e avevi a disposizione droga a volontà. Un Eden privato in cui transitavano 300 chili di cocaina ogni ora. Quando arrivarono sull’isola i federali, il cartello di Escobar e dei fratelli Ochoa era diventato una potenza economica e politica grazie anche ai rapporti con l’estero. “Avevano stretto amicizie e accordi con Castro a Cuba, Noriega a Panama, Ortega in Nicaragua – spiega George – e i soldi venivano riciclati attraverso le banche panamensi. Tra il 1979 e il 1983 l’affare fruttò a Noriega circa 350 milioni di dollari. Il denaro che arrivava era talmente tanto che non veniva più contato ma pesato, ed Escobar e Ochoa erano talmente ricchi che si offrirono di pagare il debito pubblico della Colombia se il governo avesse rinunciato al trattato di estradizione”. Il trattato con gli Stati Uniti era l’unica preoccupazione del cartello, che perseguitò i suoi sostenitori eliminando poliziotti, giudici, giornalisti, e il ministro degli Interni Rodrigo Lara Bonilla. Una prova di forza che ebbe alla fine effetto contrario e convinse il presidente Belisario Betancur a firmarlo. Lehder fu arrestato e condannato a 113 anni di prigione (decisiva la testimonianza finale di Jung), mentre Escobar si consegnò spontaneamente (qualcuno dice su suggerimento di Jorge Ochoa) per evitare l’estradizione, e passò il tempo entrando e uscendo dalla prigione dorata La Catedral prima di venire ucciso. La parola fine alla storia di George, ormai fuori dal giro e senza un centesimo, arrivò invece nel 1994, quando nel tentativo di fare l’ultimo traffico si affidò a un suo ex pilota che nel frattempo era diventato un collaboratore della polizia. “L’operazione era sponsorizzata dalla Dea – racconta – appena il carico arrivò a destinazione, fui arrestato”. A comandare il commercio oggi ci sono molti più messicani, ed è un mondo completamente diverso secondo lui. “Il narcotraffico è cambiato diventando molto più mostruoso. Quando facevamo i traffici noi c’erano pochi messicani nel giro, ma poi sempre più persone hanno voluto farne parte e, come succede in tutte le cose, la quantità ha vinto sulla qualità. Ora si fa uso di una violenza spesso incomprensibile”. La guerra alla droga, dice, ha avuto un esito fallimentare. “Come tutte le guerre, anche questa alla droga che dura ormai da quarant’anni non ha né vincitori né vinti. Penso che se avessimo speso tutti quei soldi sulle scuole nelle città più emarginate, oggi avremmo una società migliore. La legalizzazione di quelle leggere mi sembra invece un buon primo passo, anche perché zuccheri, diabete e obesità ne uccidono molti di più. Ora abbiamo un’intera generazione drogata di farmaci trasportati da corrieri espresso”. Quando gli chiedo se si è pentito di aver scelto quella vita, risponde di no. Con filosofia hippie ne accetta le conseguenze. “Volevo una vita piena di esperienze, un po’ alla On the road di Jack Kerouac, ma non mi accontentavo della strada: io volevo l’autostrada. L’ho avuta, insieme a molti anni di totale libero arbitrio che è il più grande dono del pianeta. Questo mi ha preso piccoli pezzi di cuore e anima, ma niente nell’universo è perfetto né dovrebbe esserlo. Dio ci porta a degli incroci dove ci aspettano delle scelte, e ciascun viaggio di un uomo è il suo personale viaggio. Io ero un malato d’avventura e una volta che mi sono infilato in questo gioco ho iniziato ad amarlo. Nessun imbarazzo. Tutta la struttura politica degli Stati Uniti era una frode, e io ero la combinazione tra un porco capitalista e un esistenzialista. Che cazzo, se Wall Street non pagava tasse, perché avrei dovuto pagarle io?”. Ora, dopo venti anni di galera passati a camminare nei corridoi di sempre, è libero. “Penso che il mondo sia ancora fantastico – mi dice –, trovo più lati positivi che negativi: le palle da golf sono ancora lì, il vino è buono, le donne sono meglio di allora. Solo che adesso sono tutte più alte di me. Mi sento vecchio e logoro ma amo ancora la vita con passione. L’unica cosa che non sopporto è che la mia lunga corsa stia volgendo al termine. Ho sempre pensato che la vita fosse un rodeo, vorrà dire che ora cavalcherò il mio cavallo sotto un grande albero ombroso e prenderò un pisolino. Mi auguro solo di finire in un bar da qualche parte nell’universo che serva uno scotch single malt”. Questa è la storia che racconta George, non molto diversa da quella del film. Anche la sua forse è stata un po’ romanzata, prima da Bruce Porter e poi da Ted Demme. Ma il pubblico ha bisogno di miti, e gli eroi trasgressivi sono capaci di far sognare. Regalano una dimensione extra dal divano, l’idea che un’altra vita è possibile col solo coraggio di osare, di lasciare la ruota del criceto per avere tutto e subito. L’imperfetto George Jung si fonde così col carismatico Johnny Depp nell’immaginario hollywoodiano creato a uso e consumo di queste esigenze. George è il Johnny di Blow, Escobar è la leggenda. E tanto basta.

"Popeye", il sicario al fianco di Pablo Escobar: "Ho ucciso 257 persone". Le Iene scavano nella vita del braccio destro del più noto narcotrafficante colombiano, scrive l'8 novembre 2017 TGcom24. "El General de la Mafia", "Popeye". Sono questi i nomi con i quali è diventato più conosciuto Jhon Jairo Velasquéz, la memoria storica del cartello di Medellin noto come Mostro, guidato dal narcotrafficante Pablo Escobar. Velasquéz era il suo braccio destro, la guardia del corpo, il sicario di fiducia e negli anni '90 la taglia sulla sua testa ammontava a cento milioni di pesos colombiani (circa cinquecentomila dollari dell'epoca). "Ho ucciso duecentocinquantasette personecon le mie mani" racconta a Giulio Golia, l'inviato delle Iene, "e nella guerra di Pablo Escobar ho avuto a che fare con la morte di altre cinquantamila". Velasquéz parla di sé e della città, di come fosse diventato il loro campo di battaglia: omicidi, attentati in pieno giorno, bombe, non c'era esclusione di colpi e non ci si preoccupava di niente, nella lotta feroce contro chiunque si opponesse al narcotraffico. "Medellin è una città molto bella ma è costruita su un cimitero".

Le Iene: Popeye, il sicario di Pablo Escobar che oggi fa lo youtuber, scrive la redazione di Blitz Quotidiano l'8 novembre 2017. Si chiama Jhon Jairo Velásquez Vásquez, ma in Colombia tutti lo conoscono col nome di Popeye. E’ stato il sicario di Pablo Escobar e il suo braccio destro più fidato: per lui ha ucciso oltre 250 persone e ha scontato 23 anni di galera. Oggi fa lo youtuber. L’ex narcotrafficante è il protagonista di un servizio delle Iene a cura di Giulio Golia, volato in Colombia proprio per incontrare quello che fu uno dei più spietati killer al mondo. Oggi, però, Jhon Jairo Velásquez Vásquez detto Popeye, sembra essersi perfettamente reintegrato: uscito di prigione si è messo al passo con i tempi e ha aperto un canale YouTube che si chiama non a caso “Popeye Arrepentido” (Braccio di Ferro pentito) e vanta mezzo milione di follower. John Jairo ha scritto anche due libri, un terzo è in preparazione, nei quali fa tesoro della sua esperienza da criminale pluripregiudicato. E pure Netflix sta per produrre una serie tv nuova di zecca dedicata proprio al suo personaggio. Alcune suoi commenti però ancora oggi sono spiazzanti. Come il suo “rispetto” per la mafia made in Italy. “Voi siete i professori, noi siamo una copia”.

“Popeye”, il sicario al fianco di Pablo Escobar: “Ho ucciso 257 persone”, scrive il 9 Novembre 2017 pmcmagazinesrl.it. “El General de la Mafia”, “Popeye”. Sono questi i nomi con i quali è diventato più conosciuto Jhon Jairo Velasquéz, la memoria storica del cartello di Medellin noto come Mostro, guidato dal narcotrafficante Pablo Escobar. Velasquéz era il suo braccio destro, la guardia del corpo, il sicario di fiducia e negli anni ’90 la taglia sulla sua testa ammontava a cento milioni di pesos colombiani (circa cinquecentomila dollari dell’epoca). “Ho ucciso duecentocinquantasette personecon le mie mani” racconta a Giulio Golia, l’inviato delle Iene, “e nella guerra di Pablo Escobar ho avuto a che fare con la morte di altre cinquantamila”. Velasquéz parla di sé e della città, di come fosse diventato il loro campo di battaglia: omicidi, attentati in pieno giorno, bombe, non c’era esclusione di colpi e non ci si preoccupava di niente, nella lotta feroce contro chiunque si opponesse al narcotraffico. “Medellin è una città molto bella ma è costruita su un cimitero”.

Moglie e figlio di Escobar a processo per riciclaggio. Guai per la famiglia di Pablo Escobar, accusata di riciclaggio e favoreggiamento nei confronti del sospetto trafficante di droga Jose Bayron Piedrahita Ceballos, scrive Rachele Nenzi, Mercoledì 06/06/2018, su Il Giornale. Plata o plomo? No, Tribunale. La vedova e il figlio dell'ex signore della droga colombiano Pablo Escobar, ucciso dalla polizia nel dicembre del 1993 a Medellin, saranno processati in Argentina. Lo hanno riferito fonti giudiziarie. Maria Isabel Santos Caballero e Sebastian Marroquin, autore di un libro sul padre narcos - le nuove generilità dei parenti del re dei narcos - sono accusati di riciclaggio e di favoreggiamento nei confronti del sospetto trafficante di droga Jose Bayron Piedrahita Ceballos, attualmente detenuto in Colombia e sul quale pende una richiesta di estradizione degli Stati Uniti. La Santos e insieme ai figli avuti con Escobar si trasferirono in Argentina a metà degli anni '90, quando l'ex capo del cartello di Medellin venne ucciso dalla polizia. Nello stato con capitale Buenos Aires, cambiarono nome per evitare agguati e per ricominciare una nuova vita. Una nuova esistenza che però non riesce a soffocare un passato troppo pesante, costellato di omicidi, droga e milioni e milioni di dollari.

Il figlio di Pablo Escobar confessa: "Mio padre? Peggio che in Narcos". Le rivelazioni del primogenito del re della cocaina, protagonista della celebre serie tv di Netflix, scrive Franco Grilli, Mercoledì 05/09/2018, su Il Giornale. "Mio padre era molto peggio di quello descritto in Narcos". Parola di Sebastiàn Marroquin, al secolo Juan Pablo Escobar, figlio di quel Pablo Escobar. Il primogenito del re della cocaina – che negli anni Ottanta gestiva lui da solo l’80% del traffico di cocaina mondiale – è protagonista a teatro, anche in Italia, di uno conferenza-spettacolo dedicata al padre, freddato dalla polizia il 2 dicembre 1993. Escobar, si sa, è un personaggio "leggendario" che ha ispirato scrittori e sceneggiatori, e soprattutto Netflix che gli ha dedicato una serie tv di successo internazionale. Ecco, peccato che – come protesta Juan Pablo dalle assi di legno del Brancaccio di Roma – gli sceneggiatori e la produzione del telefilm non abbiano voluto la sua collaborazione per raccontare al meglio la vita del narcotrafficante colombiano. "Il serial lo ha trasformato quasi in un eroe, ma è il contrario. Non hanno voluto il mio aiuto e hanno commesso molti errori..." sentenzia il primogenito, che confessa anche di aver dovuto cambiare identità per poter vivere una vita normale insieme alla madre.

Le Iene – Tutta la verità su Pablo Escobar, il figlio svela i segreti di famiglia: “il modello di mio padre? Totò Riina”, scrive l'1/06/17 Giulia Galletta su sportfair.it. Pablo Escobar tra vita malavitosa e vita in famiglia, due uomini così diversi e dissonanti nello stesso corpo: ecco il racconto del figlio a Le Iene. Pablo Emilio Escobar, chi non conosce il nome di uno dei trafficanti di droga più famosi del mondo? Un delinquente con la D maiuscola, capace di tenere sotto scacco un’intera Nazione ed a tratti anche l’intero pianeta. Perchè nei suoi lunghi anni di latitanza non solo Escobar corruppe il più alto numero di uomini in divisa mai visto prima, ma coinvolse nella sua cattura interi plotoni di colombiani e americani. Il traffico di cocaina aumentò a dismisura con la salita al potere del colombiano che creò il cartello di Medellin, ossia una delle organizzazioni di narcotrafficanti più cruente e becere di sempre. Escobar insomma durante la sua esistenza contribuì a rendere questo mondo un po’ più brutto di quanto non lo fosse già. Il figlio di Pablo Escobar, che si è distaccato dallo stile di vita del padre in tutto e per tutto, si chiama Juan Pablo e racconta ai microfoni de Le Iene il suo ‘Escobar’ padre amorevole e dagli insegnamenti saggi. Sì, avete capito bene! Perchè se Pablo non si faceva scrupoli ad uccidere persone più o meno coinvolte nella lotta contro di lui, l’altra faccia del narcotrafficante più famoso del mondo era quella di un marito e padre perfetto che portava il figlio a distribuire giocattoli nelle zone povere della Colombia. Se da un lato infatti Juan Pablo Escobar condanna le ingiustizie commesse dal suo genitore, dall’altro ne parla ancora con orgoglio. Tra le cose che nell’intervista esclusiva il figlio di Escobar svela ci sono dettagli della sua esistenza legata al padre tra vendette, intrighi e minacce di rapimenti. “Mio padre fumava marijuana abitualmente, – ammetta Juan Pablo – ma non faceva uso di cocaina”. “Diceva che quella era veleno per topi”, continua.  “Iniziò la sua carriera criminale rubando lapidi, frutta biciclette e giornali – svela poi il figlio di Escobar – Poi passò dal contrabando di elettrodomestici alla cocaina”. “Mio padre seguiva la mafia italiana e prestava attenzione soprattutto alla storia di Totò Riina. – dice – non so se lo ammirava ma lo imitava. Apprese alcuni suoi metodi per fare guerra allo Stato, anche se non hai mai avuto relazioni con la mafia italiana”. Sulla morte di Pablo Escobar poi Juan svela la sua versione dei fatti. Fonti ufficiali ricostruiscono gli attimi della vita del colombiano con una sparatoria da parte della Polizia che lo portò alla morte. Per suo figlio però le cose non sono andate così. “Si è ucciso da solo – afferma – i periti me l’hanno confermato, furono minacciati per non scrivere la verità sui documenti ufficiali perchè le autorità volevano una verità diversa per la fine di questa storia”. “Ci sono registrazioni telefoniche di mio padre che parlando di quando le autorità l’avrebbero intercettato dice che si sarebbe ucciso di fronte a loro. Lo avevano portato di fronte alla decisione di morire lui o di veder uccidere tutta la sua famiglia”.

Parla il figlio del re dei narcos: "Vi racconto il vero Pablo Escobar". La coca, il denaro, la morte: Juan Pablo svela la sua verità. Il 21 settembre sarà al Brancaccio di Roma per una conferenza, scrive Davide Di Santo su iltempo.it il 7 Settembre 2018. La sua prima reazione con la stampa dopo la morte del padre fu di rabbia: «Mi vendicherò. Li ucciderò tutti». Dopo dieci minuti riprese in mano il telefono, rimangiandosi tutto con i giornalisti. Ha un prima e un dopo la vita di Juan Pablo Escobar, 41 anni, primogenito del boss del Cartello di Medellin, il più potente e sanguinario narcotrafficante della storia: Pablo Escobar. Sebastián Marroquín, questo il nome preso dopo la morte de "El Patron", da qualche anno scrive libri e gira il mondo per dare la sua versione dei fatti. E lanciare un messaggio di pace. Il 21 settembre sarà a Roma, al teatro Brancaccio, con una conferenza-spettacolo dal titolo «Pablo Escobar. Una storia da non ripetere». «Quei dieci minuti, il 2 dicembre del 1993, sono stati i più importanti della mia vita. In quegli attimi ho immaginato cosa avrei dovuto fare per vendicare la morte di mio padre. Ho avuto terrore. Così ho deciso di iniziare un percorso di pace, l’unico modo per lasciarci alle spalle la guerra che abbiamo ereditato», racconta Marroquín a Il Tempo. Poco prima c’era stata l’ultima telefonata con suo padre, ormai braccato dalle forze speciali sui tetti di Medellin.

Cosa le disse? 

«La sua ultima chiamata aveva un doppio obiettivo. Apparentemente mi stava dettando le sue condizioni per la resa al governo colombiano. In realtà si è attardato volontariamente al telefono per farsi localizzare. Era davanti a un bivio: spararsi davanti ai suoi nemici, come è poi accaduto anche se le versioni ufficiali sostengono che sia stato ucciso dalla polizia. O continuare la latitanza condannando a morte la sua famiglia. Così ha fatto la sua scelta».

Come ricorda la sua infanzia dorata nell’hacienda Napoles, il bunker di lusso dove vivevate?

«Ho avuto come tate i peggiori criminali della storia. Ma di quella specie di Disneyland non restano che le rovine. In tutti i sensi. La gente ricorda gli animali esotici, le feste, il lusso. In realtà la guerra di mio padre allo Stato ha ridotto di molto il tempo in cui abbiamo potuto godere di quelle cose e del denaro».

È mai stato ne La Catedral, il carcere "a 5 stelle" che Escobar costruì per se stesso dopo l’accordo per evitare l’estradizione?

«Sì, molte volte. Anche 15 giorni di fila, per evitare che mi rapissero. Ero più sicuro lì che a Medellin. Nel momento stesso in cui mio padre costruì il "suo" carcere, dove sarebbe stato detenuto, aveva già progettato il piano per evadere, come poi avvenne. Entrava e usciva chi voleva, ricordo le partite di calcio con i giocatori della nazionale colombiana, come René Higuita e Leonel Àlvarez».

Quando ha saputo chi era davvero suo padre?

«A sette anni. Ha cominciato a dirmi, guardando il telegiornale: "Questa bomba l’ho fatta mettere io. Questo attentato l’ho ordinato io". Non riuscivo a colpevolizzarlo, con me era un padre affettuoso e amorevole».

La chiamò "il mio figlio pacifista". Ha mai pensato di denunciarlo? 

«Non lo avrei mai tradito, neanche per tutto il denaro del mondo. Lo amavo più di me stesso e avrei dato la mia vita per proteggerlo».

Oggi prova lo stesso?

«Qualche tempo fa avrei detto sì ma ora sto riconsiderando i miei sentimenti. Sto aiutando mia madre a scrivere le sue memorie, e recentemente sono venuto a conoscenza di fatti che mi stanno facendo rivalutare completamente l’idea che ho di lui come padre. Ma di questo, ora, non posso parlare».

Dopo la morte di suo padre le è toccato trattare con i cartelli della droga rivali.

«In realtà ci volevano morti. Ho incontrato i tre leader del cartello di Cali quando avevo appena 17 anni. Mi mandarono a chiamare annunciando che in quell’incontro mi avrebbero fatto fuori. Sapevo di essere praticamente già morto, così ci andai. Dissero che avrebbero lasciato in vita me e la mia famiglia in cambio di tutti i nostri soldi. E così fu. Anche se condannati alla povertà, abbiamo avuto salva la vita».

Lei contesta la glorificazione del criminale Pablo Escobar fatta da serie come Narcos, eppure ha un’azienda che vende vestiti e t-shirt con il volto di suo padre. Non vede delle contraddizioni in questo?

«Capisco le critiche, ma le immagini e i messaggi che ho usato hanno l’obiettivo di scoraggiare i giovani dall’intraprendere azioni criminali. Comunque in questo momento l'azienda è in pausa».

Non pensa che i ragazzi la seguano perché attratti dal mondo dei narcos, e non per il suo messaggio di pace?

«È vero, ricevo molti messaggi sui social network da parte di ragazzi, anche italiani, che vogliono diventare narcotrafficanti come mio padre. Ma è mia responsabilità utilizzare la mia storia affinché tutto questo non si ripeta».

«Sono il figlio di Escobar, ma ho preferito vivere». La fuga dopo la morte di suo padre. L’abbraccio con i parenti delle vittime. Ora un libro per chiudere col passato. L’erede del re della coca si racconta: «Non ho mai conosciuto narcos felici», scrive Omero Ciai il 13 marzo 2017 su La Repubblica. Quando mio padre morì avevo sedici anni. La prima reazione fu un desiderio di vendetta. Lo dissi alla giornalista che mi chiamò per dirmi che Pablo Escobar era morto. Le dissi che lo avrei vendicato. Ma lo pensai solo per pochi minuti. Mi resi subito conto che se volevo sopravvivere, insieme a mia madre Maria Victoria e a mia sorella più piccola Manuela, avrei dovuto comportarmi all’opposto di mio padre. Non conosco narcos felici, che vivono in pace. Ma solo narcos morti o chiusi per sempre in un carcere. Non era la vita che volevo». Dopo la morte del padre – uno dei narcotrafficanti più crudeli della storia, che per un decennio (1983-93) scatenò in Colombia una guerra che provocò centinaia di morti – Juan Pablo, condannato a morte come figlio del boss dai cartelli rivali, fuggì grazie a una nuova identità prima in Mozambico, poi in Argentina. A Buenos Aires studiò architettura e iniziò a lavorare, finché non recuperò il suo passato e scelse un cammino di redenzione che lo ha portato a incontrare e chiedere perdono ai figli delle vittime di suo padre. E a scrivere due libri, tra inchiesta e memoria, il secondo dei quali (Pablo Escobar, gli ultimi segreti dei narcos raccontati da suo figlio) esce in questi giorni in Italia edito da Newton Compton.

Si era scelto come nuovo nome Sebastián Marroquín. Quando e perché ha deciso di tornare a chiamarsi Escobar?

«In realtà fu per caso. Un ragioniere che avevamo incontrato a Buenos Aires per acquistare un appartamento ci truffò e per non restituirci il denaro rivelò ai giornali chi eravamo veramente. In Argentina ci arrestarono e processarono. Una vicenda che è finita soltanto nel 2007, quando la Corte Suprema riconobbe la nostra innocenza. Avrei potuto comunque continuare a vivere nell’anonimato rifiutando tutte le proposte di raccontare la mia storia e di partecipare a film su mio padre. Ma divenne l’occasione per fare i conti con il mio passato. Iniziai a cercare i figli delle vittime di mio padre e a confrontarmi con tutto il male che aveva fatto».

Il primo fu Rodrigo, il figlio del ministro della Giustizia Lara Bonillo ucciso in un agguato dai sicari di suo padre?

«Sì, lo fece ammazzare perché aveva denunciato che era un narcotrafficante quando ancora tutta la Colombia credeva alla favola che mio padre fosse soltanto un ricco e fortunato imprenditore. Con Rodrigo ci abbracciammo e lui mi disse: “Ho accettato di incontrarti perché siamo entrambi orfani e dobbiamo condannare insieme la cultura della violenza, la Colombia ha bisogno di una cultura di pace”. Poi ho incontrato e abbracciato i quattro figli di Luis Carlos Galán, il leader del partito liberale che venne assassinato su ordine di mio padre durante un comizio elettorale nel 1989. E poi Aaron Seal, il figlio del pilota che tradì mio padre e denunciò alla Cia che stava organizzando spedizioni di cocaina negli Stati Uniti dal Nicaragua con la protezione del governo sandinista di Daniel Ortega. Pablo Escobar pagò migliaia di dollari per assassinarlo in Louisiana all’inizio del 1986».

È diventata quasi un’ossessione questa sua ricerca di riconciliazione con i parenti delle vittime di suo padre?

«Non programmo nulla, molte persone le ho incontrate quando ho presentato i miei libri. E la verità più singolare è che oggi ho ottimi rapporti con chi subì la violenza di mio padre più che con quelli che grazie a lui si arricchirono o approfittarono della sua generosità. Come la mia famiglia paterna, mia nonna e mio zio Roberto che lo tradirono».

Che fine ha fatto la sterminata fortuna di suo padre, diversi miliardi di dollari?

«Pablo Escobar sperperava il denaro, con il narcotraffico aveva incontrato la formula magica per fare miliardi e si comportava come se non avrebbe mai smesso di farli. Ostentava la sua ricchezza e desiderava che i colombiani lo immaginassero come il loro Robin Hood. A Medellin si dice che “gli pesava il portafoglio...”. Quando io ero bambino acquistò una fattoria di 2 mila ettari per 2 milioni e mezzo di dollari, la Hacienda Nápolés, che riempì comprando centinaia di animali esotici, dai pappagalli, alle giraffe, agli elefanti, e trasformò in un Luna Park dove invitava migliaia di persone. Poi moltissimo denaro lo investì nella guerra contro lo Stato, contro l’estradizione dei narcos negli Stati Uniti, i suoi nemici del Cartello di Cali, i gruppi paramilitari e i Pepes, le brigate armate delle “vittime di Escobar” che volevano ucciderlo. Alla fine, quando morì, il 2 dicembre 1993, io e mia madre consegnammo tutto quello che restava, dai quadri di Fernando Botero alle proprietà immobiliari, ai boss del Cartello di Cali e agli altri suoi nemici affinché non ci uccidessero e ci lasciassero andare in esilio».

C’era anche un famoso quadro di Salvador Dalí?

«Sì, Rock and roll. Valeva 3 milioni di dollari. Mia madre lo regalò, come gesto di pace, a un capo dei paramilitari, Carlos Castaño. Dalla Colombia noi partimmo in autobus per l’esilio verso l’Ecuador, e con quasi nulla addosso».

Perché ha criticato Narcos, la serie tv di Netflix ispirata alla storia di suo padre?

«Hanno sbagliato perfino la squadra di calcio colombiana per cui tifava! In un capitolo poi c’è mia madre che spara, un dettaglio falso perché lei non ha mai usato una pistola. Le scene e le situazioni completamente inventate sono moltissime, ma non è solo questo. Narcos è una serie che fa apologia dei criminali. Lei non si immagina quante persone mi scrivono sui social network, da ogni parte del mondo, per raccontarmi che hanno visto il film e dirmi che adorano mio padre, che vorrebbero essere come lui, e mi chiedono di aiutarli per emularlo».

Come si combatte il narcotraffico?

«Con la legalizzazione delle droghe. Senza il proibizionismo mio padre non sarebbe esistito. Era un delinquente fin dall’adolescenza, ma senza il traffico illegale della cocaina non avrebbe mai potuto accumulare tutto quel potere. Sognava di diventare presidente della Repubblica e aveva i soldi per farlo. Finché ci saranno consumatori di cocaina il problema si può risolvere solo autorizzando e regolando la vendita. Io destinerei il ricavato a promuovere l’arte, la cultura, l’istruzione».

Lei scrive che suo padre non venne ucciso ma si suicidò quando si rese conto che era circondato.

«È morto per un colpo in testa all’altezza dell’orecchio, esploso a pochi centimetri dal cranio. Quando ero ragazzino mi disse mille volte che non si sarebbe fatto prendere vivo».  

Tornerebbe a vivere in Colombia?

«Meglio di no. Sono tornato a Medellín solo per brevissimo tempo».

Ha la cittadinanza argentina?

«No, la chiesi molto tempo fa, ma non mi hanno mai risposto».

Sulla tomba di suo padre, nel cimitero di Medellín, ogni mattina gli ammiratori portano fiori freschi. Ma il suo ultimo desiderio era essere seppellito all’ombra di una grande ceiba nell’Hacienda Nápolés. Vorrebbe esaudirlo?

«Se riuscissi a farlo non lo racconterei».

Ha perdonato suo padre?

«Non posso essere io a giudicarlo. Questo non vuol dire che le sue azioni non fossero criminali e spietate ma io l’ho amato e ho vissuto fino in fondo la contraddizione che c’era tra un padre dolce e affettuoso e il brutale assassino narcos».  

C’è anche chi la accusa di sfruttarne la storia.

«Sono suo figlio e sono uno dei pochi testimoni ancora vivi di quel tragico decennio. Magari sono anche l’unico che ha il diritto di farlo, no?».

“Da bambino credevo che mio padre fosse Robin Hood, poi ho respirato morte e violenza”. Incontro con il figlio di Escobar. Parla Sebastian, figlio del narcotrafficante colombiano: “Vengo da una cultura dove è imprescindibile onorare il padre e la madre e mio padre mi ha sempre dato amore, molto difficile per me quindi poterlo odiare. Tante bugie nella serie tv: mia madre non bruciò mai un milione di dollari per coprire dal freddo mia sorella”. Sebastian Escobar, figlio del leggendario boss Pablo. L’intervista esclusiva di Sara Giudice, giornalista d'inchiesta, del 25 settembre 2018 su Tiscali.  Si chiama Sebastian Marroquin ma fino all'età di diciassette anni il suo nome è stato Juan Pablo Escobar, primogenito di quel Pablo Escobar famoso in tutto il mondo, il feroce narcotrafficante colombiano che ormai conosciamo bene, entrato nelle nostre case attraverso la serie tv "Narcos".  E' stato costretto a cambiare la sua identità Sebastian perché quel passato, quella colpa ereditata e mai meritata è ingombrante e imperdonabile sia per i cattivi che vogliono ucciderlo che per i buoni che non gli perdonano di essere il figlio di uno dei più feroci assassini mai esistiti. Lo incontriamo su una bella terrazza di un hotel romano, ha uno sguardo fiero Sebastian ma malinconico. Lo sguardo di chi sa che qualcosa gli è stato portato via: la libertà, la scelta. Sebastiàn adesso fa il giro del mondo e tiene conferenze agli adolescenti. Incontri che hanno lo scopo di raccontare la verità sul padre e provare a contrastare quella fascinazione del male che conosciamo bene e che non risparmia nessuno, giovani prima di tutti.  Per il padre non risparmia un giudizio lucido e severo anche se mai sazio di rancore.

Cosa ha significato per te essere il figlio di Pablo Escobar?

"C'è stato un momento in cui essere il figlio di Pablo Escobar è stato bello. Mi riferisco al periodo iniziale dove mio padre era amato da tutta la Colombia, aiutava i poveri, distribuiva grandi quantità di ricchezza. Come se fosse una specie di Robin Hood. Ma poi con l'inizio della violenza, in particolare con l'uccisione del Ministro della Giustizia io avevo sette anni e fui costretto a scappare in esilio a Panama e senza poter vivere una vita normale. Ho respirato morte, violenza, solo disperazione".

Come definiresti tuo padre?

"La massima rappresentazione dell'amore e della violenza. Con me è stato un ottimo padre, non posso dire niente".

C'è stato un momento in cui lo hai odiato?

"Mai. Vengo da una cultura dove è imprescindibile onorare il padre e la madre e mio padre mi ha sempre dato amore, molto difficile per me quindi poterlo odiare".

Anche qui in Italia abbiamo diverse periferie dove lo stato non c'è e interi territori dove i giovani si rassegnano alla droga ed alla violenza. Come si arriva a questo?

"In primis dove lo Stato non c'è arrivano le organizzazioni criminali, in secondo luogo dove si costruiscono società proibizioniste si contribuisce ad abbeverare il mercato criminale della droga".

Però i giovani sono affascinati dalle figure negative, lo sono anche verso suo padre. La serie tv "Narcos" ha contribuito a questo?

"Certamente. Dipingono mio pare come un eroe affascinante, come un esempio, come un tipo rivoluzionario, il tutto condito in un'atmosfera romantica. Naturalmente nulla è reale. Mio padre era ricchissimo ma è sempre stato costretto a vivere in povertà. Quella ricchezza cosi esibita non è mai esistita, nessuno della mia famiglia ne ha goduto. Sto dedicando tutta la mia vita a provare a contrastare questo fascinazione, perché davvero non è una vita degna di essere imitata".

Hai sofferto molto quando eri ragazzo?

"Tutta la Colombia ha sofferto tanto. Io non sono una vittima, non mi sento tale.Mi dedico ai giovani perché è il mio modo di chiedere scusa per quello che ha fatto mio padre".

La legalizzazione delle droghe per te è una strada positiva?

"Posso solo dire che abbiamo visto quali sono i risultati del proibizionismo e non mi sembrano positivi. Corruzione, aumento del traffico, arricchimento delle organizzazioni criminali che si infiltrano anche nello Stato. Senza proibizionismo non sarebbe possibile, non avrebbero gli strumenti economici per corrompere in primis. La brutta notizia per chi è contro alla legalizzazione è che di fatto già esiste. Chiunque può avere un facile accesso alla droga, chiunque può avere qualcuno che gli porta la droga fino alla porta di casa. La domanda è: a chi vogliamo lasciare questo traffico? Alla criminalità o allo Stato?".

C'è mai stato un legame tra Pablo Escobar e la criminalità organizzata italiana?

"Il mercato più importante era quello negli Stati Uniti, mio padre non aveva bisogno di fare affari con l'Italia. Ma per lui la Mafia era un esempio da imitare, si ispirava a Totò Riina come modello per sovvertire lo Stato e per poter comandare. Studiava il metodo italiano e provava ad esportarlo in Colombia, ha provato cosi a conquistarla, a diventare il re assoluto del paese. Per un periodo in realtà, lo fu. Cosa diversa invece è la Mafia italiana negli Stati Uniti, con quella sì, ci ebbe a che fare".

La Colombia sarebbe stato un paese migliore senza Pablo Escobar?

"Non lo so. Sicuramente sarebbe stato un paese migliore senza il proibizionismo. Senza di esso mio padre non avrebbe potuto costruire quello che ha costruito".

Però ci sarà stato qualcosa per cui andavi fiero di lui...

"Non sono mai stato orgoglioso della sua violenza. Io sono diverso da lui".

Che fine hanno fatto gli amici di suo padre?

"Molti sono morti, gli altri sono scappati negli Stati Uniti. Lo sai, sono molto generosi li nella politica di negoziazione con i narcotrafficanti. Non gli è mai importato quanto avessero ammazzato ma solo di quanti soldi disponessero".

Ad esempio?

"Ne ho moltissimi di esempi. Tutti i narcotrafficanti di Los Pepes, almeno 200 sono liberi negli Stati Uniti, vivono tutti a Miami. Oppure anche il cartello di Calì, il grande capo è in prigione ma i sottoposti hanno tutti trattato con gli Stati Uniti". 

E i cosiddetti corpi intermedi? Politici o poliziotti corrotti?

"No, nessuno di loro ha pagato, nessuno di loro è andato in prigione".

E se volessi invece andare tu negli Stati Uniti?

"Io non posso entrare, io sono il figlio di Pablo Escobar. L'unico modo per entrare negli Usa sarebbe diventare narcotrafficante".

Qual è l'errore più grande della serie "Narcos"?

"Tanti errori storici molto gravi. Sfortunatamente per gli appassionati, mia madre non bruciò mai un milione di dollari per coprire dal freddo mia sorella".

Il figlio di Pablo Escobar: "La morte di mio padre non è avvenuta per mano degli ufficiali, si è suicidato". La versione di Juan Pablo, scrive il 30/11/2016Silvia Renda su L'Huffington Post. Intorno alla figura di Pablo Escobar tra verità e leggenda c'è spesso un confine molto labile. Il più noto narcotrafficante colombiano ha contribuito nel corso della vita ad alimentare il suo mito e ora che non c'è più anche sulla sua morte le versioni sono contrastanti. L'ultima ricostruzione dei fatti la fornisce il figlio Juan Pablo - che ha cambiato il nome in Sebastian Marroquin - secondo il quale il padre non sarebbe stato ucciso dagli ufficiali, ma si sarebbe in realtà suicidato. Marroquin lo racconta in un'intervista al SunOnline in occasione del lancio del suo secondo libro incentrato sulla figura del padre. In base alla sua versione Escobar si sarebbe tolto la vita, così da non doversi consegnare agli ufficiali e per salvare la famiglia, temendo potesse essere presa in ostaggio. A convincerlo di ciò è stata la conversazione avuta con il narcotrafficante pochi minuti prima della sua morte: “Ha pianto quando ci ha salutato, come se sapesse che sarebbe stata l’ultima volta”. In base alle sue dichiarazioni il suicidio era da sempre nei piani del padre nel caso in cui il suo impero fosse crollato e più volte aveva ripetuto al figlio che sarebbe partito dalla sua stessa pistola il colpo che lo avrebbe ucciso. Per questo è assolutamente certo che i medici legali siano stati minacciati e costretti a modificare i risultati dell’autopsia. Sul Sun, inoltre, sostiene che gli Stati Uniti fossero coinvolti nel traffico di droga e compravano la cocaina da Escobar per finanziare la lotta contro il comunismo. Juan Pablo, ora 39enne, aveva soli 17 anniquando il padre morì a Medellin il 2 dicembre 1993. 23 anni dopo è pronto a raccontarsi in un nuovo libro: "Non mi nascondo perché non voglio nascondermi. Non ho ucciso nessuno, non ho fatto alcun danno. Non sono orgoglioso delle sue violenze, ma sono orgoglioso del suo amore per la mia famiglia. Ha fatto cose che l’hanno reso amato e altre odiato, questo è mio padre".

Il Figlio di Pablo Escobar: “papà ha lavorato per la CIA con lo spaccio di cocaina”, scrive il 02/01/2018 complottisti.info. Juan Pablo Escobar Henao, il figlio del noto boss del cartello di Medellín, Pablo Escobar, ora dice che il suo padre “ha lavorato per la CIA.” Nel un nuovo libro, “Pablo Escobar In fraganti” Escobar, che vive sotto lo pseudonimo, Juan Sebastián Marroquín, spiega che il padre lavorava per la CIA con lo spaccio di cocaina, per finanziare la lotta contro il comunismo in America Centrale. “Il business della droga è molto diverso da quello che abbiamo sognato,” continua. “Quello che la CIA stava facendo era acquistare il controllo per ottenere la droga nel loro paese, un meraviglioso affare.” “Lui non ha fatto il denaro da solo,” Marroquín ha elaborato in un’intervista, “ma con le agenzie degli Stati Uniti che gli hanno permesso l’accesso a questo denaro. Ha avuto rapporti diretti con la CIA”. In particolare, Marroquín ha aggiunto, “la persona che ha venduto maggior droga per la CIA era Pablo Escobar.” “Quei collaboratori del governo erano praticamente i suoi partner”, e hanno permesso a Escobar di sfidare la legge, e gli ha dato quasi la stessa potenza di un governo. Com’era prevedibile, questa informazione è convenientemente assente dai titoli dei media in America. Se il traffico di cocaina CIA negli Stati Uniti suona come una teoria del complotto, ripensateci. Il loro presunto ruolo nel traffico di droga è stato esposto nel 1996 in una serie investigativa esplosiva “Dark Alliance” da Gary Webb per il San Jose Mercury News. L’indagine, guidata da Webb ha rivelato legami tra CIA, contras del Nicaragua e il commercio del crack che devasta le comunità afro-americane. L’indagine ha provocato proteste di massa e audizioni del Congresso, così come contraccolpo palese da parte dei media tradizionali per screditare la segnalazione di Webb. Tuttavia, decenni dopo, i funzionari si sarebbero fatti avanti per sostenere l’inchiesta di Webb. El Patron, com’era solitamente chiamato Pablo Escobar, ha accumulato più ricchezza di qualsiasi altro spacciatore di droga nella storia – a un certo punto rastrellava circa 420 milioni di dollari a settimana di fatturato – e secondo come riferito ha fornito circa l’80 per cento della cocaina del mondo. Escobar è atterrato su Forbes nella lista dei miliardari internazionali per sette anni consecutivi. Escobar e il cartello di Medellín smerciavano tutti i giorni 15 tonnellate di cocaina negli Stati Uniti lasciando una scia di migliaia di cadaveri. Se quello che Marroquín rivela nel suo nuovo libro è vero, vorrebbe dire che la CIA ha svolto un ruolo importante nel garantire agli americani quantità illimitate di cocaina – mentre il governo degli Stati Uniti ipocritamente inveiva contro la droga per promuovere la guerra alla droga. Infatti, come osserva acutamente Marroquín, la proibizione delle droghe rende meglio della propaganda pro-droga – la natura di qualcosa che è illegale dà naturalmente maggiore appeal. Escobar certamente ha usato la violenza, o ordinato ad altri di usare la violenza e di fomentarla in modo efficace in modo da mantenere il potere, ma nonostante tutto questo, è stato soprannominato ‘il Robin Hood’ dopo aver consegnato soldi contanti ai poveri, aver costruito case per i senza tetto, e aver costruito 70 campi da calcio per comunità, oltre alla costruzione di uno zoo. El Patron ha incontrato il suo destino nel 1993 da un colpo di pistola mentre cercava di fuggire dalla sua casa che era stata circondata. Tuttavia, le circostanze che circondano la sua morte, sono ancora in discussione oggi. Marroquín insiste che suo padre si suicidò piuttosto che essere girato o catturato dalle forze di polizia inviate a dargli la caccia. In entrambi i casi, l’accumulo di ricchezza di Escobar potrebbe essere visto come un accessorio rispetto al ruolo che ha giocato per la CIA e la guerra alla droga – un’ipocrisia enorme che serve per mantenere le persone agganciate su una sostanza ritenuta illegale da parte dello Stato, in modo che lo Stato può quindi raccogliere i profitti generati dai tribunali, le carceri, e la polizia dal lavoro necessario per combattere la guerra alla droga. “Mio padre era un ingranaggio di una grande business del traffico universale di droga,” Marroquín spiega, e quando non ha più servito, gli assassini sono stati inviati a farla finita con il “problema” – il problema che avevano a creato. Marroquín, dice inoltre che ha voluto perdonare i membri della sua famiglia per il loro coinvolgimento nel business della droga e il tradimento di suo padre – ma osserva che il perdono non significa dimenticare quello che è successo. “Pablo Escobar non è affatto un modello di ruolo”, afferma. “Ammiro Pablo, mio ​​padre, che mi ha educato. Non Escobar, il mafioso." “Più potere mio padre aveva, più da povero ha vissuto.” Traduzione a cura di La verità di Ninco Nanco. Fonte originale: thefreethoughtproject.com

Il figlio di Escobar, nella mia famiglia non mancava l'amore, scrive il 09/03/2015 adnkronos.com. La frase "nella mia famiglia non mancava l'amore" è banale se riferita a una famiglia normale, ma il suo effetto è diverso se a dirla è il figlio del narcotrafficante colombiano Pablo Emilio Escobar Gaviria (Rionegro, 1 dicembre 1949 – Medellín, 2 dicembre 1993), ovvero Juan Pablo Escobar, secondo il quale il padre "era molto affettuoso con i suoi figli e sua moglie, ma sono consapevole dell'enorme dolore che ha provocato ad altre famiglie". Juan Pablo Escobar lo ha detto durante la presentazione del libro 'Pablo Escobar, mi padre', nell'ambito del festival cinematografico della città messica di Guadalajara. "I giovani mi dicono, attraverso i social network, che adorano mio padre e io dico loro 'no': da mio padre ha ricevuto molto amore, ma ho anche visto quanta violenza ha generato, quanto dolore ha provocato a tante persone", ha aggiunto Juan Pablo Escobar, secondo il quale il padre non è stato necessariamente il maggior narcotrafficante della storia ma sicuramente il più mediatico. "C'è una responsabilità dei media su come vengono raccontate storie come la sua. C'è il triste esempio della serie tv 'El patrón del mal' che ha creato una 'cultura' intorno a mio padre, persino l'aspirazione a essere come lui, magnificandone i momenti di 'gloria', gli yacht, le ragazze".

Parla il figlio di Pablo Escobar: "La serie TV Narcos è piena di invenzioni". 'Narcos' racconta la vita di Pablo Escobar, ma la narrazione non è del tutto attinente al vero, a dirlo è il figlio del noto trafficante colombiano, scrive il 12/09/2016 su it.blastingnews.com Lorenzo Spigarelli. "Narcos" è una serie TV firmata Neflix che si propone il complicato obiettivo di raccontare per filo e per segno l'incredibile e controversa parabola esistenziale di pablo escobar, il noto trafficante di droga colombiano deceduto a Medllìn nel 1993. La serie, ideata da Chris Brancato, Carlo Bernard e Doug Miro sta spopolando a livello globale, anche se, stando a quanto dichiarato dal figlio di Escobar, sarebbe stracolma di vere e proprie invenzioni e mistificazioni dal punto di vista storico. Quando era in vita, Pablo Emilio Escobar Gaviria era noto con lo pseudonimo di "Re della Coca", il suo patrimonio a inizio anni '90 era stato stimato in 30 miliardi di dollari, la rivista Forbes lo aveva inserito al settimo posto nella graduatoria degli uomini più ricchi del mondo, attribuendogli il controllo diretto dell'80% del mercato mondiale della cocaina ed il 30% di quello delle armi illegali. All'apice della sua carriera criminale la ricchezza di Escobar era tale da conferirgli un vero e proprio potere politico: in molte aree della Colombia, soprattutto nella zona di Medellìn, il noto trafficante non era percepito come un delinquente, piuttosto come una sorta di benefattore, era infatti solito far costruire infrastrutture per la comunità, come ad esempio scuole, stadi ed ospedali, per accaparrarsi la benevolenza e la fedeltà della popolazione. Non è quindi difficile capire perché la vita di Escobar rappresenti un soggetto perfetto per cinema e televisione. La televisione però, soprattutto quando – come nel caso di Narcos – utilizza il registro cinematografico, tende ad ingigantire le informazioni eclatanti, ad inventare situazioni per rendere più semplice la narrazione, ad accentuare le caratteristiche più estreme dei personaggi, rendendoli irreali, pur utilizzando i loro veri nomi.

TRADITO DALLA FAMIGLIA. Nuove rivelazioni sulla vita e la morte di Pablo Escobar in un libro del figlio appena pubblicato in Colombia, scrive Andrea Bonzo il 12 novembre 2014 e pubblicato da Alver Metalli su terredamerica.com. È appena uscito nelle librerie colombiane e si intitola “Pablo Escobar. Mio padre”. 484 pagine per raccontare la vita del narcotrafficante più famoso di sempre con gli occhi del figlio Juan Pablo. Non mancano le rivelazioni e i dettagli inediti. La più clamorosa riguarda un presunto tradimento all’interno del circolo familiare di Escobar. Racconta infatti Juan Pablo che il padre sarebbe stato tradito dal fratello Roberto Escobar, d’accordo con il resto della famiglia. Questi sarebbe stato un informatore della DEA (l’antidroga americana) e l’avrebbe “venduto” in cambio di un salvacondotto. Stando ad Escobar Jr. anche le circostanze della morte andrebbero riscritte. Secondo il figlio, vedendosi perduto, Escobar si sarebbe suicidato sparandosi dietro l’orecchio. “Non ho dubbi”, dice, aggiungendo che il padre gli aveva sempre detto che prima di essere preso vivo si sarebbe ucciso in quel modo. Smentita quindi la versione ufficiale che vorrebbe il padre ucciso in uno scontro a fuoco con agenti di polizia mentre cercava di scappare sui tetti di Medellin. Il libro mostra inoltre come Escobar, all’apice del suo potere (arrivò ad essere il settimo uomo più ricco al mondo) fosse perfino in grado di influenzare le vicende geopolitiche dell’America Latina. “Al generale Noriega (ex dittatore di Panama n.d.r) diede cinque milioni di dollari perché lo lasciasse operare nel paese”, ha raccontato Juan Pablo in questi giorni. Quando poi Noriega tentò di tradirlo, Escobar lo minacciò di morte. Il generale – che aveva anche ospitato tutta la famiglia del narcotrafficante nella sua residenza – ne fu così spaventato che restituì parte della somma. Escobar aveva anche legami con la guerriglia sandinista del Nicaragua, dove “voleva trasferire la sua base operativa”. I guerriglieri vennero ingraziati finanziando con la somma di un milione di dollari la presa del Palazzo di Giustizia nel 1985, oltre che con armi e appoggio logistico. Infine non mancano i retroscena sullo stile di vita stravagante e sull’Escobar privato. “Nella pignatta invece di giocattoli si mettevano fasci di banconote. Tutti, genitori e bambini, volevano prenderle”. Era un mondo fatto di ville sontuose, uno zoo (con zebre, giraffe, ippopotami) e di moto che per lui, bimbo di nove anni, si accumulavano in garage. “Ma di tutto quello non è rimasto niente, tutto è andato distrutto”, dice ora Juan Pablo. Essere figli di Pablo Escobar è stato “uno strano privilegio”, ha dichiarato Juan Pablo ad AFP. “Per me è stato un gran padre. Conservo migliaia di sue lettere in cui mi scriveva per darmi consigli, spronandomi a studiare, ad essere una persona per bene, a stare alla larga dalle droghe. Mio padre minacciava di morte i suoi impiegati se fumavano marijuana in mia presenza”. Eppure ammette che è stato un sequestratore, un terrorista ed un assassino: “Non posso nascondere il sole con una mano”. Dopo la morte del padre, Juan Pablo si è rifugiato con la madre e la sorella in Argentina. Lì per vent’anni ha vissuto sotto la falsa identità di Sebastián Marroquín. “Abbiamo dovuto disfarci di tutti i beni, reclamati dai nostri nemici come bottino di guerra. Poco per volta abbiamo potuto ricominciare”, ha aggiunto. “Avrei potuto convertirmi nel Pablo Escobar 2.0, ma sono diventato l’architetto, il designer, conferenziere e adesso lo scrittore Sebastián Marroquín”, nome che usa tuttora. Già nel 2009 aveva chiesto scusa alle vittime della violenza causata da suo padre.

Biografia di Pablo Escobar. Parla la moglie Victoria Eugenia Henao, scrive venerdì, 2 novembre 2018, Giorgio Dell’Arti. Victoria Eugenia Henao non somiglia alla Tata della serie Narcos né a quella delle biografie su Escobar che la descrivono come un’ombra sullo sfondo della concitata vita del marito. Ha uno sguardo morbido e una personalità decisa, è pacata e pesa ogni parola. Per anni ha mantenuto un basso profilo che ha interrotto di recente per scrivere un libro sulla sua vita, Ho sposato Pablo Escobar, in uscita per Utet in anteprima mondiale il 6 novembre. Sono le memorie di una donna in gran parte soggiogata da un uomo che sposò quando aveva 15 anni, contro il volere della famiglia. E che giura di aver saputo dei crimini più efferati commessi dal marito solo dopo la sua morte. L’incontro per l’intervista è fissato nella saletta di un albergo di Buenos Aires, città in cui vive dalla fine del 1994.

Tutte le persone più vicine a Pablo Escobar hanno scritto libri su di lui, dal fido Popeye alla sua amante storica, Virginia Vallejo. Come mai lei invece ha aspettato così tanto per raccontare il suo punto di vista?

"Quella con Pablo è stata una vita in gran parte dolorosa. Con l’aiuto di psicologi e psichiatri ho impiegato 25 anni per elaborarla. Un processo che ancora non è finito, ma mio figlio Juan Pablo (in Argentina ha adottato il nome di Sebastián Marroquín, mentre Victoria Eugenia Henao qui si fa chiamare María Isabel Santos, ndr) mi ha convinto che le riflessioni di questi anni sono importanti e che era giusto farle conoscere”.

Su suo marito sono state realizzate molte serie tv, come Narcos: le è piaciuta? Si è riconosciuta nel suo personaggio? Suo figlio è stato molto critico...

"Dedico pochissimo tempo a questo genere di serie perché mi riportano a una violenza che mi fa molto male ricordare. Per quel poco che ho visto, ho trovato molte imprecisioni, per esempio l’episodio in cui mio marito uccide a freddo il colonnello Carrillo, un personaggio che probabilmente è ispirato a Hugo Martínez, il capo del Bloque de Búsqueda. Insomma, sono d’accordo con mio figlio”.

Anche lei trova che la serie sia stata troppo morbida con Escobar?

7 storie assurde ma vere su Pablo Escobar, scrive la Redazione di Studentville il 16 Maggio 2018. Come sempre più spesso accade nelle serie tv di oggi, anche Narcos presenta un protagonista – il più grande narcotrafficante di sempre, Pablo Escobar – che difficilmente si potrebbe descrivere come un eroe. La serie tv da vedere è abilissima nel farci provare cosa significhi vivere la vita di un criminale di una simile entità, e ci mostra anche tutto il percorso che ha portato a Escobar ad essere ciò che è: in più proviamo ciò che prova lui, vediamo i suoi affetti, ci sentiamo traditi quando viene pugnalato alle spalle e gioiamo con lui dei suoi successi (tutt’altro che encomiabili). Eppure nonostante la serie tv prodotta da Netflix sia stata lodata per il suo grande realismo e l’aderenza ai fatti di cronaca, ci sono anche molti dettagli che gli sceneggiatori hanno amplificato oppure completamente trascurato per esigenze drammaturgiche. Il bello è che spesso queste storie su Pablo Escobar, segnalate da The Post Internazionale, sono talmente assurde che parrebbero essere state scritte da uno sceneggiatore particolarmente fantasioso. E invece sono proprio vere. Vediamo le 7 migliori.

1 – L’esatta misura della ricchezza di Pablo Escobar potrebbe essere data dalla sua inclusione per ben sette anni di fila nella classifica annuale che la rivista Forbes dedica agli uomini più ricchi del pianeta. Allo stesso tempo ciò indica quanto tra gli anni ’80 e ’90 la sua figura fosse divenuta così famosa da essere considerata alla stregua di un imprenditore alla Donald Trump.

2 – Un altro modo per immaginare quanti soldi avesse accumulato Escobar è quello di visualizzare la quantità di banconote che finivano nelle mani dei suoi contabili. Gli annali ci restituiscono l’incredibile spesa di 2500 dollari al mese per le fascette che venivano utilizzate per stoccare le mazzette di denaro.

3 – Continuiamo su questo filone con un aneddoto che sconfina nella leggenda. Il figlio di Pablo dice che durante un periodo in cui la sua famiglia si stava nascondendo nella campagna colombiana nei pressi di Medellin, il padre fu costretto a usare i dollari per accendere un fuoco che potesse proteggere dal freddo i suoi cari. La stima è che vennero arsi qualcosa come 2 miliardi di dollari in una sola sera.

4 – Tra le prime imprese criminali di Pablo Escobar, in cui si cimentò insieme al cugino Gustavo Gaviria, ci sarebbe anche la vendita di diplomi falsi. I due infatti sapevano riprodurre la grafia degli insegnanti e fornivano non solo pagelle finali false, ma rubavano anche le risposte dei test per venderle al migliore offerente.

5 – Pablo era un grande appassionati di animali esotici, e per arricchire il proprio zoo personale di Napoles non esitava a far portare prede importanti dagli aerei che usava per lo smercio di droga. Una volta gli vennero sequestrate dodici zebre, ma Escobar fece comprare altrettanti asini, li fece pitturare con delle strisce bianche e nere, e corruppe le guardie che sorvegliavano gli animali, producendosi nell’incredibile scambio.

6 – Uno dei metodi più ingegnosi per sfuggire ai controlli dell’antidroga fu sicuramente quello di intingere dei jeans nella cocaina liquida, esportandoli legalmente negli Stati Uniti. Una volta ricevuti gli acquirenti della droga lavavano i jeans con un liquido speciale, estraevano la cocaina e la facevano asciugare. Gli agenti della DEA scoprirono il trucco, ma Escobar semplicemente fece lo stesso con le scatole che contenevano i jeans: quando questi venivano requisiti, ai trafficanti non rimanevano che recuperare i contenitori cui nessuno prestava attenzione.

7 – Perché andare in prigione quando sei ricco sfondato? Escobar accettò di essere incarcerato dal governo colombiano, ma in una struttura che lui stesso aveva finanziato e costruito, La Catedral: la polizia non vi poteva entrare e tutto il personale, inclusi gli stessi detenuti, erano stati scelti personalmente dal trafficante. Inutile raccontare il lusso estremo che caratterizzava il cosiddetto penitenziario.

10 storie incredibili ma vere su Pablo Escobar. Il re della cocaina è stato il più ricco e celebre narcotrafficante della storia. Ecco alcune cose da sapere sul suo conto, scrive Olimpia Troili l'1 Dicembre 2018 su TPI. Il “re della cocaina”, il più famoso narcotrafficante della storia (qui un suo profilo a cura di Guglielmo Latini per TPI), era figlio di un modesto contadino colombiano, ma all’età di 35 anni era già uno degli uomini più ricchi al mondo. Nonostante le umili origini, Pablo Escobar arrivò al vertice del cartello di Medellin, che gestiva l’80 per cento del mercato globale di cocaina. A causa della natura illegale dei suoi affari, non è possibile calcolare l’esatta ricchezza accumulata negli anni da Pablo Escobar, ma si stima che sia superiore ai 30 miliardi di dollari.

Qui di seguito dieci storie incredibili ma vere su El Patron, il più ricco signore della droga della storia:

1. Negli anni Ottanta, il cartello di Medellin – del quale era a capo – ricavava circa 420 milioni di dollari a settimana, per un valore complessivo di 22 miliardi di dollari all’anno. Fonte: The Daily Beast

2. Escobar è stato incluso per sette anni consecutivi, dal 1987 al 1993, nella lista degli uomini più ricchi al mondo della rivista statunistense Forbes. Nel 1989 raggiunse addirittura la settima posizione. Fonte: Forbes

3. Alla fine degli anni Ottanta, l’80 per cento della cocaina del mondo proveniva dai laboratori di Pablo Escobar. Si stima che, in quegli stessi anni, quattro americani su cinque che facevano uso di cocaina sniffavano droga passata per le mani di Escobar. Fonte: A History of Modern Latin America: 1800 to the Present

4. Si calcola che ogni giorno Escobar introducesse negli Stati Uniti 15 tonnellate di cocaina. La maggior parte della droga arrivava negli Stati Uniti attraverso la costa della Florida, via nave o in aereo. Fonte: Killing Pablo, El Narco: Inside Mexico’s Criminal Insurgency

5. Pablo Escobar era appassionato di animali esotici. Quando i funzionari del governo colombiano fecero irruzione nella sua hacienda alla sua morte, avvenuta nel 1993, trovarono oltre 50 ippopotami e alcune specie di uccelli rarissimi. Fonte: TPI 

6. A causa dell’impossibilità di riciclare abbastanza velocemente il denaro proveniente dalla cocaina, Escobar era costretto a nascondere quei soldi nei campi delle fattorie o nei muri delle case dei membri del cartello di Medellin, e ogni anno perdeva circa 2 miliardi di dollari perché quel denaro veniva danneggiato dall’acqua, mangiato dai ratti o semplicemente perso. Fonte: The Accountant’s Story: Inside the Violent World of the Medellín Cartel

7. I contabili di Escobar spendevano ogni mese 2.500 dollari in fascette, necessarie per tenere in mazzette le banconote. Fonte: The Accountant’s Story: Inside the Violent World of the Medellín Cartel

8. Il figlio di Escobar ha raccontato che una sera, mentre vivevano nascosti in un casolare colombiano sui monti sopra Medellin, suo padre diede fuoco a 2 miliardi di dollari per riscaldare la sorella. Fonte: Don Juan magazine

9. Prima che iniziasse la stagione stragista (1989-1991), messa in atto da Escobar al fine di destabilizzare il governo colombiano, i cittadini avevano soprannominato El Patron “Robin Hood” perché donava denaro ai poveri e case ai senzatetto. Costruì persino uno zoo e 70 campi di calcio nei quartieri poveri di Medellin. Fonte: Forbes, A History of Modern Latin America: 1800 to the Present

10. Nel 1991 Escobar stipulò un accordo con il governo colombiano. Venne incarcerato, ma in una prigione di lusso che lui stesso si era costruito, La Catedral. All’interno vi era un campo di calcio e un cortile per i barbecue. Escobar scelse le guardie carcerarie e i compagni di prigione, poteva ricevere i visitatori e dalla Catedral continuò a gestire il cartello. La polizia, inoltre, non poteva avvicinarsi alla prigione entro un raggio di 3 miglia. Fonte: Airship Daily 

Il fratello di Pablo Escobar cerca 50 milioni di dollari per "far fuori" Trump. La famiglia di Pablo Escobar ha bisogno di aiuto per far “sparire” una persona. Questa volta ha puntato molto in alto perché si tratta del Presidente americano Donald Trump, scrive Roberta Damiata, Martedì 08/01/2019, su Il Giornale. Il fratello del defunto boss colombiano della droga Roberto Escobar Gaviria ha iniziato una campagna la GoFundMe di crowdfounding per cercare di trovare 50 milioni di dollari per mettere sotto accusa il Presidente. E la cosa non solo sembra legittima, ma anche possibile. Roberto racconta di avere molti assi nella manica e che già in passato ha creato molti guai al Presidente, e che tutti i segreti che conosce su di lui farebbero comodo davvero a molte persone. “Io sono il fratello di un eroe latino - da detto - ho eliminato molte persone dal potere e posso assicurarvi che anche Trump sarà messo sotto accusa. Si merita questo, e questo le darà la famiglia Escobar”. Nella pagina dove si possono donare soldi c’è la spiegazione completa di tutto il progetto: “Roberto Escobar è l’ex co-fondatore del cartello di Medellin insieme al fratello Pablo Escobar. Roberto era il ragioniere responsabile di oltre 100 miliardi di profitti. Nel 1984 ha fondato la società Escobar Inc, che attualmente gestisce e preserva l’eredità del fratello Pablo”. “Pablo Escobar - continua - è un sudamericano noto anche come eroe leggendario ‘Latino’ che ha aiutato milioni di persone nel suo paese natale, la Colombia e in tutte le zone vicine. Con la forza della compagnia Escobar Inc, fondata da suo fratello Roberto, faremo di tutto per ottenere l’incriminazione di Donald Trump. Fino ad ora tutto quello che Pablo e la sua famiglia hanno fatto, sono diventate imprese multi miliardarie”. Per incitare a donare viene scritto: “Abbiamo bisogno del tuo aiuto, il sostegno delle persone che sono d’accordo sul fatto che non è possibile avere la guida di un Presidente corrotto. Fai la tua donazione e aiutaci a raggiungere l’obiettivo di incriminare finalmente Donald Trump”. Non sappiamo se questa cosa andrà a buon fine e quanto Roberto riuscirà a raccogliere, ma la campagna è attiva e pare che stia riscuotendo un discreto successo. D’altronde è nota a tutti la poca simpatia del Presidente per i latini, “simpatia” perfettamente ricambiata.

Colombia. A colpi di dinamite si smantella il «mito» di Pablo Escobar, scrive venerdì 22 febbraio 2019 Avvenire. L'edificio Monaco, fortino del boss della coca a Medeliin sarà abbattuto. E' il primo passo del Comune per sostituire il palazzo con un parco dedicato alle vittime del narcotrafficante. L'edificio Monaco, che fu il fortino del signore della droga colombiano Pablo Escobar a Medellin, viene distrutto a colpi d'esplosivo. La demolizione, organizzata dal Comune, è il primo passo per sostituire il palazzo con un parco dedicato alle vittime del narcotrafficante. "L'edificio Monaco crollerà. Non si tratta di nascondere la storia ma di cominciare a raccontarla in omaggio ai nostri veri eroi: le vittime", ha scritto il municipio su Twitter. Gli otto piano del bunker, ora quasi in rovina ma un tempo di lusso stravagante, dove con la famiglia viveva il 'capo' del cartello di Medellin sgominato nel 1993 dalla polizia, sarà demolito alle 11 locali (le 17 italiane) di venerdì. La Colombia intanto, nonostante la sconfitta di Escobar e di altri grandi narcos, resta il principale produttore di cocaina del mondo, gli Usa il primo consumatore. Al posto dell'edificio sorgerà un parco di 5mila metri quadrati, che ricorderà le migliaia di persone uccise nel periodo più violento del 'narcoterrorismo', nei decenni '80 e '90, quando i cartelli della droga colombiani conducevano una guerra senza tregua. La demolizione rientra in una campagna del comune di Medellin che vuole raccontare l'altra faccia della storia, ignorata da serie tv e percorsi turistici, ideati sulle tracce dei 'narcos' e per cui il palazzo Monaco è una tappa pressoché obbligata. Ogni giorno gruppi di persone arrivano in visita al fortino bianco, costruito negli anni '80 da Escobar nel cuore di El Poblado, uno dei quartieri più eleganti della città. Ora il palazzo è abbandonato, ma per anni ha ospitato vari enti pubblici, tra cui anche la polizia. Alla guida di un vero impero del crimine, Pablo Escobar è stato una delle persone più ricche del mondo, secondo Forbes. Ma dall'anno scorso i turisti che partecipano ai 'narcotour' vedono sui muri del palazzo poster che ricordano gli altri protagonisti, che il municipio intende ricordare: poliziotti, giornalisti, giudici e altre persone assassinate su ordine del 're della cocaina'. "Rispettate il nostro dolore, onorate le nostre vittime (1983-1994) - 46.612 vite in meno", si legge su uno dei cartelli, che scomparirà nell'esplosione, oltre 25 anni dopo la morte del criminale (il 2 dicembre 1993). Anche l'Hacienda Napoles, immensa proprietà nel nordovest della Colombia dove Escobar aveva creato uno zoo, è stata trasformata in un parco. Le 443 casette che aveva fatto costruire per delle famiglie che vivevano in una discarica di Medellin restano invece in piedi: a Escobar valsero il singolare soprannome di 'Robin Hood colombiano'.

L’isola segreta di Pablo Escobar è una meraviglia in rovina, scrive la Redazione di Darlin. A meno di un’ora di navigazione dal porto colombiano di Cartagena de Indias, si trova un arcipelago composto da 30 isolette da sogno conosciute come le Islas de Rosario. Spiagge di sabbia bianca, acqua cristallina… un vero paradiso tropicale. Se vi spingete ancora un po’ oltre troverete la Isla Grande, un pezzo di terra di proprietà di circa 800 abitanti che vivono di pesca e allevamento, lontano dal mondo moderno. Niente elettricità né acqua corrente, la vita segue i cicli del sole. Un’isola per nulla turistica, anche se aveva attirato l’attenzione di una persona molto famosa che ci ha costruito una villa incredibile: Pablo Escobar, El Patron, ricco trafficante di droga colombiano. All’estrema punta dell’isola si è fatto erigere una lussuosa villa e un complesso di palazzi residenziali. Ormai abbandonata da anni, non possiamo che immaginare quanto sia stata grandiosa ai tempi in cui gli affari di Pablo andavano a gonfie vele, quando era responsabile dell’80% dello smercio di cocaina nel mondo. Ogni giorno facevano passare 15 tonnellate di coca negli Stati Uniti e spendevano 1000$ di scotch al mese per sistemare le loro mazzette di soldi. Nel 1989, la sua fortuna era stimata per 30 miliardi di dollari. Come uno degli uomini più benestanti al mondo, la vita di Pablo Escobar era votata all’eccesso. Le sue macchine di lusso non si contano, aveva anche 15 aerei e 6 elicotteri, un zoo privato con rinoceronti, giraffe ed elefanti. Ha anche investito nel suo club di calcio preferito: l’Atletico Nacional, che ha vinto una Copa Libertadores. Nel suo complesso di Isla Grande c’erano 300 camere a disposizione per gli ospiti, docce ricoperte d’oro, un’enorme piscina e una pista d’atterraggio per elicotteri. Adesso l’isola è proprietà del governo colombiano.

Gli ippopotami di Pablo Escobar continuano a riprodursi e la Colombia non riesce a fermarli. Pablo Escobar aveva uno zoo privato di contrabbando. Oggi i suoi ippopotami si riproducono e vagano per la città, scrive su dailybest.it Simone Stefanini il 14 Febbraio 2019. Il sito di CBS News ci informa che anche gli ippopotami di Pablo Escobar fanno sesso più di voi. Andiamo per gradi: la storia degli ippopotami della Colombia inizia a Villa Napoles, l’ex tenuta di Pablo Escobar di poco fuori Medellín che, nel suo periodo d’oro, aveva uno zoo privato. Avete letto bene, zoo privato, giusto per farvi rendere conto del potere anche economico del narcotrafficante più famoso nel mondo, con più di 7000 morti sulle spalle. Il ranch di Escobar ospitava centinaia di animali esotici, tra cui rinoceronti, elefanti, giraffe e quattro ippopotami, tutti di contrabbando. Dopo la morte di Escobar avvenuta nel 1993, il governo è entrato in possesso della villa e ha risistemato tutti gli animali esotici, dimenticandosi degli ippopotami, rimasti liberi a scorrazzare nell’area. La zona è piena di acqua, cibo e non ci sono predatori naturali, un luogo perfetto per la riproduzione degli ippopotami, che ricordiamo essere animali giganti, bestioni da tre tonnellate. La popolazione dapprima felice di vedere gli animali liberi, sta iniziando a preoccuparsi perché gli ippopotami vagano sempre più vicino alle abitazioni e, beh, non solo cagnolini a cui puoi tirare un osso. Secondo una stima recente, ci sono ben 50 ippopotami vaganti nell’area e, vista la nuova compagnia, i lamantini hanno deciso di abbandonare l’area. Finora non è accaduto nessun incidente, ma gli esperti dicono sia solo questione di tempo: gli ippopotami sono naturalmente aggressivi e voluminosi, per sterilizzarli servono fondi e attrezzature ci sui non sono ancora dotati in Colombia, che al momento, oltre ai problemi interni di terrorismo, deve anche fronteggiare questa bizzarra emergenza ippopotami.

La Colombia ha un problema: gli ippopotami di Pablo Escobar non smettono di riprodursi. Nessuno sa che fare per arginare il moltiplicarsi dei pachidermi provenienti dallo zoo privato del narcotrafficante, pericolosi sia per l'uomo che per l'ecosistema, scrive Francesco Russo il 27 febbraio 2019 su Agi. Quando Pablo Escobar era il boss del narcotraffico più ricco e temuto del mondo, poteva permettersi qualsiasi cosa. Persino avere un serraglio privato con animali esotici da tutto il mondo a Villa Napoles, la sua lussuosa tenuta. Rinoceronti, elefanti, giraffe. E ippopotami. A differenza dei loro compagni di prigionia, smistati dalle autorità colombiane in diversi zoo dopo la morte di Escobar, avvenuta nel '93, questi ultimi sono stati lasciati liberi di proliferare nel fiume Magdalena, che si è rivelato un ambiente ideale per loro. Privi di predatori naturali, i quattro pachidermi posseduti da Escobar - tre femmine e un maschio - hanno dato vita a una popolazione di oltre cinquanta ippopotami, che costituiscono una minaccia sempre più seria sia per l'ecosistema che per la popolazione dei piccoli villaggi di pescatori presenti nell'area. Sebbene non si siano ancora verificati incidenti, questi bestioni di tre tonnellate, in natura diffusi solo nell'Africa subsahariana, sono molto pericolosi per l'uomo. Essendo fortemente territoriali, gli ippopotami attaccano chi percepiscono come un estraneo, soprattutto in presenza della prole, e in Africa sono la prima causa di morte tra le persone che vengono uccise da un animale (a dispetto della stazza, possono correre a una velocità di 30 chilometri orari). In teoria, gli animali dovrebbero restare confinati nella tenuta, oggi trasformata in un parco a tema. In pratica, nessuno può impedire loro di sconfinare nei pressi delle aree abitate. E così gli ippopotami sono diventati una visione consueta per gli abitanti della zona, che li chiamano con affetto "cuccioli del villaggio" e si sono ormai abituati a vederli girare per le strade dei paesi e sconfinare nelle fattorie per nutrirsi delle verdure dell'orto. "Sono come i cani, se si sa come trattarli, andrà tutto bene", racconta alla Cbs un pescatore locale, Pablo José Mejia. Il biologo David Echeverri, incaricato dal governo colombiano di monitorare gli ippopotami, è invece di diverso avviso: "Se continuano a moltiplicarsi è solo questione di tempo finché qualcuno non resterà ferito". Echeverri teme inoltre che i pachidermi siano già diventati una specie invasiva e che stiano scacciando dal loro habitat la fauna locale, come i lamantini. Sono stati inoltre registrati danni agli allevamenti, con alcuni vitelli morti schiacciati dagli ippopotami. Che fare? Eliminarli non si può, la popolazione si è affezionata a loro e si tratterebbe di una scelta molto impopolare. "Non possiamo semplicemente uccidere gli ippopotami", spiega Echeverri, "una soluzione è spostarli o sterilizzarli". Una soluzione che sarebbe però costosa e complicata da attuare. E non solo perché tutti gli zoo del Paese sono al completo. Gli ippopotami sono infatti molto sensibili alla sedazione e non è difficile che muoiano dopo essere stati narcotizzati. Ed è molto difficile trovare un veterinario disposto a correre i rischi che comporta il tentativo di castrare un ippopotamo. Mentre le autorità rimangono indecise sul da farsi, gli ippopotami continuano a riprodursi a ritmi frenetici. Carlos Valderrama, uno dei veterinari incaricati del monitoraggio, ha spiegato che in Africa gli animali diventano sessualmente maturi tra i sette e i nove anni se maschi e tra i nove e gli undici anni se femmine. Gli ippopotami di Escobar, invece, iniziano a riprodursi già a tre anni e ogni femmina sta dando alla luce una media di un cucciolo all'anno. Una situazione che il Wwf ha definito una "bomba a orologeria". A oltre 25 anni dalla sua morte, Pablo Escobar continua a creare problemi al suo Paese.

Pablo Escobar, Medellín fa i conti con il suo fantasma, scrive il 30.11.2018 tio.ch. Il Re della Cocaina fu ucciso il 2 dicembre di 25 anni fa, oggi cinema e tv l'hanno trasformato in un'icona pop - e nella città colombiana non ne sono felici. Il 2 dicembre di 25 anni fa terminava l'esistenza terrena di Pablo Escobar, il Re della Cocaina. Un personaggio che è diventato nell'immaginario popolare il trafficante di droga per antonomasia. Un nome che è diventato leggendario - anche a causa di cinema e tv - e con il quale la Colombia deve ancora fare i conti. La resa e l'inganno - Due anni prima dei fatti che portarono alla sua morte Escobar si era consegnato alle autorità colombiane, per evitare di finire nelle mani dell'antidroga statunitense. «Preferirei avere una tomba in Colombia che una cella negli Stati Uniti» ripeteva. L'accordo prevedeva il soggiorno in quella che divenne a tutti gli effetti una lussuosa prigione privata, nota come La Catedral, dalla quale Escobar evase nel luglio 1992 - appena prima che il governo colombiano lo trasferisse in un carcere convenzionale. Per quasi un anno e mezzo le autorità - con l'aiuto degli Stati Uniti - condussero una sanguinosa guerra contro il cartello di Medellín da lui guidato, che vide cadere sul campo alcune centinaia di persone. La morte - Il 2 dicembre 1993 il narcotrafficante fu localizzato in un quartiere di Medellín. Lui e la guardia del corpo Alvaro de Jesús Agudelo cercarono di fuggire passando sui tetti delle abitazioni e ingaggiando un conflitto a fuoco con gli uomini della speciale task force della polizia colombiana. Escobar venne colpito da alcuni proiettili e anche Agudelo fu ucciso. Negli anni in molti si sono attribuiti il merito di essere stati gli uccisori del Re della Cocaina. Una ricchezza immensa - Per capire, a distanza di decenni, le dimensioni dell'impero economico creato da Escobar, basta citare l'analisi della rivista Forbes: nel 1989 la sua fortuna personale era stimata in quasi 3 miliardi di dollari, mentre il cartello di Medellín muoveva all'incirca 26 miliardi di dollari all'anno. Ovvero 70 milioni ogni giorno. Le sue proprietà includevano immobili, ranch, terreni e una flotta impressionante tra veicoli, aeroplani, imbarcazione e anche piccoli sottomarini, usati per introdurre la droga negli Usa. Un fantasma che grava sulla Colombia - L'ombra di Escobar pesa ancora oggi sulla Colombia. I tour della città si soffermano nei luoghi significativi della sua esistenza e alcuni piccoli trafficanti del cartello - come Jhon Jairo Velásquez, soprannominato Popeye - si sono ricostruiti un'esistenza legale illustrando ai viaggiatori com'era operare accanto al Re della Cocaina. Gadget con il volto o le sue parole sono venduti come se nulla fosse. Il Monaco Building, l'edificio che è stato la sua dimora a Medellín e che fu oggetto di un attentato dinamitardo nel 1988, si è trasformato in una sorta di attrazione turistica ed è diventato un soggetto classico da fotografare e postare su Instagram. Una circostanza che ha stancato il sindaco della città, Federico Gutiérrez Zuluaga: «Questo simbolo d'illegalità, di malvagità, verrà raso al suolo» ha dichiarato nei mesi scorsi al New York Times. La demolizione è prevista per i primi mesi del 2019. Al suo posto sorgerà un parco pubblico in ricordo delle vittime del narcotraffico. Escobar, a distanza di 25 anni, è un problema con cui le autorità si devono confrontare. Da mostro a icona - L'essere diventato un'icona pop ha edulcorato tutto quanto di malvagio Escobar e i suoi complici hanno commesso e i tour della città sulle sue orme hanno contribuito al processo di banalizzazione. Anche se non come il successo planetario di "Narcos", la serie Netflix che ha ottenuto uno straordinario successo mondiale e ha reso Medellín un'attrazione internazionale. «È come se i membri di Al Qaeda facessero dei giri turistici di New York su come hanno pianificato gli attentati dell'11 settembre» spiega Luis Hernando Mejía, rappresentante dell'associazione del quartiere di cui fa parte il Monaco. Già, perché nel corso dei tour non vengono risparmiati dettagli atroci di rapimenti, sparatorie e omicidi. Andare avanti - Per questo motivo l'abbattimento del Monaco è diventato fondamentale: si tratta di rimuovere un simbolo del passato e mostrare che la città è rinata, che la legge ha trionfato sul caos, ha ribadito Gutiérrez al quotidiano statunitense. Ma non solo: è giunto il tempo che a Medellín si smetta di raccontare, incessantemente, la stessa storia: la storia di Pablo Escobar.

Medellin, chiuso il museo su Pablo Escobar. L'edificio era una delle tappe del "narcos tour" della città colombiana, un viaggio tra i luoghi della vita del re dei trafficanti di droga. Il sindaco: "I simboli della malavita devono sparire", scrive Nicolò Delvecchio il 21 settembre 2018 su La Repubblica. La polizia di Medellin ha chiuso un piccolo museo cittadino dedicato alla vita di Pablo Escobar, tra i più importanti narcotrafficanti al mondo ucciso nel 1993. Gestito dal fratello di Escobar, Roberto, il museo era privo di licenza turistica e, al momento della chiusura, ospitava sette visitatori. "Abbiamo temporaneamente sospeso questa attività che esalta la figura di uno dei peggiori banditi, uno di quelli che ha creato i danni più gravi a questa città" ha detto il capo della polizia di Medellin, Andrés Tobon. "E come se non bastasse, l'attività in questione non era neanche in regola", ha aggiunto. Il luogo costituiva una delle tappe del "narcos tour", una delle attrazioni più popolari della cittadina colombiana, che consiste nel visitare alcuni dei luoghi chiavi della vita di Escobar, tra cui la sua tomba, la lussuosa Catedral - la prigione da lui fatta costruire nell'accordo con il governo di Bogotà in cambio della mancata estradizione negli Stati Uniti - e una casa del boss bombardata dai suoi nemici. Un tour "macabro" ma sul quale il sindaco di Medellin, Federico Gutierrez, non può fare nulla: "Dovremmo raccontare le storie delle vittime del narcotraffico e fare qualcosa per ricordarle, invece di promuovere questa cultura della malavita dipingendo chi ha creato dolori enormi come una leggenda". Gutierrez ha portato avanti una campagna per cambiare la cultura della città - un'impresa difficile, data l'estrema popolarità di cui Escobar gode ancora oggi nei quartieri più poveri di Medellin - e ha spesso criticato le popolari serie tv incentrate sulla vita del narcotrafficante. Quest'anno ha inoltre annunciato un progetto per demolire l'Edificio Monaco, un palazzone di sei piani nel centro della città appartenente a Don Pablo, per trasformare l'area in un parco che commemori le vittime dei narcos, compresi numerosi agenti di polizia uccisi proprio su ordine di Escobar. "Sono convinto che tutti i simboli dell'illegalità debbano cadere", ha detto in passato Gutierrez a proposito dell'edificio. Il tutto mentre la Colombia fa ancora fatica a mettere un freno alla filiera della cocaina, la cui domanda in Europa e negli Stati Uniti continua a crescere. All'apice del suo successo Escobar controllava l'80% della cocaina in circolo negli Usa. Per sette anni, fino al 1993, è stato inserito dalla rivista Forbes nella lista dei miliardari del mondo. Nel complesso, si ritiene che sia responsabile della morte di oltre 4,000 persone.

Il turismo attorno a Pablo Escobar a Medellín, scrive il 6 ottobre 2018 Il Post. Da qualche anno si organizzano tour per visitare i luoghi del più noto e potente narcotrafficante di sempre, ma le cose ora potrebbero cambiare. Il 2 dicembre 1993 Pablo Escobar, uno dei trafficanti di droga più ricchi e violenti di sempre, fu ucciso in una sparatoria con la polizia a Medellin, la città della Colombia dove era nato e dove aveva costruito il suo impero criminale ed economico. Negli ultimi 25 anni la città è cambiata in maniera massiccia, ma il suo rapporto con Escobar è rimasto controverso. Il recente successo della serie tv Narcos, e di molte altre simili, ha moltiplicato l’interesse turistico verso i luoghi di Escobar a Medellin. Il sindaco della città ha annunciato di recente di voler provare a cambiare le cose, rifiutando la celebrazione di Escobar come una specie di “personaggio pop”, ma non sarà facile superare le resistenze di una parte della popolazione locale. Per Medellin, infatti, Escobar non fu solo un potente trafficante. Con i soldi provenienti della vendita della cocaina, il suo cartello criminale costruì e modificò il paesaggio urbano della città. Nei suoi primi anni di attività nel traffico di droga, Escobar riciclò enormi quantità di denaro in grandi opere pubbliche e nella costruzione di case per famiglie povere. Ancora oggi c’è un quartiere della città che viene chiamato informalmente “quartiere Pablo Escobar”, dove ci sono murales che lo ritraggono, immagini e frasi che lo celebrano, e dove alcuni negozi locali fanno affari vendendo souvenir a tema. Il rapporto tra gli abitanti di Medellín e il ricordo di Escobar è complicato: i membri della troupe di Narcos, per esempio, hanno raccontato di avere incontrato molte resistenze da parte della popolazione locale durante le riprese, soprattutto all’inizio. Una delle mete turistiche più popolari a Medellin per chi vuole scoprire i luoghi di Escobar è Mónaco, edificio di sei piani che fu bombardato nel 1988 dal cartello di Cali, gli allora rivali di Escobar. Mónaco non era solo la casa della famiglia di Escobar, ma anche il posto dove i nemici del cartello più potente di Medellin erano torturati e uccisi. Le altre tappe obbligate per chi è interessato a questo tipo di turismo sono la tomba di Escobar, la residenza Nápoles, dove la sua famiglia andava a stare fuori da Medellin, e la Catedral, la prigione che fu costruita per lui – e che fu in parte pensata da lui – a seguito di un accordo con il governo colombiano. Uno dei primi a iniziare i tour nei luoghi di Escobar è stato Jhon Jairo Velásquez, detto “Popeye”, ex sicario del cartello di Medellín che negli anni Ottanta e Novanta uccise decine di persone per conto del gruppo criminale. Uscito dal carcere, nel 2016 Velásquez cominciò a vendere DVD e organizzare tour in giro per Medellín. Aprì inoltre un canale YouTube che si chiama “Popeye arrepentido” (“Popeye pentito”), dove per esempio posta dei video per raccontare come uccise alcune delle vittime delle violenze del cartello. Luis Hernando Mejía, che rappresenta l’associazione di vicini nella zona dove si trova l’edificio Mónaco, ha detto al New York Times: «È come se membri di al Qaida organizzassero tour a New York per spiegare come pianificarono l’11 settembre». A maggio Velásquez è stato arrestato di nuovo con l’accusa di estorsione. Da tempo Medellín – o per lo meno una sua parte – sta cercando di lasciarsi alle spalle il passato, ha scritto il New York Times. Oggi è una città trasformata rispetto agli anni delle violenze dei cartelli della droga, e attrae architetti di fama internazionale, start-up tecnologiche e ristoranti alla moda. Lo scorso aprile il sindaco della città, Federico Gutiérrez, ha promesso di demolire il Mónaco per costruire un parco in onore delle vittime del cartello di Medellín. Il suo obiettivo è trasformare i luoghi che oggi sono sfruttati dal turismo attorno a Escobar in musei che ricordino le vittime delle violenze del cartello criminale.

Pablo Escobar: il calcio e il narco-traffico colombiano, scrive Tommaso Valisi il 3 agosto 2017 su sportribune.it. La storia di un calcio che tra gli anni “80 e “90 è stato indissolubilmente legato al mondo dei Narcos. Ci sono certe realtà calcistiche che non possono fare a meno che legarsi alla storia e alla situazione politica ed economica del proprio paese, che sia esso sotto una dittatura, in guerra o sotto il controllo di organizzazioni criminale. L’ultimo caso è sicuramente stato quello della Colombia ai Mondiali del 1994. Al rientro in patria dei cafeteros l’autore dell’autogol decisivo per l’eliminazione della sua nazionale venne ucciso pochi giorni dopo fuori da un locale vicino a Medellin. Andres Escobar con il suo involontario gesto fu colpevole di aver fatto perdere al gruppo Los Pepes, organizzazione nata con lo scopo di eliminare il più conosciuto signore della droga Pablo Escobar Gaviria e in seguito trasformatasi in una vera e propria associazione criminale, i soldi delle loro scommesse sul passaggio della Colombia alla fase successiva. L’omicidio del giocatore dell’Atletico Nacional è però solo la punta dell’iceberg di un calcio che nel decennio fra metà anni 80 e 90 divenne di proprietà esclusiva dei narcos. Tutto inizia con Hernan Botero, storico presidente colombiano che fece grande proprio l’Atletico Medellin ridando lustro alla squadra e portandola a vincere ben 3 campionati nazionali; il problema era che i soldi che Botero utilizzava erano diretti derivati delle sue attività da narcotrafficante e fu quindi estradato negli Usa nel 1985. Alla presidenza del club di Medellin si succedettero nel corso degli anni diversi presidenti fino ad arrivare a Pablo Escobar in persona, che di quel club era tifoso fin da bambino, ovviamente il più grande narcotrafficante dell’epoca non poteva controllare direttamente la formazione bianco verde per motivi formali, ma la sua influenza fu immensa tanto da utilizzare l’ormai arcinoto sistema della plata o plomo anche con gli arbitri che osavano bloccare la marcia trionfale delle squadre da lui finanziate, un esempio è la tragica morte di Alvaro Ortega, colpevole di aver annullato un fuorigioco alla squadra sbagliata e per questo ucciso da 9 colpi di pistola qualche giorno dopo. L’influenza di Escobar nel calcio non si limitò però solo ai meri risultati sportivi ma contagiò anche la cultura calcistica sudamericana, tanto da non far apparire strana la presenza di stelle del calibro di Higuita e Maradona in partite organizzate dentro La Catedral, il carcere che Escobar stesso si costruì dopo esser sceso a patti con il governo colombiano. Dopo la morte di El Patron il calcio colombiano fu di fatto governato da coloro che lo avevano sconfitto, gruppi come il Cartello di Cali e i Los Pepes andarono a toccare anche coloro che in Pablo avevano trovato rifugio e protezione, come ad esempio i giocatori della nazionale colombiana, fu questo forse che ancor di più costò la vita all’altro Escobar, Andres, difensore di primissima fascia che fu vittima di scommesse fatte da altri. Solo ora, dopo tanti anni, la situazione in Colombia è migliorata e il clacio sta riprendendo vita, libero dai narcos e libero, soprattutto, di crescere in maniera spontanea, sfornando campioni del calibro di James Rodriguez, Bacca e Falcao, con l’idea di continuare a crescere per cancellare idee e pregiudizi che ormai appartengono al passato.

I sogni di gloria calcistica della Colombia di Pablo Escobar, scrive Andrea Corti l'1 dicembre 2018 su iogiocopulito.it. Il Primo Dicembre 1949 nasceva Pablo Escobar, il narcotrafficante più famoso del mondo. Vi raccontiamo la sua parabola calcistica e di come i cartelli della cocaina si scontrarono su un campo di gioco. Siamo negli anni 80 e in Sudamerica un movimento calcistico brilla come mai aveva fatto in passato: in Colombia c’è grande fermento per quanto avviene sui campi da calcio della Primera A, popolata da fior di campioni autoctoni e stranieri. Tra 1985 e 1987 l’America de Calì arriva tre volte in finale di Copa Libertadores, perdendo sempre la partita decisiva anche a causa di un pizzico di sfortuna. Ad alzare il trofeo su cui mai nessuna squadra colombianaera riuscita a mettere le mani fino ad allora è, nel 1989, l’Atletico Nacional de Medellin, che pochi mesi più tardi contende la Coppa Intercontinentale con il Milan degli olandesi di Arrigo Sacchi fino ai supplementari, quando a decidere il match è una punizione di Evani.

Il calcio di Pablo Escobar. La squadra guidata da Francisco Maturana può contare sul talento di alcuni dei migliori giocatori colombiani di quella generazione, tra cui il carismatico portiere René Higuita e il difensore Andrés Escobar. E sull’appoggio economico del narcotrafficante più famoso della storia, ovvero Pablo Escobar Gaviria. Sono gli anni del boom del traffico della cocaina, e la Colombia è diventata la principale esportatrice della polvere bianca: i vari boss dei cartelli di Calì e Medellin decidono di usare il calcio per ripulire parte dei loro guadagni. Stiamo parlando di cifre mastodontiche, se si pensa che proprio Escobar nel 1987 è il settimo uomo più ricco del mondo secondo la classifica stilata dalla prestigiosa rivista ‘Forbes’. Considerato dai suoi concittadini una sorta di Robin Hood locale, Escobar decide di finanziare le squadre della sua Medellin, portando ‘Los Verdolagas’ in cima al Sudamerica.

I cartelli della droga e il calcio. Non mancano però le zone d’ombra: nel 1990 l’arbitro uruguaiano Cardellino denuncia alla Conmebol un tentativo di corruzione (con tanto di minacce di morte) per il match tra Nacional e Vasco de Gama. Per la prima volta nella storia viene deciso di ripetere una partita in assenza di errori tecnici da parte della terna arbitrale. Sono gli anni in cui, se da una parte la Colombia diventa progressivamente il Paese più violento del mondo con migliaia di morti tra civili e militari in quella che si rivela essere una vera e propria guerra, dall’altra i protagonisti indiscussi di questo conflitto spesso si sfidano sui campi di calcio: il ‘Messicano’ Rodriguez Gacha si toglie lo sfizio di veder giocare nella sua squadra, il Millionarios, una leggenda come Carlos Valderrama, mentre i fratelli Rodriguez Orejela sono decisivi nel periodo d’oro dell’America de Calì. I calciatori colombiani, grazie ai narcodollari, ottengono stipendi simili a quelli che percepirebbero in Europa, e sono molti gli stranieri che in questo periodo transitano dalle parti di Calì e Medellin. L’atmosfera che si respira, tuttavia, è ben diversa da quella di Wembley o San Siro: considerati anche gli interessi dei Narcos nel settore delle scommesse, la violenza la fa da padrona, come dimostra l’uccisione di Alvaro Ortega, arbitro ‘reo’ di aver annullato un gol all’Independiente de Medellin contro l’America de Calì, episodio che porta alla sospensione del campionato. I mondiali di USA 1994. Ma nello stesso periodo la Colombia può contare su una generazione di calciatori di livello assoluto, che promette di portare la Nazionale su livelli mai toccati in precedenza. Se nel Mondiale italiano del 1990 a fermare i ‘Cafeteros’ è il Camerun di Roger Milla (e la tanto clamorosa quanto famosa ‘papera’ di Higuita), alla vigilia di USA ’94 sembrano esserci tutte le premesse per un torneo da non dimenticare. La Colombia si qualifica spazzando vial’Argentina nel match decisivo con un clamoroso 0-5 esterno, e anche Escobar è decisamente orgoglioso tanto da ‘convocare’ a La Catedral, il lussuosissimo carcere che aveva fatto appositamente costruire per se stesso dopo aver trovato l’accordo con il Governo colombiano per evitare l’estradizione negli States, buona parte della squadra in partenza per il torneo iridato. Varie stelle del calcio colombiano, tra cui Higuita, accettano l’invito, e si sfidano in un match in onore della Virgen de las Mercedes, la protettrice dei reclusi.

La morte di Pablo Escobar e il declino del calcio colombiano. E’ il 1993, e da lì a poco per la Colombia cambia tutto: Pablo Escobar viene ucciso il 2 dicembre, e la spedizione americana della squadra di Maturana, diventato Ct, delude le attese. I ‘Cafeteros’ vengono eliminati nel girone anche e soprattutto a causa della sconfitta con i‘Gringos’. Gli USA si impongono a sorpresa per 2-1, e la rete decisiva è un autogol di Andrés Escobar, una delle colonne della Nazionale e del Nacional de Medellin vicecampione del Mondo nel 1989. Pochi giorni dopo il difensore perde la vita in seguito a un’accesa discussione, colpito da 12 colpi di pistola sparati dalla guardia del corpo dei fratelli Gallòn Henao, ex uomini di Pablo Escobar in rampa di lancio dopo la morte del boss. E’ la certificazione della fine di un’epoca per la Colombia intera, e ovviamente anche per il calcio: serviranno altri 20 anni ai ‘Cafeteros’ per tornare ai livelli di quel tempo. Anche se il contesto in cui si muovono adesso James Rodriguez e Radamel Falcao sembra decisamente cambiato rispetto a quello di Pablo e Andrés Escobar.

Escobar: Morire di Mondiale a Medellin, scrive storiedicalcio.altervista.org. Ritenuto in qualche modo “colpevole” dell’eliminazione della sua Nazionale, andò incontro alla morte al ritorno in patria: fu ucciso con dei colpi di pistola da un’ex guardia del corpoall’uscita del ristorante dove aveva appena cenato con la moglie. «Grazie per l’autogol» e poi dodici colpi a bruciapelo. Questa la causa dell’omicidio di Andres Escobar, crivellato di proiettili mentre usciva da un ristorante di Medellin. Escobar, 27 anni, era il più importante difensore della Nazionale della Colombia, appena rientrata di patria a testa bassa e tra accese contestazioni dopo essere stata eliminata dalla Coppa del Mondo 1994 dopo la sconfitta per 2-1 proprio con i padroni di casa degli Stati Uniti. Escobar va con tre donne in un ristorante del quartiere di Las Palmas dove risiedeva. Il proprietario del locale racconta che, dopo il pasto, il giocatore esce dirigendosi verso l’auto. Nel parcheggio è avvicinato da un gruppo di uomini che sembravano attenderlo iniziano ad aggredirlo con insulti. Si scatena una discussione ai limiti della rissa incentrata proprio sull’autogol in cui è incappato il difensore nella partita dell’esclusione dalla Coppa. Ma la discussione dura poco, perché gli uomini passano subito dalle parole ai fatti. Estratte le pistole, fanno fuoco a ripetizione su Escobar, che viene trasportato da un taxi all’ospedale di Las Palmas. Inutilmente, perchè ci arriverà cadavere. Le tre donne presenti rimangono illese. Gli uomini fuggono poi a bordo di due fuoristrada, uno dei quali, una Toyota, viene ritrovato più tardi dalla polizia, abbandonato nei pressi dell’aeroporto. Si tratta di una jeep rubata e fornisce la certezza che l’agguato a Escobar era premeditato e organizzato dalla malavita. Andres Escobar Saldarriaga era un idolo dei tifosi dell’Atletico Nacional, la squadra di Medellin, una città 240 chilometri a nord di Bogotà. A differenza di quasi tutti gli altri calciatori, proveniva da un ceto sociale medio alto. Era fidanzato con una dentista, Pamela Casals, e stava meditando di raggiungere per qualche tempo una squadra europea. Ma poi voleva tornare: Medellin era la sua città e quello era il posto dove intendeva passare la gran parte della sua vita. La Colombia aveva iniziato male il Mondiale. Nel match d’esordio contro la Romania era stata messa ko da tre gol di Raducioiu. Il 22 giugno il secondo incontro, avversario i padroni di casa degli Stati Uniti. Al 34′ del primo tempo, su un cross sbagliato del mediano statunitense Harkes, Escobar interviene in spaccata all’altezza del dischetto del rigore deviando il pallone, destinato al fondo campo, al di là della propria porta, difesa da Cordoba. Escobar rimane a lungo disteso sull’erba, impietrito dallo sfortunato episodio. Gli uomini del ct Maturana non si riprenderanno più. A tempo scaduto Valencia sigla l’inutile rete del 2-1, Stewart aveva raddoppiato in avvio di ripresa. Quella partita, però, la Colombia praticamente non l’ha giocata. L’autogol di Escobar non è soltanto la conferma di una forma fisica precaria già palesata da tutta la squadra contro la Romania. E’ invece la diretta conseguenza del clima di terrore in cui il team sudamericano è sprofondato nell’immediata vigilia del match. Riallacciando con cura tutti i fili, la fine di Escobar si può dire che in qualche modo è annunciata. Alle 11 del mattino del 22 giugno, cinque ore prima della tragica sfida con gli Stati Uniti, giunge nell’hotel di Fullerton un fax anonimo: «Se Gomez gioca faremo saltare in aria la sua casa e quella del et Maturana». L’allenatore riunisce la squadra, si decide di estromettere il centrocampista. Gomez tornerà in patria, distrutto. Era diventato il capro espiatorio di una situazione paradossale e tragica. Gabriel Gomez, 34 anni, era stato descritto dalla stampa colombiana il responsabile unico – o quasi – della sconfitta con la Romania. I critici avevano lavorato su un terreno minato. Gomez infatti ha un fratello (Hernán Darío Gómez) che è il vice di Maturana. Di Gomez i media colombiani scrivevano e dicevano che giocava solo perché era un «favorito». Il cartello di Medellin colpendo Gomez in verità voleva colpire il ct. E c’è tutto un pesante retroterra di sospetti sull’interferenza del cartello trionfante dei narco- trafficanti, quello di Cali, sul calcio colombiano, dopo anni di dominazione del cartello di Medellin, quello di Pablo Escobar, il signore della droga che aveva contribuito alle fortune del suo club, l’Atletico Nacional (arrivato ad una finale di Coppa Intercontinentale con il Milan a Tokyo e battuto solo ai supplementari, dopo una grande prova, fra l’altro, proprio di Andres Escobar). Gli intrecci sono tanti e confusi, nella chiarezza però dell’assunto principale: il calcio, popo- larissimo in Colombia dove divide i favori degli sportivi solo con il ciclismo, è anch’esso terreno di conquista dei narcotrafficanti. Nel 1993 René Higuita, il famoso portiere delle uscite sino a metà campo, è messo in carcere sette mesi per partecipazione, come intermediario, al rapimento della figlia di un possidente: il riscatto sembra dovesse servire al finanziamento della latitanza di Pablo Escobar, ucciso nel dicembre 1993 dalla polizia. I funerali del super boss si svolsero a Medellin con un vasto concorso di popolo in lacrime, compresi i tifosi dell’Atletico Nacional, orbati del loro padre-finanziatore. Ma altri intrecci possono sverlarsi nel rapporto contorto e intanto assai palpabile fra narcotraffico e calcio. Per esempio nel 1992 un movimento chiamato LiFuCol (limpieza, cioè pulizia del futbol colombiano), legato al cartello di Cali, minacciò di morte Maturana, allenatore della Nazionale, se avesse convocato in Nazionale giocatori di un altro club di Medellin, quello di Antioquia (il nome della provincia di cui Medellin è il capoluogo). Maturana non solo respinse le minacce, ma convocò in Nazionale tre giocatori di quel club (Higuita, Alvarez e «Barrabas» Gomez) e volle al suo fianco nella Colombia l’allenatore, appunto il Gomez fratello del calciatore minacciato a sua volta di morte. Da ricordare poi due altri episodi: il rapimento del figlioletto di Luis Fernando Herrera; nazionale colombiano, anche lui dell’Atletico Nacional di Medellin, tre mesi prima dell’inzio del mondiale americano, con richiesta di enorme riscatto, appello drammatico in televisione del giocatore, restituzione della creatura; e lo sciopero del 1990 degli arbitri colombiani dopo l’uccisione di uno dei loro, che si era rifiutato di far terminare in un certo modo una certa partita. Tutti questi fili portano ad una conclusione sconcertante: il «sacrificio» di Andres Escobar sarebbe stato deciso da un clan di scommettitori che avevano investito grosse cifre sulla qualificazione della Colombia agli ottavi. In sostanza, allibratori e scommettitori avrebbero rispecchiato due cartelli rivali, quello di Cali contro quello di Medellin impegnato a risorgere. Escobar avrebbe, con il suo autogol, involontario ma determinante, aiutato gli allibratori a evitare il disastro economico, e il clan degli scommettitori, distratti dalla sconfitta, gliel’avrebbe fatta pagare. Esattamente un anno dopo, Humberto Munoz Castro viene condannato a quarantatré anni e cinque mesi di reclusione per essere stato riconosciuto come colui che sparò ad Escobar. Apparentemente nessun collegamento “ufficiale” con le scommesse ed il narcotraffico quindi, ma troppe coincidenze e particolari che non tornano portano a pensare ad un insabbiamento e ad un capro espiatorio estratto per coprire le miserie del calcio colombiano.

COLOMBIA: I NARCOS E IL CALCIO, UNA LUNGA, SPORCA STORIA, scrive Lara B. Vargas il 28 Settembre 2012 su atlasweb.it. Mentre l’attenzione dell’opinione pubblica è concentrata sull’atteso processo di pace tra governo e guerriglia che dovrebbe partire, secondo l’agenda, l’8 ottobre a Oslo (Norvegia), torna alla ribalta della cronaca colombiana una parte della lunga storia dell’infiltrazione del narcotraffico nel calcio. Il “Millonarios Fútbol Club” di Bogotá ha avanzato la proposta di rinunciare ai titoli conquistati nei campionati del 1987 e del 1998, quando la squadra era controllata dal temuto Gonzalo Rodríguez Gacha, boss dell’ala militare del cartello di Medellín o, meglio, suo “ministro della guerra, soprannominato ‘El Mexicano’ per la sua grande passione per la cultura azteca. Inserito dalla rivista ‘Forbes’ tra gli uomini più ricchi del pianeta nel 1998, proprietario di decine di tenute agricole, appartamenti, macchine di lusso, con il suo stratosferico patrimonio consistente anche in lingotti d’oro, borse piene di dollari e smeraldi e almeno 200 cavalli purosangue, Rodríguez Gacha pagava infatti all’epoca contratti e salari dei giocatori, raccogliendone i meriti. Il governo ha accolto positivamente l’annuncio del Millonarios che ha tuttavia scatenato una forte polemica. “E’ ammirevole, straordinaria, la postura del presidente del ‘Millonarios’ – Felipe Gaitán – un esempio per il paese e il mondo” ha commentato Jorge Luis Pinto, già tecnico del Santa Fe con cui rivaleggiava la squadra del Mexicano e della nazionale colombiana, oggi in servizio alla Costa Rica. “Ma sarà difficile, complesso – ha aggiunto – per tutto quello che è accaduto…”. A suo tempo, Pinto aveva intrapreso ogni azione per portare in tribunale l’allenatore del Millionarios, il collega Luis Augusto García, per presunti atti di corruzione. I suoi tentativi non ebbero alcun esito. Da parte sua, García ha definito niente meno che “un’infamia che ci tolgano dal petto un paio di quelle stelle che abbiamo ottenuto”, facendo eco alle dichiarazioni di diversi giocatori protagonisti del passato. Ma la storia del Millonarios non fu certo isolata. El Mexicano e il suo socio e compare Pablo Escobar controllarono diverse squadre di Medellín negli anni ‘80. Miguel e Gilberto Rodríguez misero le mani sull’América di Cali, vincitrice di 13 titoli come il Millonarios, Phanor Arizabaleta Arzayús sul Santa Fe. E sono solo alcuni. Negli anni del cosiddetto ‘narcoterrorismo’ a farne le spese furono anche diversi arbitri: Armando Pérez, sequestrato nel novembre 1988 da una banda criminale che diceva di rappresentare sei squadre, seguito da Joaquín José Torres, rapito il 13 novembre 1989 e ritrovato un giorno dopo in una stanza d’albergo in preda a una totale amnesia. Solo l’anticipo di quello che sarebbe successo, appena due giorni dopo, con l’uccisione di Álvaro Ortega, un omicidio che portò il governo a sospendere il campionato.

Una partita alla Catedral: Diego Maradona e l'invito di Pablo Escobar, scrive Angelo Cavaliere su foxsports.it il 28/09/2016. Ci sono incontri destinati a diventare leggendari, Pablo Escobar lo ha sempre saputo. Per questo un giorno decise di invitare Diego Armando Maradona a La Catedral. Ci sono nomi destinati a imprimersi nella memoria. Uomini che con le loro decisioni cambiano la storia di un intero paese. A volte in positivo, molte altre in negativo. Ma capita anche che la povertà e la disperazione non permettano più di distinguere il Paradiso dall'Inferno, e ciò che ne nasce è un ibrido mischiato in cui tutto è concesso, in cui ogni limite viene spostato qualche metro più in là, in cui il fine giustifica ogni mezzo. Pablo Emilio Escobar Gaviria non ha bisogno di presentazioni. È superfluo ricordarlo come l'imperatore della cocaina, il narcotrafficante più ricco di tutti i tempi, o come uno dei criminali più sanguinari della storia. Quello che forse non tutti sanno è che Escobar è stato anche un signore del calcio. Fece costruire stadi e aiutò le squadre locali, fino a diventare il maggiore finanziatore della squadra più importante del suo paese, l'Atletico Nacional di Medellin, prima squadra colombiana a vincere la Coppa Libertadores, sconfitta all'ultimo minuto dei supplementari nella finale della Coppa Intercontinentale del 1989 dal Milan di Arrigo Sacchi. Il metodo di Escobar era perfetto per ottenere consenso popolare e, nel frattempo, riciclare enormi quantità di denaro. Dopo le persone nate per fare la storia, ci sono gli incontri destinati a diventare leggendari. Ora che avete bene in testa l'immagine di Escobar, affiancatela a un'altra figura mitica, impossibili da ignorare: Diego Armando Maradona. Che succede quando due persone del genere si incontrano? Niente battute, per favore. Correva l'anno 1991, era il mese di dicembre. Maradona scontava la squalifica di due anni per essere risultato positivo alla cocaina nei test anti doping, quando venne avvisato dal suo agente, Guillermo Coppola, che un importante signore colombiano era intenzionato a pagarlo una cifra considerevole per esibirsi in un'amichevole con altri giocatori sud americani, tra cui Renè Higuita. Del resto, Diego in Colombia era già famoso: quando era un ragazzino che faceva impazzire i tifosi con la maglia dell'Argentinos Juniors, lo cercarono addirittura i famosi fratelli Orejuela, signori del cartello di Calì. La loro offerta venne superata dal Barcellona, altrimenti Maradona avrebbe indossato la divisa dell'America, prima squadra del capoluogo colombiano. Maradona accettò la proposta del suo amico e agente, senza farsi troppe domande. Ma quando arrivò a Medellin e fu scortato in una prigione circondata da centinaia di guardie, le sue certezze traballarono: "Che succede? Vogliono arrestarmi?". Il luogo in cui Diego fu accompagnato porta un nome che in Sud America tutti conoscono: La Catedral, il carcere personale di Pablo Escobar. Sembrava di essere in un hotel di lusso di Dubai. Fu lì che mi presentarono il signore che mi aveva invitato, chiamandolo El Patron. Io non leggevo i giornali, non guardavo la tv, non ero sicuro di chi fosse.  Si dimostrò un uomo molto rispettoso, anche freddo, ma amichevole con me. Mi disse che ammirava il mio calcio, che si identificava con me, perché entrambi eravamo riusciti a trionfare sulla povertà. Quel pomeriggio il campione argentino partecipò a una partita nel campo privato della prigione: le squadre erano composte dagli uomini di Escobar, da una parte Maradona e dall'altra il famoso portiere Higuita. Finita l'amichevole, gli ospiti vennero ringraziati con una festa che El pibe de oro, a distanza di anni, ricordava ancora bene: C'erano le ragazze più belle che abbia mai visto nella mia vita, ed eravamo in un carcere! Non ci potevo credere. La mattina dopo fui pagato e lui mi salutò con affetto. Maradona rimase di sasso quando venne a conoscenza del tragico capitolo finale della storia di Escobar, quando capì che quel "signore" era il mandante, e l'esecutore, di più di diecimila omicidi ed era stato il padrone assoluto del narcotraffico mondiale. In tema di narcotraffico, io sono il meno indicato per giudicare, però il padrone pagava i contadini per raccogliere la pasta di coca, ne pagava altri perché lavorassero nei laboratori e pagava anche i piloti per portarla negli Stati Uniti. Alla fine dei conti, fabbricava un prodotto clandestinamente e lo vendeva a gente che lo chiedeva, nessuno veniva obbligato, no? Non lo rubava a nessuno. D'altra parte, i politici vengono eletti e rubano il denaro al popolo, alzando le tasse a una madre che compra il latte per i suoi figli. Quindi, chi è il peggiore eticamente? Per quanto riguarda i morti, era in guerra contro lo Stato per un motivo nazionalista, perché i cittadini colombiani non venissero estradati negli Stati Uniti. E in guerra la gente muore. Anche Bush per il petrolio uccise centinaia di migliaia di persone. Lui non è cattivo? Non tutti gli incontri sono destinati a risolversi in una rivoluzione. Alcuni sono solo l'incrociarsi fugace di due vite che continueranno per le loro strade. Escobar propose a Maradona di diventare il numero 10 della sua squadra, ma Maradona preferì trasferirsi al Siviglia. Era il 1992. Poco più di un anno dopo il corpo senza vita di Pablo Escobar verrà fotografato dagli agenti americani della DEA sui tetti di Medellin.