Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

 

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

ITALIOPOLI

SECONDA PARTE

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

ITALIOPOLITANIA

ITALIOPOLI DEGLI ITALIOTI

ALLO SBARAGLIO

 

ITALIANI

POPOLO DIFETTATO O CAOS ORGANIZZATO?!?

Di Antonio Giangrande

  

 

 

L’Italia che è, che fu e che sarà.

L’Italia della Costituzione intoccabile scritta dai vincitori: illiberale, oligarchica, comunista e clericale.

L'Italia dove si impone la legalità nel basso e non si pretende dall'alto.

L’Italia dove il potere è nelle mani di caste, lobbies, mafie e massonerie.

L’Italia dove si è nominati e non eletti e non c’è vincolo di mandato.

L'Italia dove la giustizia è amministrata in nome del popolo e non in suo conto e nel suo interesse e dove i Magistrati non pagano per le loro colpe.

L’Italia dove di organizzato c’è solo il caos e la criminalità.

L’Italia delle Istituzioni che pretendono rispetto, ma non lo meritano.

L’Italia fondata sul lavoro, che non c’è, fatto salvo per i mantenuti e i raccomandati.

L’Italia che riconosce e garantisce i diritti inviolabili, solo dei poteri forti.

L’Italia della legge uguale per tutti, applicata per i deboli, interpretata per i forti.

L'Italia dove tutti son pronti a condannare, ma non a farsi giudicare.

L’Italia indivisibile, fatta di “Polentoni” e “Terroni”.

L’Italia della libera informazione, di parte e gossippara, che pende dalle veline giudiziarie e la notizia la fa, non la dà.

L’Italia dove a delinquere sono sempre gli altri.

L’Italia dove la mafia ti uccide, ti condanna, ti affama.

L’Italia dove devi subire e devi tacere.

L’Italia indisponente, insofferente, indifferente, dove tutti parlano e nessuno ascolta.

"Art. 1 della Costituzione: L’ Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (non sulla libertà e la giustizia). La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. (I limiti stabiliti al potere popolare indicano una sudditanza al sistema di potere. Il potere popolare è delegato ai Parlamentari e agli organi da questi nominati: Presidente della Repubblica, Governo, organi di Garanzia e Controllo. La Magistratura è solo un Ordine Costituzionale: non ha un potere delegato, ma una funzione attribuita per pubblico concorso. In realtà si comporta come Dio in terra: giudica, ingiudicata).Un'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobby, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.

l'Italia sia una repubblica democratica e federale fondata sulla Libertà e la Giustizia. I cittadini siano tutti uguali e solidali.

I rapporti tra cittadini e tra cittadini e Stato siano regolati da un numero ragionevole di leggi, chiare e coercitive.

Le pene siano mirate al risarcimento ed alla rieducazione, da scontare con la confisca dei beni e con lavori socialmente utili. Ai cittadini sia garantita la libera nomina del difensore o l'autodifesa personale, se capace, ovvero il gratuito patrocinio per i poveri. Sia garantita un'indennità e una protezione alla testimonianza.

Sia garantita la scusa solenne e il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, al cittadino vittima di offesa o violenza di funzionari pubblici, di ingiusta imputazione, di ingiusta detenzione, di ingiusta condanna, di lungo o ingiusto processo.

Sia garantita a tutti ogni garanzia di accesso al credito per meritevoli finalità economiche o bisogni familiari necessari.

Sia libera ogni attività economica, professionale, sociale, culturale e religiosa. Il sistema scolastico o universitario assicuri l'adeguata competenza, senza vincoli professionali di Albi, Ordini, Collegi, ecc. Il libero mercato garantirà il merito. Le scuole o le università siano rappresentate da un preside o un rettore eletti dagli studenti o dai genitori dei minori. Il preside o il rettore nomini i suoi collaboratori, rispondendo delle loro azioni.

Lo Stato assicuri ai cittadini ogni mezzo per una vita dignitosa.

Ai disabili sia garantita l'accessibilità, l'adattabilità e la visibilità dei luoghi di transito o stazionamento.

Il lavoro subordinato pubblico e privato sia remunerato secondo efficienza e competenza.

Lo Stato chieda ai cittadini il pagamento di un unico tributo, secondo il suo fabbisogno, sulla base della contabilità centralizzata desunta dai dati incrociati forniti telematicamente dai contribuenti, con deduzioni proporzionali e detrazioni totali. Agli evasori siano confiscati tutti i beni. Lo Stato assicuri a Regioni e Comuni il sostentamento e lo sviluppo.

Sia libera la parola, con diritto di critica, di cronaca, d'informare e di essere informati, così come sia libero l'esercizio della stampa da vincoli di Albi, Ordini e collegi.

I senatori e i deputati, il capo del governo, i magistrati, i difensori civici siano eletti dai cittadini con vincolo di mandato. Essi rappresentino, amministrino, giudichino e difendano secondo imparzialità, legalità ed efficienza in nome, per conto e nell'interesse dei cittadini. Essi siano responsabili delle loro azioni e giudicati e condannati. Gli amministratori pubblici nominino i loro collaboratori, rispondendone del loro operato.

Il difensore civico difenda i cittadini da abusi od omissioni amministrative, giudiziarie, sanitarie o di altre materie di interesse pubblico.

Il Parlamento voti e promulghi le leggi propositive e abrogative proposte dal Governo, da uno o più parlamentari, da una Regione, da un comitato di cittadini".

 

 

 

 

 

SOMMARIO PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande).

INTRODUZIONE.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

POTERE A 5 STELLE.

GLI ONESTI DI SINISTRA. CENTRI SOCIALI ED ILLEGALITA’.

IL PAESE DEI PREDICATORI.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

QUO VADO?      

MAFIA, PALAZZI E POTERE.

CHI FA LE LEGGI? 

LA DIFESA DELLE DONNE: COSA DI SINISTRA?

LE COSE DI SINISTRA.

LA LIBERTA'.

LA DEMOCRAZIA E' PASSATA DI MODA?

A PROPOSITO DI TIRANNIDE. COME E QUANDO E' MORTO HITLER?

L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?

GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE.

MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.

IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.

E’ STATO LA MAFIA!

ITALIA MAFIOSA. IL PAESE DEI COMUNI SCIOLTI PER MAFIA SE AMMINISTRATI DALL’OPPOSIZIONE DI GOVERNO.

LEZIONE DI MAFIA.

MORI. ROCCO. GRAMSCI, LEVI: STORIE DI ITALICI TRADIMENTI.

DEMOCRAZIA A SINISTRA. VOTI TRUCCATI, ELEZIONI TAROCCATE.

COS’E’ UN ITALIANO?

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO. ESAME DI AVVOCATO: 17 ANNI PER DIRE BASTA!

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

PRIMA GUERRA MONDIALE: LO SCHELETRO NELL'ARMADIO.

SE NASCI IN ITALIA……

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

FOIBE: QUELLO CHE GLI STORICI NON DICONO.

OLOCAUSTO: QUELLO CHE GLI STORICI NON DICONO.

PATRIA, ORDINE. LEGGE.

INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.

GIUSTIZIA E VELENI. LA GUERRA TRA MAGISTRATI.

TOGA ROSSA E' UN COMPLIMENTO.

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?

A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA E SCAZZI. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?

COSI' HANNO TRUFFATO DI BELLA.

IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.

 

SOMMARIO SECONDA PARTE

 

CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.

CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI E PER SEMPRE.

I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.

FASCISMO, COMUNISMO E MAFIA CAPITALE.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL RISORGIMENTO E’ NATO IN CALABRIA, MA NESSUNO LO DICE.

L’ABIURA DEL PARTITISMO. LA MESCOLANZA E’ RICCHEZZA DI RISORSE, VALORI E TALENTI.

MAFIA E TERRORISMO DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA. L’ITALIA CODARDA ED IL PATTO CON IL DIAVOLO. MEGLIO PAGARE IL PIZZO.

ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

ITALIANI. MARPIONI PER SFIDUCIA NELLO STATO.

C’ERA UNA VOLTA LA MAFIA AL SUD E LE TANGENTI AL NORD. OGGI C’E’ LA MAFIA DEL NORD.

LEGA NORD: I MOSTRI SON SEMPRE GLI ALTRI.

IL GARANTISMO E' DI SINISTRA!!!!

LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.

IL MONDO SEGRETO DEGLI ITALIOTI.

IL MONDO SEGRETO DEL FISCO: I DIRIGENTI TUTTI FALSI.

IL MONDO SEGRETO DELLE CASTE E DELLE LOBBIES.

IL MONDO DEI TRASFORMISTI.

IL MONDO DELLE CRICCHE.

LA NEMESI DI ITALIOPOLI. LA CASTA VIEN DA LONTANO.

BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.

SIAMO TUTTI PUTTANE.

SI CENSURA, MA NON SI DICE.

ITALIA. AVANTI CON IL FRENO A MANO TIRATO. LUNGAGGINI, TASSE OCCULTE E TROPPE LEGGI.

L’ITALIA DEI PAZZI. UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA FONDATA SULLA BUROCRAZIA. CANCELLATE 10 LEGGI, NE NASCONO 12.

BUROCRAZIA E DISSERVIZI. IL SUPPLIZIO DEGLI ITALIANI.

I MANETTARI INFILZATI.

ITALIA. NAZIONE DI LADRI E DI IMBROGLIONI.

IPOCRISIA ITALICA. E' TUTTO UN VOTO DI SCAMBIO. ERGO: SIAM TUTTI MAFIOSI.

ITALIANI. SIAM TUTTI LADRONI E MAFIOSI.

PARLAMENTARI SENZA ARTE NE' PARTE. COME DA POVERI SI DIVENTA MILIONARI.

LA POLEMICA SULLA NOMINA DEI PRESIDENTI DI SEGGIO E DEGLI SCRUTATORI.

LA VITTORIA CENSURATA DEL PARTITO DEL NON VOTO.

IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI.

LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.

I COMUNISTI CON BELLA CIAO SCATENARONO IL TERRORE.

IPOCRITI. IL GIORNO DELLA MEMORIA? NON DIMENTICARE TUTTE LE VITTIME DEGLI OLOCAUSTI.

DEMOCRAZIA E RAPPRESENTANZA: UNA GRANDE FURBATA. LA FRODE DELLA LEGGE ELETTORALE.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.

PARLIAMO DEL GEN. C.A. CARLO ALBERTO DALLA CHIESA.

L’ITALIA? SANGUE, SESSO, SOLDI….E LARGHE INTESE….MAFIOSE.

BORSELLINO UCCISO PERCHE' INDAGAVA SULLA TRATTATIVA STATO-MAFIA.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

GIUSTIZIA E BERLUSCONISMO: LA BUFALA DELLE LEGGI AD PERSONAM. IL FALLIMENTO DI SILVIO BERLUSCONI.

TUTTO IL POTERE A TOGA ROSSA.

GIUDICI IMPUNITI.

C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!

IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.

I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.

MAGISTRATI? SI', COL TRUCCO!!

MANETTE FACILI, IDEOLOGIA ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.

LA VERITA’ NON E’ UGUALE PER TUTTI.

PARLIAMO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA FRANCESCO COSSIGA: TRA GLI ITALIOTI UOMO SOLO CONTRO LO STRAPOTERE DELLA MAGISTRATURA.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.

GLI INNI DEI PARTITI ED I PENTITI DEL PENTAGRAMMA.

ED I 5 STELLE...STORIE DI IGNORANZA.

ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.

POPULISTA A CHI?!?

LA SINISTRA ED IL BERLUSCONISMO.

IL BERLUSCONISMO NELLA STORIA D’ITALIA.

PARLIAMO DI “TANGENTOPOLI”. “MANI PULITE”: TUTTA LA VERITA’. LA GENESI, L’ANAMNESI E LA NEMESI STORICA.

LA BUFALA DEL 1° MAGGIO? PARLIAMO DI LAVORO NERO E SFRUTTAMENTO. PARLIAMO DI VERO “CAPORALATO”.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.

DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.

L’ITALIA DEI PRESIDENTI DELLA PRIMA E DELLA SECONDA REPUBBLICA 1946-2013.

PARLIAMO DI MINISTRI, SOTTOSEGRETARI, MANUALE CENCELLI E MERCATO DELLE VACCHE.

LA REPUBBLICA DELLE STRAGI IMPUNITE.

MAFIA E SPAGHETTI. L’ITALIANO VISTO DAGLI ALTRI. MAFIA ED IDEOLOGIE, AUTOLESIONISMO ALL’ITALIANA. DELLA SERIE: FACCIAMOCI DEL MALE.

ITALIANI. FRATELLI COLTELLI.

LIBERTA’ E LIBERISMO.

DALLA FAME NASCONO LE RIVOLUZIONI.

IL BOOM DELLA MADRI BAMBINE.

DIETRO LE SBARRE.

POLIZIOTTI ALLO SBARAGLIO.

RADIO PADANIA, RADIO VERGOGNA.

UNA GENERAZIONE A PERDERE.

CHI E COSA SIAMO NOI ITALIANI ?!?

PARLIAMO DELLE VERITA’ STORICHE CENSURATE.

PARLIAMO DELL’ITALIA AVVERSA ALLA LIBERTA’.

LA MAFIA CHE NON TI ASPETTI: COSCHE LOCALI; CASTE; LOBBIES E MASSONERIE DEVIATE.

PARLIAMO DI VOTO DI SCAMBIO: Il mercato degli eletti.

INGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

PARLIAMO DELL'ITALIA RAZZISTA.

PARLIAMO DELL'ITALIA ILLEGALE E CORROTTA.

PARLIAMO DELL'ITALIA DELLA TRUFFA.

PARLIAMO DELLA QUESTIONE SETTENTRIONALE E DI QUELLA MERIDIONALE.

IN ITALIA È IMPOSSIBILE CAMBIARE VITA: I POVERI RESTANO POVERI E I RICCHI RESTANO RICCHI.

PARLIAMO DELL’ITALIA DEL PROIBIZIONISMO.

PARLIAMO DELL'ITALIA DELLE BELLEZZE E DELLE GENERAZIONI DIFETTATE.

PARLIAMO DI INTOCCATI.

PARLIAMO DI INTOCCABILI.

 

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

 c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

 ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori. 

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!      

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

PARTE SECONDA

 

CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.

Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.

La mappa anche le guardie fanno i ladri. Pillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA. Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università. Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie? La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”. La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.

Una macchina senza benzina. Che non va avanti. Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”. A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.

L’authority chiama in causa la politica. Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.

Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza. Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni.

CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI  E PER SEMPRE.

Assenteismo lavoro, alla Calabria la maglia nera. Secondo la Cgia di Mestre ogni dipendente è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La Calabria è la regione più "assenteista" a livello nazionale, scrivono i giornali. Nel 2012 ogni lavoratore dipendente calabrese è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La media sale addirittura a 41,8 nel settore privato. E' quanto emerge da uno studio condotto dalla Cgia di Mestre secondo cui nel 2012 (ultimo anno in cui i dati sono a disposizione) i giorni di malattia medi registrati tra i lavoratori del pubblico impiego in Italia sono stati 16,72 (con 2,62 eventi per lavoratore), nel settore privato, invece, le assenze per malattia hanno toccato i 18,11 giorni (con un numero medio di eventi per lavoratore uguale a 2,08). Complessivamente sono stati quasi 106 milioni i giorni di malattia persi durante tutto l'anno. Oltre il 30 per cento dei certificati medici che attestano l'impossibilità da parte di un operaio o di un impiegato di recarsi nel proprio posto di lavoro è stato presentato di lunedì. Nel 71,7 per cento dei casi la guarigione avviene entro i primi 5 giorni dalla presentazione del certificato medico.

E nel 2014 centinaia di arresti per assenteismo, scrive Diodato Pirone su “Il Messaggero”. Non lo sa nessuno ma in Italia l'assenteismo è un fenomeno criminologico. Secondo le statistiche delle forze dell'ordine gli arresti per truffa aggravata causati dalle assenze ingiustificate dal lavoro di dipendenti pubblici sono centinaia all'anno. Di certo si supera quota mille con denunce a piede libero e sospensioni. Contrariamente a quello che si crede, infatti, la vita dell'assenteista s'è fatta dura. Giusta o sbagliata che fosse, la crociata dell'ex ministro Renato Brunetta contro i fannulloni ha lasciato in eredità una regola ferrea. Eccola: «E' previsto l'arresto nei confronti dei dipendenti pubblici accusati di falsa attestazione della presenza in servizio». Poche righe che dal 2010 hanno trasformato gli uffici italiani in covi di microcamere e video-spia con codazzo di denunce, tribunali e manette. Una vitaccia, insomma, quella dell'assenteista. Giornaloni e tivvù non ne danno conto perché i singoli arresti, presi in sè, non fanno notizia e al massimo finiscono nelle brevi. Ma la loro massa critica è sbalorditiva: si resta basiti di fronte alla leggerezza con la quale tanta gente, convintissima che i furbi la facciano sempre da padrone in Italia, finisce per rovinarsi la vita. Qualche esempio? Gli arresti del 2014 sono addirittura tambureggianti: a gennaio scattano le manette per due ginecologhe (sorprese nei propri studi privati mentre risultano al lavoro per l'Azienda sanitaria) e quattro impiegati dell'Asl Napoli Nord; a febbraio tocca a 15 addetti ai servizi veterinari della Asl di Vibo Valentia in Calabria e a due giardinieri di un parco pubblico di Napoli. Il 7 marzo finisce in galera un agente della polizia penitenziaria di Piacenza che nei giorni di falsa malattia spacciava droga e qui - caso rarissimo - piovono sberle anche per il suo medico cui la Procura chiude lo studio per avere concesso certificati senza controllo. Ma l'elenco delle amministrazioni dove sono scattate le manette è infinito: ospedali Monaldi e Cotugno di Napoli; Comuni di Sant'Agnello e Torre Annunziata; Università di Trieste e Udine; ufficio del giudice di Pace di Latina; Day SurgerY di Cuneo; Comune di Ancona; provincia di Chieti (dove un capo cantoniere si assentava dal lavoro per effettuare traslochi con i mezzi pubblici di cui era responsabile). Non c'è pace, da Nord a Sud. A giugno si spara nel mucchio nel Consorzio di Bacino Salerno/1: 22 arresti per truffa aggravata e peculato (gli assenteisti si segnavano anche lo straordinario). Ma è da settembre che le retate si moltiplicano: a Montenero di Bisaccia (il paese di Di Pietro) viene arrestato il medico dell'Asl e un suo collaboratore per danni per 70 mila euro causati dalle loro assenze e poi la Calabria alza il tiro con la decisione della Regione di licenziare quattro assenteisti cronici di in un gruppo di impiegati finito totalmente fuori controllo. Impiegati che vengono puniti anche con 5 sospensioni e 41 rimproveri. Ma l'assenteismo di massa della Regione Calabria non è isolato. Alla Asl di Siracusa la Procura ha imposto 9 sospensioni dopo aver scattato 1.500 fotografie ed effettuato 600 ore di videoregistrazioni per provare l'abitudine di 33 fra medici e impiegati di recarsi spesso insieme in piscina invece che al lavoro. Naturalmente dopo aver fatto timbrare agli amici il loro cartellino.

Invece, in contrapposizione all'immagine nefasta della Calabria, a "Presa Diretta" vanno in onda potenzialità e disagi della Calabria raccontata da Iacona, scrive Domenico Grillone su “Strill”. La Calabria l’11 gennaio 2015 scorre sulle immagini di Rai3 nel programma “Presa Diretta” di Riccardo Iacona. Problematiche, risorse, qualità e bellezze della nostra regione sotto la lente d’ingrandimento e questa volta nessuno potrà maledire la Rai ed i suoi giornalisti, colpevoli, secondo una parte dell’opinione pubblica locale, di mostrare sempre una Calabria tutta ‘ndrangheta e malaffare. Nell’occuparsi di dissesto idrogeologico attraverso un viaggio da Sud a Nord fino alla Liguria, “Presa Diretta” ha raccontato le bellezze e soprattutto i tesori tutti da scoprire della Calabria. Nel denunciare “le bruttezze di una terra spesso generate dall’uomo avido di cemento e non solo”, nel nuovo ciclo di trasmissioni le telecamere di “Presa Diretta” si sono soffermate su “un tesoro di potenzialità che potrebbe produrre ricchezza e posti di lavoro: l’arte, il cibo, l’agricoltura, il paesaggio se solo fossero difesi e valorizzati, renderebbero più ricco il nostro paese”. Il racconto di Iacona, quindi, una sorta di viaggio attraverso il quale, pur mantenendo fede al suo classico stile di denuncia “delle promesse fatte e non mantenute, degli errori che si ripetono da sempre” e nel domandarsi “a chi conviene gestire in regime di eterna emergenza la fragilità del nostro territorio?”, riesce a mostrare tutte, o almeno in buona parte, quelle potenzialità che secondo il giornalista dovrebbero essere messe al centro dell’agenda politica. Ma c’è di più. Perché il conduttore, nel raccontare la bellezza che potrebbero arricchirci, ricorda come spesso la cerchiamo in luoghi lontanissimi “quando a pochi chilometri da casa nostra abbiamo dei tesori tutti da scoprire”. “Quello che abbiamo scoperto in Calabria vale per tutta l’Italia che è un tesoro da accarezzare”, spiega Iacona, “se solo si valorizzassero tutte queste risorse e non si abbandonasse il territorio la Calabria sarebbe una regione ricca”. “La Calabria non è solo ‘ndrangheta malaffare e malapolitica. C’è tanta gente che sta già costruendo la Calabria del futuro” che la dice lunga su uno stile di fare giornalismo che, a differenza di quanto qualcuno rimprovera, non è preconcetto ma, al contrario, racconta le storie con stile semplice e diretto. Una trasmissione andata in onda proprio a ridosso dei risultati dello studio di Demoskopica sul tema “L’anno che verrà – il 2015 nell’opinione dei calabresi”, in cui tra l’altro si evidenzia come la fiducia degli stessi calabresi verso la politica, le istituzioni, e soprattutto verso una possibile ripresa economica si attesta su livelli decisamente ai minimi. Iacona con la sua inchiesta dimostra che forse non tutto è perduto per la Calabria, basterebbe solo una presa….di coscienza vera per voltare pagina e riprogrammare il futuro.

Eppure si leggono queste cose.

PALMI: CAPOMAFIA A 14 ANNI, INDAGATA LA FIGLIA DI UN POTENTE DEI GALLICO. Ha 17 anni e sarebbe un capoclan, scrive Alessandro Bevilacqua su “Telemia”. E' l'incredibile storia di una ragazzina di Palmi finita al centro delle indagini della Procura di Reggio Calabria. Secondo gli investigatori la ragazza, figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca armata dei Gallico di Palmi, nel reggino, risulterebbe ancora incensurata. I fatti contestati risalirebbero a quando la giovanissima non aveva neppure 14 anni. Alcuni reati che le vengono imputati sarebbero stati collocati nel periodo successivo al giugno del 2011, mese in cui la ragazza avrebbe compiuto l'età minima prevista dalla legge sui minori per essere imputata di associazione mafiosa. La ragazza, ospite dal 2014 di una famiglia del nord Italia, entrerebbe in un inchiesta che ha consentito di decimare il clan Gallico, nello specifico quella concernente una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. A metà del 2011 gli uomini della Squadra mobile di Reggio Calabria e  del commissariato di Palmi piazzarono nella casa in cui viveva all'epoca la giovane delle cimici che catturarono conversazioni che, sembrerebbe, facessero chiaro riferimento  alle estorsioni. Tra i partecipanti al dialogo anche l'allora 13enne. Pochi minuti dopo la ragazza lasciò la casa in questione per salire in auto insieme ad una donna. Gli investigatori predisposero quel giorno un posto di blocco e il risultato è che finirono tutti in caserma dove si scoprì che la 13enne nascondeva negli slip un foglio di calendario contenente i dettagli delle estorsioni. Per gli investigatori  dal momento che tutti i suoi parenti e membri del clan si trovavano detenuti l'allora 14enne avrebbe svolto il ruolo di reggente e anello di congiunzione tra la famiglia e il territorio fungendo da figura visibile.

«Quella bambina di 14 anni è un capomafia», scrive Francesco Altomonte su “Il Garantista”. Mancano sei mesi al compimento dei suoi 17 anni, ma leggendo i capi di imputazione riportati nell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari sembra di avere a che fare con un boss di lunga data, di un criminale incallito che ha dedicato la sua vita a “mamma ‘ndrangheta”. Lei (sì, stiamo parlando di una ragazzina), figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca Gallico di Palmi, nel Reggino, risulta ancora incensurata, benché la procura dei minorenni di Reggio Calabria l’accusi non solo di associazione mafiosa, ma anche di essere un capo promotore del clan (armato) di riferimento dei suoi genitori. Il primo pensiero che passa nella mente del cronista (o perlomeno dovrebbe passare) è: ma un ragazzina che all’epoca dei fatti non aveva compiuto 14 anni, è imputabile? La risposta è, anzi dovrebbe essere no, ma la data posta in calce al documento che decreta la fine delle indagini preliminari dissiperebbe i dubbi: «Accertato in Palmi e territori limitrofi in epoca successiva al 12.05.2011». Nel giugno di quell’anno (il 2011), infatti, la ragazzina avrebbe compiuto 14 anni, quindi poteva essere perseguita per il delitto associativo. Alcuni fatti che le vengono contestati, infatti, risulterebbero compiuti nei mesi successivi. Da qui, la possibilità da parte della procura dei minori di poterla accusare di associazione mafiosa. La ragazza, che dall’inizio del 2014 è ospite di una famiglia nel nord Italia, entra in una delle tante inchieste che hanno permesso di decapitare il clan Gallico, in particolare quella in cui viene colpita una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. Suo padre e sua madre sono in carcere, lei vive in casa con dei partenti. Gli uomini della squadra mobile di Reggio Calabria e del commissariato di Palmi, che stanno conducendo le indagini, hanno piazzato delle microspie in quella casa e a metà del 2011 intercettano una conversazione nella quale alcuni indagati parlano di soldi e di qualcosa nascosto all’interno di quella abitazione. Tra i partecipanti alla discussione c’è anche l’allora tredicenne. La ragazza dopo alcuni minuti lascia la casa insieme a una donna finita in carcere alla fine del 2011, Loredana Rao, salendo in auto con lei. Gli investigatori, per capire dove e cosa trasportassero nell’autovettura, piazzano un posto di blocco appena fuori la città. Le due donne pochi minuti dopo intravedono la volante della polizia, fermano la macchina e fanno marcia indietro. Quella è la prova per i poliziotti che qualcosa non quadra. Partono all’inseguimento e bloccano non solo la macchina nella quale viaggiavano la Rao e la ragazzina, ma anche un’altra autovettura con a bordo alcuni uomini della famiglia. La mossa conseguente è il trasferimento di tutti in commissariato per la perquisizione. Per evitare fughe o altri problemi, due poliziotti salgono a bordo delle due macchine. Un agente, si legge nell’informativa redatta dagli uomini della Mobile, durante il tragitto nota che la ragazzina cercava di sistemare qualcosa che aveva nascosto all’altezza dell’inguine. Appena giunti in commissariato chiedono se vogliono essere assistiti da un legale, soprattutto lei che ancora non ha compiuto 14 anni, ma tutti declinano l’invito. La ragazza, però, non si fa neanche perquisire perché spontaneamente consegna alla poliziotta un foglietto contenuto all’interno dello slip. Si scoprirà nel novembre 2011 di cosa si tratta, quando la procura antimafia di Reggio Calabria emette un decreto di fermo con il quale finisce in carcere l’intera rete di presunti estortori. Si trattava di un foglio di calendario sul quale erano state annotate date e cifre. Per gli inquirenti quei dati parlano chiaro: sono appunti per la riscossione del pizzo imposto dal clan Gallico agli imprenditori e commercianti della città. Alcuni di loro, per inciso, collaboreranno alle indagini confermando quanto ricostruito dalle forze dell’ordine. All’interno di un’altra informativa, la ragazzina viene intercettata con il fratello. Per gli inquirenti il parente le starebbe impartendo degli ordini per andare a ritirare delle estorsioni, o per intimarne in pagamento. Siamo nel 2012 e, quindi, per la legge italiana la 14enne è perseguibile e può essere incriminata. L’equazione sembrerebbe questa: siccome tutti i suoi parenti e membri del clan sono dietro le sbarre, dai mammasantissima fino ai fiancheggiatori, l’allora 14enne svolgerebbe il compito di “reggente” della cosca, anello di congiunzione con i detenuti e figura “visibile” della famiglia sul territorio. La ragazzina, intanto, dopo l’arresto di tutti i suoi parenti, compreso suo fratello ancora minorenne, viene data in affidamento a una famiglia del nord Italia dalla quale la giovane, secondo quanto appreso, fugge con regolarità per ritornare a casa. Con altrettanta regolarità viene ripresa e riportata indietro. Secondo quanto saputo nella giornata di ieri, pare che solo ad agosto scorso, il Tribunale dei minori le abbia concesso la possibilità di visitare suo padre in carcere.

Mio marito, ’ndranghetista per sempre. Ma è innocente anche per la legge, scrive Yvone Graf su “Il Garantista". «Racconto la mia storia, una storia qualunque di malagiustizia, di una vita segnata irrimediabilmente da un marchio posto sulle teste della mia famiglia e mai più rimosso: la ‘ndrangheta. Nel lontano 1991 ho incontrato l’uomo che oggi è mio marito. All’epoca lui era un sorvegliato speciale, doveva ancora scontare 4 anni di sorveglianza per una misura di prevenzione. Li abbiamo scontati insieme. Chi vive con un sorvegliato speciale patisce tutte le limitazioni e le conseguenze che ne derivano: andare tutti i giorni in questura a mettere la firma; non uscire da casa prima del alba e rincasare prima del tramonto; stare tutte le notti pronti a subire un controllo improvviso che può coglierti nel sonno profondo e farti rischiare una denuncia per evasione. Aveva 18 anni mio marito quando fu accusato di appartenere a una cosca della ‘ndrangheta e di essere il super killer di questa cosca. L’avevano accusato di una diecina di omicidi, altrettanti tentati omicidi, sequestri di persona, porto abusivo di armi da guerra e chi più ne ha più ne metta. Fu condannato in primo grado tenuto conto della sua giovane età a 101 anni e 6 mesi di carcere. Dopo i vari gradi di giudizio, nel 1990 fu assolto da tutte le incriminazioni per non aver commesso il fatto ma condannato per associazione a delinquere, art. 416 c.p. – all’epoca dei fatti il reato di associazione mafiosa non era ancora codificato. Mio marito si professava innocente. Le accuse specifiche erano cadute ma era rimasta in piedi quella associativa a salvare il teorema degli inquirenti e una misura di prevenzione, appunto, cinque anni di vigilanza. Condannato senza commettere un reato a tre anni di reclusione; cresciuto e vissuto in un paese dove tutti conoscono tutti e tutti si frequentano, giovani, nelle strade e nelle piazze di paese. Per quel ragazzo che era mio marito fu devastante, fu causa di un grave sbandamento. Era vittima di un’ingiustizia che gli stava distruggendo la giovinezza e la vita. Da detenuto si era ammalato di anoressia ed era stato messo ai arresti domiciliari a causa del suo deperimento organico. Poi mandato al confino nel Lazio, solo e lontano dalla famiglia, affetto da una grave depressione ed in balia di una assoluta incertezza sul suo futuro. Poi una sera, sbandato per come era all’epoca, commise il furto di una macchina e fu arrestato e condannato per questo a 4 mesi di reclusione. Dopo questa carcerazione e dopo di aver scontato la sua sorveglianza, nel dicembre del 1994 decidemmo di lasciare l’Italia e di venire in Svizzera, il mio paese di appartenenza. Speravamo di iniziare una vita serena, di trovarci un lavoro entrambi e di vivere lontano da tutto tranquillamente ma ancora una volta questo ci fu impedito dallo stato italiano. Dopo appena 4 mesi che eravamo in Svizzera siamo venuti a sapere che lui era di nuovo ricercato dalla giustizia italiana. Un pentito lo accusava, per sentito dire, di essere il killer di un duplice omicidio avvenuto nei primi anni 80. In primo grado per queste accuse ha preso una condanna a 26 anni di reclusione. Il pm in appello chiese l’ergastolo. Nel 1998 la polizia svizzera esegue l’arresto di mio marito che nel frattempo era stato inserito nella lista dei 500 latitanti più pericolosi d’Italia su mandato internazionale emesso dall’Italia nonostante da subito ci fossimo opposti all’estradizione. Mio marito si dichiarava un perseguitato dalla giustizia italiana. Intanto mio marito ancora lottava con gli effetti collaterali delle prime ingiustizie subite e le loro conseguenze: attacchi di panico, ansia, depressione maggiore. In quel periodo avviammo le pratiche per poterci sposare. Nel ’96 avevo partorito il mio primo figlio che lui non aveva potuto riconoscere in quanto latitante ed ero incinta al 5 mese, al momento del suo arresto, della mia seconda figlia. Nel dicembre del ’98 ci sposammo nel carcere in svizzera e ai miei figli fu riconosciuta la paternità. Nel febbraio 1999 arrivo l’estradizione e mio marito fu prelevato e portato via dalla Svizzera. Per giorni non sono riuscita a sapere dove l’avevano portato. Poi seppi che era nel carcere a Como. Partii subito e mi accompagnò al carcere un avvocato del posto cui il mio legale aveva chiesto una cortesia. Lo fece malvolentieri precisandomi che non era opportuno per un avvocato stare vicino a chi aveva quel genere di imputazioni. Non trovai mio marito a Como. Era stato trasferito in Calabria. Solo dopo tre settimane dall’estradizione ho potuto fare il primo colloquio con lui: devastante! Mio marito era l’ombra di sé, irriconoscibile, lo sguardo spento, movimenti spaventosamente rallentati, assente e incapace di formulare delle frasi compiute. Non gli somministravano la sua terapia e con delle punture di calmanti lo tenevano in quello stato. A marzo 1999 venne assolto con formula piena per non aver commesso il fatto! Ma non tornò libero subito. Continuavano a tenerlo in virtù di un’accusa fumosa e incomprensibile tanto che la Svizzera rifiutò l’estradizione. Mio marito restava però detenuto. Ho dovuto fare il diavolo a quattro con l’appoggio dell’ambasciatore che richiamava il ministero degli Interni al rispetto dei accordi. Per fortuna sul nostro cammino incontrammo un giudice onesto che dovette intimare la scarcerazione al direttore del carcere avvisandolo che rischiava una denuncia per sequestro di persona e mio marito tornò libero. Sembrava tutto finito, a parte le patologie depressive che ancora affliggono mio marito. Ma le conseguenze di una condanna per associazione sono immortali, ti seguono per sempre. Marchiano una persona e la sua famiglia in modo definitivo, incancellabile. La Svizzera nega a mio marito la cittadinanza in virtù di rapporti segreti e di una pericolosità sociale presunta ineluttabilmente e collegata alla qualifica di ‘ndranghetista. Mio marito non aveva commesso alcun reato ma è ‘ndranghetista per sempre per volontà dello Stato italiano, senza diritto di replica e senza speranza di redenzione. Mafioso da innocente, la sua vita, le nostre vite, proprietà dello stato, per sempre. I nostri figli, mafiosi per discendenza ereditaria e così, da padre in figlio, all’infinito.

I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.

«I Tribunali non sono proprietà dei giudici», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Vogliono rovinare la “festa”. Oggi sarebbe la giornata della giustizia, proclamata dall’Anm per protestare contro la riforma del ministro Orlando e in particolare contro il taglio delle ferie. I penalisti intervengono con una certa, brutale franchezza e mettono in discussione i dati che oggi i magistrati proporranno ai cittadini, per l’occasione liberi di entrare nei Palazzi di giustizia. Intanto, dice il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, l’iniziativa del sindacato delle toghe è «la dimostrazione, come se ce ne fosse bisogno, di una concezione proprietaria della giustizia e dei luoghi in cui essa si celebra, da parte dei magistrati». I cittadini, dice, «non hanno bisogno di alcun invito per accedere al Tribunale, luogo sacro in cui si svolgono i processi in nome del popolo italiano». Dopodiché «i numeri forniti dall’Associazione magistrati rischiano di offrire una visione autoreferenziale e alterata della situazione in cui versa la giustizia italiana, nella quale si enfatizza la loro efficienza a tutto discapito di una realtà che ci vede fra i primi paesi in Europa per numero di condanne dalla Corte di Strasburgo». I numeri sono altri, secondo il presidente dei penalisti, «a cominciare dalla sostanziale inattuazione del sistema di controllo sulla responsabilità dei magistrati, dalle frequentissime sentenze di riforma dei giudizi di primo grado, per passare al cospicuo importo dei risarcimenti che lo Stato è costretto ogni anno a pagare per indennizzare le vittime degli errori giudiziari, all’inevitabile ricorso, da parte della magistratura togata, all’ausilio di magistrati onorari, il cui apporto è determinante per il raggiungimento di quegli obiettivi di produttività che la Anm enfatizza». Su una delle “contro-statistiche” proposte da Migliucci interviene anche il cahier de doleance del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che dà notizia del boom di risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari pagati dallo Stato nel 2014. «L’incremento rispetto all’anno precedente è del 41,3%: 995 domande liquidate per un totale di 35 milioni e 255mila euro». Dal 1992, osserva Costa, «l’ammontare delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni: sono numeri che devono far riflettere, si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l’errore. Dietro c’è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare». Le contromisure di Parlamento e governo sono note: da una parte la legge sulla custodia cautelare, che naviga ancora in acque incerte, dall’altra quella sulla responsabilità civile dei giudici, prossima all’approvazione della Camera. Sui problemi più generali del processo penale è ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio l’atteso ddl del governo, che si accoda al testo base adottato proprio ieri dai deputati sulla prescrizione. «Sono soddisfatta, abbiamo avviato tutti e due i provvedimenti, coerenti tra loro», dice la presidente Donatella Ferranti. Su un altro capitolo della riforma, la soppressione di alcuni Tribunali, arriva dalla Consulta la bocciatura del referendum con cui alcune regioni avevano impugnato le chiusure. Tra queste, c’erano anche le sedi delle zone terremotate dell’Abruzzo.

FASCISMO, COMUNISMO E MAFIA CAPITALE.

Il cristianesimo è meglio. Parola di Chateaubriand. Chateaubriand scrisse" Génie du Christianisme". Nel 1802 usciva la monumentale opera dello scrittore francese che dimostra la superiorità morale, e soprattutto estetica, della religione cattolica, scrive Stenio Solinas su “Il Giornale”. «Quattro contadini, preceduti dal parroco, trasportavano sulle spalle l'uomo dei campi alla tomba. Se qualche agricoltore incontrava il convoglio funebre nelle campagne, interrompeva il lavoro, si scopriva il capo e onorava con un segno di croce il compagno deceduto. Si vedeva da lontano quel rustico defunto viaggiare in mezzo ai biondi campi di grano forse da lui seminati. La bara, coperta da un drappo funebre, ondeggiava come un papavero nero al di sopra del grano dorato e dei fiori rossi e azzurri». Génie du Christianisme (1802) di François-René de Chateaubriand (1768-1848) è questa cosa qui, la scrittura come pittura, la religione come memoria e consolazione. «La ragione non ha mai asciugato una lacrima» e «la filosofia può riempire pagine di parole magnifiche, ma dubitiamo che gli sfortunati vengano ad appendere i loro vestiti al suo tempio», come invece, trasformandoli in ex voto, facevano in chiesa i marinai scampati al naufragio. A disagio nei panni del teologo, Chateaubriand era se stesso in quelli dello storico e del patriota, l'incarnazione quasi di una Francia ideale eppure reale che di generazione in generazione si perpetuava con il suo corteo di riti e di gesti, esempi e racconti, paesaggi e monumenti: qui un campanile e il fumo di un camino, lì una processione e una festa campestre, ovunque il mistero ovvero il fascino della vita. «Tutto è nascosto, tutto è ignoto nell'universo. Lo stesso uomo non è forse uno strano mistero? Da dove parte il lampo che noi chiamiamo esistenza e in quale notte si spegne?». E ancora: «I misteri del cuore sono come quelli dell'antico Egitto; il profano che cercava di scoprirli senza esservi iniziato dalla religione veniva immediatamente colpito a morte». Nulla era più lontano da Chateaubriand del culto dell'ateo, lì dove «i dolori umani fanno fumare l'incenso, la Morte è il celebrante, l'altare una Bara e il Nulla la divinità». Tutto lo avvicinava al «bisogno del meraviglioso, di un avvenire, di speranze, perché l'uomo si sente fatto per l'immortalità». L'istinto della religione era per lui una delle prove più potenti della necessità di un culto: «Si è pronti a credere a tutto quando non si crede a nulla; si hanno degli indovini quando non si hanno più i profeti; si hanno sortilegi quando si rinuncia alle cerimonie religiose, e si aprono le spelonche degli stregoni quando si chiudono i templi del Signore». È la potente bellezza dello stile a fare del Génie du christianisme un libro che supera la propria epoca e ora che Einaudi ne ripropone la lettura con una nuova, esemplare traduzione a cura di Mario Richter, autore anche di una puntuale introduzione ( Genio del cristianesimo , pagg. 878, euro 90), il lettore ha a disposizione il libro vessillo del romanticismo del suo tempo e un'opera tanto più attuale quanto le «radici cristiane dell'Europa» offrono ai nostri giorni materia di discussione e di polemiche. Giustamente Richter affianca al testo un apparato iconografico che da Girodet a Millet, Ingres, Courbet, da Turner a Friedrich a Dahl illustra visivamente l'impatto della prosa di Chateaubriand sulla sensibilità artistica ottocentesca, i paesaggi come rovine, i luoghi del tempo, la natura che si fa cultura o che celebra la propria alterità. «Se gli anni fanno macerie, la natura vi semina fiori; se scoperchiamo una tomba, la natura vi pone il nido di una colomba: incessantemente occupata a rigenerare, la natura circonda la morte delle più dolci illusioni della vita». Compendio di straordinaria erudizione, opera d un talento che non ha paura di fare razzia in campo altrui perché «lo scrittore originale non è quello che non imita nessuno, bensì quello che nessuno può imitare», il Génie muove da un assunto tanto semplice quanto vincente: «Non provare l'eccellenza del cristianesimo per il fatto che proviene da Dio, ma che proviene da Dio per il fatto che esso è eccellente». Non è un'apologia che ha a che fare con i dogmi, i fondamenti, le verità della fede, ma con la «bellezza», anzi «le bellezze», ovvero i valori legati ai sensi, al gusto, ai sentimenti. Nutrito di cultura classica, Chateaubriand la mette al servizio di una vertiginosa, spesso faziosa, operazione di recupero di una superiorità non solo morale, ma anche estetica: «Il cristianesimo ci fa vedere ovunque la virtù e la sventura, mentre il politeismo è un culto di delitti e di prosperità. La nostra religione è la nostra storia: è per noi che tanti spettacoli tragici sono stati dati al mondo». Nel commentare, con competenza e sensibilità, famosi passi omerici e virgiliani, destinati a essere raffrontati con analoghe situazioni di autori moderni e cristiani, Chateaubriand cerca di trovare, alla luce del cristianesimo, quella che Richter definisce «una complessa, anche se significativa, convivenza». Del resto, «in confronto agli antichi, i moderni sono in genere più colti, più delicati, più sottili, spesso anche più interessanti nelle loro composizioni, ma gli antichi sono più semplici, più nobili, più tragici, più ricchi e, soprattutto, più veri dei moderni. Hanno un gusto più sicuro, un'immaginazione più nobile; sanno lavorare soltanto l'insieme trascurando le decorazioni». Concepito allo scadere del secolo dei Lumi, in contrapposizione con l'entusiasmo rivoluzionario che aveva cercato di cancellare la religione con la ragione, Genio del cristianesimo pone le basi, nota ancora Richter, «di un nuovo umanesimo, insieme cattolico e popolare, aperto alla sapientia cordis , capace di rendere efficace la potenza creatrice della parola. Pochi scrittori sono riusciti, come Chateaubriand, a raccontare lo straordinario impasto che trasforma effimeri monadi umane in un concentrato religioso e nazionale di tradizioni e di speranze. «Se ci fosse chiesto quali sono i forti affetti che ci tengono legati alla terra natia, faremmo fatica a rispondere. Forse è il sorriso di una madre, forse i giovani compagni d'infanzia; forse le circostanze più semplici e, se si vuole, le più banali: un cane che abbaiava di notte in campagna, un usignolo che tornava tutti gli anni nel frutteto, il nido della rondine sulla finestra, il campanile della chiesa che si vedeva al di sopra degli alberi, il tasso del cimitero, la tomba gotica. Ecco tutto. Ma questi modesti mezzi dimostrano ancor meglio la realtà di una Provvidenza, in quanto non potrebbero essere la fonte dell'amor patrio e delle grandi virtù che quell'amore fa nascere, qualora ciò non fosse stabilito da una volontà suprema».

Chateaubriand: il Genio del Cristianesimo (e della Tradizione), scrive Lucetta Scaraffia su L'Osservatore Romano. Viviamo un momento di crisi nella trasmissione del messaggio cristiano. In particolare, è in crisi il linguaggio con cui la cultura cattolica cerca di trasmettere ideali ed entusiasmi; e forse non solo a causa del predominio assoluto dell'immagine e dei sistemi informatici, ma per qualcosa di più sostanziale. Avremmo bisogno di un colpo d'ala, di un nuovo scrittore della statura di Chateaubriand che, provocando un "grande colpo al cuore del lettore", riesca di nuovo a convincere della bellezza della fede, e così a riaccendere gli animi spenti della religiosità europea. È questa la conclusione a cui porta la lettura del libro di Giuliano Zanchi Il Genio e i Lumi. Estetica teologica e umanesimo europeo in François-René de Chateaubriand (Vita e Pensiero) dedicato a una delle principali opere del grande scrittore francese - Le Génie du christianisme, uscito nel 1802, cioè immediatamente dopo la tempesta rivoluzionaria - che in poco tempo divenne il libro più letto d'Europa. L'opera ebbe l'effetto di risvegliare la passione per una religione data per morta attraverso un'apologia estetica del cristianesimo. L'autore usava una lingua nuova per affrontare questo complesso tema: una lingua "incantatrice", ben diversa dall'arido razionalismo a cui si erano ridotti i teologi che si misuravano con la filosofia illuminista, una lingua che si voleva riallacciare a quella dei Padri della Chiesa, dei quali egli aveva compreso l'impostazione soggettiva e moderna. Chateaubriand era consapevole d'imporre alla questione religiosa uno scatto complessivo, d'imprimere un cambiamento di marcia alla cultura cristiana attraverso una nuova audacia comunicativa. In quell'epoca dominata da intellettuali che coltivavano l'ideale di un razionalismo intransigente c'era in realtà - e lo scrittore lo sapeva - fame di consolazioni religiose, di fede: "Quanti cuori spezzati, quante anime rimaste sole imploravano una mano divina per guarirli! Ci si precipitava nella casa di Dio come si entra nella casa del medico il giorno di una epidemia". Insomma, la rimozione dell'esperienza religiosa dalla vita sociale stava avvenendo in modo troppo grossolano, e le braci della fede ardevano ancora, se pure nascostamente. Chateaubriand era stato capace di creare un discorso che, secondo Zanchi, intendeva "dar voce alla ridotta eloquenza di una tradizione dottrinale in sé traboccante di ricchezza, di una eredità dogmatica di cui, a causa di una cultura che ha nella stessa misura avvolto la filosofia e la teologia, sono diventate invisibili le ragioni e impalpabile il fascino". Davanti all'uomo dei Lumi che - come l'uomo contemporaneo - cercava in se stesso l'autonoma giustificazione dell'intera storia umana, terrena e spirituale, lo scrittore riesce a risvegliare interesse e ammirazione per "il genio cristiano", dando voce e onore a una percezione della coscienza collettiva, ormai ridotta alla clandestinità proprio per la sua incapacità di riformularsi. Come dovrebbe intervenire il nuovo Chateaubriand oggi? Sarebbe efficace la sua "apologia estetica" della fede? Probabilmente, la bellezza della tradizione cattolica ormai ignorata può avere presa in un mondo in cui - scrive PierAngelo Sequeri nell'introduzione al libro - "la potenza performativa dell'estetico, invece, è dispositivo essenziale per il rapido formarsi di un immaginario pubblico che consegna la religione, in blocco, alla sfera dell'obsoleto, del residuo, del volgare". Mentre l'impatto sentimentale, emotivo, del linguaggio romantico, se pure grondante soggettività, può essere percepito come esagerato. Ma soprattutto oggi, a secolarizzazione compiuta, abbiamo da sfruttare un'altra opportunità: la tradizione cristiana costituisce un punto di vista nuovo, anticonformista, sulla realtà, tale da incuriosire e affascinare soprattutto i giovani, se solo ne vengono a contatto nel modo giusto. Quando scriveva Chateaubriand, questo aspetto di novità non si era ancora sedimentato, e il grande scrittore non aveva potuto fare ricorso a questo motivo di fascino che, paradossalmente, ci offrono proprio la lunga fase di secolarizzazione e perfino la diffusa ignoranza in ambito religioso. Chateaubriand, nato a Saint-Malo nel 1768, è diventato uno dei più celebri scrittori della letteratura francese, scrive “Filosofico.net”. Discendente di una nobile famiglia bretone, venne avviato fin da giovane alla carriera militare e, a Parigi, fu testimone dei primi eventi rivoluzionari. Sono fermenti sociali che lo vedono inizialmente partecipare in modo distaccato e scettico, in osservanza del già pronunciato conservatorismo che lo scrittore ostentava. Nel 1791 compie un viaggio nel Nordamerica, utile per aprirgli la mente e stimolarlo ad un confronto fertile tra altre culture, altri luoghi e la madrepatria. Tornato in Francia, comincia ad assumere un atteggiamento decisamente più attivo nei confronti della politica, tanto da unirsi alle forze controrivoluzionarie, in difesa dello status quo e della dell'organizzazione monarchica della società. Ma la Rivoluzione Francese è un evento inarrestabile che tutto trascina, un moto della storia violento e febbrile, facente leva delle ondate progressiste scatenate dai difensori della ragione e del progresso sociale. I conservatori come lui si ritrovano quindi ben presto in cattive acque. Lo scrittore è quindi costretto a riparare in Inghilterra, dove visse in pratica da esule per ben sette anni (dal 1793 al 1800). Il ritiro londinese è foriero di nuove ispirazioni e di alacre lavoro letterario. Nel 1797 pubblica il "Saggio storico sulle rivoluzioni", intriso malgrado tutto dello spirito illuminista che permeava il settecento (non a caso si pone l'accento sulla storia), ma non senza tracce di un'inquietudine religiosa che poco tempo dopo, nei giorni della crisi spirituale seguita alla morte della madre e della sorella, lo condusse a riabbracciare la perduta fede dell'infanzia. L'opera successiva "Il genio del cristianesimo", iniziata nell'ultimo anno d'esilio e completata dopo il ritorno a Parigi, riflette il proposito di Chauteaubriand di porre il talento letterario al servizio della fede cristiana, difendendola dagli attacchi del voltairianesimo e illustrandone le bellezze poetiche e morali. Partecipano di tale disegno più letterario che filosofico i due brevi romanzi che Chateaubriand incluse nell'opera "Atala", che narra la vicenda d'amore di due indiani della Louisiana con l'intento di mostrare le armonie della religione con le scene della natura e le passioni del cuore umano, e "Renè", che attraverso il racconto velatamente autobiografico dei giovani anni del protagonista condanna le passioni indeterminate e le sterili fantasticherie che hanno condotto Renè a un'esistenza di tedio e di solitudine. "Il genio del cristianesimo" ottenne il plauso dell'opinione francese che ritornava in quegli anni alla fede tradizionale dopo la bufera rivoluzionaria, mentre nei tratti del melanconico Renè amarono riconoscersi le prime generazioni romantiche. A dimostrare la superiorità del "meraviglioso cristiano" sul "meraviglioso pagano" Chateaubriand scrisse quindi l'epopea in prosa "I martiri" (1809), dopo essersi recato in Grecia e in Terra Santa per meglio documentarsi sui luoghi della narrazione, ambientata al tempo delle persecuzioni di Diocleziano. Le note e impressioni di viaggio, raccolte nell' "Itinerario da Parigi a Gernsalemme", riuscirono uno scritto vivace e non aggravato da intenti epici e apologetici; esso prendeva re mosse, del resto, da una fitta tradizione di relazioni letterarie sull'Oriente. Ricche di suggestioni esotiche e primitivistiche sono anche tre opere composte anni prima: "Le avventure dell'ultima Abencerage", "I Natchez" (pubblicate entrambe nel 1826), e il "Viaggio in America" pubblicato l'anno dopo. Nominato pari di Francia dopo il ritorno del Barboni, Chateaubriand prese parte attiva alla vita politica della Restaurazione, ricoprendo anche importanti incarichi diplomatici e di governo, ma si dimise dalla camera nel 1830, con l'avvento della monarchia di Luglio. Ritiratosi a vita privata, si dedicò all'elaborazione delle "Memorie d'oltretomba" (composte negli ultimi anni di vita), appassionata rievocazione della sua vita nel quadro d'una tormentata epoca storica. Nell'operosa maturità, confortata dall'amicizia di Mme Recamier, attese anche a minori opere storiche e a una "Vita di Rancé" dove Chauteabriand, tracciando la vita di un religioso del Seicento, ritrova la propria immagine, le proprie illusioni e amarezze. Dotato di una penna elegante e fortemente suggestiva, guidata da un senso molto forte dell'idea di bellezza, Chauteabriand esercitò una forte influenza sulla letteratura dell'Ottocento, annunciando tendenze e motivi destinati a grande fortuna nel secolo romantico. Si spense a Parigi il 4 luglio 1848. Fu Napoleone in persona a ordinare che venisse recensita positivamente l'opera "Genio del cristianesimo", pubblicata da François-René de Chateaubriand esattamente il 14 aprile 1802 o, come si diceva allora in ossequio ai dettami della moda rivoluzionaria, il 24 germinale dell'anno X. Per la verità l'autore, che era nato a Saint-Malo nel 1768 e che morirà a Parigi nel 1848, dopo un'iniziale adesione alle idee illuministiche, si era spostato su posizioni decisamente controrivoluzionarie, facendo coincidere tale spostamento con la conversione al cattolicesimo, di cui il Genio è la testimonianza più viva e interessante. Chateaubriand, che con Louis de Bonald e Joseph de Maistre è considerato uno dei maitre à penser della controrivoluzione filosofica francese, ritenne che i fatti del 1789 e tutti i mali che ne erano seguiti fossero la diretta conseguenza delle dottrine elaborate nel XVIII secolo dai Voltaire e dai Diderot, i quali non avevano esitato a porre al centro delle loro riflessioni e delle loro polemiche il rifiuto e la condanna della fede religiosa, in particolare di quella cristiana, di cui avevano criticato e persino ridicolizzato i dogmi e le verità principali. Dunque, per Chateaubriand la sconfessione delle tesi rivoluzionarie e la difesa del cristianesimo sono due facce della stessa medaglia, il compito che gli si impone è allora quello di dimostrare che il messaggio di Gesù Cristo non soltanto non ha prodotto gli effetti negativi denunciati dagli illuministi ma, al contrario, è stato il più potente alleato della cecità occidentale e del progresso della cultura: «Non si trattava - si legge a questo riguardo nel Genio del cristianesimo - di riconciliare con la religione i sofisti, bensì la gente da essi traviata. L'avevano ingannata col dire che il cristianesimo era un culto nato in seno alla barbarie, assurdo nei dogmi, ridicolo nelle sue cerimonie, nemico delle arti e delle lettere, della ragione e della bellezza; un culto che aveva continuamente versato il sangue, incatenato gli uomini e ritardato la felicità e i lumi del genere umano; si doveva dimostrare che, al contrario di tutte le religioni mai esistite, la religione cristiana è la più poetica, la più umana, la più favorevole alla libertà, alle arti, alle lettere; che il mondo moderno le deve tutto, dall'agricoltura alle scienze astratte; dagli ospizi per gli infelici fino ai templi costruiti da Michelangelo e decorati da Raffaello». Gettandosi in un dibattito antico e, come è noto, ancor oggi di grande attualità, Chateaubriand manifesta la certezza che la civiltà cristiana sia superiore a tutte le altre. E per suffragare questa tesi fa appello a motivi estetici e sentimentali piuttosto che ad argomentazioni strettamente razionali e logiche: egli - è stato detto - «non spiega, non ragiona, ma contempla e ammira». E ammirando, si convince che niente è più sublime della religione cristiana, a proposito della quale, sempre nel Genio, afferma: «Si doveva dimostrare come niente sia più divino della sua morale, niente più bello e solenne dei suoi dogmi, della sua dottrina e del suo culto; occorreva dire come essa favorisca il genio, purifichi il gusto, sviluppi le passioni virtuose, dia vigore al pensiero, offra nobili forme allo scrittore e perfetti stampi agli artisti; che non bisogna vergognarsi di credere con Newton e Bossuet, Pascal e Racine». A questo punto, agli occhi di Chateaubriand, è evidente che coloro che hanno pensato di poter fare a meno del cristianesimo avrebbero condotto l'uomo e la società allo sfacelo, perché esso rappresenta quella tradizione aurea fuori o contro la quale non è possibile edificare niente di buono: «E' qualcosa di generalmente riconosciuto - si legge ancora nel Genio del cristianesimo - che l'Europa deve alla Santa Sede la propria civiltà, una parte delle sue leggi migliori e quasi tutte le sue scienze e le sue arti». «Avvocato poetico» del cattolicesimo, come lo definì Sainte-Beuve, e fors'anche «cristiano dilettante», secondo il giudizio che ne dette Pierre Moreau, Chateaubriand non appare teologo e filosofo capace di speculazioni profonde; la sua stessa religiosità risulta a volte vaga e troppo legata alle emozioni e condizionata dai sentimenti. Tuttavia, questo intellettuale dalla vita inquieta - ebbe una carriera politico-diplomatica contrastata ancorché di buon successo, e celebre resta il suo fascino di grande amatore - fu capace di riattirare sulla Chiesa il favore e la simpatia della gente e degli stessi uomini di cultura, dopo l'ubriacatura anticristiana che aveva stordito per lungo tempo la Francia e che era figlia di quel materialismo rivoluzionario che egli definì «il patibolo sostituito alla legge e obbedito in nome dell'umanità».

Fascismo e comunismo: i figli (degeneri) della guerra. Il Primo conflitto mondiale con i suoi lutti diede vita a due movimenti opposti. Uno voleva il paradiso in terra e scimmiottava le religioni, l'altro militarizzò la società per volontà di potenza, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. La prima guerra mondiale ebbe due figli, uno rosso come il sangue che versò la rivoluzione, l'altro nero come i lutti che causò la guerra: il comunismo e il fascismo. Il primo preesisteva come idea e come movimento. Il secondo aveva fra i precursori il nazionalismo e l'interventismo. Ambedue venivano dal socialismo ma divennero realtà, partito unico e regime sotto i colpi della guerra. Al di là di quel che oggi si dice, a Mussolini gli italiani credettero davvero e non smisero di credere nemmeno nel pieno della seconda guerra mondiale, come documentano Mario Avagliano e Marco Palmieri in Vincere e vinceremo! (Il Mulino, pagg. 376, euro 25). Come testimoniano le lettere dal fronte pubblicate dai due storici, il consenso popolare all'entrata in guerra e anche oltre, fu sincero, «vasto e diffuso» e la partecipazione al regime e all'impresa bellica fu «attiva ed entusiasta». E ben superiore rispetto alla prima guerra mondiale. Per la verità anche Stalin ebbe consenso popolare nel mondo, che in Russia si cementò in chiave patriottica nella seconda guerra mondiale; ma i russi, a differenza degli italiani sotto il fascismo, vivevano sotto il terrore e le sue vittime furono milioni. Ma proviamo a leggere sotto un'altra luce la parabola del comunismo e del fascismo. Una lettura transpolitica, oltre la storia e il Novecento. Il comunismo fu il tentativo fallito di estendere l'ordine religioso alla società e il fascismo fu il tentativo tragico di estendere l'ordine militare alla nazione. Il primo infatti s'imperniò sulla rinuncia all'individualità, sulla comunanza di ogni bene, sulla comune catechesi ideologica e sull'attesa del paradiso, nonché sulla legge egualitaria, degna di un convento, «ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Ma passando da una comunità eletta di frati - che scelgono quel tipo di vita e rinunciano ai beni terreni - all'intera società costretta a osservare quelle norme, il paradiso trasloca in terra e diventa inferno. Gli angeli e i diavoli vengono storicizzati e identificati rispettivamente nella classe operaia e nei padroni, coi loro servi; l'eterno si risolve nel futuro, e dal processo spirituale al processo economico-materiale la scelta totale si fa servitù totalitaria, il convento si fa soviet e poi lager, la comunità si fa Partito e poi Stato, soffocando nel sangue chi si oppone o solo dissente. È nel passaggio dalla comunità al comunismo che la libera rinuncia ai beni terreni e individuali di un ordine conventuale si fa costrizione, tirannia ed espropriazione. La comunione dei beni su base volontaria è una grande conquista, il comunismo egualitario per obbligo di Stato è una terribile condanna. Nel fascismo avviene un processo analogo: i codici, i linguaggi, le divise, i valori eroici attinenti a un ordine militare vengono estesi all'intera nazione, la milizia si trasforma in mobilitazione di massa. La società viene organizzata come un immenso esercito, in ogni ordine e grado, e relativa gerarchia, e viene resa coesa dall'amor patrio e dalla percezione del nemico. I valori di un ordine militare, come credere obbedire e combattere, vengono estesi all'intera nazione. L'impianto del fascismo è tendenzialmente autoritario, perché attiene all'agire e alla milizia, quello del comunismo è tendenzialmente totalitario perché pervade ogni sfera, incluso il credere e il pensare. La guerra come proiezione verso l'esterno e la militarizzazione come orizzonte interno rende il fascismo un regime in assetto di guerra, animato da volontà di potenza e da una fede assoluta nei confini, trasferita anche nei rapporti umani. L'ordine militare come scelta volontaria attiene a un'aristocrazia, ma nel fascismo viene nazionalizzato, si fa Stato-Popolo, coscrizione obbligatoria di massa, inclusi donne e bambini. Il comunismo è la degradazione di un ordine religioso imposto a un'intera società e il fascismo è l'imposizione di un ordine militare a un'intera nazione. Entrambi sono risposte sacrali, idealiste e comunitarie alla società secolarizzata, utilitaristica e individualista: il carattere sacrale del comunismo è sostitutivo della religione, condannata dall'ateismo di Stato; il carattere sacrale del fascismo è integrativo della religione, come una religione epica e pagana della patria in cui sono ammessi più déi e ciascuno domina nel suo regno, storico o celeste. L'archetipo del comunismo è di tipo escatologico, l'archetipo del fascismo è di tipo eroico. La redenzione promessa dal comunismo avviene tramite la rivoluzione dei rapporti di classe. La vittoria promessa dal fascismo avviene tramite le armi. Infatti il fascismo, nato da una guerra, muore in guerra, sconfitto sul campo di battaglia. Invece il comunismo, nato da una rivoluzione, fallisce proprio sul terreno economico, sconfitto sul piano del progresso e dell'emancipazione. Mussolini sta al socialismo come Napoleone sta alla Rivoluzione francese: è il loro antefatto. Se il prototipo ideale del comunismo è la rivoluzione francese, il modello storico del fascismo è il bonapartismo, che su un'impresa militare fonda un nuovo ordine civile. Napoleone da giacobino diventa generale e poi imperatore; il Duce, ex-socialista, segue una parabola affine. Fascismo e comunismo sovietico nascono ambedue dal collasso dell'Ordine preesistente, imperniato sugli Imperi Centrali. La caduta dell'Impero zarista per la rivoluzione russa, la guerra irredentista contro l'impero austroungarico per la rivoluzione fascista. La Madre di ambedue è la Grande Guerra, col suo corredo di sangue e trincea, la leva obbligatoria e lo sgretolarsi del Mondo di ieri sorretto da quell'Ordine. A complicare le cose venne poi il terzo incomodo, nato anch'egli dalla Guerra ma a scoppio ritardato: il Nazionalsocialismo tedesco, da cui scaturì la Seconda Guerra Mondiale, fatale per l'Europa, letale per il fascismo. La storia avrebbe preso un'altra piega se il patto Molotov-Ribbentrop tra Hitler e Stalin avesse retto alla prova del conflitto e all'indole dei due dittatori. In quel caso, probabilmente, la Seconda Guerra Mondiale avrebbe vendicato la Prima e ne avrebbe rovesciato l'esito, seppure con soggetti mutati: l'Urss al posto della Russia, il Terzo Reich al posto della Prussia e dell'Austria asburgica. Salvo una finale resa dei conti tra il comunismo asiatico e il nazismo indoeuropeo. Resta il paradosso della Prima Guerra Mondiale: fu la Grande Guerra a far nascere il fascismo e il comunismo e a galvanizzarli, ma fu la stessa Guerra a decretare la vittoria sul campo delle democrazie liberali e poi l'americanizzazione del mondo. L'ambigua follia della guerra.

E con la pace, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Il fascismo secondo Giampaolo Pansa. Intervista pubblicata su Il Messaggero di Federico Guiglia. All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino. “Ma quel grido lo sentivo di continuo”, ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore. Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. “Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato”, riprende il filo del discorso. “Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”, eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo”.

“Il nero nacque dal rosso” è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al suo - suo di Pansa -, edicolante citato in prefazione). Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

“Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte”.

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?

“A ogni azione corrisponde una reazione. E’ quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partito comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto su loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. E’ un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia”.

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?

“La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. E’ proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana”.

Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?

“Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato “Il Sangue dei vinti”, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea - poi pubblicata da Laterza - sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per De Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui”.

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.

“Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte”.

SIAM TUTTI FIGLI DI FASCISTI. I VOLTAGABBANA E L’INTELLETTUALE COLLETTIVO.

Il mito sinistro dell'intellettuale collettivo. Da Gramsci passando per il Sessantotto ha prevalso sempre il pensiero organico. Che ha incantato il ceto medio, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Ma cos'è poi questa famigerata egemonia culturale? Quando è nata, come è cresciuta, come si manifesta oggi? Dopo la denuncia del filosofo cattolico Giovanni Reale sulla dittatura culturale marxista in Italia poi mutata in laicismo illuministico, e il «Cucù» che vi dedicai, ho ricevuto varie lettere che chiedono di precisare meglio il tema. In che consiste questa becera egemonia? Per cominciare, il modello ideologico dell'egemonia culturale viene tracciato da Gramsci con la sua idea del Partito come Intellettuale Collettivo che conquista la società tramite la conquista della cultura. Il modello pratico si nutre invece di due esperienze: quella sovietica, da Lenin a Trotzskj, da Zdanov a Lukács, vale a dire il ministro della cultura di Stalin e il filosofo ministro nell'Ungheria comunista. E quella fascista, con l'organizzazione della cultura e degli intellettuali di Gentile e di Bottai, che è l'unico precedente italiano, anzi occidentale di egemonia culturale (ma fu ricca di eresie, varietà e dissonanze). La storia dell'egemonia culturale marxista e laicista in Italia va divisa in due fasi. La prima risale a Togliatti che nell'immediato dopoguerra nel nome del gramscismo va alla conquista della cultura, avvalendosi degli intellettuali organici militanti e di case editrici vicine: da Alicata a Einaudi, per intenderci, per non parlare della stampa. È un'egemonia non ancora pervasiva, punta alla cultura medio-alta e regge sulla riconversione di molti «redenti» dal fascismo. Contro questa egemonia si abbatterà la definizione, altrettanto nefasta, di «culturame» da parte del ministro democristiano Scelba. La seconda egemonia nasce sull'onda del Sessantotto e il Pci diventa poi il principale referente ma anche in parte il bersaglio dell'estremismo rosso. Il distacco dall'Unione Sovietica viene motivato, pure all'interno del Pci, col tentativo d'intercettare quell'area radicale, giovanile e marxista che non contestava l'Urss nel nome della libertà, ma nel nome della Cina di Mao, di Che Guevara, di Ho Chi Minh, e altri miti esotici e rivoluzionari. Perfino Berlinguer, quando accenna a dissentire dal Patto di Varsavia, parte da lì. Dopo il '68 vanno in cattedra nugoli di giovani fino a ieri contestatori, poi assistenti e presto neobaroni. La saldatura tra le due sinistre avviene con la nascita, da una costola de l'Espresso, de La Repubblica che raccoglie le sinistre sparse e concorre alla «secolarizzazione» del Pci nel progetto di un partito radicale di massa. Con La Repubblica e i suoi affluenti ha un ruolo decisivo nella nuova egemonia la sinistra televisiva, cresciuta in Raitre. Sul piano culturale Gramsci viene fuso con Gobetti e Bobbio diventa il nuovo papa laico dell'egemonia. Negli anni di piombo convivono l'egemonia gramsciana con l'egemonia radical che ne prende il posto, a cui contribuiscono i reduci del '68, dal manifesto a Lotta Continua. Se prima era il Partito a guidare le danze, ora è l'Intellettuale Collettivo a dare la linea alla sinistra e a guidarla sul piano dell'egemonia culturale. L'egemonia, sia gramsciana che radical, ha due caratteristiche da sottolineare. Non tocca, se non di riflesso, gli apici della cultura italiana, ma si salda nei ceti medi della cultura, nel personale docente, fino a conquistare buona parte dell'Università e della scuola, dei premi letterari, della stampa e dell'editoria, oltre che del cinema e del teatro, dell'arte e della musica. Nulla di paragonabile, per intenderci, con l'egemonia nel segno di Gentile e d'Annunzio, Pirandello e Marinetti, Marconi e Piacentini, per restare agli italiani. In secondo luogo tocca di striscio la cultura di massa, che è più plasmata dai nuovi mezzi di ricreazione popolare, a partire dalla Rai democristiana, Bernabei e l'intrattenimento nazionalpopolare, lo sport e la musica leggera, e poi la tv commerciale e berlusconiana. Dunque un'egemonia dell'organizzazione culturale, dei poteri culturali, dei quadri intermedi, senza vertici d'eccellenza e senza adesione popolare. Ma i riflessi della sua influenza s'infiltrano a macchia d'olio su temi civili e di costume fino a creare un nuovo canone di remore e tabù. L'egemonia culturale fagocita la cultura affine, asserve quella opportunista e terzista, demonizza o delegittima le culture avverse, di tipo cattolico, conservatore, tradizionale o nazionale. Innalza cordoni sanitari per isolare i non allineati, squalifica le culture di destra, bollate ieri come aristocratiche e antidemocratiche, oggi come populiste e razziste-sessiste; da alcuni anni preferisce fingere che non esistano, decretando la morte civile dei suoi autori. Qui converrà distinguere nel trattamento tra gli imperdonabili e i tollerati. Sono imperdonabili coloro che sono considerati legati a principi tradizionali e a una visione spirituale della vita, chi nutre un giudizio diverso sul fascismo, sul comunismo o sul berlusconismo, sulla religione e sulla famiglia, o chi non condivide il nuovo catechismo fondato sull'omolatria e sul permissivismo intollerante con chi non si allinea. Sono invece tollerati i neognostici che coltivano spiritualismi esoterici, fuori dal mondo e dal tempo, tipo Adelphi; si può arrivare a Guénon ma non a Evola, a Quinzio ma non a Sciacca, a Zolla ma non a Del Noce. Poi i dandy, che lasciano figurare i loro estremismi come stravaganze individuali o pose letterarie o puro vintage, che non contestano i valori dominanti e gli stili di vita; o infine, i fautori della destra impossibile che detestano ogni destra vivente e reale nel nome di quella che non c'è (genere montanelliani dell'ultim'ora). Sopravvive all'egemonia chi intrattiene buone relazioni coi suoi funzionari o si affilia ai clan ammessi o sottomessi. Particolare è il trattamento per i fuorusciti dalla Casa Madre dell'egemonia, gli ex-compagni migrati sulle sponde avverse: sono prima trattati con particolare disprezzo come traditori, cinici e venduti, ma alla fine sono accettati come interlocutori per via del pédigrée, di antichi rapporti e comuni circuiti di provenienza o pulsioni sinistre talvolta riaffioranti in loro. L'egemonia culturale fa male alla cultura, è inutile dirlo, ne danneggia non solo la libertà ma anche la qualità, la dignità e la varietà. Ma alla cultura nuoce pure la noncuranza, il disprezzo, la sottovalutazione, assai diffusi nell'alveo sociale e politico cattolico, moderato, liberale o di destra. Alla fine chi non è allineato all'egemonia si trova tra due fuochi, anzi tra il fuoco degli intolleranti e il gelo degli indifferenti. E si destreggia per non finire bruciato o ibernato.

Quegli intellettuali che, vicini al fascismo, si trasformarono subito in fiancheggiatori del PCI, il quale, su suggerimento togliattiano, cercava di applicare i princìpi dell'egemonismo gramsciano. Ma nei limiti dell'intelligenza comunista su descritta. Infatti, tale operazione si limitò ad intercettare prima gli intellettuali reduci dai littoriali, poi quelli reduci dalle trincee, infine i reduci dalla prigionia e dalle file socialrepubblicane. Tale reclutamento all'italiana portò ad un'egemonia di facciata, molto esteriore e falsa, che gli italiani percepivano facilmente, ed al primo stormir di vento, qual foglie precocemente ingiallite, tutti (scrittori, cineasti, artisti, consulenti, mediatori, critici) s'involarono nell'azzurro cielo del conformismo atlantico.

Già alla vigilia della Prima guerra mondiale la reputazione degli italiani non era delle migliori. Tutti erano convinti che nella Grande Guerra avremmo cambiato di nuovo bandiera, cosa poi puntualmente avvenuta. E questa nostra attitudine a "correre in soccorso dei vincitori", come disse Flaiano, si manifesta con desolante regolarità da oltre un secolo. Le migliaia di camicie nere indossate solo dopo il successo della marcia su Roma. I fascisti diventati antifascisti nell'arco di una notte (25 luglio 1943). Il brusco voltafaccia di Casa Savoia, prima alleata e poi nemica dei tedeschi nel corso dello stesso conflitto. I partigiani dell'ultima ora. Gli intellettuali passati, dopo il 25 aprile 1945, dalla corte di Bottai a quella di Togliatti. Il viavai tra le porte girevoli delle correnti democristiane. La corsa in massa alle sezioni del Pci nel momento del "sorpasso" sulla Dc (1976). Craxi che, divenuto segretario del Psi, fu idolatrato come una divinità egizia e alla fine mollato in un nanosecondo. Berlusconi che, trasformatosi da "ragazzo coccodè" a eminente statista (1994), fu corteggiatissimo da ex supponenti rivali. Dirigenti d'azienda e giornalisti Rai che, dopo l'affermazione elettorale di Alleanza nazionale (1996), scoprirono di essere di destra, salvo poi dire, quando il leader cadde in disgrazia: "Fini chi?". Fino a Renzi, snobbato da tutti dopo la sconfitta subita da Bersani alle primarie del 2012 e oggi inseguito da uno stuolo di zelanti e insospettabili ammiratori.

Ed ecco il naturale sbocco letterario con Bruno Vespa: "Italiani voltagabbana". Fino all'autunno del 2013 Matteo Renzi era solo, attaccato più all'interno che all'esterno del suo partito. Nel giro di pochi mesi, molti dei suoi avversari hanno voltato gabbana, sono diventati renziani, e alcuni fanno parte della squadra di governo. Dopo la clamorosa vittoria del Pd alle elezioni europee del maggio 2014, un folto gruppo della classe dirigente del paese si è messo a disposizione del giovane presidente del Consiglio, sperando di conquistare un ruolo di primo piano. «Ma visto che da noi non cambiava niente, l'ondata di renzismo è improvvisamente cessata» racconta il premier nel lungo colloquio accordato a Bruno Vespa per ...Fino all'autunno del 2013 Matteo Renzi era solo, attaccato più all'interno che all'esterno del suo partito, è scritto nella recensione del libro della Mondadori. Nel giro di pochi mesi, molti dei suoi avversari hanno voltato gabbana, sono diventati renziani, e alcuni fanno parte della squadra di governo. Dopo la clamorosa vittoria del Pd alle elezioni europee del maggio 2014, un folto gruppo della classe dirigente del paese si è messo a disposizione del giovane presidente del Consiglio, sperando di conquistare un ruolo di primo piano. «Ma visto che da noi non cambiava niente, l'ondata di renzismo è improvvisamente cessata» racconta il premier nel lungo colloquio accordato a Bruno Vespa per questo libro. I voltagabbana sono una costante della storia nazionale. Dal Risorgimento, quando venivamo accusati di vincere le guerre con i soldati degli altri, alla prima guerra mondiale, di cui ricorre il centenario, quando in nome del «sacro egoismo» a un certo punto ci trovammo a combattere a fianco delle due fazioni opposte, per scegliere infine quella vincente, rivolgendo le armi anche contro i tedeschi, nostri alleati da trent'anni. Mussolini, che voltò gabbana come interventista prima della Grande Guerra, si alleò con Hitler nella seconda anche perché gli era rimasto il complesso del «tradimento» del 1915. Alla caduta del fascismo, i voltagabbana furono milioni, e Vespa narra con divertito stupore la storia di prestigiosi intellettuali e artisti diventati all'improvviso antifascisti dopo aver orgogliosamente inneggiato al Duce fino al 25 luglio. E sulla pagina vergognosa dell'8 settembre 1943 è ancora aperto il dibattito se gli italiani abbiano tradito i tedeschi o – secondo una versione più recente – se siano stati i tedeschi a tradire gli italiani. Nella Prima Repubblica i politici cambiavano spesso corrente (specie nella Dc) piuttosto che partito, ma i tradimenti più clamorosi furono senza dubbio quelli di molti dirigenti socialisti nei confronti di Craxi. Tuttavia, il trionfo dei voltagabbana si è avuto nella Seconda Repubblica e all'alba della Terza, quella che stiamo vivendo con la riforma costituzionale. Centinaia di parlamentari hanno cambiato casacca con sconcertante disinvoltura e diversi governi sono nati e caduti con il contributo decisivo dei «senza vergogna». Berlusconi e Prodi ne sono stati le vittime principali. Dopo essere stato via via abbandonato da Bossi, Fini e Casini, in queste pagine il Cavaliere accusa severamente Alfano, che si difende dall'accusa di «parricidio» e parla, semmai, di «figlicidio». A sua volta, il Senatùr è stato abbandonato da chi lo adorava e Beppe Grillo ha già avuto le sue molte delusioni. Nel libro, naturalmente, ampio spazio viene dedicato a Matteo Renzi, ai retroscena della sua ascesa al potere e al governo, e ai tanti che lo detestavano e ora lo amano. E ampio spazio viene dedicato alle donne: quelle che Renzi ha portato al governo, o a incarichi di grande potere, e a Francesca Pascale, che per la prima volta racconta nei dettagli la sua storia d'amore con il Cavaliere. In Italiani voltagabbana, Bruno Vespa dipinge con il consueto stile incalzante un affresco del costume nazionale, rileggendo la storia e la cronaca sotto un'angolazione umanissima, anche se assai poco lusinghiera.

Bruno Vespa ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista e a 24 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione «Porta a porta» è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il Saint-Vincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’Estense per il giornalismo. Fra i più recenti volumi pubblicati da Mondadori ricordiamo: Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, Vincitori e vinti, L’Italia spezzata, L’amore e il potere, Viaggio in un’Italia diversa, Donne di cuori, Il cuore e la spada, Questo amore, Il Palazzo e la piazza e Sale, zucchero e caffè.

Opportunisti, paurosi, voltagabbana: italiani, non siete cambiati, scrive Fertilio Dario su “Il Corriere della Sera”. Dopo le rivelazioni dei colloqui telefonici tra il luglio e il settembre '43, gli storici si interrogano sull'oggi. Italiani, povera gente? Di certo opportunisti, paurosi, trasformisti. Persino patetici, nello sforzo di rimuovere la catastrofe del regime. Infantili, con l'illusione assurda di invitare a uno stesso tavolo nazisti e alleati. Gattopardeschi, e sicuri che dopo l'arresto di Mussolini tutto dovesse cambiare per poter restare come prima. Disinformati, al punto da immaginare che gli angloamericani (in accordo con la propaganda ufficiale) sarebbero stati "inchiodati sul bagnasciuga della Sicilia". Equilibristi, in omaggio alla celebre arte di arrangiarsi. Così almeno appare la nostra classe politica e intellettuale, stando alle intercettazioni telefoniche registrate dal Servizio d'informazione militare fra il 25 luglio e l'8 settembre del '43. Ieri le ha pubblicate il Corriere, con il commento di Renzo De Felice, e oggi l'interrogativo è al vaglio degli storici: possibile che in quegli anni gli italiani fossero proprio così? Che tutti, o quasi, si ostinassero a vivere in un mondo di favole littorie e slogan mascelluti quando già la situazione era precipitata? Possibile, certo, secondo Giorgio Spini. Anzi, addirittura scontato. "Già alla fine degli anni Quaranta, afferma, Federico Chabod mi chiese di analizzare autobiografie e memoriali dei generali italiani nei giorni della sconfitta. Ne venne fuori che nessuno aveva capito nulla, nè aveva avuto sentore del 25 aprile, eccetto il generale Cadorna per via dei suoi contatti con il Partito d'azione e La Malfa". Perciò le rivelazioni di oggi, secondo Spini, "sono soltanto la conferma del lavoro di allora: il deserto mentale e l'imbecillità della classe dirigente. Qui non c'entravano destra o sinistra. Il fatto era che la selezione dei gruppi dirigenti nell'Italia fascista, militari compresi, era stata realizzata alla rovescia, promuovendo i più stupidi. Le conversazioni telefoniche, le sciocchezze che venivano prese sul serio confermano come questi importanti generali e dirigenti di regime fossero veramente poveri diavoli". C'era allora una colpa collettiva? "Non la addosserei agli italiani: fra loro ce n'erano anche alcuni tutt' altro che scioccherelli, come De Gasperi. Il problema stava nella selezione negativa del regime, che dopo tutto era rimasto fedele alla ideologia del manganello". Un simile stato di minorità mentale, secondo il politologo Dino Cofrancesco, è testimoniato dall' atteggiamento collettivo nei confronti della guerra. "Proprio come i sudditi di due o tre secoli prima, i dirigenti concepivano il conflitto in corso come "limitato" e reversibile, parte di un destino che restava al di sopra di loro, e sul quale soltanto il capo supremo poteva intervenire. A differenza dei cittadini di uno Stato democratico, avevano accolto la conquista dell'Abissinia come un miracolo compiuto da un altro, ora si illudevano che un altro li avrebbe cavati d'impaccio. Come dire: abbiamo avuto una mano sfortunata alla roulette, dunque raccogliamo le fiches e torniamocene a casa. Il fascismo, che pure per molti aspetti aveva modernizzato il Paese, li aveva educati a dipendere da qualcun altro, ne aveva fatto soltanto dei sudditi. Oggi a nessuno sfugge che le democrazie, più restie delle dittature a intraprendere le guerre, sono poi inesorabili nel condurle a termine. Invece nessuno aveva detto agli italiani d'allora che le guerre contemporanee si combattono in un altro modo, sono conflitti totali nei quali tutti i cittadini vengono coinvolti più o meno allo stesso modo, sopportandone fino in fondo le conseguenze". Anche Paolo Alatri, di fronte alle rivelazioni sull'impreparazione psicologica degli italiani e alla disinformazione di cui erano vittime, è molto colpito. "Tutti si muovevano in una specie di gelatina - afferma - in cui trovavano accoglienza le possibilità e le ipotesi più inimmaginabili. C' era chi fantasticava su possibili alleanze con i russi, chi prevedeva un abbraccio con gli inglesi, chi avrebbe voluto volentieri gli uni e gli altri alla sua tavola. Incredibile, poi, la generale sottovalutazione del ruolo dei tedeschi, come se mettersi d'accordo con loro fosse stato facile quanto bere un bicchier d'acqua. E che dire poi degli americani? Nei discorsi collettivi parevano scomparsi, inghiottiti o rimossi dalla coscienza". Come si era potuto arrivare a simili autoinganni? "La radice del fenomeno va cercata nella politica di grande potenza: l'Italia si fingeva un Paese guerriero e attrezzato per tutte le evenienze, senza averne nemmeno le basi. Non c'è da stupirsi se fra i suoi esponenti o simpatizzanti più in vista non ne esistesse uno solo con una prospettiva realistica. Basti pensare al progetto di "Roma città aperta". Oppure a quel senatore Felici, nazionalista monarchico e per molti anni procuratore di D'Annunzio nei suoi rapporti col fascismo, convinto che la penetrazione degli Alleati in Italia non sarebbe mai potuta riuscire". Ma siamo poi tanto mutati, cinquant'anni dopo? Viene da dubitarne, se diamo retta ad Arturo Colombo, pronto a riscontrare nei discorsi dell'Italietta 1943 molte affinità con la cultura poi affermatasi nel dopoguerra. Ecco Spataro, destinato a diventare un leader della Dc, ragionare sulla necessità di creare un centro politico capace di "logorare" gli avversari. Ecco la costante paura del comunismo, un autentico spauracchio collettivo, che lascia in ombra qualsiasi volontà costruttiva di mettere in piedi un sistema politico liberaldemocratico. Ecco Missiroli, convinto che il vecchio non debba morire, e deciso a ritornare immediatamente a galla. Ed ecco infine il sacro slogan "Credere, obbedire, combattere" riadattato alle necessità del momento. Credere? A niente e nessuno. Obbedire? Ai vincitori. Combattere? Sì, ma per salvare la pelle.

Italiani, popolo di poeti, eroi e voltagabbana, scrive “L’Unità”. Che ne è oggi dell’impegno degli intellettuali italiani? E, prima ancora, esistono ancora veri intellettuali in Italia? Se ne è discusso all’Università di Bordeaux. Il più noto studioso di letterature comparate italiano, Remo Ceserani, ha svolto una relazione sulla figura, tutta italica, del voltagabbana. Una tipologia di personaggio oggi molto presente nel nostro Paese, tra i politici, ma anche tra gli uomini di cultura. Tra gli esempi riportati da Ceserani, a un uditorio francese piuttosto sconcertato, il «responsabile» Domenico Scilipoti (passato dalla sera alla mattina da Antonio Di Pietro a Silvio Berlusconi), l’ex presidente del Senato e tutt’ora senatore Pdl Marcello Pera (da giovane simpatizzante radicale, oggi vicino alle posizioni del cattolicesimo più reazionario), i giornalisti Paolo Guzzanti (prima socialista, poi berlusconiano, poi antiberlusconiano - fu lui a coniare il termine «mignottocrazia», che Ceserani ha faticato un po’ a tradurre in francese - prima di tornare nuovanente a sostenere il Cavaliere) e Giampaolo Pansa (prima a sinistra, ora artefice, da destra, di un acceso revisionismo storiografico sulla Resistenza), i politici Claudio Velardi (prima consulente di Massimo D’Alema, poi di Renata Polverini) e Daniele Capezzone (prima radicale ora portavoce del Pdl). E, ancora, Giuliano Ferrara, Vittorio Sgarbi, Daniela Santanché, Tiziana Maiolo. Insomma, cambiare casacca per opportunismo e tornaconto personale, anche se ammantandosi di nobili motivazioni, sembra essere diventata una moda radicata e diffusa a tutti i livelli.

Professor Ceserani, come mai ha deciso di partire da Scilipoti per questa sua carrellata di voltagabbana?

«Perché Scilipoti è la caricatura del voltagabbana, è un voltagabbana all’ennesima potenza, quindi diventa quasi la parodia di una maschera della commedia dell’arte italiana. Il suo caso è talmente estremo da apparire quasi surreale. Ma sono ancora più paradossali i tentativi di giustificare i propri comportamenti che offre a chi gliene chieda spiegazione: un’autentica arrampicata sugli specchi, senza alcun vero argomento».

Che cosa la colpisce maggiormente nella sua vicenda?

«L’assenza della benché minima motivazione ideologica o anche solo ideale. Scilipoti è passato dal populismo di sinistra (Di Pietro) al populismo di destra (Berlusconi) senza battere ciglio, anzi, senza forse neanche accorgersi del triplo salto carpiato che ha compiuto. Il voltagabbana classico dà una giustificazione al proprio mutamento di posizioni. Qui siamo nella commedia dell’assurdo. Scilipoti è un personaggio pirandelliano: uno, nessuno e centomila».

Perché secondo lei il «voltagabbanismo» è un vizio tipicamente italiano?

«La radice storica di questo malcostume sta nel trasformismo parlamentare che ha connotato, sin dall’inizio della vita unitaria della nazione, la prassi politica. Nei primi decenni della vita parlamentare tale pratica trovava giustificazione nell’assenza di differenze ideologiche sostanziali tra destra e sinistra. Poi questa tendenza si è protratta nel tempo fino ai nostri giorni, seppure in un contesto radicalmente mutato. Non a caso i voltagabbana sono frequenti oggi, quando sono venute meno le grandi ideologie del ’900. Si tratta, insomma, di un sintomo tutto postmoderno, tipico di una società liquida come la nostra. Ma, va ribadito, di un sintomo assolutamente negativo, del sintomo, cioè, di un’autentica patologia del tessuto civile prima ancora che di quello politico».

In diversi personaggi tra quelli che ha nominato (da Pera a Capezzone) c’è, all’inizio della loro carriera, una militanza o quanto meno una simpatia per il Partito radicale. Come spiega questa costante?

«Perché Marco Pannella è stato davvero una nave scuola, ha insegnato a tutti loro tecniche di lotta politica alternative a quelle dei partiti tradizionali. Ad esempio Capezzone ha portato le proprie conoscenze nel campo della comunicazione al servizio di tutt’altra causa. Così l’esperienza radicale è stata spesso la scuola contemporanea del trasformismo».

Ma non è lecito cambiare idea?

«Certo, e nella storia della cultura occidentale le grandi conversioni hanno dato origine a grandi narrazioni: da San Paolo a Sant’Agostino fino ad Alessandro Manzoni, nella conversione classica c’è sempre qualcosa di nobile, di ideale. Ma qui non compare nulla di tutto questo. Non c’è la dimensione alta, tragica, ma solo quella bassa, farsesca».

I politici che mutano bandiera, però, rivendicano la legittimità del loro comportamento richiamando l’articolo 67 della Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»...

«Sì, ed è sacrosanto che i padri costituenti abbiano voluto questa frase. Ma va chiarita una cosa: quell’articolo della nostra Carta fondamentale è stato scritto per garantire la libertà di coscienza dei parlamentari di fronte alle grandi problematiche etiche. Le giustificazioni di chi cambia schieramento parlamentare snaturano il senso della legge».

Ma prima ancora di Scilipoti, forse bisognerebbe parlare di Berlusconi…

«Ma no, perché in questo Berlusconi è un modello inarrivabile, è un fuori classe, non sono possibili paragoni. Baciare la mano a Gheddafi e poi sganciargli le bombe sulla testa, essere un giorno per l’Unità d’Italia e il giorno dopo per un federalismo spinto, essere per il libero mercato e insieme favorire precisi gruppi di interesse economico, sostenere le posizioni morali della Chiesa cattolica e insieme diffondere tramite le tv commerciali di famiglia una visione assolutamente materialistica ed edonistica della vita, per non parlare dei modelli di comportamento offerti dalla sua vita privata… In Berlusconi c’è tutto e il contrario di tutto, da sempre. Per questo non può essere un volta gabbana. Perché non ha ideali, ma solo istinti: gli istinti più bassi del capitalismo».

Già, la solita sinistra. Vede la pagliuzza negli occhi altrui e non la trave nei suoi occhi.

http://adv.ilsole24ore.it/RealMedia/ads/Creatives/default/empty.gifDa “Italiani Voltagabbana” di Bruno Vespa. Neri con riserva. Da Dario Fo ad Eugenio Scalfari: nel libro di Bruno Vespa, tutti gli intellettuali di sinistra che furono fascisti, scrive “Libero Quotidiano”. La storia del nostro Paese è ricca di retroscena e di aneddoti destinati a fare scalpore: tra queste storie, diverse vengono svelate o ricordate da Bruno Vespa nel suo nuovo libro, Italiani volta gabbana. Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica, sempre sul carro del vincitore, in uscita oggi, giovedì 6 novembre (edizione Mondadori). Nel terzo capitolo di questo volume, Vespa parla di diversi intellettuali che si dichiararono antifascisti alla caduta del regime di Benito Mussolini, ma che prima stavano dalla parte del Duce: tra di loro ci sono nomi altisonanti, come Giuseppe Ungaretti o Dario Fo, o altri comunque ben noti, come Indro Montanelli o Enzo Biagi. Tutto nasce dalla rivista Primato, diretta da Giuseppe Bottai: il politico fascista più illuminato sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. La rivista nacque nel 1940 e chiuse il 25 luglio 1943, e furono tantissimi intellettuali a collaborare per questo giornale. "Fascista in eterno": si definì così Ungaretti durante il regime. Il poeta notò che "tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore", e firmava appelli per sostenere Mussolini, salvo poi rinnegarlo dopo il 25 luglio 1943, quando firmò documenti contrari ai precedenti, tanto da meritarsi una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev. Stessa parabola per Norberto Bobbio, che da studente si era iscritto al Guf (l'organismo universitario fascista) e aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Il filosofo e senatore a vita, cercò raccomandazioni per poter evitare problemi che gli derivavano da frequentazioni "non sempre ortodosse", e il padre Luigi fu costretto a rivolgersi allo stesso Mussolini. Bobbio ottenne la cattedra, mentre nel dopoguerra diventò un emblema della sinistra riformista: il 12 giugno 1999, a Pietrangelo Buttafuoco del quotidiano Il Foglio, il filosofo ammise: "Il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne vergognavamo. Io che ho vissuto la gioventù fascista mi vergognavo di fronte a me stesso, a chi era stato in prigione e a chi non era sopravvissuto". Indro Montanelli non ha mai nascosto di essere stato fascista: "Non chiedo scusa a nessuno", ribadiva sul Corriere della Sera. Stesso discorso per Enzo Biagi, che nel dopoguerra ha sempre mantenuto gratitudine per Bottai. Eugenio Scalfari, dopo il 1945, parlò di "quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti", senza celare mai le proprie ferme convinzioni giovanili: anche lui, fino alla sua caduta, sostenne il fascismo e la sua economia corporativa. Più difficile è stato negare la propria fede fascista, da parte di Dario Fo, che a 18 anni si arruolò nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica Sociale Italiana. Nel 1977 Il Nord, piccolo giornale di Borgomanero, raccontò quei trascorsi della vita di Fo: l'attore querelò subito Il Nord, e al processo disse che l'arruolamento era stato soltanto "un metodo di lotta partigiana". Le testimonianze, invece, lo inchiodarono: la sentenza del tribunale di Varese, datata 7 marzo 1980, stabilì che "è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani". Dario Fo non fece ricorso.

Il numero dei voltagabbana tra gli intellettuali alla caduta del regime fu clamoroso, scrive Bruno Vespa su "Il Giornale". Giuseppe Bottai era il politico più illuminato del fascismo sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. Ebbene, la sua rivista «Primato» fu pubblicata dal 1940 (quando le leggi razziali avevano già consumato i peggiori misfatti) e chiuse solo con la caduta del regime il 25 luglio 1943. In quegli anni, Bottai poté contare sulla fervida collaborazione del meglio della cultura italiana: Giorgio Vecchietti (condirettore), Nicola Abbagnano, Mario Alicata, Corrado Alvaro, Cesare Angelini, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Piero Bargellini, Arrigo Benedetti, Carlo Betocchi, Romano Bilenchi, Walter Binni, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Enzo Carli, Emilio Cecchi, Luigi Chiarini, Giovanni Comisso, Gianfranco Contini, Galvano Della Volpe, Giuseppe Dessì, Enrico Emanuelli, Enrico Falqui, Francesco Flora, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Bruno Migliorini, Paolo Monelli, Eugenio Montale, Carlo Muscetta, Piermaria Pasinetti, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Vittorio G. Rossi, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Sergio Solmi, Ugo Spirito, Bonaventura Tecchi, Giovanni Titta Rosa, Giuseppe Ungaretti, Nino Valeri, Manara Valgimigli, Giorgio Vigolo, Cesare Zavattini. Musicisti come Luigi Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni. Artisti come Amerigo Bartoli, Domenico Cantatore, Pericle Fazzini, Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Camillo Pellizzi, Aligi Sassu, Orfeo Tamburi.

GIUSEPPE UNGARETTI. Una crisi di coscienza colse Giuseppe Ungaretti. Il poeta notò durante il regime che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore» e si definì «fascista in eterno», firmando documenti e appelli per sostenere il fascismo. Salvo firmarne di uguali e contrari alla fine della guerra come alfiere dell'antifascismo, tanto da meritare una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev.

NORBERTO BOBBIO. Norberto Bobbio da studente si era iscritto al Guf, l'organismo universitario fascista, e poi aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Colpito per frequentazioni non sempre ortodosse da una lieve sanzione che avrebbe potuto comprometterne la carriera, Bobbio cercò ovunque raccomandazioni per emendarsi. Suo padre Luigi si rivolse al Duce, lo zio al quadrumviro De Bono, lo stesso giovane docente a Bottai («con devota fascistica osservanza»). Fu interessato anche Giovanni Gentile, che intervenne con successo presso Mussolini. Alla fine, Norberto ebbe la cattedra tanto desiderata. Nel dopoguerra, Bobbio diventò un maître à penser della sinistra riformista italiana. Ma il tarlo del passato lo consumò fino a una clamorosa intervista liberatoria rilasciata il 12 novembre 1999 a Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio: «Noi il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto la “gioventù fascista” tra gli antifascisti mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli che diversamente da me non se l'erano cavata».

INDRO MONTANELLI. Montanelli non ha fatto mai mistero di essere stato fascista. (Fu, anzi, un fascista entusiasta). «Sono stato fascista, come tutte le persone della mia generazione», ammise nella sua “Stanza” sul Corriere della Sera nel 1996. «Non perdo occasione per ricordarlo, ma neanche di ripetere che non chiedo scusa a nessuno». Anche nella più sfacciata adulazione del Duce, Montanelli scriveva pezzi di bravura come questo del 1936: «Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti, noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo alla inimitabile essenzialità di questo Uomo, che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. Dobbiamo amarlo ma non desiderare di essere le favorite di un harem».

GIORGIO BOCCA. «Quando cominciò il nostro antifascismo? Difficile dirlo...». Dev'essere cominciato tardi, quello di Giorgio Bocca, se è vero quanto egli stesso scrive nel racconto «La sberla… e la bestia» pubblicato l'8 gennaio 1943 su La provincia granda, foglio d'ordini settimanale della federazione fascista di Cuneo. Il 5 gennaio Bocca aveva incontrato in treno sulla linea Cuneo-Torino l'industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo. Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto un lungo articolo su I protocolli dei Savi di Sion, che si sarebbero rivelati poi (ma lui, ovviamente, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda antisemita. Le prime righe dell'articolo recitano: «Sono i Protocolli dei Savi di Sion un documento dell'Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo Ebreo intende giungere al dominio del mondo...». E le ultime: «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell'Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».

DARIO FO. Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo, un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord, pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l'esito da lui sperato. Secondo quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l'attore disse in aula che il suo «arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l'azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L'allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell'Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe». E l'ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l'ha detto subito, all'indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?». Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L'avremmo fatto, ma avevamo quindici anni...». L'11 marzo 1978, mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale Gente una foto dell'attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono apocrife e aggiunte da altri», si difenderà). Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.

VITTORIO GORRESIO. Vittorio Gorresio, una delle firme più brillanti della sinistra riformista del dopoguerra, scriveva cose impegnative sulla gioventù hitleriana: «Così pregano gli ariani piccoli, ora che, dissipato il fumo del rogo ove furon arsi i venticinquemila volumi infetti di semitismo, l'atmosfera tedesca è più limpida e chiara». E nel 1936 sulla Stampa, il giornale di cui sarebbe diventato negli anni Sessanta la prima firma politica, confessava: «Ringrazio Dio perché ci ha fatto nascere italiani ed è con gli occhi lucidi che si sente nell'animo la gratitudine del Duce».

EUGENIO SCALFARI. Nonostante la giovane età, Scalfari era riuscito a far pubblicare alcuni scritti di Calvino su Roma fascista, era diventato amico di Bottai, che chiamava «il mio Peppino», e fino alla caduta del fascismo sostenne con convinzione l'economia corporativa. Ma va ascritto a suo merito di aver sempre parlato nel dopoguerra di «quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti», non nascondendo mai le sue ferme convinzioni giovanili.

ENZO BIAGI. Montanelli collaborò a Primato come Enzo Biagi, che nel dopoguerra non ha negato i suoi trascorsi (scrisse anche per la rivista fascista bolognese Architrave) e la gratitudine per Bottai. Ma i suoi avversari, spulciando negli archivi, hanno scovato altri episodi. Secondo il racconto di Nazario Sauro Onofri in I giornali bolognesi nel ventennio fascista, nel 1941 Biagi, allora ventunenne, recensì il film Süss l'ebreo, formidabile strumento della propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista bolognese L'assalto, scrivendo che il pubblico «era trascinato verso l'entusiasmo» e «molta gente apprende che cosa è l'ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte». (Biagi era in buona compagnia, perché sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il giovanissimo Giovanni Spadolini, mentre una lusinghiera recensione allo stesso film fu firmata dal regista Carlo Lizzani). Biagi restò al Resto del Carlino, controllato dai fascisti e ormai anche dai nazisti, fino alla tarda primavera del 1944, ricevendo - come tutta la redazione - generosi sussidi economici dal ministero della Cultura popolare (il Minculpop). Dieci mesi dopo entrava a Bologna con le truppe americane.

Pansa: ogni italiano è figlio di un fascista. Per oltre vent'anni nessuno si oppose al regime del Duce. Solo la conduttrice de "Le invasioni barbariche" sembra ignorarlo, scrive Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”. Mi ha fatto tenerezza la signora Daria Bignardi nel corpo a corpo con un deputato grillino, Alessandro Di Battista. Era in diretta su La7 per le sue Invasioni barbariche e tentava di mettere in difficoltà il grillino sul padre fascista. Deliziosa ingenuità quella di madamin Bignardi. Risultava chiaro che nessuno le aveva spiegato che per vent’anni, dal 1922 al 1943, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Benito Mussolini, gli hanno obbedito e si sono fatti accoppare per lui. Fino alla notte del 25 luglio, quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nel mio piccolo, sono stato anch’io un fascista, essendo venuto al mondo il 1° ottobre 1935, in pieno regime mussoliniano. Il giorno successivo alla mia nascita, la sera del 2 ottobre, dal balcone di palazzo Venezia il Duce annunciò all’Italia di aver dichiarato guerra all’Etiopia. Per volere di Benito, il discorso venne trasmesso in tutto il Paese, nelle piazze dove milioni di persone stavano in religiosa attesa del suo verbo. Tra i tantissimi raccolti nella piazza principale della nostra città, doveva esserci anche mio padre Ernesto, operaio delle Poste con la mansione di guardafili del telegrafo. E in quanto dipendente statale precettato per l’adunata in onore dell’attacco al maledetto Negus, al secolo Hailè Selassiè. Però mio padre in piazza del Cavallo non ci andò. Gli era appena nato un figlio, il primo, e questo evento gli sembrava un motivo più che valido per restare accanto alla moglie, mia madre Giovanna. Devo ricordare che in quel tempo le donne partorivano in casa con l’assistenza di una levatrice, ossia di un’ostetrica. Così aveva fatto Giovanna, urlando un paio d’ore poiché ero grosso e lungo. E non volevo saperne di uscire dalla sua pancia. Il giorno successivo, era il 3 ottobre, due della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale si presentarono in casa nostra e chiesero a Ernesto perché mai non fosse andato anche lui in piazza ad ascoltare il Duce. Mio padre spiegò che gli era appena nato un figlio. «Maschio o femmina? », domandarono i militi. «Maschio», rispose Ernesto. E i militi, una coppia di bonaccioni in divisa e camicia nera, si congratularono: «Ottimo! Anche lui diventerà un soldato della Patria fascista». Mio padre gli offrì un bicchiere di Barbera che bevvero alla salute di mia madre e dell’inconsapevole sottoscritto, addormentato nella culla. E l’ispezione finì lì. A vestire la divisa di soldato del Duce non feci in tempo perché il regime cadde molto prima. In compenso, il 1° ottobre 1941, giorno del mio sesto compleanno, divenni un Figlio della lupa. Era il gradino iniziale della scala inventata per la gioventù del regime. A sette anni, in seconda elementare, si restava sempre Figli della Lupa. A otto si diventava Balilla. Si chiamava Balilla anche il giornaletto che leggevo, una specie di concorrente del Corrierino dei piccoli. Lì avevo imparato chi erano i nemici dell’Italia. Re Giorgetto d’Inghilterra. Il ministro Ciurcillone. Rusveltaccio Trottapiano, presidente americano, che ubbidisce alla signora, la terribile Eleonora. Ma i più pericolosi erano i russi che si ammazzavano tra di loro. Il terribile Stalino, l’Orco rosso del Cremlino, dice urlando come un pazzo alle guardie del palazzo: i compagni qui segnati siano tutti fucilati! Nell’estate del 1943, conclusa la seconda elementare, i miei genitori decisero di mandarmi alla colonia montana delle Regie Poste di Alessandria. Era un luogo triste, nascosto fra alture basse vicine a Biella, dove pioveva sempre. Le giornate si aprivano con l’alza bandiera e le preghiera del Balilla, recitata a turno da uno dei ragazzini: «Signore, benedici il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie. E poiché l’hai donato all’Italia, fallo vivere a lungo per la Patria e fa’ che tutti siano degni di lui...». Ogni mattina, dopo il caffelatte, cominciava l’ora di dottrina fascista. Ed era l’unica vera attrazione della giornata. Il merito andava all’insegnante: una ragazzona maestosa, un trionfo di capelli rossi e un seno stupefacente, figlia del capostazione della nostra città. Era una cliente della modisteria di mia madre e aveva fatto impazzire il panettiere del negozio accanto. Quando andavo a comprare il pane, il fornaio mi domandava: «Le hai viste quelle tette? Darei mille lire per poterle pastrugnare! ». Ma la maggiorata dai capelli rossi non badava alle occhiate dei maschi, tanto meno alle nostre di ragazzini troppo arditi. E per tenerci a bada, escogitava ogni giorno una preghiera per il Duce. A me ne toccò una che recitava: «Gioventù italiana di tutte le scuole, prega che la Patria non manchi al suo radioso avvenire. Chiedi a Iddio che il ventesimo secolo veda Roma centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per le genti del mondo». Un mese dopo, era la fine del luglio 1943, tutto sembrò sparire con la caduta del Duce. In piazza si videro molte manifestazioni di giubilo, ma la maggior parte della gente se ne restò a casa. La guerra iniziata nel 1940, e i tanti ragazzi morti su troppi fronti, stavano allontanando dal fascismo un numero sempre più grande di italiani. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscere di essere stato un fascista senza pentimento. E di aver sostenuto con entusiasmo un regime che adesso ci aveva portato al disastro. Il nostro fascismo esistenziale lo si constatò sino in fondo in due momenti terribili che confermarono la natura crudele della dittatura di Mussolini. Il primo, nel 1938, fu il varo delle leggi razziali contro gli ebrei. Il secondo l’inizio delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di migliaia di israeliti, quando l’Italia del centro e del nord stava sotto la Repubblica sociale, un regime sostenuto dai tedeschi. Mi rammento bene quel che accadde in quei momenti. Per il motivo che non accadde nulla. Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile. Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell’indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia. Per tutto questo mi sembra grottesco che nell’Italia del 2014 qualcuno chieda a qualcun altro: tuo padre era fascista, tuo nonno portava la camicia nera? La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Oggi la mia speranza è che lo sfacelo della nostra classe politica non metta in pista qualche nuovo signore autoritario che ci obblighi a innalzare la bandiera voluta da lui. Il colore non importa. Però mi domando quanti accetterebbero di sventolarla. E temo che anche stavolta non sarebbero pochi.

Prima di “Bella ciao” la canzone più nota era “Eia eia alalà”. La cantavano gli italiani sbarcati in Albania per spezzare le reni alla Grecia. Poi i Figli della Lupa e i piccoli Balilla. “La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo” scrive Giampaolo Pansa che quell’Italia l’ha vissuta e poi l’ha raccontata per demolire soprattutto la mitizzazione arbitraria della guerra civile. Perché l’Italia è stata una nazione in grandissima parte attratta dal Fascismo, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943 quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nell'Italia del Duemila può presentarsi l'avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini? Anche oggi siamo un paese strozzato da una crisi pesante, con una casta di partiti imbelli e un possibile conflitto tra ceti diversi. Sono queste assonanze con gli anni Venti del Novecento che hanno spinto Giampaolo Pansa a scrivere "Eia eia alalà", un antico grido di vittoria riesumato dallo squadrismo fascista. Il racconto inizia con la lotta di classe esplosa tra il 1919 e il 1922, guidata dai socialisti e sconfitta dall'inevitabile reazione della borghesia. Il nero nacque dal rosso: l'estremismo violento delle sinistre non poteva che sfociare nella marcia su Roma di Mussolini, il primo passo di una dittatura ventennale. La ricostruzione di Pansa ruota attorno a un personaggio esemplare anche se immaginario: Edoardo Magni, un agrario padrone di una tenuta tra il Monferrato e la Lomellina. Coraggioso ufficiale nella Prima guerra mondiale, finanziatore delle squadre in camicia nera, all'inizio convinto della necessità di una rivoluzione fascista ma via via sempre più disincantato. Sino a diventare un sostenitore del leader squadrista dissidente Cesare Forni, ritenuto da Mussolini un nemico da sopprimere. Magni è il protagonista di un dramma a metà tra il romanzo e la rievocazione storica, gremito delle tante figure che attorniano il Duce, una nomenclatura potente descritta con realismo. In Eia eia alalà Pansa accompagna il protagonista nello scorrere degli anni e nella sfiducia crescente verso il regime. Abbiamo di fronte un ricco signore alle prese con tante incertezze e molti amori: Marietta, Rosa, Anna, Elvira e infine Marianna. Sarà questa giovane donna ebrea incontrata nel ghetto di Casale a fargli scoprire lo sterminio degli israeliti della città, con un viaggio tormentato che alla fine la condurrà a una decisione inaspettata. Grazie alle ricerche di Marianna, Magni conosce una dopo l’altra le storie degli ebrei uccisi ad Auschwitz. Nell’indifferenza gelida dei tanti che si voltavano dall’altra parte e fingevano di non vedere. Eia eia alalà è anche l’affresco di un’Italia che assomiglia non poco a quella di oggi: distratta, egoista e forse pronta ad accettare nuove tragedie.

.. Pansa: "Vi racconto l'Italia in cui tutti, o quasi, gridavano Eia Eia Alalà". Nel suo nuovo libro Giampaolo Pansa autore del «Sangue dei vinti» ricostruisce l'ascesa del fascismo e il consenso di massa al regime. Che molti dimenticano..., scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Si chiama Eia Eia Alalà ed è in libreria da oggi. Se non bastasse il titolo (a caratteri cubitali rossi in stile molto littorio), ci pensa il sottotitolo a spiegare che cosa si può trovare in questo volume (Rizzoli, pagg. 378, euro 19,90) a firma Giampaolo Pansa: Controstoria del fascismo. Pansa infatti, usando l'artificio del romanzo - «a me il lettore piace acchiapparlo per la coda, non annoiarlo a colpi di saggio» - mette i puntini sulle «i» della storia italiana della prima metà del '900 per spiegare che cosa sia stato e come sia nato il Ventennio mussoliniano. Il suo espediente narrativo è partire dalla sua terra e raccontare attraverso le vicissitudini del possidente terriero Edoardo Magni (personaggio di fantasia, ma nel libro ce ne sono molti realmente esistiti) come l'Italia sia diventata, convintamente, fascista. E lo sia rimasta a lungo. Non c'è bisogno di dire, viste le scomode verità venute a galla con i suoi precedenti libri (a partire da Il sangue dei vinti ) e il tema, che la polemica è garantita. E che qualche gendarme della memoria, per usare un'espressione dello stesso Pansa, avrà qualcosa da dire.

Dunque, Eia Eia Alalà. L'urlo di una generazione?

«Non sai quante volte l'ho sentito gridare quando ero bambino ed ero un Figlio della Lupa. Ho anche una foto in cui, piccolissimo, facevo il saluto romano, davanti al monumento ai Caduti. Non ho fatto in tempo a diventare balilla, però. Il regime è caduto prima. E per quanto in casa dei gerarchi sentissi dire peste e corna. Il sottofondo della vita degli italiani era quello lì».

Per questo l'hai scelto come titolo?

«In parte, volevo anche un titolo che cantasse. Che rendesse l'idea di quello che a lungo il regime è stato per gli italiani. L'avventura del fascismo è stata legata all'idea di vincere, di migliorare il Paese. Rende l'idea di quella giovanile goliardia che affascinò molti. Un fascino che iniziò a incrinarsi solo con le orribili leggi razziali e crollò definitivamente solo con gli orrori della guerra».

Non molti hanno voglia di ricordare che il fascismo ebbe davvero una presa collettiva. Tu invece questo lo racconti nel dettaglio...

«Ho voluto fare un racconto senza il coltello tra i denti. Che cosa rimprovero io a storici, anche molto più bravi di me che di solito scrivono su Mussolini? Ma di avere una partecipazione troppo calda, schierata. Io, anche grazie all'invenzione di un personaggio come Magni, invece ho cercato di fare un racconto neutrale. Per chi c'era è un'ovvietà che il fascismo ebbe un consenso di massa. Tutti erano fascisti tranne una minoranza infima. Gli antifascisti erano una scheggia microscopica rispetto a milioni di italiani. Gli italiani ieri come oggi volevano solo un po' di ordine... E Mussolini glielo diede. Ai più bastò».

Tu attribuisci molte responsabilità ai socialisti che favorirono involontariamente il successo del fascismo, regalandogli il potere... A qualcuno verrà un colpo!

«La guerra perpetua tra rossi e neri creava sgomento. Gli scioperi nelle città, ma soprattutto nelle campagne crearono il caos... Si minacciò la rivoluzione senza essere capaci di farla davvero. Si diede l'avvio alle violenze senza calcolare quali sarebbero state le reazioni. E per di più, esattamente come la sinistra attuale, i socialisti erano perpetuamente divisi. Pochi capirono quanto fosse grave la situazione. Tra questi Pietro Nenni, il quale a proposito della scissione comunista del 1921 scrisse: "A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano"».

Però qualche responsabilità la ebbe anche la borghesia italiana, o no?

«Noi non avevamo la tradizione liberale di altri Paesi. Ed eravamo in una situazione economica terribile che a tratti mi ricorda quella di oggi. C'erano dei partiti-casta in cui la gente non si riconosceva e lo scontro tra ceti (o classi) era alle porte... Il nero è nato dal rosso, la paura ha fatto allineare gli italiani come vagoni ferroviari dietro a Mussolini. Non per obbligo, nonostante le violenze degli squadristi. Sono stati conquistati dalla grande calma dopo la marcia su Roma. L'italiano dei piccoli centri, delle professioni borghesi, voleva soltanto vivere tranquillo. Avuta la garanzia di una vita normale e dello stipendio a fine mese, di chi fosse a palazzo Chigi o a palazzo Venezia gli importava poco».

Qualunquismo?

«L'Italia continuava a essere soprattutto un Paese agricolo. Lo sciopero agrario del 1920 rischiò di paralizzare la campagna. Le leghe rosse impedendo la mungitura, nel libro lo racconto, minacciarono di far morire le mucche... Da lì nacque un fascismo virulento e tutto particolare che poi si prese la rivincita. Il fascismo è stato il ritratto di gruppo degli italiani. C'era dentro di tutto. C'erano molte forze vitali e diverse. Poi il criterio dell'obbedienza cieca, pronta e assoluta che tanto propagandava Starace fece sì che nel cerchio di persone più vicine al Duce si andasse verso una triste selezione al ribasso».

In Eia Eia Alalà descrivi la parabola triste di molti fascisti «diversi».

«La scollatura tra italiani e regime iniziò con le leggi razziali, non prima. Lì inizio il male assoluto, la vergogna. Una delle figure più tragiche del libro è Aldo Finzi. Di origine ebraica, aviatore, fascista della prima ora, poi messo ai margini e fucilato alle Fosse Ardeatine. Poi è arrivata la guerra e la rimozione di massa».

Ma davvero vedi così tante assonanze tra l'oggi e l'avvento del fascismo?

«È possibile non vederle? L'unica variante è il terrorismo internazionale. Ed è una variante peggiorativa».

“All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino” scrive Federico Guiglia del Messaggero.

«Ma quel grido lo sentivo di continuo», ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore. Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. «Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato», riprende il filo del discorso. «Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza», eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo». «Il nero nacque dal rosso» è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al vero edicolante di Pansa citato in prefazione).

Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

«Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte».

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?

«A ogni azione corrisponde una reazione. È quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partito comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto sul loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. È un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia».

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?

«La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. È proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana».

Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?

«Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato Il Sangue dei vinti, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea – poi pubblicata da Laterza – sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui».

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.

«Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte».

"A 10 anni dal "Sangue dei vinti" lotto ancora con le bugie rosse". Il giornalista che per primo ha raccontato gli orrori della guerra civile ha scritto una nuova prefazione al suo "classico". E ci racconta perché, scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Dieci anni fa un grosso sasso, quasi un meteorite, precipitò da grande altezza nel piccolo stagno della storiografia italiana. Uno stagno dove a gracidare erano, chi meglio chi peggio, più o meno sempre gli stessi, e da un bel po'. A lanciarlo un «non professionista», in senso accademico, della Storia: il giornalista Giampaolo Pansa. Con il suo Il sangue dei vinti (Sperling&Kupfer) riproponeva il tema delle uccisioni sommarie praticate dai partigiani durante la guerra civile, dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. E non solo. Metteva per la prima volta in luce i virulenti strascichi di quello scontro. Le numerosissime esecuzioni sommarie proseguite sino al 1948. Soprattutto in quello che era conosciuto come il «Triangolo della morte» che aveva per vertici Castelfranco Emilia, Piumazzo e Mazzolino. E spesso a morire non erano solo i fascisti, ma chiunque venisse visto come d'ostacolo a una futura rivoluzione comunista.
Il libro, come è noto, fu subito aggredito dai "guardiani della memoria" partigiana. Spesso senza nemmeno una lettura sommaria, a prescindere. Oggi a dieci anni di distanza, seppure molto a fatica, la percezione sul tema è cambiata. Ecco perché a questa nuova edizione (Sperling&Kupfer, pagg. 382 euro 11,90) Giampaolo Pansa ha aggiunto una nuova prefazione in cui si leva qualche sassolino dalla scarpa: «"Arrendetevi siete circondati!". Urla così Beppe Grillo... Il suo grido di battaglia mi sembra adatto a descrivere una situazione molto diversa. Anche gli avversari dei miei libri sulla guerra civile sono nei guai. Hanno scelto di farsi circondare da se stessi, rifiutando qualsiasi revisionismo sull'Italia tra in 1943 e il 1945. E dovrebbero arrendersi alla sconfitta». Ne abbiamo parlato con lui.

Ma a dieci anni dal Sangue dei vinti che sensazione ha provato a tornare su quelle pagine?

«Io ho scritto moltissimi libri e di norma non li rileggo mai dopo che ho licenziato le seconde bozze... Ho fatto così anche col Sangue dei vinti: l'ho tenuto lì come fosse il libro di un altro. Rileggendolo ora, quando l'editore mi ha chiesto di ripubblicarlo mi sono reso conto davvero di quanto sia gonfio di sangue, di esseri umani citati per nome e per cognome, di morti terribili. È per questo che ho accettato la ripubblicazione, penso possa avere un senso per i giovani, per chi aveva dieci anni quando è uscito la prima volta e ora ne ha venti... Credo possa raccontare molto anche a questa Italia di oggi cosa sia stato quel conflitto civile che è durato sino al '48. Perché io sono convinto che la guerra intestina sia finita con il 18 aprile del 1948 quando De Gasperi, vincendo le elezioni, mise il Paese su un binario di tranquillità».

All'uscita il libro provocò il finimondo. Se lo aspettava?

«No, si fece molto più "rumore" di quanto all'epoca potessi prevedere. Forse in un certo senso perché il mio libro dimostrava che era errato il principio secondo cui la Storia la fanno soltanto i vincitori. Quella dei vincitori è una storia bugiarda. Solo che questo era inaccettabile per molti, e in parte è inaccettabile ancora oggi. C'era e c'è chi pensa che i fascisti avessero un solo dovere: quello di stare zitti, senza nemmeno poter ricordare i propri morti. Ma soprattutto non scrivere. Ma io non volevo una storia di parte, a me interessavano i fatti, raccontare che l'Italia rischiò di diventare l'Ungheria del Mediterraneo».

E Lei arrivava da sinistra...

«Sì, io non mi chiamavo Giorgio Pisanò. Io di Pisanò ho sempre avuto grandissima stima: è stato un pioniere in questi studi. Ma Giorgio veniva delegittimato perché veniva dal mondo del fascismo... era chiaramente un intellettuale di destra».

Alla fine Il sangue dei vinti è diventato un ciclo. Lei è rimasto a lungo in questo filone.

«Il ciclo è iniziato per essere precisi col libro precedente, I figli dell'Aquila, e poi è proseguito con altri titoli come Sconosciuto 1945, La grande bugia, I gendarmi della memoria. E se io sarò ricordato per qualcosa credo che lo sarò proprio per il ciclo del Sangue dei vinti. Me ne accorgo perché le persone mi fermano per ringraziarmi... Certo se vado in una zona dove dominano i centri sociali è l'opposto. Io dovuto smettere di andare a parlare in pubblico. Per fortuna i libri buoni si fanno strada da soli...».

Ecco, allora partendo dal tuo titolo parliamo anche dei “gendarmi della memoria”. Nell'introduzione cita Sergio Luzzatto, che con Lei era stato molto duro, e ora a causa del suo Partigia è finito sotto il tiro incrociato di altri gendarmi...

«Già quando presentai I figli dell'Aquila a Genova Luzzatto mi sottopose a un assalto verbale non indifferente... Ora lui ha scritto Partigia. Io l'ho letto e per me non racconta una storia diversa da molte altre... Certo per uno come lui significa rimangiarsi un atteggiamento che prima non ha mai voluto cambiare. Mi ha dato anche atto di aver scritto i miei libri con rispetto della verità... Ovviamente, però, appena si è messo fuori dal giro dei "gendarmi della memoria", non gliel'hanno perdonata. Infatti cosa è accaduto? Sebbene in modo più soft di come fecero con me, gli sono andati tutti addosso. Ho letto le cose velenose scritte da Gad Lerner, che credo non abbia neppure aperto il saggio. Lo ha demolito senza pietà. Anche con Il sangue dei vinti iniziarono il fuoco di sbarramento sette-otto giorni prima di avere il libro a disposizione. Ne cito due per tutti: Giorgio Bocca e Sandro Curzi... Ma non è elegante far polemica con chi non c'è più. Qualcuno arrivò a dire che avevo scritto Il sangue dei vinti per compiacere Berlusconi che mi avrebbe poi ricompensato con la direzione del Corriere della Sera... Cose deliranti. Provocate da code di paglia chilometriche. Eppure i gendarmi sanno bene che queste cose sono accadute. Io ho ricevuto in dieci anni 20mila lettere che provano quei fatti».

Faccio l'avvocato del diavolo. Non hai mai pensato che le sue inchieste siano state sfruttate, a destra, anche politicamente?

«C'è una destra fatta di persone che hanno subìto per decenni il silenzio. Sono contentissimo di averli aiutati. Ma la destra politica non aveva molti mezzi culturali per sostenere queste battaglie. Già nella Prima Repubblica si diceva che la Dc pensava agli affari, mentre il Pci ai mezzi di propaganda culturale. Le cose non sono cambiate di molto. Io non sono mai stato invitato da Fabio Fazio, e sappiamo quanto questo possa contare per un libro. Ma in fondo questo è niente. Contiamo quante cattedre di Storia contemporanea sono affidate a docenti di sinistra... Ed è una materia fondamentale».

Quanti anni ci vorranno per arrivare a un giudizio equanime su questo periodo?

«Prima o poi succederà. La Storia è una talpa che scava, prima o poi esce fuori. La verità emergerà, ammesso che si abbia ancora interesse a cercarla».

La nostra storia. Illusi e disillusi dal fascismo nel nuovo libro di Giampaolo Pansa, scrive Dino Messina su “Il Corriere della Sera”. Fascismo «autobiografia della nazione», come sostenne Piero Gobetti, oppure parentesi della storia italiana, come scrisse Benedetto Croce? Dopo aver letto il nuovo libro di Giampaolo Pansa “Eia eia alalà”, edito da Rizzoli (pagine 376, euro 19,90), abbiamo rafforzato la convinzione che avesse ragione Gobetti. Attraverso il punto di vista di un personaggio di invenzione, Edoardo Magni, proprietario terriero tra il Monferrato e la Lomellina, Pansa racconta in forma di romanzo, in pagine ricche di fatti reali, di colpi di scena (e anche di sensualità), il dramma di un popolo all’indomani del primo conflitto mondiale. Un Paese, soprattutto al Nord, dilaniato dallo scontro tra le potenti organizzazioni sindacali, un Partito socialista massimalista, e una classe borghese timorosa che l’Italia potesse fare la fine della Russia bolscevica. In questa vicenda, come sa chi ha nozioni di storia (l’autore cita i classici di Renzo De Felice e di Emilio Gentile), ebbero un ruolo fondamentale i reduci della Grande guerra, gli ufficiali che avevano combattuto per più di tre anni e che si trovarono spaesati nella nuova Italia. Reduce è il protagonista immaginario del romanzo, così come lo erano tanti personaggi storici realmente vissuti. A cominciare da Cesare Forni, tenente d’artiglieria tra i primi ad aderire ai Fasci di combattimento, protagonista della reazione agraria, a capo dei manipoli che misero a ferro e fuoco Milano con gli assalti alla sede dell’«Avanti!» e a Palazzo Marino. Un ras locale che presto si mise in contrasto con il regime, al punto da subire un’aggressione davanti alla stazione di Milano dagli stessi sgherri di Mussolini (Amerigo Dumini, in primis) che sequestrarono e uccisero Giacomo Matteotti nel giugno 1924. Due terzi del libro di Pansa sono dedicati agli albori e all’avvento del fascismo, prima che diventasse regime. È la storia di un’illusione e di una rapida disillusione, almeno per i protagonisti messi a fuoco da un grande giornalista che si è saputo reinventare come scrittore, sia di libri importanti di storia (checché ne abbia scritto qualche accademico con la puzza al naso) come “Il sangue dei vinti”, in cui ha messo in luce il lato oscuro della Resistenza, sia di romanzi come questo. La forza di “Eia eia alalà” sta anche in una narrazione della storia del fascismo, o meglio della sua «controstoria», come recita il sottotitolo, da un punto di vista locale, quello delle terre attorno a Casale Monferrato dove Pansa è nato nel 1935 e a cui ha dedicato pagine importanti. Scontri sociali e intrighi politici sono raccontati in maniera del tutto originale: voce narrante, si diceva, è il latifondista Magni, finanziatore di Forni e sempre impegnato in avventure amorose. Le sue emancipate e spregiudicate amanti hanno il ruolo di fargli aprire gli occhi sulla reale natura del regime. Attorno al protagonista si muovono figure realmente vissute come il quadrumviro Cesare Maria Vecchi o i conti Cesare e Giulia Carminati. Uno dei quadretti più spassosi è l’incontro galante fra l’avvenente contessa Giulia e un Mussolini assetato di sesso. Il Duce viene ritratto nei momenti privati, ma anche nelle stanze del potere, circondato da carrieristi e affaristi di cui ha bisogno e che non lo contrastano quasi mai, anche nelle scelte più sciagurate. L’atto conclusivo dell’affresco disegnato da Pansa riguarda le leggi razziali. Davanti alla persecuzione degli ebrei, all’indifferenza degli italiani per la sorte di quei ragazzi che non potevano più frequentare le scuole, dei professori che non potevano più insegnare, dei professionisti cacciati dai loro studi, la disillusione del protagonista diventa totale. Edoardo, un fascista in buona fede, un pavido che non ha mai saputo reagire alle nefandezze del regime, assomiglia ai milioni di italiani che, anche per quieto vivere, applaudirono il Duce e che dopo vent’anni si accorsero del disastro.

Pansa: «Partiti in crisi, sembra l’Italia prima del fascismo», scrive Antonella Filippi su “Il Giornale di Sicilia”. Non serve neppure scavare troppo: le analogie tra l'Italia di oggi e quella del primo dopoguerra, tra il 1919 e il 1922, vengono a galla con facilità. Estrema. Crisi economica, partiti inaffidabili come la casta di governanti litigiosi e inconcludenti, conflitti sociali. Deve essere un paese infrangibile il nostro, capace di resistere a tutto, se ancora, dopo quasi cent'anni, annaspa ma resiste. Nel suo ultimo libro Giampaolo Pansa, racconta quell'Italia cercando questa, contraddice teoremi, avanza ipotesi, ci consegna certezze. Sarà per questo che il suo “Eia Eia Alalà” (ed. Rizzoli), antico grido di vittoria adottato dallo squadrismo fascista, è già un best-seller. Una “controstoria del fascismo” nascosta in un romanzo. Pansa: «A un mese dall'uscita, delle 70 mila copie stampate è già stato venduto il 30%. Per aggirare la noia del saggio, ho usato l'escamotage del romanzo e ho cercato di rendere attraente la storia: Edoardo Magni è un personaggio di fantasia, un possidente terriero, prima sostenitore della rivoluzione fascista ma a poco a poco sempre più disincantato, fino a supportare il dissidente squadrista Cesare Forni che, invece, è realmente esistito. Tante incertezze quelle di Magni, accanto a una sfilza di amor che si chiamano Marietta, Rosa, Anna, Elvira. E Marianna: è lei ad aprirgli gli occhi sulle deportazioni degli ebrei ad Auschwitz». Questo paese e i suoi abitanti resistono a tutto, impermeabili a governi e crisi… «L'Italia è stata in grandissima parte attratta dal fascismo: tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Tutti hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943. Dopo la marcia su Roma, Mussolini aveva un potere assoluto: il 99% degli italiani era fascista, sbaglia chi sostiene che l'Italia non voleva la dittatura. Il Duce ha commesso errori imperdonabili, avallando le leggi razziali, alleandosi con Hitler ed entrando in guerra: se non lo avesse fatto sarebbe morto nel suo letto, e non a gambe per aria, accanto alla Petacci. Come il generale Franco che tenne la Spagna fuori dalla guerra».

Lei viene accusato di revisionismo…

«E ne sono felice, anzi vorrei esserlo ancora di più. L'accusa viene da vecchi accademici di sinistra, a fronte di un dato incontestabile: in una guerra civile ci sono due antagonisti, uno nero e uno rosso, e i caduti si trovano da entrambe le parti, non solo da quella rossa. Il mio libro “Il sangue dei vinti” ha venduto un milione di copie, e ancora la gente mi fa i complimenti per quello sguardo differente sulla guerra e i suoi morti. Essere un revisionista per me è un vanto: la storia non si può tenere sottovetro, vengono fuori nuovi archivi, si chiariscono dei misteri, emergono personaggi ritenuti secondari».

Cosa ha in comune l'Italia odierna con quella che preparò la dittatura?

«Il nostro era un paese povero, fatto di un'economia agraria. L'Italia di allora, come quella di oggi, era stremata da una crisi economica forte, scoppiata subito dopo la fine di una guerra durata tre anni, che aveva fatto un gran numero di vittime e che aveva cambiato profondamente la società italiana. Allora, come oggi, il sistema dei partiti era screditato. Ed era esploso quello che ora è latente, cioè il conflitto tra ceti. Queste simmetrie mi hanno colpito».

Quella sua convinzione che «il nero nasce dal rosso» è la risposta alla domanda: chi, dopo il mattatoio delle trincee, ha fatto nascere il fascismo?

«Dimostro che il padre del fascismo è il sinistrismo parolaio, quello degli slogan, quello violento che non poteva non sfociare nella marcia su Roma di Mussolini, primo atto verso una dittatura lunga vent'anni. Lo sciopero agrario del 1920 paralizzò le campagne. Esercitando uno strapotere dispotico, le leghe rosse arrivarono a impedire la mungitura, a timbrare le mani dei bovari, minacciando di far morire le mucche. Esplose l'odio di classe: concime che farà spuntare la pianta dello squadrismo. La sinistra si è uccisa da sola, non potevano non aspettarsi una reazione della borghesia agraria».

La nostra è una democrazia debole.

«Si sta costruendo una situazione istituzionale anomala, con un partito unico, senza opposizione: così la democrazia va in tilt. La democrazia, come la giustizia, si regge se i due piatti della bilancia sono in equilibrio o si alternano. Renzi egemonizza, procede a colpi di annunci, promesse mai realizzate, spese per cui non ci sono i fondi. L'Italia è ammalata, è come una persona che rischia una grave crisi, anche se non è esattamente in coma».

Potrebbe allora ri-presentarsi l'avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini?

«Il rischio non è immediato ma c'è: con gli errori che sta commettendo, la sinistra potrebbe rendersi complice della nascita di una nuova dittatura».

L'innamoramento di Berlusconi per Renzi cosa nasconde?

«Servirebbe uno psicanalista per capirci qualcosa. Berlusconi ha la sua veneranda età: io ho solo un anno più di lui ma non ho la pretesa di dirigere un partito, preferisco stare a casa, scrivere, leggere, guardare il calcio in tv. Berlusconi ha un partito che mia nonna Caterina definirebbe “ai piedi di Cristo”, cioè spappolato, in grande difficoltà: se pensa che Renzi possa essere il suo figlioccio, sbaglia di grosso. Lui ha 78 anni, il premier 39, c'è un abisso di energie, forze. E Renzi se ne frega, cerca di utilizzare Berlusconi come stampella. L'unico punto misterioso è il rapporto di entrambi con Denis Verdini, da dove derivi a Verdini tutto questo potere, non è mai stato scandagliato, raccontato. Per capire se si muove per Berlusconi, come credo possibile, o per Renzi, come qualcuno sospetta».

Vivere è anche conservare i propri ricordi: lei ne mette tanti nel libro…

«Io sono stato un orgoglioso figlio della Lupa e, solo per pochi mesi, non sono riuscito a diventare un balilla, come succedeva in terza elementare. In questo libro c'è molto della zona in cui ho vissuto, quella padana, tra Piemonte e Lombardia, ci sono i racconti delle donne che avevo accanto. Mia madre aveva un negozio, una modisteria, sulla via principale di Casale, guadagnava più di mio padre che era un capo operaio delle Poste. Io facevo i compiti in negozio e ascoltavo le chiacchiere con le clienti pettegole: quei discorsi mi tornano sempre alla memoria quando scrivo un libro. Ricordo i ponti bombardati di Casale e la mamma che, per alleggerire la tensione, diceva: “Oggi non si può morire perché dobbiamo mangiare le frittelle”. I bombardamenti sono stati a lungo tra i miei incubi».

Tasselli di verità: piccoli spiragli di luce sugli ultimi giorni di Mussolini. Da Pisanò a Pansa, i tentativi di raccontare la storia senza pregiudizi: ma la nebbia è ancora fitta, scrive Emma Moriconi su “Il Giornale d’Italia”. Ci sono vicende della storia che restano, seppure dopo molto tempo, avvolte dal mistero. Una nebbia fitta che sembra non si possa riuscire a dipanare in nessun modo. Poi, qualche volta, affiora qua e là qualche momento di luce: ma si tratta di piccoli varchi nell’oscurità. La verità, la luce piena, forse non arriverà mai. Nel corso di questi lunghi mesi abbiamo tentato di eviscerare molti aspetti delle vicende patrie che non hanno, nel tempo, trovato la giusta collocazione o che, quando sono stati chiariti ed è riuscita ad emergere la verità, si è cercato di inscatolare a dovere affinché non avessero la giusta risonanza. L’editoria, sia scolastica che non, viaggia a compartimenti stagni: è quasi impossibile reperire certi testi, per esempio. Ce ne accorgiamo quando andiamo alla loro ricerca e ci rendiamo conto che spesso si deve sapere con una certa sicurezza cosa si sta cercando, e nemmeno così è facile trovarli. In compenso, gli scaffali sono pieni di altra roba, quella si che è facile da reperire …Per sollevare un po’ di polverone sui temi scottanti della nostra storia è dovuto arrivare Giampaolo Pansa: il suo egregio lavoro di ricomposizione delle sorti di questo popolo è diventato in breve un varco nel muro del silenzio e della menzogna. Lo ha potuto fare, lui, che nasce di sinistra. Si, perché prima di lui c’è stato un altro giornalista-scrittore che ne ha dette e ne ha scritte di ogni sorta, ma i suoi volumi sono un po’ più difficili da trovare e da diffondere: si chiamava Giorgio Pisanò, ma era un fascista. E, siccome quando a scrivere è un fascista, si può serenamente far finta di nulla, quasi come se non esistesse, se a scrivere è invece uno che nasce e cresce a sinistra e ad un certo punto della sua vita decide di aprire la sua mente e di guardare oltre gli steccati imposti da decenni di demagogia, quello diventa il “nemico” da colpire, il bersaglio perfetto. Pansa non se ne cura, naturalmente, e continua nel suo lavoro di analisi di un’epoca la cui immagine storica esce distorta rispetto alla realtà: il suo recente “Eja Eja Alalà” sarà presto oggetto di un approfondimento su queste pagine. Raccontare la storia, insomma, “da fascista” è difficile, perché c’è questa tendenza diffusa ad ignorare questo tipo di voce, anche quando vengono raccontate verità eclatanti. Quando invece a parlare di “verità nascoste” sono personaggi appartenenti alla “sinistra”, essi vengono attaccati, additati, apostrofati in ogni modo, ma di certo sulle loro parole non cala il silenzio: di questi si deve per forza parlare, e meno male. La scorsa estate il quotidiano Il Giornale ha pubblicato una serie di articoli a firma di Roberto Festorazzi che fanno il punto su alcune novità emerse da documenti e testimonianze recenti: il tema è, ancora una volta, gli ultimi giorni di Mussolini e la sorte delle carte che il Duce portava con sé. Anche su questo spicchio di storia aleggia un alone di mistero, e la ragione è del tutto evidente: tutto ciò che poteva chiarire certi aspetti, e che poteva in qualche modo “riabilitare” la figura di Mussolini e del Fascismo andava fatto sparire. Abbiamo parlato a lungo (e ancora non abbastanza, però) della morte del Duce, delle ore che precedettero quell’evento, di chi orbitava intorno a lui in quei giorni e dei tanti stravolgimenti operati contro la verità di quelle ore. Un argomento sul quale torneremo a tempo debito, facendo un passo alla volta nel tentativo di ricostruire quegli strani meccanismi che andarono ad incastrarsi in quei giorni di primavera del 1945. Eppure le due vicende – la morte di Mussolini e le borse scomparse – sono indissolubilmente legate. Questa premessa è necessaria per il lavoro che ci attende nei prossimi giorni, durante i quali riepilogheremo ai nostri lettori le informazioni di cui Festorazzi è venuto in possesso. Incontreremo, nel piccolo speciale che seguirà, una serie di personaggi che, a vario titolo, sono stati attori di quel dramma: parleremo del famoso carteggio Mussolini – Churchill, dei documenti relativi alla famiglia Savoia, di misteriosi “viaggi” e di carte scomparse. Si tratta di un piccolo tassello che va a comporre l’intricato puzzle di quei giorni, un mosaico che, però, probabilmente resterà incompiuto.

“Il segreto di Italia”? Niente recensioni, è un film fascista, scrive  “L’Ultima Ribattuta”. Non sarà un capolavoro destinato all’Oscar. Ma certamente è un film di grande sentimento che squarcia, anche sul grande schermo, quelle malefatte della Resistenza che fino ad oggi erano rimaste confinate solo nei libri dei “fascisti” e di Giampaolo Pansa. Fino a poco tempo fa, quando tornavano d’attualità le stragi e i massacri compiuti dai partigiani dopo la fine della guerra, si scatenava puntualmente la bagarre: gli intellettuali antifascisti si facevano intervistare, uno dopo l’altro, nel tentativo di demonizzare chi aveva osato dissacrare la Resistenza. “Bella ciao” non poteva in alcun modo essere contraddetta. Perfino un giornalista di sinistra, ma onesto e perbene come Pansa, appunto, ha conosciuto linciaggi mediatici di ogni tipo e il boicottaggio dei suoi libri di denuncia. I vecchi e i nuovi sostenitori dell’ANPI sono arrivati ad impedirgli anche la presentazione dei volumi in varie librerie d’Italia. Non si poteva parlare neppure di guerra civile (come aveva fatto lo storico di sinistra Claudio Pavone), ma solo della “gloriosa lotta di Liberazione”. Ora che questa messa in scena non regge più e anche le nuove generazioni hanno imparato a distinguere e separare il grano dal loglio in tema di Resistenza, la tecnica è cambiata. Meglio rifugiarsi nel silenzio, nell’indifferenza. Così “Il segreto di Italia”, del coraggioso regista Antonello Belluco, non ha potuto usufruire di recensioni da parte di quasi tutti i media: giornali, televisioni (anche se “Porta a Porta” e “Sky Tg 24″ hanno accennato ai buoni contenuti del film) e radio. E nemmeno i cinema, eccezion fatta per il “Fiamma”, hanno voluto proiettare la pellicola. Soltanto qualche trafiletto qua e là, un po’ di interviste a Romina Power (unica attrice nota del cast) e poco altro. Lo stesso “Corriere della Sera” ha relegato la recensione nelle pagine locali della costola “Corriere del Veneto”. Meglio non urtare la suscettibilità dei militanti antifascisti ancora in servizio permanente effettivo. Eppure, le stragi di Codevigo (al confine delle province di Padova e Ravenna), compiute nel maggio del 1945, hanno visto le esecuzioni di centinaia di vittime, anche solo colpevoli di avere avuto simpatie fasciste. Non venne celebrato alcun processo. Uomini, donne e bambini vennero fucilati dai partigiani della “Brigata Garbaldi” sulle sponde del fiume Brenta. Soltanto 110 i corpi ritrovati, ma 365 i dispersi. Persone non “soltanto” uccise. Su alcune donne ci furono accanimenti. Seviziate, violentate e trucidate. Sono stati tanti i tentativi di boicottaggio della pellicola. Ma alla fine, almeno per una volta a prezzo di grandi sacrifici per riuscire a produrla, la verità ha avuto la meglio sul silenzio e la censura. E il film merita di essere visto.

Romina e i partigiani cattivi. Domani all’Adriano il film e il dibattito sulla strage Sul palco l’attrice americana e il regista Belluco, scrive Dina D’Isa su “Il Tempo”. Uno degli episodi più gravi tra quelli avvenuti nell’Italia nordorientale nei giorni a cavallo della resa incondizionata in Italia delle forze tedesche e fasciste repubblicane, effettiva dal 3 maggio 1945, diventa ora un film. La storia dell’eccidio di Codevigo, avvenuto tra il 28 aprile 1945 e la metà di giugno dello stesso anno, fu l’esecuzione sommaria di un numero compreso tra 114 e 136 tra militi fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), delle Brigate Nere (BN) e civili: questo il tema del film «Il segreto d’Italia» di Antonello Belluco con Romina Power (da giovedì nei cinema) che domani sera sarà all’anteprima del film (al cinema Adriano di Roma) preceduto da un dibattito nel quale sarà presente, oltre al regista, un testimone sopravvissuto a quella strage. La lavorazione del film ha subito diversi arresti: raccontare un crimine partigiano non è stato certo facile, considerando che i partigiani sono considerati sempre eroi. Ma stavolta, dopo 70 anni, la storia, le verità occultate per anni verranno a galla, anche grazie a questa pellicola di Belluco, con il soggetto scritto da Gerardo Fontana, ex sindaco di Covedigo a cui il film è dedicato dopo la sua scomparsa durante le riprese. Romina Power trasporta il pubblico indietro nel tempo, nell’Italia della guerra civile per ricordare la sua storia d’amore sullo sfondo dell’eccidio: lei a 15 anni (interpretata dall’esordiente Gloria Rizzato) era innanorata di un diciottenne, Farinacci Fontana (interpretato da Alberto Vetri), che realmente è stato una delle vittime della strage. «Il segreto di Italia», il nome della protagonista, affonda le radici in un avvenimento del suo lontano passato che, per tutta la vita, le aveva impedito di tornare nel luogo dove è nata. Ma, dopo 55 anni dagli Stati Uniti arriva a Covedigo per il matrimonio della nipote e dovrà per forza fare i conti con i suoi ricordi. «Il mio personaggio si chiama Italia - ha anticipato la Power - Una donna che ha il coraggio di affrontare i fantasmi del passato e di tornare a 70 anni nel suo paese. È stato molto emozionante rievocare questa persona che ha una ferita nell’anima, se la porta dietro dall’età di 15 anni. Dopo 7 anni (dal 2007) sono tornata al cinema perché mi è stato finalmente offerto un film interessante, commovente, profondo, trattato con delicatezza, un ruolo entusiasmante, un copione poetico anche se tragico. La verità non dovrebbe mai essere polemica, è giusto che in ogni Paese vengano fuori le verità nascoste, prima o poi la verità viene a galla, non si può nascondere ed è giusto che la gente sappia. Anche negli Stati Uniti ci sono tanti segreti nascosti che stanno venendo fuori». All’epoca, la Magistratura di Padova trattò la vicenda in numerosi procedimenti dal 1945 al 1950 e poi dal 1961-62 sulla base d’indagini condotte fin dall’inizio dalla polizia Alleata e dai Carabinieri. Furono giudicati anche quattro partigiani della 28ª Brigata Garibaldi, tutti e quattro furono assolti. I Comandi della 28ª e del "Cremona" non furono mai soggetti di procedimenti penali poiché i fatti si svolsero al di fuori e contro gli ordini da loro emanati e a loro insaputa. Alcune fonti sostengono che all’eccidio avvenuto in varie località in prossimità di Codevigo, parteciparono elementi provenienti dalle formazioni partigiane locali e militari inquadrati nel gruppo di combattimento "Cremona", unità dell’esercito italiano alle dipendenze dell’VIII armata Britannica, sotto il cui comando era anche la 28ª Brigata Garibaldi "Mario Gordini", comandata da Arrigo Boldrini, detto Bulow, che divenne segretario nazionale dell’ANPI, poi presidente onorario e, nel dopoguerra, deputato e senatore per il PCI. Ci furono 136 vittime totali, non tutte identificate (ne furono identificate con certezza 114, ma furono probabilmente oltre trecento), trucidate per vendetta, previo giudizio sommario, morte in scontri a fuoco tra cui vittime seviziate. I corpi vennero abbandonati nelle acque, sepolti in fosse comuni, lasciati nei campi: di questi, molti scomparvero. E ora riposano nell’Ossario del cimitero di Codevigo, aperto nel 1962. Gianfranco Stella, autore - tra gi altri - di «Ravennati contro» e di «Crimini partigiani» ricordò che «i testimoni oculari raccontavano come per liberare il fiume Bacchiglione dai cadaveri avessero usato mine anticarro». Mentre Giampaolo Pansa nel suo libro «Il sangue dei vinti» rievoca la maestra del paese, Corinna Doardo, «una fascista non fanatica, piuttosto un’ingenua», che fu rapata a zero e costretta a camminare per le vie del centro con una coroncina di fiori in testa prima di venire uccisa: di lei il medico poté accertare che solo un orecchio era rimasto intatto. Atroce anche il caso di Mario Bubola, figlio del podestà fascista di Codevigo, torturato: la lingua tagliata e infilata nel taschino della giacca, poi evirato dei testicoli che gli furono messi in bocca.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: "Vi racconto la mia Casale uccisa al rallentatore". L'Eternit una fabbrica della morte? Per chi ha vissuto e vive lo strazio dei poveri cristiani uccisi dall'amianto, è molto, molto di più. E'un inferno che dura da tantissimi anni. Dapprima senza che nessuno se ne accorgesse, poi nell'impotenza di fermare in qualche modo un demonio che finora è stato capace di accoppare duemila persone o giù di lì. Una strage da film catastrofico in una città che non ha mai superato i quaranta mila abitanti. Ma soltanto chi è nato a Casale Monferrato, la sede centrale dell'Eternit, può sentire dentro di sé tutto l'orrore di questo assassinio al rallentatore, impossibile da contrastare. Nel passaggio fra l'Ottocento e il Novecento, i poveri del Monferrato avevano tre possibilità. La prima era di lavorare nelle cave di marna. Lo facevano in condizioni bestiali, consumando la vita sottoterra, senza protezione, rischiando di morire bruciati dallo scoppio del grisou o soffocati sotto una delle tante gallerie franate. Le paghe erano misere e la fatica immensa. I cavatori rientravano a casa di notte, nei paesi del Monferrato, disfatti, terrei, senza altro orizzonte che scendere di nuovo nel buio dopo poche ore. "I sepolti vivi" li aveva chiamati nel 1913 La Fiaccola, il settimanale socialista della città. La seconda occasione di lavoro arrivò dallo sfruttamento delle ottime marne calcaree, portate alla luce dai cavatori. Era la materia prima della calce e del cemento. E regalò alla città il boom dei cementifici. All'inizio del 1900 queste fabbriche erano più di cento. Vista dall'alto della salita di Sant'Anna, un eremo frequentato da morosi in camporella e da amanti clandestini, Casale offriva un profilo infernale. Quello di una sterminata batteria di ciminiere, affilate come missili. Cento bocche di fuoco sparavano un fumo sempre più denso e acre. I tetti delle case diventavano bianchi per la polvere. Nella calura estiva l'aria si faceva irrespirabile. E gli anziani stavano sempre sul punto di morire asfissiati. Nel 1906 emerse una terza possibilità per i poveri della mia città. Un pugno di imprenditori genovesi, "i maledetti" come ringhiava mia nonna Caterina, impiantarono a Casale una fabbrica all'avanguardia. Produceva tegole piane fatte di cemento e di amianto, grazie al brevetto di un austriaco. L'invenzione venne chiamata Eternit poiché garantiva una durata eterna del prodotto. Non era una bufala dal momento che siamo ancora circondati da quella robaccia vecchia di un secolo. Dalle tegole si passò alle lastre ondulate. Poi ai tubi per gli acquedotti e le fognature. E lo sviluppo dell'azienda fu trionfale. L'Eternit arrivò ad occupare 2.400 persone, ma quelle che ci sono passate pare siano state quasi cinquemila. Fu la nostra Fiat. Lavorarci era un privilegio. Anche perché le paghe erano un tantino più alte che in altre aziende. I padri chiedevano alla figlie in età da marito: "Dove lavora questo tuo moroso?". "All'Eternit" rispondeva la ragazza, orgogliosa. "Allora sposalo" concludeva il papà. E spiegava alla moglie: "Il certificato di matrimonio avrà il valore di una polizza a vita". Andò a lavorare all'Eternit anche il fratello più giovane di mio padre, l'ultimo di sei bambini orfani. Francesco Pansa, classe 1901, a quindici anni diventò operaio nella fabbrica dell'amianto. Poi divenne un addetto al montaggio dei grandi tubi, soprattutto in Bassa Italia. Era un ragazzo attivo ed estroso. Ad un certo punto ne ebbe abbastanza dell'Eternit ed emigrò in Argentina. Di lì scriveva a sua madre Caterina che le donne di Buenos Aires erano tutte belle e compiacenti. Però Caterina era analfabeta e doveva farsi leggere le lettere da una delle figlie che saltava sempre le righe dedicate agli amorazzi. Dopo due anni di Argentina, Francesco Pansa ritornò a Casale, sempre nella fabbrica della morte. Da quell'inferno lo tirò fuori la fidanzata, Giuseppina detta Pinota. Era la dodicesima figlia di un pescatore del Po. E aveva una sola dote: la licenza per aprire un'osteria. Nel frattempo Francesco era diventato comunista, il capo della cellula di Porta Po. Quando morì non risulta che sia stato ucciso dall'amianto. Ma il veleno nascosto nell'Eternit seguitava a infettare la città. Da ragazzino me li ricordo anch'io i camion gialli carichi dei tubi e delle coperture ondulate. Li trasportavano dallo stabilimento alla stazione ferroviaria. Viaggiavano attraverso la città senza nessuna protezione, neppure un telone che coprisse il carico. Soprattutto nei mesi caldi gli autocarri procedevano dentro una nube di polvere. Era la schifezza ambulante che tutti respiravamo, senza renderci conto del rischio che si correva. Andò avanti così per molti anni. Passavano i regimi politici. Dal socialismo municipale al fascismo, poi alla Repubblica sociale, quindi si tornava alla democrazia, ossia alla Dc di De Gasperi e al Pci di Togliatti. Soltanto l'Eternit sopravviveva, potente e impenitente. Era la padrona della città. Un esempio del capitalismo senza regole che diventa dittatura. Il mostro chiuse i battenti nel 1986, per fallimento. Si estendeva su 94 mila metri quadrati, metà dei quali coperti con quel prodotto assassino. Era una bomba nucleare sul fianco destro del Po. In seguito si scoprì che la lavorazione dell'amianto aveva creato una nuova spiaggia lungo il fiume. Aveva un colore innaturale, bianco brillante. Un grande velo da sposa che nascondeva un numero spaventoso di cadaveri. Ho detto che l'Eternit ha ammazzato a Casale all'incirca duemila persone. Di queste, duecentocinquanta o trecento erano uomini e donne che non avevano mai messo piede nella fabbrica. Spesso abitavano in quartieri lontani. E facevano altri lavori. Si ritenevano al sicuro, ma si sbagliavano. Il mesotelioma ha ucciso pure chi aveva lasciato la città da giovane, senza più ritornarci. Tra questi c'è anche un giornalista che voglio ricordare: Marco Giorcelli, il direttore del bisettimanale cittadino Il Monferrato. Era l'opposto del capociurma impassibile e cinico. Un uomo cortese, riservato, ma tenace. Sempre in prima fila nella battaglia contro l'Eternit. Aveva pubblicato anche l'elenco di tutte le vittime dell'Eternit, una sterminata Spoon River dell'amianto. In quella lista mancava un nome: il suo. Lui morì ucciso a 51 anni dal mesotelioma, dopo una lunga e crudele agonia vissuta con grande dignità. Il ricordo di Marco mi obbliga a un pensiero sul mio conto. Sono nato a Casale nel 1935 e ho vissuto lì sino al 1960, quando mi sono trasferito a Torino per lavorare alla Stampa. Dunque ho respirato amianto per venticinque anni. Grazie al Padreterno sono ancora qui a scrivere. Sento dire che l'effetto Eternit può presentarsi anche dopo tantissimo tempo. La provano i miei concittadini che seguitano a morire. Certo, sono un sopravvissuto. Ma per quanto tempo ancora?

Guerra civile? Siamo ad un passo, come nel primo dopoguerra..., scrive Aldo Grandi su “La Gazzetta di Lucca”. Ha ragione Giampaolo Pansa, grande scrittore, grande giornalista, amato a sinistra fino a quando scriveva ciò che faceva loro piacere, odiato e ritenuto rincoglionito quando ha cominciato ad aprire gli armadi di un partito, quello comunista, che, al di là di indubbi meriti, ha avuto anche la colpa di nascondere volutamente tante di quelle nefandezze che Dio solo lo sa e, forse, neppure lui. La situazione politica attuale ricorda molto da vicino il primo dopoguerra, poco prima dell'avvento del cosiddetto biennio rosso e della reazione di agrari e industriali che determinò l'avvento del fascismo. Da un lato la piccola borghesia, unitamente alla media e alla grande - ammesso che esistano ancora da qualche parte - assediati e timorosi di perdere tutto ciò che avevano foss'anche quel poco che era loro rimasto. Dall'altro le classi subalterne, operaia in testa, ritornati dalla guerra con un pugno di mosche in mano, abbandonati nelle loro illusioni e delusi dalle promesse mancate. Ebbene, tutti sanno come andò a finire. Oggi, a distanza di un secolo, la situazione non è cambiata di molto. E' vero, non c'è stata una guerra e questa, probabilmente, è una fortuna altrimenti chissà quanti avrebbero già imbracciato il fucile. Tuttavia c'è una classe che potremmo definire eterogenea, ma composta di elementi produttivi che vanno dall'operaio - inconsapevole e strumentalizzato dai sindacati - dell'industria privata al commerciante, dal libero professionista all'imprenditore, dall'artigiano al coltivatore diretto. Tutti questi soggetti contribuiscono al mantenimento dell'altra parte, quella composta dal pubblico impiego, che produce poco o nulla e rappresenta la zavorra che appesantisce lo Stato. Dispiace doverlo rimarcare, ma la realtà, al di là delle distinzioni necessarie, è questa. Il pubblico impiego, nella stragrande maggioranza, è parassita ossia vive a spese dell'organismo produttivo di ricchezza. Se, poi, qualcuno aggiunge che - vedi scandali romani - il privato corrompe il pubblico che a sua volta ricompensa il privato, ha ragione da vendere, ma questa, purtroppo, è la cruda verità alla quale dobbiamo guardare senza indulgenza e senza indugio. Da un lato, quindi, chi paga tasse e imposte guadagnandosi il reddito senza avere alcuna garanzia di averlo ogni 27 del mese, dall'altro chi, tranquillo e rilassato, il 27 del mese si infila in tasca, venga giù anche il diluvio universale, il suo bello stipendio. Operai che vengono licenziati dall'industria privata costretti a farsi difendere da sindacati che appoggiano anche le pretese del pubblico impiego il cui deficit e il cui buco enorme sono all'origine del licenziamento e del fallimento dell'economia italiana rispetto a quella degli altri paesi. Una tassazione al 56 per cento, imposte anche su quante volte uno va sulla tazza del cesso, un assessore, a Lucca, tale Raspini, figlio di un notaio e, probabilmente e presumibilmente senza problemi di natura economica, ex dipendente del ministero dell'Interno, pare in aspettativa per fare l'assessore - il sindaco Tambellini, dicono le malelingue, deve aver ringraziato il papà notaio che gli mise, in campagna elettorale e pare senza spendere alcunché, i locali per la sede del comitato elettorale - il quale sostiene che le tasse vanno pagate e che si tratta di un dovere. E chi lo ha mai messo in dubbio? Ma quali sarebbero i servizi che la sua giunta di bradipi, né più né meno di quelle che l'hanno preceduta, danno in cambio? Che servizio è quello che a S. Alessio, terra natìa dell'agricoltore Tambellini, impedisce a chiunque voglia usare il telefono cellulare, di poterlo fare solo perché il primo cittadino predilige e preferisce, per mandare messaggi e fare opera di comunicazione, il piccione viaggiatore? Troppo semplice, caro Raspini, installare un'antenna? La gente protesta perché ha i villoni e non vuole fastidi? Allora venite a metterla dentro casa del sottoscritto l'antenna, nel suo giardinetto, ma almeno tutti potranno usufruire di un servizio che, in altre città, è una ovvietà. Ma il Raspini, che quando incontra il sottoscritto fa finta di non vederlo per non doverlo salutare - e fa bene - sa cosa vuol dire alzarsi la mattina e non sapere se, a fine mese, hai i soldi non solo per mangiare, ma per mantenere questa classe di parassiti che frequenta il pubblico impiego? Ha soltanto lontanamente idea di cosa significhi giocare tutto su se stessi senza avere lo stipendio garantito? Sa quale senso di frustrazione colpisce ciascuno di noi quando, incassando 100, sa che almeno 60 finisce nelle casse di uno Stato non solo vorace, ma rapace? E noi dovremmo avere il senso dello Stato? Ma di quale Stato? Quello di Andreotti, di Craxi, di Forlani, del Caf di una volta o del Pci e di Berlusconi che anche loro tutto hanno preteso e molto hanno mangiato? Quello di San Matteo che lascia entrare 150 mila clandestini una piccola parte dei quali gira per le strade di Lucca chiedendo l'elemosina? E' questo il vostro esempio di solidarietà e progresso? E avete il coraggio di sparare merda su Grillo: l'unico che, almeno, quando parla e fa un comizio vale il prezzo del biglietto. Chi scrive, caro Raspini, si augura che, finalmente, prima o poi, presto o tardi, il sistema esploda anzi, imploda su se stesso e che saltino tutte le contrattazioni sindacali, saltino i diritti acquisiti che di acquisito non hanno un cazzo per il semplice motivo che la vita non è una condizione di staticità, ma di movimento permanente, che i mediocri e i parassiti vengano assegnati ai ruoli che competono loro, che il lavoro sia, veramente, fonte di soddisfazione, ma anche prodotto di meriti e non soltanto una pretesa. Défault? Magari. Bancarotta? Speriamo. Rimettiamoci tutti in gioco, salvo chi, veramente, è più debole, ma tutti gli altri, i falsi, gli ipocriti, i ladri, i truffatori, i millantatori, mettiamoli, metaforicamente, al muro e, poi, lasciamoceli per un bel po'. Vedrete che anche loro, quando si accorgeranno di essere rimasti indietro, inizieranno a correre.

Poi arriviamo a Mafia Capitale. Questa è una città in cui il capo della Banda della Magliana era sepolto in una basilica del centro. Dopo quello tutto è possibile.

Mafia Capitale, così i boss eleggevano i deputati del Pd, scrive “Libero Quotidiano”. L'ombra dello scandalo Mafia Capitale si allunga sui deputati del Partito democratico. La manina di Buzzi e dei suoi scagnozzi avrebbe agito sulle parlamentarie Pd del 2012. Un sospetto forte, quello che la cupola abbia orientato il voto "tutto in famiglia" che di fatto garantiva il via libera per Montecitorio. Un voto orientato, magari - come scrisse Libero in tempi non sospetti - spedendo ai seggi rom e nomadi "stimolati" con piccole somme di denaro. Alla luce di questo sospetto, vanno rilette le parole di Marianna Madia del giugno 2013, quando affermò: "A livello nazionale nel Pd ho visto piccole e mediocri filiere di potere. A livello locale, e parlo di Roma, facendo le primarie parlamentari ho visto delle vere e proprie associazioni a delinquere sul territorio". Una frase che al tempo passò quasi inosservata, e che oggi, invece, potrebbe essere letta sotto una nuova luce. Tra gli eletti alle parlamentarie ci fu anche Marco Di Stefano, l'esponente del Pd indagato per la maxi-tangente da 1,8 milioni che avrebbe incassato da assessore della Regione Lazio. Di Stefano, al tempo, arrivò sedicesimo ed entrò a Montecitorio in seguito alla particolare rinuncia di Marta Leonori. Tra le carte dell'inchiesta, inoltre, spuntano Micaela Campana e Umberto Marroni, altri due "selezionati" alle parlamentarie del Pd. Per inciso, la Campana domenica ha gridato al linciaggio mediatico. Lei non è indagata, ma di sicuro cfu contattata da Buzzi, che le chiedeva un'interrogazione parlamentare in favore della sua cooperativa. Lo stesso Buzzi trattava da referente affidabile Marroni, che da onorevole, stando all'informativa dei Ros, avrebbe subito pressioni da Buzzi per presentare la medesima interrogazione.

Di seguito, i risultati delle parlamentarie nella circoscrizione di Roma città, dal primo classificato all'ultimo.

- Stefano Fassina, voti 11.770

- Ileana Argentin, 6.898

- Micaela Campana, 6.803

- Umberto Marroni, 5.476

- Matteo Orfini, 4.993

- Marianna Madia, 5.967

- Roberto Morassut, 4.537

- Monica Cirinnà, 4.464

- Roberto Giachetti, 4.243

- Marco Miccoli, 4.019

- Maria Coscia, 3.987

- Lorenza Bonaccorsi, 3.711

- Walter Tocci, 3.568

- Giuseppina Maturani, 3.518

- Daniela Valentini, 2.655

- Marco Di Stefano, 2.573

- Ivana Della Portella, 2.524

- Luisa Laurelli, 2.177

- Paolo Quinto, 1.261

- Vincenzo Vita, 1.243

- Roberto Di Giovan Paolo, 1.065

Invece L’ Espresso che titolo ti fa?

Mafia Capitale: tra fascisti e ladroni. Dopo gli arresti di ex terroristi neri e affaristi che tenevano in pugno la Roma di Alemanno, è caccia al tesoro della banda. Ecco la storia di tre inchieste profetiche condotte da "L'Espresso", scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Quella scattata martedì 2 dicembre è solo la prima ondata di uno tsunami giudiziario che ribalterà il ventre di Roma. Una metropoli finita nelle mani della “ Mafia Capitale ”, l’organizzazione guidata da Massimo Carminati, “er Cecato”: una leggenda nera costruita in quarant’anni di crimini dal terrorismo di destra all’epopea della Magliana, rimasti quasi sempre senza conseguenze giudiziarie. «Un bandito ricco», talmente ricco da faticare per nascondere i soldi che ha accumulato con i suoi traffici. Un manager che ha costruito il suo potere dominando quello che chiamava «il mondo di mezzo»: la sterminata zona grigia che unisce il Palazzo alla strada, quella dove - si vantava - comandava lui. L'azione in cui è stato fermato sulla sua Smart in via Monte Cappelletto, una stradina di campagna a Sacrofano, poco lontano dalla sua abitazione, l'ex terrorista dei Nar al centro dell'inchiesta Mafia Capitale. Il boss era pronto a darsi alla fuga e per la cattura i carabinieri del Ros hanno chiesto la collaborazione del nucleo "cacciatori" dell'Arma di Roma. Carminati si compiaceva del suo ruolo. Anche quando l’inchiesta de “l’Espresso” nel dicembre 2012 svela per la prima volta la sua rete criminale, si mostra spavaldo, convinto di sapere sfruttare la fama criminale per moltiplicare gli affari senza bisogno di minacce. Ma sono proprio quelle parole registrate dalle microspie a fornire l’ossatura giuridica per l’inchiesta che adesso lo ha travolto. Nonostante contromisure ad alta tecnologia, come i jammer per disturbare gli apparati d’ascolto, i carabinieri del Ros del generale Mario Parente sono riusciti a intercettarlo mentre istruiva i suoi “soldati” e illustrava la sua strategia mafiosa, indicando i politici collusi, e i pubblici ufficiali corrotti, e il canale migliore per investire all’estero. Quelle lunghe conversazioni, spesso captate nella stazione di servizio di Corso Francia che aveva trasformato in ufficio a cielo aperto, offrono l’affresco cupissimo della devastazione morale di una capitale: un sacco proseguito per anni che ricorda quello storico dei Lanzichenecchi. Come tutte le mafie anche questa ha la sua trasversalità politica. Il nucleo sono i vecchi camerati, che adesso hanno messo giacca e cravatta come l’ex sindaco Gianni Alemanno , indagato. Ma la rete poi si è estesa a tutti i partiti, mettendo letteralmente a libro paga esponenti di destra, sinistra e centro. «Se Carminati, il capo dell’organizzazione viene dall’eversione dell’estrema destra romana, il suo braccio destro Salvatore Buzzi, ha un passato nell’estrema sinistra già condannato in maniera definitiva per un omicidio del 1980. Buzzi è oggi al comando di una serie di cooperative composte da ex detenuti che operano nel sociale e gestiva per l’organizzazione criminale appalti nelle aziende municipalizzate e del Comune di Roma», spiega il procuratore Giuseppe Pignatone. Ma come dice Buzzi in una intercettazione «la politica è una cosa, gli affari sò affari». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro 'imprenditoriale' di Massimo Carminati. E che affari. Gli investigatori hanno sequestrato beni e depositi per un valore di duecentodieci milioni di euro. Ma sanno che c’è molto di più e puntano sul cuore del tesoro. Vogliono trovare le cassaforti e gli investimenti in cui i fascioladroni facevano fruttare i proventi del loro impero. Tutte le tracce portano a Londra, dove sono “rifugiati” molti ex dell’eversione nera e dove Carminati ha molti amici, che nell’ultimo anno si sono presi cura anche del figlio de “er Cecato” spedito lì in fretta e furia. Dopo aver trafficato in pietre preziose e in oro dall’Africa, il boss del “mondo di mezzo” potrebbe aver nascosto in Inghilterra il suo forziere. Nella City ha fatto tanti investimenti immobiliari, a partire da Notthing Hill dove ha acquistato di recente appartamenti. Operazioni confessate, sempre a sua insaputa, davanti alle microspie. Lui che ammette di essere ricco sfondato, di avere tanti milioni ma deve nascondere bene il patrimonio: ufficialmente è nullatenente, non può giustificare un tesoro così grande. Per questo ha scelto la strada di Londra, dove vorrebbe far trasferire definitivamente il figlio. «Ho pensato, apro una o due attività. Andrea sta lì. Anche se fa un altro lavoro però controlla. A questo punto ha un reddito», dice “er Cecato” che accenna a tante conoscenze nella City. «Avrebbe il mondo lì...», facendo comprendere che pure in Gran Bretagna ci sono molte persone a sua disposizione. "Il dieci mattina mi paghi te...nun sgarrà che vengo a casa..non capisci bene...io te taglio la gola il dieci matina...portami i soldi sennò t’ammazzo a te e tutti i tuoi figli", così un indagato in una delle intercettazioni telefoniche dei Ros. Per gli investigatori i contatti londinesi gli sono stati garantiti dal latitante Vittorio Spadavecchia, un veterano della comunità neofascista di Londra. Spadavecchia ha un passato nei Nuclei armati rivoluzionari, è arrivato in Inghilterra nel 1982, costretto alla latitanza dalle condanne per gli omicidi del commissario della Digos romana, Franco Straullu, e di altri poliziotti. È stato condannato pure per numerose rapine messe a segno per finanziare il terrorismo nero. Secondo le indagini, è con lui che uno dei complici di Carminati, Fabrizio Testa, pianifica assieme al rampollo del capo investimenti economici «di varia natura», come l’acquisto a Londra di un immobile e l’apertura di un ristorante: il primo passo per creare una catena di locali. Una holding che potrebbe venire decifrata mettendo le mani sul “libro nero”, il registro occulto custodito dalla “cassiera” del clan, Nadia Cerrito «che contiene una vera partita doppia del dare e avere illecito, dei destinatari delle tangenti - uno dei costi illegali sostenuti dall’organizzazione per il raggiungimento del suo scopo nel settore economico-istituzionale; che contiene l’indicazione dei soggetti cui vengono veicolati i profitti, come Carminati, shareolder ed esponente apicale dell’organizzazione illecita o come Testa, testa di ponte di mafia capitale verso la politica e la pubblica amministrazione; che contiene una rappresentazione del conto economico illecito dell’organizzazione, con una specifica rappresentazione delle relative disponibilità extracontabili». Non bastano i soldi però per impadronirsi di una metropoli. Perché un uomo al di sotto di ogni sospetto come Carminati riesca ad assemblare una simile macchina di potere e farla marciare indisturbata per anni servono coperture che vanno più in alto. Nell’atto d’accusa dei magistrati si fa riferimento a questo “terzo livello”, citando rapporti con istituzioni statali, forze dell’ordine e servizi segreti. L’altro fronte dell’inchiesta, che deve decifrare quanto il sistema criminale fosse affondato nel cuore dello Stato. Ma c’è pure una dimensione orizzontale della collusione, un magma di complicità minute, dai medici ai commercialisti, dai palazzinari ai burocrati, che hanno garantito la prosperità della rete. Il rapporto che Carminati aveva creato con gli imprenditori viene spiegato dal procuratore aggiunto Michele Prestipino: «Le indagini hanno consegnato una fotografia preoccupante, perché sovrapponibile al modus operandi delle mafie tradizionali nel rapporto con gli imprenditori, che si rivolgono all’organizzazione per avere protezione dall’aggressione della malavita predatoria. Di fronte a questa richiesta scatta la tutela dell’organizzazione mafiosa e, a fronte della protezione accordata, l’organizzazione non chiede soldi, ma di entrare in affari con l’impresa. E ci riesce ottenendo un punto di riferimento imprenditoriale, facce pulite attraverso cui realizzare i propri interessi criminali». E poi aggiunge: «Carminati spiega così il suo approccio con gli imprenditori: “l’obiettivo è entrare in affari, instaurare un rapporto di tipo paritario che garantisce vantaggi reciproci. Mi puoi anche dire che mi dai un milione per guardarti le spalle, ma dall’amicizia nasce un discorso che facciamo affari insieme. Io ho fatto questo discorso a tutti, devono essere nostri esecutori, devono lavorare per noi. Gli faccio guadagnare un sacco di soldi”. L’obiettivo è dunque acquisire attività economiche che significa avere appalti e servizi, soprattutto verso le pubbliche amministrazioni». Quelle romane erano cosa loro. Al Comune negli anni di Alemanno avevano trovato sempre le porte aperte, inserendo uomini di provata fedeltà in strutture chiave come l’Ama, la municipalizzata dei rifiuti, o l’Ente Eur, di cui era amministratore delegato Riccardo Mancini (arrestato). Ma anche il cambio di giunta e l’arrivo della sinistra del sindaco Ignazio Marino non intacca i loro business. Buzzi si vanta di potere contare su sei dei nove assessori designati. Ora l’assessore Daniele Ozzimo e il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, entrambi del Pd, sono finiti sotto inchiesta e si sono dimessi. Il partner di Carminati sostiene di non avere problemi neppure con la Regione Lazio, dove ha chi gli tiene i rapporti con il governo di Nicola Zingaretti. E poi c’è Luca Odevaine, un tempo braccio destro di Walter Veltroni al Campidoglio e ora fondamentale per fare affluire nelle cooperative dei fascio-ladroni quei profughi che «valgono più della droga». Ma oltre ai politici stipendiati con un mensile fisso ci sono quelli pagati a prestazione: una percentuale per ogni appalto. Nomi e cifre censite proprio nel «libro nero» che adesso tutti vogliono recuperare.

E "l'Espresso" in copertina si dimentica del Pd. Il precedente degli anni '50: "Capitale corrotta, nazione infetta". Alemanni e Lanzichenecchi, titola l'Espresso in edicola parlando dell'inchiesta su Mafia capitale. Come se il vorticoso giro di mazzette riguardasse soltanto l'ex sindaco di Roma e l'ambiente della destra eversiva, accusato dal direttore Luigi Vicinanza di aver «spalancato il Campidoglio a un'orda di famelici faccendieri, neofascisti, ex Nar e colletti neri». Il magazine del gruppo Repubblica si è scordato dei guai che hanno affossato il Pd romano, il ministro Giuliano Poletti e le coop rosse, limitandosi a una laconica frase sulla «complicità» della sinistra romana». Forse era meglio copiare il titolo anti Dc che fece storia negli Anni Cinquanta: Capitale corrotta, Nazione infetta.

Malaffare da destra sinistra, scrive Fabrizio Cicchitto  su “Il Garantista. Certamente nel Lazio ci sono già state molteplici forme di innesto della criminalità organizzata nella realtà sociale. Lungo il litorale della provincia di Latina, c’è stata una sorta di espansione a macchia d’olio della camorra. A Roma molti locali, specie ristoranti, sono risultati essere delle proiezioni, soprattutto per il riciclaggio del denaro, della mafia e della ‘ndrangheta. Adesso ci troviamo di fronte ad un salto di qualità con l’accusa di associazione di stampo mafioso e con la conseguente contestazione del 416- bis. Rispetto al caso esploso adesso a Roma, non avendo ancora letto le millecinquecento pagine dell’ordinanza della Procura riteniamo comunque probabile che il termine “mafia” sia usato nel senso tecnico e giuridico e non in quello rappresentato dalla proiezione concreta della criminalità organizzata quale si è espressa storicamente in Sicilia. Infatti in questo secondo caso il collegamento organico sarebbe difficilmente sostenibile. Anche nel primo caso bisognerà vedere se questa definizione reggerà al dibattimento, ma non perché riteniamo che ciò che viene denunciato non sia vero, ma perché il suo livello complessivo ci sembra assai basso, per molti aspetti degradato e come tale ancor più degradante proprio per quella politica che si è lasciata da esso così profondamente inquinare. Comunque di primo acchitto, lo dico con franchezza, l’ipotesi di Gianni Alemanno collegato organicamente e consapevolmente a meccanismi mafiosi mi sembra incredibile fino a prova contraria, ma a “prova provata” non a dicerie e a vanterie di terzi. La trascrizione assai pittoresca di alcune registrazioni telefoniche e la descrizione di molti addebiti giudiziari ci portano infatti ad una ricostruzione politica abbastanza diversa dalla rappresentazione mediatica finora fatta. A nostro avviso a Roma è avvenuto qualcosa di assolutamente paradossale e del tutto al di fuori di ogni schema tradizionale con due conseguenze entrambe drammatiche: il superamento di ogni discriminante fra destra e sinistra e il rischio conseguente della fine della politica. Infatti a nostro avviso è avvenuta a Roma da un lato la riconversione di uomini e gruppi di terrorismo nero tradizionalmente collocati fuori dal Msi, in una dislocazione spesso all’interno della corrente di Alemanno. Nel momento in cui tutta la destra politica è arrivata al potere o vicino ad esso alcuni di questi personaggi hanno riconvertito e aggiornato il loro terrorismo originario in “affarismo” a tempo pieno e si sono incontrati, sul terreno di una gestione assolutamente spregiudicata del potere, con alcuni degli uomini delle cooperative rosse, anch’essi caratterizzati da altrettanta spregiudicatezza e anch’essi impegnati a ricercare nell’amministrazione comunale e regionale i singoli uomini politici che potevano diventare altrettanti punti di riferimento senza alcuna discriminante politica. Casomai è sul terreno delle cooperative rosse e sulla loro “specializzazione” (gestione degli immigrati, dei campi rom) che può essere avvenuta in Sicilia una contaminazione con ambienti e strutture organizzate di stampo mafioso. D’altra parte, come ha ricordato in un libro che ha avuto una sola recensione, quella del sottoscritto sul Giornale, e cioè Ivan Cicconi La storia del futuro di Tangentopoli, nel passato molti esponenti significativi delle cooperative rosse hanno avuto guai giudiziari assai seri (ma senza grandi echi mediatici) per i rapporti stabiliti con i grandi costruttori edili siciliani, a partire da quelli di Catania.Questa connessione fra ex terroristi neri diventati affaristi a tempo pieno e alcuni esponenti delle cooperative rosse si è realizzata in un contesto assai diverso da quello di Tangentopoli. Tangentopoli era un sistema organico nel quale si incontravano le correnti di partiti (quelle della Dc e del Psi), un partito (il Pci, che però anche su quel terreno aveva una distinzione fra miglioristi e berlingueriani), e tutti i principali gruppi industriali pubblici e privati senza eccezione alcuna. Dopo di allora molta acqua è passata sotto i ponti e c’è stata la fine dei partiti e delle loro correnti per cui è avvenuta anche una parcellizzazione della corruzione: la danza è guidata da singoli imprenditori (a nome di una società civile pura e incontaminata), da singoli alti burocrati, da singoli uomini politici con la formazione di cordate trasversali nelle quali la discriminante politica non ha più alcuna ragione di essere. Tutto ciò, evidentemente, ha conseguenze quasi catastrofiche nel senso che da un lato mette in evidenza che la dialettica reale è molto lontana da quella apparente e che dall’altra, messe le cose in questo modo, la politica rischia di finire in un burrone. E’ elevatissimo il rischio che la gestione degli enti locali sia approdata a una serie infinita di decisioni arbitrarie motivata solo dall’arricchimento personale e di gruppo. Ciò detto poi non possiamo però fare a meno di avanzare alcuni rilievi. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una spettacolarizzazione inaccettabile: che sotto casa di Alemanno già fossero i cameramen in attesa che arrivassero i carabinieri per la perquisizione è un segno assai inquietante. Inoltre la lettura delle intercettazioni riportate sui giornali comporta anche forti interrogativi sull’esistenza di molte possibili “vanterie” sul terreno stesso della conoscenza, e ancor di più del “controllo”, del “pagamento” di cifre a singoli uomini politici. Infatti, a questo proposito, nel quadro del totale discredito della classe politica, si sta affermando un altro “andazzo” e cioè il fatto che ciò che affermano noti criminali diventa “oro colato” se essi chiamano in causa uomini politici e anche poliziotti e carabinieri che hanno svolto attività inquirente. Il fatto che i media e alcuni magistrati inquirenti stiano dando un incredibile credito ad alcuni soggetti (il caso più eclatante è quello di Vito Ciancimino) rischia di avere conseguenze assolutamente devastanti. Comunque è evidente che siamo al primo di una tragedia in cinque atti, per cui avremo molte altre sorprese.

Giudici scrittori e intercettazioni incomprensibili, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. «A voler innestare metafora su metafora, mafia capitale è una sorta di fiume carsico, che origina nella terra di mezzo, luogo nel quale costruisce la sua ragion d’essere e dal quale trae la sua forza, che emerge in larghi tratti del mondo di sopra, inquinandolo, per poi reimmergersi». La prosa è sciolta e intrigante, e viene dritta dall’ordinanza della procura di Roma sul “Mondo di mezzo”, ormai urbi et orbi nota come “Mafia Capitale”, quella degli arresti e degli avvisi di garanzia che ha sconquassato il mondo della politica. Utilizza quello che è stato definito il “manifesto programmatico” di Carminati e soci (ormai lo sanno pure i sassi: «c’è un mondo di sopra e un mondo di sotto…») per raccontarne lo spirito. La narrazione di fatti criminosi ha sempre un oscuro fascino che agisce sui nostri lati nascosti. E in genere, invece, la narrazione giudiziaria – quella che riporta i fatti, le azioni, i reati, le fattispecie, la giurisprudenza in merito – ha una sua prosa verbosa e tecnica, per addetti ai lavori (altri giudici, i giornalisti di giudiziaria). Stavolta, invece, ci troviamo di fronte a una narrazione giudiziaria “immaginifica”, diciamo così. Suggestiva. Qualcuno – l’ex magistrato Giancarlo De Cataldo, che ha costruito le sue fortune con Romanzo criminale? Oppure, il magistrato “in sonno”, già sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia a Bari, ora senatore Pd, Gianrico Carofiglio? – potrebbe svolgerla già come un romanzo, qualcuno potrebbe già opzionarne i diritti per un film, e uno spin off di sceneggiato televisivo. C’è insomma un travaso, un mondo di mezzo, tra narrazione romanzesca che nasce dai fatti e narrazione giudiziaria che ricostruisce i fatti. «Prendiamo le intercettazioni, che sono un aspetto sostanziale dell’ordinanza. Ne faccio un esempio (pagina 892 e segg.).

Riccardo: sì ma però, lui a me mi pare de avè capito… che questo già solo che…no

Massimo: acchiappalla, ammazza bona sta …inc..   

Riccardo: bel bucio de culo.. [riprendono il discorso]

Riccardo: che gli dico Ma’ ? vede che jè dico..  

Massimo: “senti ma ho saputo” 

Riccardo: jè faccio la battuta gua..».

Ci capite qualcosa voi tra cambio del discorso e ripresa del discorso, virgolettato messo nelle trascrizioni, inc. che sta per “incomprensibile”? Vi faccio un altro esempio?

«Massimo: ”allora mettiamoci a … inc…. fermare il gioco… perché dopo ci mettiamo d’accordo con quelli che ti rompono … inc”… Perché qui a noi ci chiamano sempre… dopo, compa’! … io me so’ imparato… inc… capito?

Riccardo: ma dimmi un po’? tipo?

Massimo: je devi dì… “senti, che stai facendo? … che stai facendo qualcosa? no perché io ho sentito voci… che qualcuno te vo’ vonno ruba’ tu daglieli 4 sordi… inc.”

Riccardo: bella, gliela faccio così…

Massimo: “ho sentito cose che… c’è gente… inc… perché”.

Riccardo: …inc… sta facendo adesso… perché gli hanno dato una cosa per fa novanta, me pare, appartamenti a Monteverde

Massimo: a Monteverde è buono…

Riccardo: e non hai capito, oh!

Massimo: però… però adesso compa’… le costruzioni..

Riccardo: lascia… perde’… però magari a Mà… pero’ gli facc…».

Sono brani di conversazione tra il “capo dei capi” Massimo Carminati e il suo “braccio destro” Riccardo Brugia. E, anche qui, tra perdita di segnale per frazioni di secondo (?) e inc (incomprensibile) e parole smozzicate e puntini sospensivi, si capisce niente. Il lavoro degli inquirenti è stato davvero improbo, perciò. Hanno dovuto “ricostruire” tutto quello che mancava nelle intercettazioni tra perdite di segnali e incomprensibilità e gergalità e chiacchiericcio del parlarsi addosso come al cortile dell’aria o al baretto di quartiere. Certo, non tutte le trascrizioni sono così. Però, questa aleatorietà della parola, questa vaghezza e vacuità della chiacchiera non è secondaria nella costruzione della cornice della fattispecie di reato dell’associazione di tipo mafioso. Vediamo cosa si dice nell’ordinanza a proposito della finalità propria dell’associazione criminale, cioè acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici. «Si ribadisce che non è necessario, ai fini dell’integrazione del tipo legale, che tale finalità sia perseguita attraverso la commissione di specifici reati, essendo sufficiente l’utilizzazione di ciò che si è definito metodo mafioso» (pag. 64). Forse vale la pena ripeterlo: l’ordinanza dice che non è necessario che ci siano specifici reati. Magari succede che non siano capaci di ritrovarli, sti specifici reati, tra inc e perdita del discorso per frazioni di secondo. Basterebbe il “metodo mafioso”. La vaghezza della chiacchiera diventa la “minaccia incombente”. Scrive l’ordinanza (pag. 34 e segg.): «Intercettazione ambientale, avente come protagonista Carminati, capo indiscusso di Mafia Capitale, a seguito della pubblicazione di un articolo sul settimanale L’Espresso, dal titolo “I quattro Re di Roma”… Conversazione nella quale Carminati si mostra per un verso gratificato da tale riconoscimento mentre per altro verso ne coglie le opportunità criminali, rappresentando ai suoi interlocutori la non necessità, per il conseguente effetto mediatico, dell’uso di forme di violenza diretta.

Riccardo: l’ha letto l’Espresso, Maurizio?

Massimo: inc.. ma questo.. sul lavoro … sul lavoro nostro… sono pure… cose buone».

Carminati, cioè, utilizzava la narrazione del settimanale L’Espresso per riempire di qualcosa la vaghezza. E questo avrebbe rafforzato l’esercizio del “metodo mafioso”. Ora, il metodo che usano i mafiosi – oltre a ammazzare propriamente, scioglierti nell’acido o farti saltare in aria – è alludere all’esercizio di una violenza terribile perché storicamente nei territori controllati dalle organizzazioni criminali una violenza terribile è stata applicata contro chiunque si sia opposto. La loro stessa presenza, o l’invio di un loro emissario fa capire a chi ci incappa che può accadergli di tutto, a lui e alla sua famiglia fino alla settima generazione. Perché la mafia è stata, è e sarà. Ovunque. Non hai riparo. Ora, con tutto il rispetto, qualcuno può accostare questo “Mondo di mezzo” romano – dove accade che gli imprenditori contattati si trasformino in solerti collaboratori perché c’è da magnà pe’ tutti, e i politici e gli amministratori fanno a rubamazzette con i “criminali” – con l’orribile violenza che ha insanguinato e continua a insanguinare il nostro paese? Ma di che inc. stiamo parlando?

Mafia capitale e le chiacchiere degli smaliziati. L’inchiesta su Roma, scrive Ernesto Galli della Loggia su “Il Corriere della Sera”. Non è più Tangentopoli, ormai. È Mahagonny, la città immaginata dalla fantasia di Brecht e Weill dove è legge l’assenza di legge (Mahagonny: e dunque chi se ne importa se il termine «mafia» non è proprio quello filologicamente più appropriato). Non è più, insomma, la collusione dell’epoca di Mani pulite tra industriali senza scrupoli e politici pronti a vendere e a vendersi. Ormai è l’intreccio sempre più organico tra politica, amministrazione e malavita. È - si direbbe - la fase immediatamente precedente la conquista del potere direttamente da parte del crimine. Chiamiamo le cose con il loro nome: almeno fino alla settimana scorsa a Roma, nella capitale d’Italia, non era proprio questo all’ordine del giorno? Non è vero che la politica, perlomeno quella nazionale - come ci viene detto - è sbalordita, è sconvolta, è pronta a correre ai ripari. Non ha forse il ministro dell’Interno Angelino Alfano detto l’altro ieri che «Roma non è una città marcia, Roma non è una città sporca, è una citta sana»? E come no, deve essere senz’altro così, visto che nessuno dei tanti personaggi importanti che si sono mossi per anni su quella scena - da Veltroni a Zingaretti, dalla Meloni a Tajani, da Gasparri a Sassoli - ha mai fatto una piega, si è mai accorto di nulla, ha mai detto qualcosa. E visto che in tutto questo periodo neppure ad uno dei tanti egregi procuratori della Repubblica succedutisi a Roma prima di quello attuale è mai capitato d’interessarsi di quanto sta venendo fuori oggi. Così come del resto a nessuno, a Roma o fuori Roma, sembra che abbia mai interessato il fatto che da anni, ogni volta che c’è un caso di corruzione politico-affaristica (dall’Expo al Mose, a Roma, appunto), ogni volta spunta immancabile lo zampino di qualche società affiliata alla Lega delle cooperative. Chissà come mai. In Italia funziona così. Porre questioni scomode o guardare in fondo alle cose non usa, in politica meno che altrove. Ovvio dunque che di fronte all’arrembaggio capitolino di galantuomini come «er cecato» e «er maialotto», si pensi che la risposta adeguata sia una manciata di autosospensioni e dimissioni o lo scioglimento di una federazione di partito (quella del Pd romano: peraltro già ridotta da tempo a un Ok Corral per politicanti affamati di quart’ordine): misure già tutte viste e riviste mille altre volte in mille occasioni analoghe. E di cui tutti, quindi, sono in grado di apprezzare l’efficacia. L a verità è che finché al centro della scena c’era Berlusconi, ogni caso di pubblica corruzione suscitava, per ragioni ben note, un dibattito accesissimo tra presunti «garantisti» e presunti «giustizialisti», e rispettive vaste tifoserie, divenendo immediatamente un terreno di scontro politico. Oggi invece, tramontata la presenza dell’ex Cavaliere, e spappolatosi il centrodestra, di fronte a fatti come quelli di Roma non sembra esserci più posto, nel campo della politica, che per una maggioritaria tendenza alla sordità, a «ridimensionare», e per quanto riguarda il modo di reagire, ad attenersi, come si dice, al «minimo sindacale». Prevale ormai tra gli addetti ai lavori il partito trasversale degli «smaliziati». Quelli che per l’appunto, di fronte a mezzo Comune di Roma al servizio del malaffare, irridono alla «Corleone dei cravattari», fanno un sorriso di sufficienza ogni volta che sentono risuonare dopo un sostantivo l’aggettivo «morale», e giudicano dall’alto in basso gli sprovveduti che di politica capendoci poco, sono solo capaci di augurarsi, molto banalmente, che ci sia in giro un minimo di decenza. Gli «smaliziati» di professione, i quali - mischiando l’ottimismo craxiano-berlusconiano di un tempo con l’antigufismo renziano attuale - non sopportano giustamente che si parli di declino dell’Italia, di crisi storica del Paese, facendosi beffa di qualunque ragionamento critico cerchi di guardare oltre l’oggi, di chiunque evochi i problemi antichi della Penisola. Perché conta solo la politica. Naturalmente la politica che c’è: cioè la politichetta de’ noantri , quella della chiacchiera non stop giornalistico-televisiva-romana, 24 ore su 24. Quella politica che si ostina a non capire che il Paese ha certo bisogno delle riforme istituzionali e della ripresa economica, del Jobs act, di un altro Parlamento, degli 80 euro e via di seguito. Ma che nulla di tutto ciò servirà minimamente, si può essere certissimi, se non ci sarà qualcosa d’altro. Chiamiamola come vogliamo - uno scatto morale, un nuovo sentimento nazionale, una voglia collettiva di riscatto - ma insomma qualcosa a cui la politica deve essere capace una buona volta di dare voce, un segnale da trasmettere alle menti e ai cuori di quei milioni di «sprovveduti» che pur con tutti i limiti e le contraddizioni che conosciamo costituiscono la maggioranza degli italiani. Un segnale forte di serietà, di decisione, e una buona volta di capacità di colpire per primi. Siamo stufi di vedere all’attacco sempre gli «altri» e «noi» colpire sempre di rimessa.

Ehi, garantisti, dove siete scappati? Scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Come iniziò ”Mani Pulite”? Con l’arresto di un certo Mario Chiesa, preso con le mani nel sacco (una tangente di 7 milioni di lire nascosta nelle mutande). E finì radendo al suolo la Prima Repubblica, dopo una stagione tremenda di arresti e intimidazioni. Parecchi ci lasciarono la vita: Cagliari, Gardini, Moroni, Craxi. ”Mafia Capitale” invece non ha intercettato nessun fatto concreto, nessuna tangente, solo alcune telefonate nelle quali gli imputati si vantavano di avere mezzo mondo ai propri ordini. E siccome in questa inchiesta non c’è niente di concreto, gli inquirenti anziché contestare il reato di corruzione hanno contestato il reato di mafia. Questa inchiesta è una bufala. Ma i pochi garantisti che ancora circolavano nel dibattito pubblico sembrano spariti. Aiuto! Il 17 febbraio 1992, quando ricopriva la carica di presidente del Pio Albergo Trivulzio, a Milano, Mario Chiesa, dirigente del partito socialista, venne colto in flagrante mentre accettava una tangente di sette milioni di lire (3.500 euro, circa) dall’imprenditore Luca Magni, che gestiva una piccola società di pulizie e voleva assicurarsi un appalto. Da lì nacque ”Mani Pulite” che pose fine alla prima Repubblica e al periodo migliore della democrazia italiana. Stavolta – a differenza da allora – nessuno è stato colto con le mani nel sacco. La retata è nata da una attività vastissima di intercettazioni e da un numero incredibile di sciocchezze dette al telefono da tre o quattro persone fra le quali questi due strani personaggi che sono Carminati e Buzzi. A differenza dal ’92, pare, nessuno è stato preso mentre intascava una tangente, o mentre la chiedeva, o mentre minacciava qualcuno per averla. Allora il pool di Milano inquisì molte migliaia di persone per concussione o corruzione (non per mafia…). Ci furono 4.500 arresti, 25 mila avvisi di garanzia, una decina di suicidi e dopo alcuni anni 1300 tra condanne e patteggiamenti. La maggioranza delle persone passate per la prigione non fu condannata. Ci ha insegnato qualcosa ”Mani Pulite”? No. L’inchiesta su ”Mafia Capitale”, che sembra molto meno solida di ”Mani Pulite”, ha suscitato entusiasmo generale. Nei giornali, tra la gente, anche nella politica. La discussione politica che si è aperta non ha ri- guardato il merito dell’indagine, non ha messo in discussione i suoi eccessi di spettacolarità, neppure la fragilità dell’accusa di associazione mafiosa, non ha sfiorato l’eccesso di protagonismo dei magistrati, non ha avanzato nessun dubbio sulla strabordante utilizzazione delle intercettazioni, sulla discrezionalità della loro interpretazione, sull’illegittima e interessata distribuzione ai giornali, e sul loro uso assai discutibile. Niente di tutto questo. La discussione che è in corso verte esclusivamente su come la politica deve punire i suoi esponenti prima ancora che qualunque responsabilità sia accertata. E questa posizione ha unificato stavolta, senza esclusione, non solo i rappresentati del fronte molto esteso e molto potente, dei giustizialisti, ma ha finito per aggregare anche un gran numero di leader che negli anni passati avevano tentato di navigare sulla barca garantista, e che improvvisamente ne sono scesi. Chiedere lo scioglimento del Consiglio comunale di Roma è una follia. Il consiglio comunale è stato eletto, il sindaco Marino ha vinto le elezioni democratiche, ed assegnare ai giudici il potere di spedirlo a casa – neppure con un avviso di garanzia a lui, ma addirittura con un avviso di garanzia a un suo assessore – è la resa definitiva e totale, senza condizioni, della politica alla magistratura. E’ la sconfitta, la morte di una politica che si genuflette all’arroganza di un giornalismo ”linciatorio” , privo di struttura, asservito alla potenza del potere giudiziario. Immagino che voi come me avrete letto le intercettazioni distribuite dai magistrati ad alcuni grandi giornali (come premio per la loro fedeltà). In nessuna di queste intercettazioni c’è niente di concreto. Si riferiscono tutte a discorsi di un gruppetto di esaltati che sostiene di avere il mondo in mano e di tenere ai propri ordini leader politici, amministratori, e varia gente potente. Non c’è mai un leader politico che prende un ordine da loro. Che dice signorsì o ringrazia per una tangente. Non c’è nessun riscontro. Sono frasi sconnesse che sicuramente alludono a pratiche di corruzione e di degrado politico, che certamente esistono e delle quali è giusto indignarsi. Ma che in nessun modo costituiscono prove di reati concreti. Dire per telefono a un amico ”Io a quello lo faccio strillare come un’aquila spennata” è una cosa che a me non vorrebbe in mente. Però, ad esempio, ”io a quello lo gonfio…” credo che sia una frase che io talvolta ho pronunciato al telefono, eppure vi assicuro che non ho mai gonfiato nessuno e nemmeno ho pensato di farlo, e che non esercito usura e non distribuisco tangenti…Questa inchiesta a me sembra che sia una bufala. Non perché a Roma non esista la corruzione ma perché il sospetto che esista è l’unica cosa concreta che emerge da questa carte e dalla retata. Fa paura la scomparsa dei garantisti. A partire da Berlusconi, da Forza Italia, che invece chiede che sia mandata a casa la giunta Marino. E da Renzi, che in passato aveva fatto vedere una certa avversione al forcaiolismo, e che invece ora sembra solo cercare un po’ di consenso nei giornali e nel popolo che lincia.

Tanto tutta l’Italia è paese.

Bassolino: «Perché dobbiamo sapere tutto su Napoli e non su Roma e Milano?» Intervista di Katia Ippaso su  “Il Garantista”. I ragazzi della scuola media Marechiaro di Napoli scrivono una lettera seria, serissima, che dentro la sua compostezza formale trattiene una stanchezza che diremmo antropologica: siamo stufi di essere messi in scena sempre nello stesso modo. In più, non è divertente. Perché non fate dello spirito sul Nord? E’ questa l’opinione degli studenti. Si potrebbe tralasciare e prendere la cosa come una lamentela. E invece. Decidiamo non solo di pubblicare la lettera (ndr.nella stessa pagina in basso), ma di prenderla come spunto per una riflessione più ampia con un interlocutore come Antonio Bassolino, attuale presidente della Fondazione Sudd, ex presidente della Regione Campania e sindaco di Napoli, con cui il discorso prende una piega anche biografica. Bassolino ora di professione fa (anche) il maratoneta. Per davvero. Cinque ore e zero cinque minuti per fare quarantadue chilometri e centonovantaquattro metri. Per questo gli viene meglio, per commentare il lavoro dei politici italiani, usare metafore sportive: «Renzi? E’ un velocista, ora deve trovare il passo lento». Ma gli sta soprattutto a cuore la questione culturale. Anna Maria Oreste e il suo Mare non bagna Napoli è di nuovo sul suo comodino. Ammette di averlo letto una cosa come venti volte. La scuola è un altro suo chiodo fisso.

Bassolino, come risponde agli studenti della scuola Marechiaro? Pensa che abbiamo esagerato? Gli autori del film hanno detto che loro, in fondo, hanno fatto una commedia.

«Se vogliamo parlare del film, La scuola più bella del mondo, posso dire che gli stessi autori prima avevano fatto un film molto carino, che era Benvenuti al Sud. Grande successo di pubblico. Come in questo caso, sia chiaro. Ma in quel c so c’era una ironia leggera che produceva simpatia, ed era una ironia sia su Napoli, sul Sud, ma anche sul Nord, perché Bisio finiva al Sud e scopriva Castellabate e si faceva ironia anche su di lui, sul suo modo di vivere e di pensare. In questo caso invece – ed è quello che dicono i ragazzi e non solo loro (ci sono state tante polemiche su questo film) – l’ironia è unilaterale. Questa lettera della terza D di Marcehiaro – scuola dove io passo abbastanza spesso, durante le mie corsette – va presa per il verso giusto. Cioè va tenuta in considerazione proprio perché una lettera che viene da una scuola».

In questo momento del tempo, tutto ciò che attiene al mondo della scuola è oggetto di scontro politico ma anche materiale cronachistico.

«Di scuola si discute molto proprio in questi giorni a Napoli. Qualche giorno fa il Galiani, istituto tecnico, è stato derubato e vandalizzato. In modo inaudito. In piena notte».

Si è stabilito che cosa era successo?

«Non ancora, ci sono indagini in corso. Quello che si sa è che è stato vandalizzato. E giustamente la preside di quell’istituto, Armida Filippelli, ha scritto che la scuola è un luogo sacro della repubblica. Altri episodi simili sono avvenuti a Napoli negli ultimi mesi. Per questo la scuola è un osservatorio fondamentale. Nel bene e nel male. Nel male quando viene attaccata e sfregiata. E nel bene quando viene interpretata e rispettata per quello che è: simbolo di emancipazione sociale e civile. Per la sua importanza strategica, anche una lettera come questa va presa come un impegno civile. Naturalmente qui non si fa un processo a un film, considerando anche che si tratta di una commedia. Rimane la questione della ”rappresentazione” che, nel caso di una città come Napoli, passa spesso per fenomeni eclatanti e ancora controversi. Gomorra è solo l’ultimo esempio. Non è un caso comunque che Gomorra la serie tv sia stata venduta da Sky Italia in tutto il mondo. Cosa che piace (agli artisti coinvoliti e ai fan) e non piace (a chi è stufo di subire l’abbinamento: Napoli uguale camorra). Ma la questione è antica. Ricordiamo l’andreottiano e censoreo «I panni sporchi si lavano in famiglia»…Qui ci muoviamo su un sentiero molto difficile. L’immagine della città è un tema antico e spigoloso. Io credo che sia sbagliato fare la parte degli offesi. Quante discussioni sono sorte su La pelle di Curzio Malaparte? Quante discussioni su quel romanzo meraviglioso che ogni tanto rimetto sul comodino (proprio nei giorni scorsi l’ho rimesso lì per rileggerlo) e cioè Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese? Quanti intellettuali si sono sentiti offesi! Non è questo però il caso della lettera dei ragazzi di Marechiaro, che fanno una oservazione precisa. Non è un rifiuto dell’ironia, non è il sentirsi vittima di un attacco. Il problema vero è che ci sono tante rappresentazioni della città perché ci sono tante città diverse e tutte sono reali. Facciamo un esempio concreto: Scampia. La rappresentazione cruda di tanti aspetti della vita della vita di Scampia legati a camorra e a criminalità organizza è vera. E sarebbe molto grave fingere di non vedere, pensare che non esista… Io ero giovane dirigente del Pci. E quando andavo a Catania sentivo dire che la mafia a Catania non esisteva! Questo per dire che è sbagliata la questione dei panni sporchi si lavano in famiglia. I panni sporchi devono uscire fuori alla luce del sole».

A proposito di partito, lei ce l’ha ancora la tessera del Pd?

«Sì, l’ultima tessera ce l’ho ancora».

Qualche giorno fa ha presentato un libro che si intitola ”L’oro di Scampia” che non parla di segreti criminali ma di una palestra futuristica nata sul territorio. Che cosa ci legge in una impresa che può sembrare ordinaria, molto poco epica?

«Anche quella è Scampia. Scampia è camorra e Gomorra, e Scampia è Maddaloni e la sua palestra. Gianni Maddaloni, l’autore, è un maestro di judo e ha tanti ragazzi che vanno da lui a prepararsi. Sono giovani spesso salvati da una possibile affiliazione alla camorra. Lo sport può essere un motivo di riscatto».

Lei ne sa qualcosa. Si arrampica ancora?

«Sì, faccio trekking. E maratone. Nel mio caso lo sport è stata una specie di reazione al dopo fumo».

Quanto fumava?

«Cinque pacchetti al giorno».

E che cazzo questo vetusto dualismo fascismo e comunismo! Meno male che c’è il Censis che ci apre gli occhi.

Rapporto Censis 2014, politica bocciata: Gira a vuoto, riforme fallite e incoerenti, scrive Luigi Franco su “Il Fatto Quotidiano”. L'utilizzo record da parte degli ultimi tre governi dei dl accompagnati dal voto fiducia ha esposto la società italiana a una sensazione di incertezza ed emergenza continuata. E così le imprese non investono e le famiglie non spendono, temendo possibili imprevisti, come la perdita del lavoro o la malattia. E la povertà viene vista come un "virus che può contagiare chiunque". Per i giovani, poi, le spese impreviste diventano un incubo. Una politica che “gira a vuoto”. Senza ottenere risultati in grado di incidere in modo positivo sull’economia del Paese e sulla società. E’ la valutazione che l’annuale rapporto del Censis dà dell’azione dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Responsabili, insomma, di una politica che “resta confinata al gioco della stessa politica”. Il dossier sottolinea infatti “il progressivo fallimento di molte riforme”, spesso “distaccate da un quadro coerente e inadatte a formare una visione unitaria di ciò che potrà o dovrà essere il Paese nei prossimi decenni”. Un esempio su tutti? Le riforme del mercato del lavoro, che “nel perseguire la flessibilità hanno generato precarietà”. E mentre nelle periferie esplode la questione casa, il Censis evoca addirittura il rischio banlieue: l’Italia “ha fatto della coesione sociale un valore e si è spesso ritenuto indenne dai rischi delle banlieue parigine”, ma le problematicità ormai incancrenite di alcune zone urbane “non possono essere ridotte ad una semplice eccezione”.

Troppi decreti legge, come 11 Divine Commedie – Sul banco degli imputati finisce soprattutto l’utilizzo dei decreti legge approvati spesso con voto di fiducia. L’istituto di ricerca fa i conti: dall’avvio della stagione di riforme nell’autunno del 2011 i governi Monti, Letta e Renzi hanno portato in Parlamento ben 86 decreti che, con le successive modifiche e conversioni in legge, raggiungono un totale di 1,2 milioni di parole: l’equivalente di oltre undici Divine Commedie fatte di norme e codici, che non hanno portato ad alcun decollo dello sviluppo e dell’occupazione. Ma che secondo il Censis hanno avuto una conseguenza negativa certa: “L’aver perso per strada il principio costituzionale di straordinarietà dei provvedimenti introdotti con decreto legge ha esposto la società italiana a una sensazione di emergenza continuata”.

Pochi investimenti da famiglie e imprese - La sensazione di emergenza si accompagna nella vita di tutti i giorni alle conseguenze della crisi, che si traducono in una costante incertezza. E così l’approccio prevalente delle famiglie diventa quello dell’attesa. La gestione dei soldi, per esempio, è fatta sulla base di logiche di “breve e brevissimo periodo”. Tra il 2007 e il 2013 – rileva il Censis – tutte le voci delle attività finanziarie dei nuclei familiari sono diminuite, tranne i contanti e i depositi bancari, aumentati in termini reali del 4,9%, arrivando a costituire il 30,9% del totale (erano il 27,3% nel 2007). “Prevale un cash di tutela – si legge nel rapporto – con il 45% delle famiglie che destina il proprio risparmio alla copertura da possibili imprevisti, come la perdita del lavoro o la malattia, e il 36% che lo finalizza alla voglia di sentirsi con le spalle coperte. La parola d’ordine è: tenere i soldi vicini per ogni evenienza, ‘pronto cassa’”. Da un lato i contanti funzionano da carburante per il nero e il sommerso. Dall’altro i soldi fermi sui conti correnti sono la contromisura al rischio povertà, percepita come “un virus che può contagiare chiunque”, e vengono così sottratti dagli investimenti. E allora la società italiana diventa per il Censis la società “dal capitale inagito”, ovvero delle risorse inutilizzate e sprecate. Una società dove anche le imprese non rischiano più: dal 2008 si è registrata una flessione degli investimenti di circa un quarto. E ancora: “L’incidenza degli investimenti fissi lordi sul Pil si è ridotta al 17,8%, il minimo dal dopoguerra”.

In otto milioni non lavorano, lo spreco di capitale umano - Capitali finanziari inutilizzati. Ma anche capitale umano che non si trasforma in energia lavorativa: “Agli oltre 3 milioni di disoccupati – ricorda il Censis – si sommano quasi 1,8 milioni di inattivi perché scoraggiati. E ci sono 3 milioni di persone che, pur non cercando attivamente un impiego, sarebbero disponibili a lavorare. È un capitale umano non utilizzato di quasi 8 milioni di individui”. Più penalizzati sono i giovani, visto che i 15-34enni costituiscono il 50,9% dei disoccupati totali. E sono in continua crescita i Neet, ovvero gli under 30 che non sono impegnati in percorsi di istruzione o formazione, né cercano lavoro: sono passati da 1.832.000 nel 2007 a 2.435.000 nel 2013.

Patrimonio artistico sottoutilizzato – Anche le risorse artistiche e culturali non vengono sfruttate. “Siamo un Paese dal capitale inagito anche perché l’Italia riesce solo in minima parte a mettere a valore il ricco patrimonio culturale di cui dispone”. In Italia il numero di lavoratori nel settore della cultura è di 304.000, l’1,3% degli occupati totali: meno della metà di quello di Regno Unito (755.000) e Germania (670.000), e di gran lunga inferiore rispetto a Francia (556.000) e Spagna (409.000). Nel 2013 il settore ha prodotto un valore aggiunto di 15,5 miliardi di euro (solo l’1,1% del totale del Paese), contro i 35 miliardi della Germania e i 27 della Francia.

La politica parla su twitter, mentre la pubblica amministrazione si svuota di competenze - In questa situazione che incide negativamente sulle aspettative dei cittadini, la politica è tutt’altro che incisiva. L’abuso dello strumento del decreto legge porta all’aggiramento delle istituzioni intermedie e si accompagna, sul piano della comunicazione, alla necessità degli organi di governo di parlare direttamente agli elettori attraverso i social network. Il che causa, secondo il Censis, “un sostanziale appiattimento delle differenze: nero o bianco, dentro o fuori, a favore o contro”. La politica non riesce poi a porre rimedio alle inefficienze della pubblica amministrazione: “Abbiamo grandi strutture ormai letteralmente vuote di competenze e di personale – si legge nel report – abbiamo grandi ministeri e grandi enti pubblici il cui funzionamento è appaltato a società esterne di consulenza o di informatica, abbiamo strutture pubbliche che sono ambigue proprietà di principati personali (…) abbiamo un aumento degli scandali direttamente proporzionale all’enfatizzazione di una mitica trasparenza”. Per recuperare credibilità di fronte a tale situazione, in un clima di continua denuncia della casta, “non basta l’enfasi che il mondo delle istituzioni ha dato a due concetti fondamentali, legalità e trasparenza”.

La palude dei lavori pubblici: speso solo il 20% dei fondi europei – A tutto questo si aggiungono “le difficoltà ad avviare e portare a compimento lavori pubblici importanti”. Lo si è visto in relazione alle emergenze, come le recenti alluvioni, e in relazione al prolungarsi indefinito di operazioni complesse, come la ricostruzione dell’Aquila. E anche quando le risorse ci sono, queste vengono utilizzate male. È il caso, secondo l’istituto di ricerca, dei fondi europei. Dai dati sugli 807mila progetti monitorati nell’ambito delle politiche europee di coesione 2007-2013 si scopre infatti che la spesa certificata a luglio 2014 è pari a 32,3 miliardi, ovvero appena il 40,3% degli 80 miliardi corrispondenti al totale delle risorse programmate. Tale percentuale è ancora più bassa nel caso degli interventi infrastrutturali: “A un anno dalla chiusura del periodo di programmazione europea si è speso appena un quinto delle risorse (20,4%)”. Tanto che il Censis parla di “palude dei lavori pubblici”.

Sanità pubblica e welfare sempre meno accessibili. Soprattutto per i giovani – Gli italiani si sentono sempre meno garantiti dal sistema della sanità pubblica e del welfare. La politiche di spending review hanno fatto sì che il 50,2% della popolazione pensi che le disuguaglianze in ambito sanitario sono aumentate. La spesa privata per le cure, inoltre, è cresciuta dai 29.578 milioni di euro del 2007 ai 31.408 milioni del 2013. “Nel nuovo contesto si registra non solo un approfondimento di disuguaglianze antiche – scrive il Censis – ma anche l’insorgenza di disuguaglianze inedite legate alla nuova geografia dei confini pubblico-privato in sanità, e all’espansione della sanità a pagamento o, per chi non ce la fa, la rinuncia a curarsi e a fare prevenzione”. Per quanto riguarda il welfare in generale, i giovani vivono ormai una sorta di “estraneità alla protezione sociale”. Il 40,2% di loro dichiara infatti che negli ultimi dodici mesi le prestazioni sanitarie, per istruzione e di altro tipo, non sono più gratuite come prima ma gravate da qualche forma di contribuzione. Tale effetto si aggiunge alle spese impreviste che i giovani considerano un vero “incubo”: affitto, spese condominiali, spese per le bollette di luce, gas e telefono. La conseguenza? Dei circa 4,7 milioni di giovani che vivono per conto proprio, oltre un milione non riesce ad arrivare a fine mese e si stimano in 2,4 milioni coloro che ricevono regolarmente o di tanto in tanto un aiuto economico dai propri genitori. “Non avere le spalle coperte e dipendere strutturalmente dai genitori genera un inevitabile deficit di progettazione nella vita”.

Turismo, design e cibo: ecco le good news - Per trovare qualche buona notizia bisogna andare a parare nei settori dove da sempre siamo apprezzati all’estero. L’Italia è la quinta destinazione turistica al mondo, con 186,1 milioni di presenze turistiche straniere nel 2013 e 20,7 miliardi di euro spesi (+6,8% rispetto al 2012). Siamo ancora forti nell’export delle 4 A del made in Italy (alimentari, abbigliamento, arredo-casa e automazione), che è aumentato del 30,1% in termini nominali tra il 2009 e il 2013. L’Italian style non perde il suo fascino, insomma. Il settore agroalimentare, per esempio, è una delle componenti più dinamiche dell’export: 27,4 miliardi di euro nel 2013, con un aumento del 26,9% rispetto al 2007. L’Italia è il Paese con il più alto numero di alimenti a denominazione o indicazione di origine (266), seguito a distanza da Francia (219) e Spagna (179).

Rapporto Censis, giovani umiliati. E il presidente sceglie il successore: il figlio, scrive Eleonora Bianchini su “Il Fatto Quotidiano”. Al vertice dell'istituto dal 1974, ha annunciato la nomina del secondogenito Giorgio. Eppure il Centro studi, nel corso degli anni, ha spesso parlato di raccomandazioni in chiave negativa. Non vale però per il presidente senior: "Mio figlio? Ha il curriculum adeguato". Censis, anno 2007. Il rapporto annuale dell’istituto segnala l’insoddisfazione nei confronti delle istituzioni. Rapporto causa-effetto: si crea una sorta di legittimazione della scorrettezza che è percepita come una risposta sana e fisiologica. Quindi? Si evade il fisco, si chiedono raccomandazioni, e così via. “Raccomandazioni”, termine famigliare per gli italiani, tanto nel 2007 come nel 2014, per cercare lavoro e opportunità. Dalla teoria alla pratica: Giuseppe De Rita, attuale presidente del Censis, ha appena annunciato la nomina di suo figlio Giorgio a “segretario generale per il triennio 2015-2017 nonché facente funzione nello stesso periodo di Direttore Generale“. Lo stesso Giuseppe che ha appena presentato il rapporto Censis 2014, analisi severa sulla politica italiana, la società in declino e le imprese che, soffocate dalla crisi, non investono. Contingenze economiche che si abbattono sulle famiglie e sui loro figli, travolti da un mercato del lavoro precario e flessibile. Ma soprattutto incerto. Non è così per Giorgio, fresco di successione alla guida del Centro Studi Investimenti Sociali, “istituto di ricerca socio-economica fondato nel 1964″, divenuta fondazione composta da enti pubblici e privati dal 1973 che tra i suoi clienti ha tanti enti pubblici. Detto in altre parole, si legge sul sito dell’istituto, “il lavoro di ricerca viene svolto prevalentemente attraverso incarichi da parte di ministeri, amministrazioni regionali, provinciali, comunali, camere di commercio, associazioni imprenditoriali e professionali, istituti di credito, aziende private, gestori di reti, organismi internazionali, nonché nell’ambito dei programmi dell’Unione europea”. Giorgio, secondogenito, ha appena 12 anni quando il papà Giuseppe – che ha altri sette figli avuti dalla moglie Maria Luisa Bari – diventa presidente della Fondazione. Nessun ricambio al suo vertice, perché De Rita senior, insediato nel 1974, è rimasto al suo posto fino a oggi. Trent’anni precisi, fino al cambio di testimone, sempre in famiglia. Le domande de ilfattoquotidiano.it in merito alla raccomandazione sul successore per il presidente senior sono “gossip” e “cazzate” perché lui non vede proprio “nessun conflitto d’interesse”. Anzi, a dirla tutta, visto che siamo alla presentazione del rapporto, si tratta di “domande che non c’entrano niente”. “Si chiama De Rita? Eh, ciccio, questo è un modo per cercare il capello a oltranza”, dice infastidito il presidente da tre decadi, perché l’ascesa di Giorgio per lui ha proprio tutte le carte in regola. “Mio figlio ha il curriculum adeguato”, insiste. Vanta un passato da “amministratore delegato di Nomisma che è una grande società di ricerca, è stato direttore generale della società che si occupa di digitalizzazione dello Stato (direttore generale dal 2012 con un incarico da 158mila euro l’anno, ndr) ed è una persona per bene. A nominarlo è stato il cda, formato da quindici grandi aziende come Telecom e Banca Intesa. Quindi non è una nomina fatta in famiglia”. Insomma, dice papà De Rita, “dove trovavo un altro con il suo curriculum”, visto che ritiene il suo “di ottima levatura”?. E se si fosse affidato ai cacciatori di teste? Ipotesi da scartare, se è per “farmi portare uno che non ha quel tipo di esperienza”. Nulla da fare, i figli so’ pezzi ‘e core. I più bravi, i più preparati, i migliori.   Lo penseranno anche le famiglie di cui parla il rapporto Censis 2014 per le quali, però, in futuro è fatto di salite perché riserva “incertezza, inquietudine, ansia”. E il sentiment per gli anni a venire non anticipa prospettive di maggiore serenità: il 43,2% dei millennials (in età compresa tra 18-34 anni) si sente inquieto perché ha un retroterra fragile e il 26,6% in ansia perché privo di una rete di copertura. In sostanza, un sentiment senza diritto di successione garantito.

Censis, De Rita ci fa la morale poi assume suo figlio, scrive Elisabetta Ambrosi su “Il Fatto Quotidiano”. Sono anni che leggo i puntuali rapporti Censis con un misto di interesse e fastidio. Interesse: perché in questi anni i rapporti sulla realtà della società italiana sono gli unici a raccontarci come stanno veramente le cose, al di là degli slogan della politica. Ma anche profondo fastidio: perché le analisi della società italiana fatte dal Censis, e dal suo presidente Giuseppe De Rita, vengono servite sempre insieme a una interpretazione morale e spesso anche moralistica che poco dovrebbe entrare con qualsiasi ricerca scientifica, come uno dei fondatori della sociologia moderna, Max Weber, spiegava nel suo Il significato della avalutatività delle scienze sociologiche ed economiche. In questi anni ci siamo sorbiti, invece, ammonimenti sul soggettivismo dilagante, sulla mucillagine sociale, sull’individualismo che ha pervaso la società italiana, oltre che lezioni sul lavoro condite da esaltazioni della flessibilità, che Giuseppe De Rita spesso e volentieri impartiva – anche tramite le decine e decine di interviste a giornali – proprio facendo riferimento alla sua numerosa famiglia e ai suoi figli “precari” eppure allegri e fecondi come non mai. Sarebbe interessante sapere se la precarietà della sua numerosa prole coincida con quella di milioni di giovani italiani: e cioè non contratti a tempo determinato però con stipendi alti proprio dovuti al carattere transitorio del contratto – così dovrebbe essere,in un paese normale – ma co.co.co a poche migliaia di euro l’anno per i più fortunati, oppure lavori a partita Iva senza tutele di nessun tipo e con entrate talmente basse che spesso costringono chi la partita Iva l’ha aperta a chiuderla. Insomma la precarietà nera, quella che non ti consente di alzare la testa dalla bruta necessità, quella che, se non hai una famiglia alle spalle, ti fa diventare veramente povero e disperato. E soprattutto impossibilitato a farli, i figli. Ciò che sappiamo per certo, invece, è che mentre venivano snocciolati i dati dell’ultimo rapporto Censis, sulla società italiana in crisi, sulle imprese soffocate dalla crisi, sull’incertezza e le paure dilaganti, il figlio di Giuseppe De Rita succedeva al padre, divenendo direttore generale della Fondazione. Un fatto che in qualunque paese del mondo sarebbe apparso anomalo, così come il fatto che lo stesso De Rita padre sia stato presidente per trent’anni. Il Censis come una monarchia. Ma ciò che è ancora più strabiliante è la risposta data a il Fatto che gli ha chiesto se non vedesse un eclatante conflitto di interesse in questa successione dinastica. Anzitutto, il tono – irato e arrogante – e il linguaggio, persino volgare, insieme alla richiesta alla giornalista di fare domande pertinenti, come se la domanda non lo fosse. Ma soprattutto le argomentazioni: non ci sarebbe conflitto di interesse perché suo figlio è il migliore. Ma il migliore tra chi? C’è stato un concorso, un qualche tipo di gara? No, è il migliore perché lo dice suo padre quale, dopo aver detto che suo figlio è stato eletto dal Cda (che difficilmente poteva eleggere un candidato contro il presidente), si contraddice quando afferma: “Giorgio ha fatto un’ottima carriera, dove trovavo un altro con il suo curriculum? Dovevo chiamare una società di cacciatori di teste per farmi portare uno che non ha quel tipo di esperienza?”. Confermando così di essere stato lui a decidere. Il Censis è una “Fondazione riconosciuta con Dpr n. 712 dell’11 ottobre 1973, anche grazie alla partecipazione di grandi organismi pubblici e privati”, come si legge sul sito. Ci si chiede come mai non ci sia un codice etico, così come norme che vietano incarichi a vita e successioni tra padri e figli. Ma la domanda fondamentale resta un’altra: cosa dovrebbe pensare un comune cittadino italiano quando chi fa indagini sul presunto individualismo amorale degli italiani si comporta in questa maniera, assolutamente inopportuna e manifesto esempio di familismo, e non certo morale?  Sgomenta poi che per ogni padre pronto a piazzare suo figlio, ci sia un figlio pronto ad essere piazzato. Magari, tra trent’anni, farà succedere a se stesso suo figlio. Chi può dire che non sia il migliore? E se la logica è questa, si potrebbe continuare con l’intera stirpe dei De Rita, perché no? Già, perché no?

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL RISORGIMENTO E’ NATO IN CALABRIA, MA NESSUNO LO DICE.

Il Risorgimento è nato in Calabria: ma è un segreto, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Il 2 ottobre del 1847 cinque giovani patrioti italiani venivano fucilati a Gerace.(RC). Non troverete la loro storia nei libri di scuola. E’ una delle tante storie “rubate” alla Calabria.Nei libri trovano un giusto posto tutti i fatti che dettero vita al “Risorgimento” italiano: Brescia, “leonessa d’Italia”, Milano delle “cinque giornate”. Venezia, eroica che ha ceduto solo quando: “il morbo infuria , il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca”. Il “Balilla”, Pietro Micca, Tito Speri, Santorre di Santarosa, Daniele Manin, Enrico Toti, Silvio Pellico, Piero Maroncelli e i fratelli Bandiera, erano martiri e miti della nostra adolescenza. Noi calabresi invece eravamo un popolo senza storia. Così avevano deciso le classi dirigenti italiane e calabresi. Eppure Michele Bello, Pietro Mazzoni, Gaetano Ruffo , Domenico Salvadori , Rocco Verduci tutti della Locride, sono morti sui vent’anni, all’alba del 2 ottobre del 1847 ed  i loro corpi martoriati sono stati gettati nella fossa comune detta della “Lupa”. In quei tempi non c’era ancora la ‘ndrangheta ma c’erano già i processi sommari. E con un processo sommario, e notturno, i magistrati militari li avevano condannati a morte mentre altri patrioti furono condannati a scontare anni di galera…I giovani erano accusati di esser stati i capi d’una rivolta che il 3 settembre di quello stesso anno era partita dalla zona di Bianco(RC) spostandosi verso Catanzaro. Sventolavano il Tricolore al grido “W l’Italia, W la Costituzione, W Pio IX”. Negli stessi giorni Domenico Romeo di Santo Stefano di Aspromonte, a capo di una colonna di armati, entrava a Reggio Calabria issando il Tricolore sul castello aragonese. Appartenevano alla piccola borghesia rurale, ed a Napoli erano entrati in contatto con i fermenti politici e culturali dell’epoca. Respirarono ed assorbirono idee di democrazia, di libertà, di progresso. L’Ideale dell’Italia unita. I “moti” calabresi anticiparono di un anno il grande movimento rivoluzionario che avrebbe fatto tremare le monarchie assolute con il “Quarantotto”. Per una volta tanto la Calabria anticipava quello che poi sarebbe successo in Italia ed in Europa. Prima che Milano scrivesse col sangue la storia delle  “cinque giornate”, prima che Brescia diventasse la “Leonessa” la Locride si muoveva per l’Italia e per la Costituzione e cinque ragazzi pagavano con la vita il loro ardimento. Partirono in pochi diventarono centinaia. Formarono una specie di governo provvisorio che abolì le leggi più odiose che erano in vigore nel regno di Napoli: la tassa sul macinato, il divieto di prelevare acqua dal mare, l’imposta su generi di prima necessità e sui sali e tabacchi. Non si macchiarono di violenze. Lo stesso sopraintendente all’ordine pubblico nel distretto di Gerace, Bonafede, sebbene catturato non subì violenza alcuna. Il 6 settembre si diffondeva la notizia che a Messina la rivolta era stata repressa sul nascere e che a Reggio le cose si mettevano male: Domenico Romeo, animatore della rivolta, veniva decapitato. Contemporaneamente i rivoltosi apprendevano che una spedizione agli ordini del generale Nunziante stava per sbarcare nella Locride. Non c’erano le condizioni per resistere. I volontari furono congedati ed i capi della rivolta si diedero alla macchia. Dopo pochi giorni furano catturati, quindi processati e fucilati. Nella maestosa cattedrale normanna di Gerace, durante una funzione religiosa, seguita alla fucilazione, il vescovo della diocesi, monsignor Perrone, ebbe ad esultare per la morte dei cinque giovani, pronunciando le terribili parole: ” Moestitia nostra conversa est in gaudium”!!! La trepidazione dei giorni della rivolta si era trasformata in gioia per l’esecuzione dei cinque giovani. In questa frase del vescovo c’è tutta la codardia e la mancanza di dignità delle classi dominanti in Calabria. Quelle stesse classi che dopo la l’Unità d’Italia si trasformarono da borboniche in savoiarde pur di restare a galla. Perché i cinque martiri di Gerace non hanno trovato posto nella storia del Risorgimento? Per lo stesso motivo per cui anni più tardi liquideranno con la parola “brigantaggio” il movimento di “Resistenza” popolare che sé sviluppato nel Sud contro la tirannia delle vecchie classi dirigenti che cambiando casacca erano divenuti alleati dei Savoia. Per lo stesso motivo che ci fu vietato di raccontare e persino di ricordare le nostre case incendiate, i raccolti distrutti, le donne stuprate, i contadini fucilati. Può sembrare incredibile, ma la continuità dello Stato ha superato i secoli e segue ancora la stessa traiettoria: un “blocco d’ordine” garante di una lunga oppressione e che ha sempre un solo nemico: il popolo calabrese. Gli sconfitti non hanno storia. La sconfitta della Calabria, già duramente provata dal terribile terremoto del 1783, inizia già in quegli anni. Non eravamo terra per “vedette lombarde”. Il nostro posto nel libro “Cuore” che ha formato intere generazioni era quello del “ragazzo calabrese” timido e taciturno perché figlio di emigranti. Abbiamo raccontato la storia dei cinque martiri per dimostrare, qualora ce ne fosse bisogno, come noi calabresi siamo stati collocati ai margini della storia da un blocco di potere subalterno allo Stato centrale. Così noi, nella storia d’Italia vi entreremo solo come crudeli briganti, come emigranti, ed oggi come ndranghetisti. Il nostro impegno è quello di operare nel presente per creare il futuro ma contemporaneamente dobbiamo rivisitare la nostra storia per recuperare la nostra dignità di popolo.

L’ABIURA DEL PARTITISMO. LA MESCOLANZA E’ RICCHEZZA DI RISORSE, VALORI E TALENTI.

Croce e Silone: dobbiamo tanto a questi due signori! Scrive Gianni Letta su “Il Garantista”. Questo intervento è stato letto in occasione del Convegno ”Oltre Salerno: Benedetto Croce e Ignazio Silone e la loro attualità politica”  che si è appena concluso a Pescina il 27 e 28 settembre 2014.

"In risposta alla proposta di Fausto Bertinotti di «mescolare liberali e marxisti», una rilettura dell’opera di Benedetto Croce e Ignazio Silone che esalta il valore della libertà e della coscienza. Entrambi anticlericali, i due intellettuali italiani hanno attinto al cristianesimo, non solo come pensiero, ma come esperienza di popolo. Entrambi fecero uso della parola ”partitocrazia” – tanto cara a Marco Pannella – denunciando lo strapotere dei partiti e la politicizzazione dell’intera vita nazionale. Il presidente Fausto Bertinotti ha posto la questione in termini esistenziali. Lui da marxista sconfitto, davanti alla cultura liberale, davanti a Croce e a Silone, propone che (cito) «gli eredi di queste tradizioni dismettano ogni forma di autosufficienza». Suggerisce un metodo: «Bisogna provare a mescolarsi». Scopre nel pensiero liberale soprattutto di Croce: «una istanza di libertà della persona», che rivela essere l’apporto più prezioso del liberalismo alle sue domande esistenziali e politiche. Mi colpisce che questa conclusione, quella della rinuncia all’autosufficienza, e della purificazione reciproca, sia stata la medesima cui siano giunti insieme al termine di un memorabile dibattito a Monaco di Baviera, il 19 gennaio 2004, il filosofo della Scuola di Francoforte, Jurgen Habermas, “ateo metodico” e liberale di sinistra, e il futuro Papa Joseph Ratzinger. Rinunciare all’autosufficienza, purificarsi a vicenda. Bertinotti non trascura, «perché non è trascurabile», come onestamente dice, le culture politiche che fanno riferimento alla cultura cristiana e in particolare cattolica; ma dice che «il ‘900, da un punto di vista delle grandi opzioni culturali in Occidente, in realtà è stata la grande contesa tra gli eredi del pensiero liberale e gli eredi del pensiero marxista». Eppure io penso che parlando di Croce e Silone non si possa prescindere sia dal marxismo (che in modo diverso entrambi Silone e Croce hanno attraversato e a loro volta influenzato) sia e soprattutto dal cristianesimo, non solo come fatto di pensiero, ma come esperienza di popolo e di civiltà che pure ha entrambi segnato e che, alla fine, è inscindibile dalla loro opera e, volenti o nolenti, è passato nella loro eredità e ne fa parte forse in modo contraddittorio, ma la vita è anch’essa mescolanza di tante cose…Propongo allora la lettura di queste due immense personalità, dal dna abruzzese, secondo due principi forti che li uniscono:

1) l’amore per la libertà (quella che Bertinotti chiama «istanza di libertà insopprimibile»);

2) la coscienza individuale come bene assoluto.

Benedetto Croce. Comincio da Benedetto Croce. La libertà per Croce è la cifra del cammino della storia. Il suo storicismo assoluto non ammette trascendenza, il Dio della storia è immanente e ne costituisce la razionalità. Croce fu fortemente anticlericale, fino al punto da definire l’inserimento del Concordato con l’articolo 7 della Costituzione, «una sfacciata prepotenza pretesca». Lo aveva già avversato nel 1929, e in polemica con chi subordina la coscienza a qualcosa che qualcuno chiama ragion di Stato, disse in Senato: «Accanto o di fronte ad uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza.» Dunque getta il primato della coscienza sulla faccia della Chiesa. Eppure egli fa merito al Cristianesimo di aver fatto essere la “voce della coscienza” fondamento della civiltà. È quanto propose nel famosissimo breve saggio del 1942 Perché non possiamo non dirci ”cristiani”, che tutti citano, ma pochi hanno approfondito. Sin dal titolo: Cristiani è scritto tra virgolette, per significare che non pretende di ridurre l’essere cristiani alla adesione ai fondamenti di una civiltà, la fede è un’altra cosa rispetto al suo riflesso culturale che pure ha fondato la nozione di libertà e di coscienza. Il cristianesimo, leggo le parole di Croce, fu una rivoluzione «che operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità» che per merito di quella rivoluzione non può non dirsi ”cristiana”. «Gli uomini, gli eroi, i geni» che vissero prima dell’avvento del Cristianesimo «compirono azioni stupende, opere bellissime, e ci trasmisero un ricchissimo tesoro di forme, di pensiero, di esperienze» ma in tutti essi mancava quel valore che oggi è presente in tutti noi e che solo il Cristianesimo ha dato all’uomo». Certo, c’è tanto altro da imparare da Croce. E non possiamo ripercorrerli tutti gli insegnamenti fondamentali della sua straordinaria e indimenticabile “lezione”. Ma in una sede come questa, possiamo e dobbiamo fermarci sul concetto che lui ebbe di “onestà in politica”. Ne parlano tanti, anche qui, ma pochi ne colgono la portata polemica devastante. Arriva a definire il governo degli onesti, una ”utopia per imbecilli”. Trascrivo e leggo: «Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa della ”onestà” nella vita politica. L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta di areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese. Entrerebbero in quel consesso chimici, fisici, poeti, matematici, medici, padri di famiglia, e via dicendo, che avrebbero tutti per fondamentali requisiti la bontà delle intenzioni e il personale disinteresse e, insieme con ciò, la conoscenza e l’abilità in qualche ramo dell’attività umana, che non sia peraltro la politica propriamente detta: questa invece dovrebbe, nel suo senso buono, essere la risultante di un incrocio tra l’onestà e la competenza, come si dice, tecnica». [...] «Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici, per fortuna non ci è dato sperimentare, perché non mai la storia ha attuato quell’ideale e nessuna voglia mostra di attuarlo».[...] «Ma che cosa è, dunque, l’onestà politica” – si domanderà. L’onestà politica non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze». (da Etica e Politica, 1931) A proposito dell’invito fatto da Bertinotti alle diverse culture e tradizione di «provare a mescolarsi», mi soccorre Nicola Matteucci, il compianto filosofo che è stato in età contemporanea vero allievo e interprete di Croce liberale. Cito da una intervista uscita su Il Giornale del 1° luglio 1998 e che poi lui stesso volle fosse pubblicata in volume: «Certo Croce ora difenderebbe la Chiesa e i suoi interventi in fatto di morale. Il liberalismo si appoggia all’etica cattolica». L’intervistatore (Renato Farina) domanda: da dove viene a lei, caposcuola laico, una simile idea? «Io non sono né militante né credente. Resta nitido in me un ricordo. Federico Chabod mi mandò a chiamare. Giaceva sul suo letto di morte. Diceva di avere freddo, mi chiese una coperta. Capii, e lui sapeva, che erano le ultime ore. Mi accomiatò così: ”Adesso voglio morire nella religione dei miei padri”. Ho ritrovato questa posizione, che è razionale, e nient’affatto di comodo, oltre che in Croce, in Tocqueville e in Machiavelli. E specialmente in von Hayek». Insomma, il liberale si àncora alla religione. Risposta: «Noi partiamo dalla considerazione dell’individuo. Per il principio di reciprocità, se io riconosco il valore di me stesso devo concederlo a tutti. Da qui il no di molti laici all’aborto. E siccome l’uomo non è una macchina, il no alla fecondazione artificiale. La difesa della famiglia che ha permesso lo sviluppo della società in questi millenni.  Insomma, il liberale non è neutro dinanzi ai valori. Senza morale a cosa si ridurrebbe il liberalismo?». Un cattolicesimo senza Cristo è una povera cosa, però. «D’accordo. Cristo è unico. I cattolici devono ribadire che il fondamento della loro fede non è la morale. Ma i credenti permetteranno ai laici di abbeverarsi alla morale che ha costruito questa civiltà?». Comunque, i liberali si appoggiano alla Chiesa e alla sua morale proprio quando la seguono in pochi. «C’è quella pagina di Croce: lasciamo fare alla provvidenza. Sotto la crosta dell’apparenza, ci sono cose che non vediamo». (nel mio libro, Maestri, Piemme 2007)

Ignazio Silone. Cafoni e libertà: perseguitato come i cafoni, non rinuncia all’ideale e alla coscienza mai. Questo è stato ed è Silone per me. Amore verso il  popolo, da francescano anarchico. Per Ignazio Silone la lezione è identica, nella differenza di temperamento, a quella di Croce quanto ad essenza intellettuale:  il primato della coscienza e della libertà, dentro un fortissimo anticlericalismo, fino al punto di sentirsi attratto dall’esempio del papa abruzzese Celestino V, identificandosi con la sua solitudine davanti al potere ecclesiastico. Silone, a differenza di Croce, è passato dal tritacarne (e trita anima) di due persecuzioni. Quella fascista, che lo costrinse all’esilio in Svizzera,  e quella comunista, del comunismo stalinista, non in senso sovietico ma italiano: del comunismo togliattiano. Egli fu marxista, spinto dalla considerazione dello sfruttamento antico dei cafoni, del loro dolore senza redenzione. Contava nella rivoluzione comunista. Ma quello che lo allontanò dal marxismo fu il fatto che i suoi capi, proprio mentre difendevano in teoria la classe operaia e contadina, però erano incapaci di rispondere al bisogno di libertà della singola persona. “Quel singolo”, come volle scritto sulla sua lapide, Soren Kirkegaard, per Silone era una questione decisiva. Il popolo, il bene del popolo fatto da singoli, non come massa indistinta. In questo senso, anche lui non poté non dirsi cristiano, soprattutto al pensiero dell’incontro, protratto nel tempo che ebbe con Don Orione, fatto poi santo da Giovanni Paolo II. La differenza è tutta qui. Nell’esperienza di umanità diversa, di un valore diverso assegnato alla persona. Leggo da Vino e Pane. Il comunista è visto nel volto del genio Lenin. «La prima volta che lo vidi, a Mosca nel 1921, l’apoteosi era già cominciata. Lenin viveva, ormai, tra il mito e la realtà». «Ciò che mi colpì nei comunisti russi, anche in personalità veramente eccezionali come Lenin e Trotzkij, era l’assoluta incapacità di discutere lealmente le opinioni contrarie alle proprie. Il dissenziente, per il semplice fatto che osava contraddire, era senz’altro un opportunista, se non addirittura un traditore e un venduto. Un avversario in buona fede sembrava per i comunisti russi inconcepibile». Rimase disgustato da questa umanità senza umanità. Dall’odio manifestato poi da Togliatti verso gli insorti ungheresi nel 1956 che definì «di una volgarità e un’insolenza che la lingua italiana non aveva più conosciute dalla caduta del fascismo». La persecuzione fu assoluta, non solo da parte dei comunisti, ma ci fu un ostracismo generalizzato, perché osò porsi da socialista, a differenza di tutti gli intellettuali di sinistra, contro il Fronte popolare promosso anche da Nenni. La cultura italiana lo guardò sempre con sospetto. Benedisse i fascisti che si fecero comunisti, ma non gli antifascisti che scelsero l’anticomunismo da socialdemocratici e da liberali. Fu un liberale come Geno Pampaloni a scoprire in Italia quello che il mondo già sapeva, e cioè che Silone era un grandissimo scrittore. Nonostante le parole coraggiose di Carlo Bo i comunisti militanti non gli consentono di prendere parte al Premio Viareggio di quell’anno; significativa è la frase pronunciata dal presidente del premio letterario, Leonida Répaci che volle escludere dal concorso Uscita di sicurezza: «Non si può premiare un libro che offende la memoria di Togliatti». Molto più benevoli rispetto al passato si dimostrano invece i critici di ispirazione cattolica, che accolgono l’opera se non altro con compassata assenza di preconcetti. Così Silone ricorderà più avanti l’incontro con quello che definì «uno strano prete»: «Benché Don Orione fosse allora già inoltrato nella quarantina ed io un ragazzo di sedici anni, a un certo momento mi avvidi di un fatto straordinario, era scomparsa tra noi ogni differenza di età. Egli cominciò a parlare con me di questioni gravi, non di questioni indiscrete o personali, no, ma di questioni importanti in generale, di cui, a torto, gli adulti non usano discutere con noi ragazzi, oppure vi accennano con tono falso e didattico. Egli mi parlava, invece, con naturalezza e semplicità, come non avevo ancora conosciuto l’eguale, mi poneva delle domande, mi pregava di spiegargli certe cose e induceva anche me a rispondergli con naturalezza e semplicità senza che mi costasse alcuno sforzo». Propongo ora di riaccostarmi a Silone, attraverso alcuni suoi brani da Vino e Pane: «La libertà non è una cosa che si possa ricevere in regalo. [...] Si può anche vivere in un paese di dittatura ed essere libero, a una semplice condizione, basta lottare contro la dittatura. L’uomo che pensa con la propria testa e conserva il suo cuore incorrotto è libero. L’uomo che lotta per ciò che egli ritiene giusto, è libero. Per contro si può vivere nel paese più democratico della terra, ma se si è interiormente pigri, ottusi, servili, non si è liberi; malgrado l’assenza di ogni coercizione violenta, si è schiavi. Questo è il male, non bisogna implorare la propria libertà dagli altri. La libertà bisogna prendersela, ognuno la porzione che può. [...] Carne avvezza a soffrire, dolore non sente.  [...] In ogni dittatura un solo uomo, anche un piccolo uomo qualsiasi, il quale continui a pensare con la propria testa, mette in pericolo l’ordine pubblico. Tonnellate di carta stampata propagano le parole d’ordine del regime; migliaia di altoparlanti, centinaia di migliaia di manifesti e di fogli volanti distribuiti gratuitamente, schiere di oratori su tutte le piazze e i crocicchi, migliaia di preti dal pergamo ripetono fino all’ossessione fino all’istupidimento collettivo, quelle parole d’ordine. Ma basta che un piccolo uomo, un solo piccolo uomo dica NO, e quel formidabile ordine granitico è in pericolo. (Impressionante qui notare la coincidenza con quanto espresso dal grande drammaturgo ceco Vaclav Havel, poi presidente della Repubblica, nel suo testo Il potere dei senza potere)[...] La forza della dittatura è nei muscoli, non nel cuore. [...]». E sul suo amore per i ”cafoni”: «Tutto quello che m’è avvenuto di scrivere, e probabilmente tutto quello che ancora scriverò, benché io abbia viaggiato e vissuto a lungo all’estero, si riferisce unicamente a quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui. È una contrada, come il resto d’Abruzzo, povera di storia civile, e di formazione quasi interamente cristiana e medievale. Non ha monumenti degni di nota che chiese e conventi. Per molti secoli non ha avuto altri figli illustri che santi e scalpellini. La condizione dell’esistenza umana vi è sempre stata particolarmente penosa; il dolore vi è sempre stato considerato come la prima delle fatalità naturali; e la Croce, in tal senso, accolta e onorata. Agli spiriti vivi le forme più accessibili di ribellione al destino sono sempre state, nella nostra terra, il francescanesimo e l’anarchia» (testimonianza raccolta da Indro Montanelli, I Protagonisti, 1976).

Partitocrazia. Vorrei a questo punto proporre, in onore specifico di Marco Pannella, e come omaggio alla sua storica battaglia, una parola che accomunò a distanza Benedetto Croce e Ignazio Silone. Una parola che è stato il grido di battaglia di Marco per tanti anni: partitocrazia. Infatti il primo grande pensatore italiano che usò questa parola con forte intenzione è stato Benedetto Croce. Essa, a differenza della vulgata comune che l’attribuisce a Giuseppe Maranini, che ne fece il perno del suo pensiero e se ne auto-attribuì l’invenzione, era stata introdotta da Roberto Lucifero, cugino del più famoso ministro della Real Casa Falcone Lucifero, nel 1944, esponente monarchico liberale e partigiano nel libro Introduzione alla libertà. Ma a noi qui interessa notare che Croce la usa in una lettera ad Alessandro Casati del 7 giugno del 1948 con queste parole: «La partitocrazia e l’origine delle assemblee dalla proporzionale… continuano a dare i loro frutti, insidiando e corrompendo la libera vita parlamentare». (in Nuove pagine sparse, 1° volume, pp 435-6, Laterza, 1966). Croce riteneva che fossero due i fattori di corruzione della libera vita parlamentare, insomma: lo strapotere dei partiti, ma anche il sistema proporzionale con preferenze! Anche Ignazio Silone partecipando dal 6 all’11 ottobre 1958 ad un seminario dal titolo ”Governi rappresentativi e libertà pubbliche nei nuovi stati”, lancia un forte segnale alla politica italiana, e inizia la sua ”battaglia” ideale contro i partiti e la politicizzazione dell’intera vita pubblica nazionale. Silone inizia a parlare già allora di “regime partitocratico” «dato che il vero centro del potere reale è fuori dal parlamento, negli Esecutivi dei partiti, sarebbe più esatto dire che noi viviamo in un regime di partitocrazia». Insomma, ho finito un po’ prosaicamente, ma anche la denuncia della partitocrazia è in nome della libertà e dell’individuo. Quello che tutti noi apprezziamo in Marco Pannella!

MAFIA E TERRORISMO DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA. L’ITALIA CODARDA ED IL PATTO CON IL DIAVOLO. MEGLIO PAGARE IL PIZZO.

La trattativa tra Stato italiano e Cosa nostra (o trattativa stato-mafia), scrive Wikipedia, è una intrattenuta negoziazione tra lo Stato italiano e la mafia che si è sviluppata in seguito alla stagione delle bombe del '92 e '93 per giungere ad un accordo; oggetto ipotizzato dell'accordo sarebbe stato la fine della stagione stragista in cambio di un'attenuazione delle misure detentive previste dall'articolo 41 bis. L'ipotesi è oggetto di indagini giudiziarie e inchieste giornalistiche. La supposta trattativa è stata ritenuta riscontrata nella motivazione della sentenza del processo a Francesco Tagliavia per le bombe del '92 e '93. Secondo quella sentenza l'iniziativa per la trattativa "fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia". Ad oggi tale negoziazione non è stata definitivamente e chiaramente dimostrata, anzi risulta corrente oggetto di diverse inchieste, per le quali sono stati indagati diversi esponenti di Cosa nostra come Totò Riina e Bernardo Provenzano, alcuni politici tra i quali l'ex senatore del Pdl Marcello Dell'Utri, il suo ex socio in affari il finanziere Filippo Alberto Rapisarda, il deputato ed ex ministro democristiano Calogero Mannino nonché alcuni appartenenti alle forze dell'ordine come il generale dei carabinieri e capo del ROS Antonio Subranni l'allora colonnello Mario Mori e il suo braccio destro al ROS, il capitano Giuseppe De Donno che disse: "Decidemmo di contattare in qualche modo la mafia attraverso Vito Ciancimino per fermare le stragi, ma non ci fu nessuna trattativa". Molti sostenitori dell'ipotesi indicano che la trattativa sia avvenuta nel periodo tra la morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e che quest'ultimo possa essere stato assassinato anche perché veniva considerato un ostacolo alla trattativa tra Stato e mafia, secondo le rivelazioni ancora da accertare di Gaspare Spatuzza e di Giovanni Brusca.

«Trattativa Stato-mafia era lecita». Uno storico e un giurista «contro» i pm. Il libro di Salvatore Lupo e Giovanni Fiandaca: «Far cessare le stragi era uno stato di necessità», scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Lo storico la mette così: nella primavera del 1992, dopo l’omicidio Lima e la strage di Capaci, lo Stato era sotto scacco e la mafia procedeva dritta sulla strada del terrorismo. In quel drammatico momento, all’interno delle istituzioni «qualcuno può avere avviato, più o meno autonomamente, trattative con la leadership dell’organizzazione mafiosa, o con qualche sua fazione, o qualche suo satellite... Il reato di trattativa non esiste, e per fortuna». Niente di strano, insomma. Il giurista ritiene che di fronte a una simile emergenza si possa invocare addirittura lo «stato di necessità», che giustificherebbe «eventuali interventi o decisioni extralegem del potere esecutivo»; fermo restando il bilanciamento costi-benefici, «la scelta politico-governativa di fare concessioni ai mafiosi in cambio della cessazione delle stragi risulterebbe legittima perché legittimata, appunto, dalla presenza di una situazione necessitante che impone agli organi pubblici di proteggere la vita dei cittadini». Farà discutere il doppio saggio che Salvatore Lupo (lo storico) e Giovanni Fiandaca (il giurista) hanno scritto per gli Editori Laterza, significativamente intitolato La mafia non ha vinto - Il labirinto della trattativa , (pagg. 154, euro 12,00). Perché al netto delle digressioni accademiche, dei tanti distinguo e dei dubbi tra cui gli stessi autori si muovono per arrivare alle proprie conclusioni, la tesi del libro è che il processo in corso a Palermo sul presunto «patto occulto» tra lo Stato e Cosa nostra non sta in piedi. È sbagliato sul piano giuridico e per la visione storico-politica da cui prende le mosse. Una tesi netta, argomentata con analisi approfondite naturalmente suscettibili di obiezioni (qualcuna non infondata), destinata a provocare ulteriori polemiche intorno al dibattimento che vede alla sbarra — uno di fianco all’altro, accusati di essere autori e complici del ricatto mafioso — boss del calibro Riina, Brusca e Bagarella, ex carabinieri come i generali Mori e Subranni ed ex esponenti politici come Mannino e Dell’Utri, (più l’ex ministro Mancino imputato di falsa testimonianza). Frutto di un’inchiesta che ha provocato divisioni e conflitti, anche istituzionali, senza precedenti. Ci sarà chi accuserà gli autori di delegittimare la magistratura, e chi li utilizzerà per delegittimarla (com’è successo per un altro saggio del professor Fiandaca sul medesimo argomento), mentre sarebbe bene leggere il libro «laicamente», e dibatterne senza pregiudizi né strumentalizzazioni, da una parte o dall’altra. Non sarà facile, anche perché è Fiandaca ad accusare gli inquirenti palermitani di un «pregiudiziale atteggiamento criminalizzatore» ispirato da «una sorta di avversione morale» verso «ipotesi trattattivistiche» che sono prerogativa del potere esecutivo, senza necessità di un previo assenso dell’autorità giudiziaria. Vero è che «interessi tutt’altro che nobili e aspetti di forte ambiguità hanno contribuito a rendere poco chiaro e poco trasparente lo scenario di allora», ma resta la domanda di fondo: «Ciò è sufficiente per escludere la possibile liceità di concessioni a Cosa nostra, trasformando negoziatori istituzionali operanti a fin di bene in una banda di delinquenti in combutta con la mafia?». La risposta del giurista è no. Anche perché — sostiene — ammesso che la mancata proroga di oltre 300 decreti di «carcere duro» per altrettanti detenuti «non di primaria grandezza» fosse una concessione a Cosa nostra per evitare nuove stragi (l’unica concreta, nei fatti), fu comunque un atto «di discrezionalità politica» dell’allora Guardasigilli Conso, «insindacabile penalmente». Sia che il ministro l’abbia assunta «in piena solitudine», come afferma, sia che abbia aderito a mirati suggerimenti, come ipotizza l’accusa: «La decisione rimane giuridicamente legittima in entrambi i casi. Altra cosa sono le valutazioni politiche o di opportunità». Alle quali si dedica il professor Lupo: il ministro della Giustizia aveva pieno diritto di concedere quelle «aperture» senza venire meno ai propri doveri, e «agì comunque nell’ambito delle sue competenze, scegliendo tra due alternative per cui militavano buoni argomenti». Lo storico concede che da alcuni messaggi fatti filtrare dai capimafia ai loro gregari si arguisce che «la trattativa c’è stata, solo che purtroppo (per i boss, ndr ) qualcuno si è rimangiato la parola». Verità o millanteria che fosse, argomenta Lupo, non c’è scandalo: il piano storico-politico non va confuso con quello etico né tantomeno con quello giudiziario; non a caso, quando ai tempi del caso Moro ci fu chi tentò trattative coi brigatisti, nessuno s’immaginò di imbastire processi. Al cattedratico non interessa contestare i magistrati, quanto mettere in guardia da una visione complottistica che instilli nell’opinione pubblica l’idea che fu commesso qualcosa di losco, e oggi il complotto si rinnova perché non venga fuori. Il giurista, invece, si concentra sul reato inserito nel capo d’imputazione (violenza o minaccia a un corpo politico), definito un «espediente giuridico» teso a «colorare indirettamente di criminosità la stessa trattativa». Tanto più, insiste Fiandaca, che la sede competente non sarebbe Palermo, nonostante su questo punto si siano già pronunciati, dopo i pubblici ministeri, il giudice dell’udienza preliminare e la Corte chiamata a celebrare il processo. Che non si sarebbe dovuto nemmeno aprire perché, fanno capire gli autori anche dal titolo del libro, lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. Senza più tornare ai fasti sanguinosi del tempo delle stragi. Anche questo proverebbe che certi comportamenti di vent’anni fa avevano buone ragioni; non «di Stato», bensì di salvaguardia delle «persone in carne ed ossa». Scelte che non si possono giudicare in un’aula di giustizia, sostengono Lupo e Fiandaca. Pena lo scadimento nell’«uso politicamente antagonista della giustizia penale» e nel «populismo giudiziario» da cui discende la demonizzazione di ogni critica, anche giuridicamente motivata, bollata come «attacco sferrato dai nemici della verità». Ce n’è abbastanza per alimentare il dibattito intorno a quel che accadrà, di qui in avanti, nell’aula della Corte d’assise di Palermo.

«La Trattativa Stato-mafia era necessaria», scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. I due intellettuali Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo, arrivano a invocare uno «stato di necessità» in un saggio controverso «La Trattativa Stato-mafia era necessaria». C’è chi, come la procura di Palermo, tenta di ricostruire la verità su quel patto segreto tra Cosa Nostra e pezzi deviati delle istituzioni, a cavallo tra la stagione stragista del ’92-’93. Nelle vesti dell’accusa nel processo sulla trattativa Stato-mafia, dopo essere riuscita a portare nella stessa aula boss, politici e vertici delle forze dell’ordine, nonostante vent’anni di silenzio e depistaggi. Ci sono poi le «Scorte civiche», quei cittadini riuniti in presidio simbolico che continuano a manifestare la propria solidarietà nei confronti dei magistrati minacciati e al pm Nino Di Matteo, vittima dell’ordine di morte partito dal “Capo dei Capi”, Totò Riina, dal carcere di Opera. Ma c’è anche chi, al contrario, preferisce portare avanti il «processo al processo», insistendo nel delegittimare l’impianto accusatorio del pool palermitano. È il caso degli autori del saggio «La mafia non ha vinto», il giurista Giovanni Fiandaca e lo storico Salvatore Lupo: un testo che tenta di smontare il processo in corso, sostenendo come i comportamenti sotto accusa non costituiscano reato, che Cosa Nostra non sia stata salvata e che le tesi dei pm della procura palermitana non reggano. Ma non solo. Nel saggio pubblicato dalla casa editrice Laterza si arriva fino a giustificare la trattativa stessa. Invocando un presunto «stato di necessità», in un periodo in cui l’Italia era sotto choc per lo stragismo, che renderebbe leciti «eventuali interventi o decisioni extralegem del potere esecutivo». Per Salvatore Lupo, fermo restando il bilanciamento costi-benefici, «la scelta politico-governativa di fare concessioni ai mafiosi in cambio della cessazione delle stragi risulterebbe legittima, perché legittimata, appunto, dalla presenza di una situazione necessitante che impone agli organi pubblici di proteggere la vita dei cittadini». In pratica, una trattativa “a fin di bene”, per “tutelare” gli italiani. E non quei politici democristiani (e non solo) finiti, insieme a Salvo Lima, nella blacklist mafiosa, che Cosa Nostra accusava di aver tradito promesse e attese in seguito alla conferma delle pesanti condanne del maxiprocesso: da Calogero Mannino a Claudio Martelli, fino ai figli di Andreotti, secondo il racconto del pentito Gioacchino La Barbera (lo stesso che ha svelato anche come il tritolo fosse pronto anche per l’attuale presidente del Senato Pietro Grasso, allora procuratore, ndr). Non si capisce però in che modo la trattativa avrebbe dovuto tutelare i cittadini, dato che oltre alle stragi di Capaci e Via d’Amelio che costarono la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, seguirono nel ’93 altre bombe, tra gli attentati di via Fauro a Roma, via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano e le auto-bombe di fronte alle basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano nella Capitale. In totale, 15 morti e decine di feriti. Ma non è l’unica tesi controversa del saggio – definita dalla Laterza «sorprendente, uno sguardo nuovo su un processo ricco di ambiguità, coni d’ombra e nodi tecnici da sciogliere» – capace di scatenare reazioni indignate soprattutto tra i parenti delle vittime, che l’hanno interpretata come un nuovo attacco al pool di Palermo. Una teoria poi bollata e attaccata con l’epiteto di «grande monnezza» dal vicedirettore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, già in passato scontratosi con il giurista Fiandaca (che sul Foglio aveva etichettato come una “boiata pazzesca” il processo sulla trattativa). Nonostante le polemiche partite dopo le anticipazioni del saggio pubblicate dal Corriere della Sera, la Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha pensato di invitare il co-autore Fiandaca a presentare le sue teorie di fronte ai parlamentari,  scatenando le proteste in rete di diverse associazioni antimafia, che hanno spiegato di ritenere «inopportuno il suo intervento, mentre è in corso il processo che proprio quella trattativa ha per oggetto» nell’aula bunker dell’Uccciardone a Palermo. Non è la prima volta che Fiandaca accusa il pool palermitano e critica il processo sulla trattativa. Eppure, se prima questa veniva spacciata per “presunta”, nonostante sentenze giudiziarie (come quella che ha condannato all’ergastolo il boss di Brancaccio Francesco Tagliavia per la strage di via dei Georgofili a Firenze, dove si spiega che «indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des», oltre che «assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia», ndr), le dichiarazioni a verbale di Mori e De Donno, testimonianze di pentiti che la confermano, nel saggio c’è un cambio di prospettiva, seppur tra perifrasi e perplessità. La trattativa viene ammessa nel volume («Qualcuno può avere avviato, più o meno autonomamente, trattative con la leadership dell’organizzazione mafiosa, o con qualche sua fazione, o qualche suo satellite…»), ma si azzarda la teoria secondo cui la decisione di venire a patti con i mafiosi in cambio della cessazione delle stragi risulterebbe legittima, perché legittimata «dalla presenza di una situazione necessitante che impone agli organi pubblici di proteggere la vita dei cittadini». Fiandaca invoca uno «stato di necessità» , allontanando i paragoni con la «categoria obsoleta della ragion di Stato» (dato che, secondo lui, «eventuali deroghe alla legalità formale, decise e a livello governativo, avrebbero come motivazione […] il perseguimento di un fine salvifico, il contrasto al pericolo incombente di danni gravi alle persone in carne e ossa») e spiegando come, con lo Stato sotto scacco, «l’iniziativa di Mori e De Donno di contattare Ciancimino poteva essere anche a posteriori considerata come «meritoria e coraggiosa». Oltre che «nemmeno biasimevole o illecita, neppure se – come sostiene l’accusa – fosse stata sollecitata da Mannino». Anche perché, a suo dire, risulta «non incompatibile con il complessivo quadro giuridico» e giustificabile, «in particolare per un organismo come il Ros, qualche forma di attività investigativa borderline o non completamente in linea con regole procedurali formalisticamente interpretate». In pratica, tutto viene minimizzato e legittimato. Con buona pace delle vittime della stagione stragista, continuata anche nel 1993, come già ricordato.  «Mi pare che accettare l’idea dell’opportunità di un tentativo di dialogo con l’organizzazione mafiosa possa aprire a scenari incerti e indefiniti, in cui si rischia di accettare che la mafia diventi una controparte, o addirittura un interlocutore», ha replicato il pm Di Matteo. Mentre, di fronte alle giustificazioni di Lupo e Fiandaca, è stata Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’”Associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili” a spiegare: «Dire questo è un fatto gravissimo, dovrebbe generare la rabbia di tutti i familiari che hanno perso qualcuno in quelle stragi. C’è la volontà di dare un’immagine pulita di quella parte di storia che noi non possiamo accettare, di far passare la trattativa e le stragi che ne sono conseguite come un bene. Non senza aggiungere come «non solo di trattativa, ma anche di concorso in strage si è macchiato lo Stato». Nel saggio i due docenti dell’Ateneo palermitano bocciano in generale il processo sulla trattativa – che vede coinvolti capimafia come Riina e Bagarella, pentiti come Brusca, ex carabinieri come i generali Mori e Subranni ed il colonnello De Donno, ex esponenti politici come Mannino e Dell’Utri, oltre al figlio di Don Vito, Massimo Ciancimino (c’è anche l’ex ministro Mancino, imputato di falsa testimonianza ai pm) –, considerandola come un errore giuridico. Un processo che non andava realizzato. Fiandaca accusa gli inquirenti palermitani di un «pregiudiziale atteggiamento criminalizzatore», motivato da «una sorta di avversione morale nei confronti di ogni ipotesi di calcolo costi/benefici» e verso «ipotesi trattattivistiche». E attacca un impianto accusatorio che, a suo dire, trasformerebbe «negoziatori istituzionali operanti a fin di bene in una banda di delinquenti in combutta con la mafia». Ma non solo. Fiandaca cerca anche di smontare l’impianto giudiziario sul quale si basa il processo, ribandendo come il reato di trattativa non esista. Una cosa chiara in realtà anche ai pm di Palermo, dato che l’accusa che pesa sulla maggior parte degli imputati è di «minaccia a corpo politico dello Stato (art. 338 Codice penale)», punito con la reclusione da uno a sette anni. Ma per Fiandaca il capo d’imputazione scelto – sbagliato secondo il giurista perché, essendo il governo un organo costituzionale, i pm di Palermo avrebbero dovuto scegliere l’art.289 – sarebbe soltanto un «espediente giuridico», con l’obiettivo di «colorare indirettamente di criminosità la stessa trattativa». Ma se un giudice terzo come il gup Piergiorgio Morosini ha deciso, su richiesta dei pm, di rinviare a giudizio gli indagati, significa che ha ritenuto gli elementi a carico degli imputati idonei a sostenere un’accusa in giudizio. Dovrà poi essere il processo stesso a cercare di dimostrare se la trattativa, certa e non presunta, implichi il reato di “violenza o minaccia a corpo dello Stato”, come ipotizzato dal pool di Palermo. Fiandaca e Lupo sostengono poi che la mancata proroga dei 334 decreti di «carcere duro», tra il ’93 e il ‘94 – che secondo i due docenti ha coinvolto soltanto detenuti «non di primaria grandezza» – , anche qualora fosse stata una concessione a Cosa nostra per evitare nuove stragi, andrebbe interpretata come un atto «di discrezionalità politica» dell’allora Guardasigilli Conso. «Insindacabile» dal punto di vista penale, in ogni caso: sia se la scelta fosse stata fatta in autonomia, come si è sempre difeso l’ex ministro della Giustizia, sia se seguito a determinati suggerimenti, come sostiene l’accusa. Secondo il professor Lupo, Conso aveva il diritto di poter concedere quelle «aperture», senza venire meno ai propri doveri:  «Agì comunque nell’ambito delle sue competenze». Ma Conso è indagato per falsa testimonianza dai pm (il codice penale prevede che per questo tipo di reato la posizione resti sospesa, in attesa della definizione del procedimento principale, ndr), non certo per l’inesistente reato di trattativa o per le sue scelte politiche. Allo stesso modo è stato l’ex procuratore aggiunto e titolare dell’inchiesta, Antonio Ingroia, sul reato contestato, a precisare, intervistato da Antimafia 2000, come il processo preveda tra gli imputati sia i mafiosi che hanno minacciato lo Stato per ottenere dei benefici che i pezzi dello Stato che hanno favorito Cosa Nostra nel portare a destinazione la minaccia e a beneficiarne dei risultati. Con tanto di paragone: «Nessuno è imputato in questo processo per il solo fatto di avere trattato con la mafia. [..] C’è una giurisprudenza di Cassazione, ormai consolidata, che sancisce che alla pari dell’estortore nei confronti del commerciante risponde dello stesso reato il concorrente in estorsione e cioè colui che svolge il ruolo di intermediario tra l’estortore e l’estorto. Nella misura in cui l’intermediario aiuta l’estortore a portare a compimento l’estorsione nei confronti del commerciante. Il commerciante – che è la vittima dell’estorsione – ha l’obbligo di dire la verità, e se non dice la verità viene incriminato per falsa testimonianza. E’ esattamente quello che abbiamo applicato nel processo in questione. Anche in questo caso – con le dovute specifiche – abbiamo il mafioso “estortore” che ha messo in atto un’estorsione di tipo politico-criminale; l’imprenditore viene rappresentato dallo Stato e dal Governo, mentre gli intermediari sono quegli uomini politici e quelli degli apparati che hanno svolto un ruolo di intermediazione. Quindi gli intermediari, così come rispondono di concorso in estorsione, per principio di uguaglianza devono rispondere di concorso nel reato specifico di minaccia nei confronti dello Stato. Il destinatario finale della minaccia, rappresentante del Governo, ha l’obbligo di dire la verità, se non la dice viene imputato di falsa testimonianza come è il caso di Nicola Mancino e di Giovanni Conso. [..] Chi aiuta il minacciante risponde di concorso alle minacce. Di fatto, queste sono le imputazioni che riguardano i mafiosi del calibro di Riina, così come gli stessi Mori, De Donno, Subranni, Dell’Utri e Mannino». Ma non solo Lupo e Fiandaca considerano la trattativa come legittima. Secondo loro Cosa Nostra non avrebbe vinto e contestano i benefici che lo Stato «avrebbe effettivamente concesso a Cosa Nostra come risultato della presunta trattativa». Oltre alla questione della già citata mancata proroga sul 41bis da parte di Conso, per il giurista «non risultano altre forme di concessioni riconducibili a singoli ministri o al governo nel suo insieme». Tanto da azzardare: «La montagna avrebbe partorito un topolino?». Peccato che le “concessioni” negli anni invece ci siano state. Lo stesso regime carcerario 41 bis è stato di fatto svuotato negli anni. Ma non solo.  Il papello di Riina è stato esaudito anche in altri punti. Come sulla chiusura delle super-carceri di Pianosa e Asinara. E sulla riforma della legge sui pentiti, quella del 2001 Fassino-Napolitano, che di fatto ha reso sconveniente per un mafioso collaborare con la giustizia (ai tempi dell’approvazione non mancarono le critiche. Lo stesso Pietro Grasso spiegò come la nuova normativa fosse disincentivante:  «Con questa legge, se fossi un mafioso, non mi pentirei più», spiegò). Senza dimenticare i capitali mafiosi rientrati in modo “pulito” dall’estero grazie ai diversi scudi fiscali. Altro che «topolino». Se per Lupo, «la trattativa c’è stata, solo che purtroppo (per i boss, ndr) qualcuno si è rimangiato la parola», in realtà i fatti dimostrano ben altro. Senza dimenticare quegli altri tentativi non andati in porto, come per la revisione delle sentenze passate in giudicato, che avrebbe permesso di rimettere in discussione le sentenze del maxi-processo. Non certo comunque indizi di una vittoria dello Stato. Ne è convinto anche Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo fatto saltare in aria il 19 luglio 1992 nella strage di Via D’Amelio, insieme agli uomini della scorta (Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi). Secondo la ricostruzione della procura di Palermo, proprio perché aveva scoperto e si era opposto a quell’accordo maledetto tra i vertici mafiosi e quello Stato che aveva abdicato al suo ruolo, venendo a patti. Una versione però smontata dai giudici palermitani che hanno assolto in primo grado i militari dell’Arma Mario Mori e Mauro Obinu dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia, «perché il fatto non costituisce reato», sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano nell’ottobre 1995 a Palermo. Per il Tribunale di Palermo «resta senza riscontro l’eventualità che Paolo Borsellino abbia in qualche modo manifestato la sua opposizione ad una trattativa in corso fra esponenti delle Istituzioni statali e associati a Cosa Nostra”. Mancano le prove, secondo i giudici. Una sentenza che rischia di mettere un’ipoteca pesante anche sullo stesso processo in corso sulla trattativa, considerato come Mori, secondo i pm, non avrebbe arrestato il boss per onorare il patto siglato nel ’92 tra pezzi dello Stato e la mafia. Nelle motivazioni i giudici di Palermo ammisero gravi errori investigativi, attendismo e aspetti opachi, ma non configurano patti. “Si deve rilevare che, benché non manchino aspetti che sono rimasti opachi, la compiuta disamina delle risultanze processuali non ha consentito di ritenere adeguatamente provato – aldilà di ogni ragionevole dubbio – che le scelte operative in questione, giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Bernardo Provenzano o di ostacolarne la cattura. Ne consegue che i medesimi devono essere mandati assolti con la formula perché il fatto non costituisce reato, che sembra al Tribunale quella che più si adatti alla concreta fattispecie”, scrissero i giudici. Di Matteo, invece, annunciò di voler fare ricorso: «Sono un magistrato e quindi rispetto la sentenza anche se non la condivido in nessuno dei suoi punti», spiegò. Di recente c’è stato anche uno scontro tra i pm di Palermo e la Direzione nazionale antimafia: il pool siciliano ha interpretato come un “intervento a gamba tesa” le perplessità segnalate dal consigliere Maurizio De Lucia nell’ultima relazione annuale sull’impostazione del processo. Soltanto l’intervento del capo Franco Roberti («Nessun intento critico. La Dna, senza volersi ingerire nelle scelte processuali, ha inteso soltanto evidenziare la complessità del processo») ha evitato che le polemiche degenerassino. Secondo Salvatore Borsellino, contattato da Giornalettismo, diversi sono i tentativi per «fermare il processo» sulla trattativa in corso a Palermo e per delegittimarlo. Non solo gli interventi di alcuni intellettuali, compresi Salvatore Lupo e Giuseppe Fiandaca. Come dimenticare anche le critiche di Pino Arlacchi, sociologo ed europarlamentare (ex Idv, poi Pd) che ha bollato in un’intervista con Panorama come un’«allucinazione» senza «una sola prova seria» la trattativa Stato-mafia, prevedendo che il processo «si concluderà con il totale flop dell’inchiesta di Antonio Ingroia e soci». Lo stesso Arlacchi che poco tempo prima, come testimone nel 2009 di fronte ai pm di Caltanissetta, sposava le tesi della Procura di Palermo. Contro il saggio che giustifica la trattativa Salvatore Borsellino usa toni forti: «Certe tesi non ho nemmeno voglia di leggerle. In questo momento in Italia si vuole impedire in ogni modo che il processo vada avanti. C’è un’azione concentrica contro il pool di Palermo», ha spiegato, contestando le tesi portate avanti nel saggio. «La mafia non ha vinto? Questa tesi non ha alcun senso. Nel nostro paese continuiamo a pagare le cambiali di una trattativa che non è costata soltanto la vita a mio fratello, bensì anche ad altre vittime innocenti, come quelle morte in via Palestro e in via dei Georgofili. Stragi fatte per alzare il prezzo di quell’accordo e per concludere la trattativa (secondo i pm la trattativa nel ’94 fu conclusa «con le garanzie assicurate dal duo Dell’Utri-Berlusconi, come emerge dalle convergenti dichiarazioni dei collaboratori Spatuzza, Brusca e Giuffrè», ndr)», ha spiegato Borsellino. Nonostante la  denuncia per vilipendio nei confronti del capo dello Stato Giorgio Napolitano, fatta alcuni mesi fa nei suoi confronti da Vittorio Sgarbi, Borsellino ha rilanciato le critiche contro il presidente della Repubblica: «Il suo settennato è stato rinnovato proprio perché è il garante di quel silenzio sulla trattativa. Una congiura che dura da vent’anni. Oggi che c’è il rischio che certe cose vengano alla luce, si sta cercando di giustificare quel patto scellerato come se fosse stato necessario per una ragion di Stato», ha attaccato. Oppure, come hanno spiegato Fiandaca e Lupo nel loro saggio, secondo un presunto «stato di necessità», a “fin di bene”: «Ma affermare questa tesi è come uccidere di nuovo le vittime che la trattativa stessa ha prodotto. Un’offesa alla loro memoria», ha spiegato. Per Borsellino i «prodromi della giustificazione della trattativa» e della delegittimazione del processo si sono potuti già intravedere. Anche con la contestata sentenza sul processo Mori. « È stato deciso in primo grado che il fatto, la mancata cattura di un latitante, c’è stato, ma non costituisce reato. Una sentenza preparatoria. Sono sicuro che anche in futuro si dirà lo stesso per il processo sulla trattativa: c’è stata, ma non costituisce reato il fatto che pezzi dello Stato siano venuti a patti con Cosa Nostra, elevandola al rango di interlocutore, come fosse uno Stato parallelo».  Secondo Borsellino i tentativi di attaccare il processo sono continui: «Ci stanno tentando delegittimando i testimoni, così come cercando di mettere sotto stress il principale attore di quel processo, Nino Di Matteo. A lui si concedono quei mezzi di protezione appariscenti, ma insufficienti per fermare gli attentati. Tant’è vero che con una scorta potenziata sono stati uccisi sia mio fratello che Giovanni Falcone. Al contrario, si continua a contestare il suo operato». Polemiche aveva suscitato anche l’istanza di rimessione presentate dai legali di Mori, Subranni e De Donno per chiedere il trasferimento del processo, insieme alla richiesta di sospendere il processo. Fondata, secondo la difesa dei tre imputati su una serie di elementi (dalle minacce di Totò Riina, agli anonimi giunti alle Procure di Palermo e Caltanissetta, all’incursione in casa del pm Roberto Tartaglia, tra i magistrati del pool palermitano, ma anche la creazione delle “Scorte civiche” in difesa simbolica dei magistrati) che a loro dire dimostrerebbe che lo svolgimento del dibattimento nel capoluogo siciliano creerebbe pericolo per l’incolumità pubblica, con il rischio di influenze anche sull’intero ambiente giudiziario di Palermo e sulla serenità dei giudici popolari. «Hanno cercato di strumentalizzare anche l’appoggio dell’opinione pubblica con le Scorte civiche ai pm per chiedere lo spostamento del dibattimento. Ma non si capisce che senso avrebbe questa istanza, dato che lo Stato non riesce ad assicurare la sicurezza di questi magistrati nemmeno fuori da Palermo. Tanto che a Di Matteo è stato impedito di andare a Torino, dove era stato invitato a una manifestazione, per ragioni di sicurezza, così come gli è stato sconsigliato di andare a Milano per seguire l’udienza, sempre per lo stesso motivo» (fu il procuratore Francesco Messineo a spiegare l’assenza, motivandola con la «necessità che i magistrati sottoposti a tutela non siano troppo abitudinari»: «Variare orari, itinerari ed evitare di ripetere comportamenti e appuntamenti fissati da tempo sono ragionevoli forme di protezione», disse. ndr). Borsellino ha continuato: «Allora dove si dovrebbe svolgere questo processo? Bisogna andare in Svizzera o in Finlandia per garantire la sicurezza?». Per il fratello del giudice Borsellino, si tratta di una serie di tasselli che conducono a un unico obiettivo, quello di voler «bloccare un processo scomodo». Altro che «stato di necessità» e tutela dei cittadini. Con la trattativa secondo Borsellino si voleva soltanto «difendere una casta in disfacimento, ma ancora abbastanza potente da pretendere da pezzi dello Stato che venisse intavolata e conclusa la trattativa. E di fronte a questo la mafia non avrebbe vinto? Di sicuro lo Stato ha perso, non c’è dubbio», ha continuato. «Una volta finita la prima trattativa, sono cambiati i referenti e c’è stato il secondo accordo, quello concluso nel ‘94. Stipulato attraverso nuovi garanti e intermediari, come Dell’Utri da una parte e dall’altra l’ala moderata della mafia, quella di Provenzano, più adatto a stabilire un nuovo patto con lo Stato». Nell’ultima udienza, dal carcere di Rebibbia a Roma, è stato il pentito Gaspare Spatuzza a deporre come teste, spiegando di aver già avvertito nel 1997, durante un colloquio investigativo con l’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e con Piero Grasso, di «fare attenzione a Milano 2». Da allora sono trascorsi 12 anni prima che l’ex killer di Cosa nostra e braccio destro del boss Giuseppe Graviano si decidesse a collaborare e parlare esplicitamente di Silvio Berlusconi. Ma l’argomento, secondo la sua versione, era ritenuto talmente pericoloso da averlo affrontato soltanto nel 2009, a un anno dalla formalizzazione del pentimento. Ben oltre i sei mesi che la legge – dopo la riforma Fassino-Napolitano –  impone ai collaboratori come limite per raccontare tutto. Un punto, quello dei ricordi tardivi, sul quale ha puntato la difesa di Dell’Utri: «Dopo alcune settimane dalla mia decisione di collaborare con la giustizia, nel 2008, cadde il governo Prodi e subentrò in me un grosso timore. Mi trovai il Cavaliere presidente del Consiglio e Alfano come ministro della Giustizia e le mie preoccupazioni aumentarono ulteriormente», ha replicato Spatuzza. Non senza ricordare le confidenze ricevute da Graviano nel ’94, l’accenno a una trattativa in corso – «Abbiamo una cosa in piedi», gli avrebbe rivelato il boss – e la felicità del capomafia che gli svelò di tenere il Paese sotto scacco grazie al duo Berlusconi-Dell’Utri. Lo stesso Spatuzza ha ribadito come dietro la stagione stragista del ’92-’93 non ci fosse stata solo Cosa Nostra. Lui, che faceva parte del gruppo di Brancaccio, reperì il tritolo dagli ordigni bellici nei fondali marini. Ma ha spiegato come venisse utilizzato pure «un altro tipo di esplosivo, una specie di gelatina», del quale non conosceva l’origine. Resta il mistero su quelle entità esterne che avrebbero affiancato Cosa Nostra nelle stragi, quelle «menti raffinatissime» di cui parlava Falcone dopo il fallito attentato all’Addaura, rimaste a oltre vent’anni di distanza ancora nell’ombra. Un personaggio oggi defunto, il pentito ed ex membro di Cosa nostra Salvatore Cancemi, disse che Riina era stato “accompagnato per la manina” nell’organizzazione di quelle stragi. E nella sua deposizione Spatuzza ha anche parlato di quell’uomo esterno a Cosa Nostra, nel garage di via Villasevaglios, mentre la Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti veniva trasformata in autobomba: «Non era un ragazzo, né un vecchio. Non l’avevo mai visto prima, né lo vidi dopo quella volta. Non mi allarmò la sua presenza perché se era lì era perché Giuseppe Graviano lo voleva». Spatuzza ha spiegato di aver cercato negli anni di dare indicazioni su di lui, ma di avere ricordi sfocati. Quel coinvolgimento di altri settori – tra sospetti su servizi segreti deviati, massoneria e destra estrema – nella stagione stragista del ’92-’93 era stato oggetto dell’indagine sui “Sistemi criminali”, archiviata per la mancanza di sufficiente materiale probatorio da poter arrivare a processo. Eppure dalle indagini i pm erano portati a concludere come la mafia fosse un asse portante « di un autentico “sistema criminale” in cui venivano a convergere le altre più pericolose consorterie di stampo mafioso e non». Anche Borsellino ha aggiunto: «Io lo dico da anni che quella di via d’Amelio è stata una strage non solo di mafia, ma di Stato. Mi limito a parlare di mafia e Stato, ma sono convinto che ci sia molto di più. Sono convinto dell’esistenza di questi sistemi criminali, che magari sono indipendenti tra di loro, ma nei momenti cruciali collaborano per arrivare a obiettivi comuni», ha aggiunto. Dopo il messaggio di morte inviato da Riina dal carcere di Opera nei confronti di Nino Di Matteo, Borsellino ha aggiunto di avvertire «un attacco concentrico nei confronti della procura di Palermo» da chi tenta di difendere quel silenzio che dura da 20 anni. Eppure allo stesso tempo ha rivendicato un «largo appoggio della parte sana dell’opinione pubblica». Sulle intercettazioni di Riina, a colloquio con il boss della Sacra corona unita Alberto Lorusso, ha aggiunto: «Ho letto le interpretazioni di chi ritiene che siano minacce che arrivano da chi non ha ormai nessuna possibilità di metterle in pratica. Ma per me ha ancora un grosso potere sulla mafia. E le sue parole servono a lanciare un messaggio: “La mafia è ancora disponibile a fare un lavoro sporco, siamo ancora disponibili”. Può anche essere letta come una fatwa, lanciata da quello che è ancora una sorta di capo spirituale. Chi la raccoglie, potrebbe scalare le gerarchie mafiose e legittimarsi», ha continuato Borsellino. «Restano complicate» da interpretare, invece, secondo il fratello del giudice,  le parole di Riina sulle modalità d’esecuzione sulla strage di via D’Amelio. Il  “Capo dei Capi” è stato intercettato mentre spiegava che Borsellino “si futtiu sulu” (tradotto, “si è fregato da solo”), lasciando intendere che avrebbe direttamente innescato l’autobomba suonado il campanello di casa di sua madre. Restano dubbi sulla vicenda, considerato come finora era stato Giuseppe Graviano quello indicato di aver azionato il telecomando collegato all’autobomba, nascosto a poca distanza, in un giardino dietro ad un muretto che divide in due via D’Amelio (ricostruzione fatta anche dal pentito Fabio Tranchina, ndr).  «Sembra un’opzione incredibile e improbabile, dato che quel palazzo era molto frequentato e in quel citofono c’erano almeno 50 pulsanti diversi. Anche se fosse stato collegato soltanto a quello della casa di mia madre e mia sorella, una qualunque persona avrebbe potuto far fallire l’obiettivo dell’attentato, per errore». Borsellino ha però spiegato di aver fatto delle ipotesi di natura tecnica: «Sarebbero serviti due dispositivi. Uno attivabile dall’esterno, posto nella macchina, che servisse a sua volta ad abilitare il primo dispositivo collegato al campanello. Un meccanismo che avrebbe permesso di assicurare che mio fratello si trovasse al punto giusto quando veniva azionato il timer. Ma di fatto un sistema complicato, che richiedeva competenze che la mafia difficilmente aveva. Potrebbe spiegare, però, la presenza di quel soggetto che Spatuzza non conosceva mentre la 126 veniva preparata complicato. Magari una persona dei servizi segreti». Resta da capire anche «il motivo sul perché Riina esca fuori soltanto adesso con queste dichiarazioni», ha concluso. Per Borsellino, infine, c’è ancora il rischio della «tentazione del botto»: «In quel sistema che ha attuato la strage di Via D’Amelio c’è chi può riprendere i metodi stragisti. Siamo in un momento molto pericoloso, simile a quello del ’92 e di altre epoche in cui per passare da un sistema di potere a un altro sono state realizzate stragi di Stato. Ma c’è anche un altro elemento: la necessità di fermare questo processo. L’extrema ratio potrebbe essere quello di realizzare un’altra strage». E il nuovo governo Renzi, sul piano della lotta alla mafia? Secondo Borsellino c’era stato «un segnale inaspettato» con la proposta di Nicola Gratteri alla Giustizia, poi bocciata: «Potrebbe essere stata soltanto una mossa ad effetto, considerato come era chiaro che la sua nomina non sarebbe stata accettata da Napolitano. Per ora ci sono segnali contrastanti, ma si resta soltanto sul campo delle parole. Ma non si può ancora dare un giudizio». E con uno sguardo al recente passato, ha bocciato il modo in cui si è sviluppata la candidatura di Antonio Ingroia, che gli elettori non hanno premiato: «Il progetto di entrare nelle stanze della politica era corretto. La magistratura aveva fatto il massimo che poteva ottenere e per cercare la verità era necessario un salto di livello. Purtroppo il modo in cui il progetto è stato condotto non è stato consono alla bontà originaria. La sua figura di magistrato non può essere di certo annebbiata, ma sul piano politico il giudizio non può essere altrettanto positivo».

Lo Stato italiano non solo con la mafia si caga sotto. Lo fa anche con il terrorismo internazionale.

"Che illusi Usa e Europa. Questo è il vero Islam". Il politologo americano Luttwak: "Si sforzano di credere a predicatori in giacca e cravatta. Ma in quel mondo comanda chi uccide. Intervista resa a Gian Micalessin su “Il Giornale”. «Foley? Se penso che abbiamo rischiato la vita dei nostri soldati per tentare di salvarlo mi arrabbio. Quello prima è andato a giocare al corrispondente di guerra in Libia e si è fatto catturare. Poi è andato a cercar guai in Siria». Non appena nomini il reporter decapitato dai tagliagole dell'Isis il professor Edward Luttwak reagisce con una sparata al vetriolo. «È come la vostra Sgrena - sbotta Luttwak in questa intervista al Giornale - si autodefiniscono reporter di guerra e poi si cacciano nei guai. Risultato? Voi europei pagate enormi riscatti per liberarli e noi americani rischiamo la vita dei soldati per riportarli a casa».

Dicevate che «nessuno va lasciato indietro»...

«Nessuno che vesta la divisa e vada in missione per il governo».

Insomma per lei se l'è cercata?

«Totalmente..... Il suo, come quello della vostra Sgrena, non è giornalismo, ma protagonismo. Lui, la Sgrena e tanti altri non raccontano quel che succede, aiutano una parte in gioco. Nel suo caso il cosiddetto popolo siriano. Nel caso della Sgrena quelli che combattevano contro l'Italia. Che poi ha pagato per riaverla viva. Questo oltre ad esser pericoloso per chi lo pratica, genera disinformazione. Identificandosi con chi, a detta loro, soffre producono racconti emotivi destinati non ad informare, ma a coinvolgere il pubblico.

Dopo la decapitazione di Foley, Obama e i governi europei hanno compreso la pericolosità dello Stato Islamico...

«Non è proprio così. Quel video è un pretesto. Arriva e fingono di reagire al video, non ad una realtà che conoscono bene, ma su cui preferiscono tacere. Gli islamici combattono dalle Filippine alla Thailandia, dall'India al Pakistan, dall'Afghanistan a Gaza, dall'Iraq alla Nigeria e al Mali Eppure Obama e i capi di governo europei ripetono che l'Islam è una religione di pace».

Cosa devono fare, bandire l'Islam?

«Obama, Cameron e gli altri si sforzano di credere ad un paio di predicatori in giacca e cravatta, sempre pronti a sostenere il dialogo interreligioso e a stringere le mani di preti e rabbini. Ma nel mondo islamico dettano legge i combattenti. Sennò perché i giovani abbandonerebbero l'Europa per combattere con lo stato islamico? L'Islam dei predicatori gentili e carini è una montatura. I vostri governi sono come Alice nel paese delle meraviglie. S'illudono che ripetendo una bugia tre volte al giorno diventi realtà».

Ma il video li ha riportati alla realtà...

«L'Isis ha dissacrato centinaia di chiese e massacrato gli yazidi, ma nessuno ha mosso un dito. Poi è arrivato il video e tutti a stupirsi».

Dunque bisogna tornare in Iraq?

«Fare la guerra serve solo se la puoi vincere. In Germania nel 1945 valeva la pena. Lì se uno inneggiava al nazismo gli sparavi in testa. In Iraq non puoi farlo perché da Birmingham all'Indonesia devi fare i conti con migliaia di imam pronti a proclamare la guerra santa appena tocchi un musulmano. In Italia avete perfino dei professori pronti a difendere i terroristi di Hamas. A Napoli avete un sindaco totalmente incapace di risolvere i problemi della città, ma pronto a mobilitarsi per Gaza. Dove sono quando uccidono i cristiani di Mosul o stuprano le loro donne?».

Senta...

«Non cambi discorso! Risponda lei per una volta. Quante dimostrazioni avete avuto in Italia per i cristiani di Mosul?

Direi nessuna...

«Esattamente. Questa è la dimostrazione. La grande bugia dell'Islam religione di pace domina la scena. Per questo devi attendere un video per poter condannare il nuovo califfato. Eppure tutto quel che fa il Califfato è dal punto di vista islamico perfettamente legale. Uccidere gli infedeli è assolutamente legittimo. E il profeta Maometto è stato il primo a farlo».

Il Papa ha detto...

«Il Papa fatto due dichiarazioni di 18 parole in tutto... Per reagire all'Islam reale, non a quello dei salotti europei, bisogna guardare in faccia la realtà altrimenti è inutile».

Intanto però finanziatori dell'Isis stanno in Arabia Saudita, Qatar e Kuwait .... Sono vostri alleati.

«I sauditi hanno smesso di sostenere gli assassini islamici. I soldi arrivano da privati ed escono in nero. Sul Qatar ha ragione. Va eliminato dalla scena è un regno perverso».

L'Isis aveva le sue retrovie in Turchia un paese Nato...

«La Turchia di oggi è quella di un Erdogan beccato a rubare, ma eletto presidente grazie a degli sproloqui islamisti. L'Islam si è ripreso il paese e lo ha riportato alla sua veste originale».

Renzi promette armi ai curdi. Servirà?

«Grazie ai curdi frazioneremo la Turchia».

L'Italia si è accollata centomila profughi africani e islamici. Come la vede?

«Da noi chi entra dal Messico si chiama Jose Martinez è cristiano e sogna di diventare Joe Martin, americano. Da voi arriva Ahmed che vuole tenere la moglie coperta e i bimbi ignoranti. Il lassismo sentimentale di voi italiani è incredibile. Mi meraviglio che non vi buttino fuori da Schengen per mancata protezione delle vostre frontiere».

Pagine di storia/Cinquant’anni fa nasceva l’Olp: una storia di sangue che (forse) volge al termine, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo d’Italia”. Questione palestinese. Quante volte abbiamo ascoltato o letto questa espressione, e l’impressione è che ne sentiremo parlare ancora per parecchio. Gli archivi dei giornali sono pieni di foto di esponenti palestinesi (quasi sempre il leader storico Yasser Arafat) con i vari presidenti americani che si sono succeduti, e che sempre volenterosamente hanno mediato tra le parti, arabi e israeliani, affinché si ponesse fine una volta per tutte a quello che è il più lungo conflitto del dopoguerra. E che iniziò proprio nel dopoguerra, con l’arrivo degli ebrei fuggiti dall’Europa in Medio Oriente, ossia nella “terra promessa”. Nel 1948, su mandato britannico, dettero vita allo Stato di Israele, come è raccontato nel miglior film sulla vicenda, Exodus, di Otto Preminger, del 1960. I palestinesi furono per così dire confinati nella costa occidentale e nella striscia di Gaza. In pratica, si sentirono defraudati di un territorio che consideravano loro. Inoltre molti ebrei arrivarono in Israele stanziandovisi per sempre e spesso occupando anche zone esorbitanti lo Stato di Israele stesso. Perché ricordare queste cose arcinote? Perché esattamente mezzo secolo fa, il 28 maggio del 1964, nasceva l’Olp, acronimo di Organizzazione per la Liberazione della Palestina, su iniziativa della Lega Araba. Nacque proprio a Gerusalemme dopo una riunione di 422 personalità palestinesi con l’obiettivo di liberare la Palestrina con la lotta armata, ovviamente contro Israele, come recita ancora oggi lo statuto dell’Olp. E purtroppo quanto annunciato è accaduto alla lettera: sono moltissimi gli attentati dei terroristi palestinesi, non necessariamente affiliati all’Olp, che hanno causato moltissime vittime: il più celebre di tutti è senza dubbio quello alle Olimpiadi di Monaco, nel 1972, da parte dei palestinesi di Settembre Nero, rievocato in articoli, libri, film. Altrettanto sangue è scorso nelle reazioni di Israele, non disposto a subire attentati terroristici contro i suoi abitanti. A lungo il mondo ha considerato l’Olp un’organizzazione terrorista, poiché la geografia dei gruppi e gruppuscoli dissidenti o scissionisti non è mai stata chiara, anche perché è estremamente complessa e in continua evoluzione. La questione palestinese però ha attirato l’attenzione dell’intero pianeta per anni, e i masse media internazionali se ne sono occupati – e se ne occupano – continuativamente. Senza prendere parte per uno dei due contendenti, però si può affermare che l’Olp in questo ha assolto la sua funzione: ossia quella di porre all’attenzione degli Stati, più spesso in maniera violenta, il problema enorme che da anno affligge tutto il Medio Oriente. Nel 1974 Yasser Arafat, arrivato al vertice cinque anni prima, ha chiesto ufficialmente uno Stato della Palestina indipendente, nel 1988 ha adottato la soluzione “due Stati”, Palestina e Israele, con Gerusalemme est capitale, e finalmente nel 1993 il presidente dell’OLP Arafat ha riconosciuto lo Stato di Israele in una lettera all’allora premier Rabin. Ma non ha eliminato – tuttora – dal suo statuto fondativo l’articolo che ne auspica l’eliminazione. Subito dopo Israele riconobbe l’Olp, più che altro per aver un interlocutore. In seguito ai cosiddetti accordi di Oslo, l’Olp non fu più definita un’organizzazione terrorista. Arafat morì nel 2004 e al suo posto venne eletto Abu Mazen, considerato un moderato, che ancora guida la causa palestinese. Dopo la Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, i palestinesi ritennero che la guerriglia contro Israele fosse l’unica strada percorribile e l’Olp fu da allora controllato dagli ormai famosissimi feddayyin (i devoti). Da allora la vicenda dell’Olp è storia, tra Libano, Egitto, Giordania, Tunisia, Intifade, storia piena di attentati, omicidi politici, scontri intestini sanguinosi, guerriglia continua con Israele. Nel 1993 la direzione dell’Olp si trasferì da Tunisi a Ramallah, dove ancora si trova. I gruppi e sottogruppi palestinesi hanno compiuto attentati soprattutto fuori dal Medio Oriente, e sempre contro obiettivi ebraici: in Italia a Fiumicino, nel 1973 e nel 1985, alla Sinagoga di Roma nel 1982 e alla nave Achille Lauro ancora nel 1985. Molti inoltre hanno sostenuto che gruppi dissidenti palestinesi sarebbero anche coinvolti con la strage di Bologna del 1980, ma nessuna indagine fu mai seriamente indirizzata in questo senso. Oggi le cose sono molto cambiate per i palestinesi, lo Stato è riconosciuto da moltissimi Paesi, la Palestina ha rappresentanze diplomatiche all’estero, Italia compresa, l’Olp è osservatore all’Onu da anni. Ma i gruppi islamisti continuano ad agire contro Israele e all’estero contro ad esempio il governo siriano o anche in Iraq e Afghanistan. Questa è la sfida che i governi occidentali devono raccogliere e vincere. Altrimenti la questione palestinese terrà ancora banco per i prossimi decenni….

“Dovevamo liberare l’Achille Lauro, ma così ci fermarono”. Il ricordo degli incursori del “team Torre”, il gruppo operativo specializzato nell’antiterrorismo dei «baschi verdi» del Comsubin, scrive Fabio Pozzo su “La Stampa”. Quella «sporca dozzina». Anzi, qualcuno di più. Erano alcune decine gli incursori italiani che nell’ottobre 1985 avrebbero dovuto liberare l’Achille Lauro dai terroristi di Abu Abbas. E tra questi, i migliori del «team Torre», il gruppo operativo specializzato nell’antiterrorismo dei «baschi verdi» del Comsubin. I dettagli dell’operazione non sono mai stati divulgati. Anche perché gli incursori furono bloccati in extremis da un ordine del governo Craxi, mentre erano in volo, pochi istanti prima dell’azione. Prevalse la soluzione politica a quella militare. Quella che poi portò al caso Sigonella e alla fuga di Abu Abbas, il leader del Fronte per la liberazione della Palestina. Il comandante Danilo Gattoni, oggi in congedo, faceva parte di quella «sporca dozzina». Lo avevo incontrato a Le Grazie, davanti al Varignano, la base degli incursori che domina il golfo della Spezia. «La sera del 7 ottobre ero a casa. Avevo tenuto spento il televisore e non sapevo del dirottamento. L’indomani, appena varcato il cancello del Varignano, il capoguardia mi dice soltanto: “Il team è già partito”. Dopo due ore mi convoca il comandante della base. “Entro le 11,30 devi essere pronto con le attrezzature specialistiche”. Sapevo che cosa significava: si riferiva ai ferri del mestiere, alle dotazioni per il combattimento. A mezzogiorno parto per Pisa, con altri quattro colleghi, due specialisti in lanci col paracadute come me e altrettanti esperti in cariche esplosive». Il 7 ottobre era stata una giornata campale nelle acque egiziane, tra Alessandria e Porto Said. Alle 13.15 quattro terroristi palestinesi avevano dato inizio al dirottamento della nave passeggeri (a notizia era stata comunicata via radio alle 14). Alle 22 il ministro degli Esteri Giulio Andreotti aveva contattato l’Olp e il governo del Cairo. Alle 23, il premier Bettino Craxi aveva convocato quest’ultimo e il ministro della Difesa Spadolini a Palazzo Chigi. E da qui era partita l’allerta per i reparti speciali. «A Pisa ci imbarcano insieme ad un gruppo di parà del “Col Moschin” sull’aereo presidenziale. Io prendo posto dove sedeva Pertini durante la famosa partita a scopone con Bearzot, al ritorno dei Mundial. Facciamo rotta su Gioia del Colle. Atterriamo e ripartiamo per Akrotiri, Cipro». Nel frattempo, l’Achille Lauro era stata rifiutata dalla Siria e i terroristi avevano ucciso il passeggero americano Leon Klinghoffer. «Arriviamo a Cipro poco prima dell’alba del 9 ottobre - continua Gattoni -. Lì, c’erano già i Delta Force. Gli americani erano agitati, impegnati in una attività febbrile: scaricavano materiali, approntavano piccolo elicotteri. Si capiva che volevano intervenire».  Era stato l’ambasciatore degli Usa a Roma, Maxwell Rabb, a informare Craxi che il Pentagono aveva approntato un piano d’intervento per la notte tra il 9 e il 10 ottobre. Si preparano anche i nostri incursori. Arrivano le informazioni sulla nave, gli schemi dei ponti, dei locali interni. E l’ordine di congiungersi con un altro gruppo di «baschi verdi», in navigazione nelle acque egiziane a bordo dell’incrociatore «Vittorio Veneto». «Ci vengono a prendere con un elicottero. Dobbiamo raggiungere l’incrociatore e da qui entrare in azione. Spettava a noi farlo, e non agli americani, perché l’Achille Lauro era territorio italiano». Gattoni e gli altri specialisti si sarebbero dovuti lanciare durante la notte dall’elicottero, in alta quota, 5-10 mila piedi, e atterrare su uno dei ponti superiori dell’Achille Lauro. «Noi avremmo dovuto proteggere l’arrivo dal mare degli altri colleghi, che avrebbero raggiunto la nave dal mare con gommoni veloci e mezzi subacquei. Insieme, poi, ci saremmo dovuti occupare della “bonifica”». Gli incursori sapevano di dover mettere in conto anche delle vittime. «Se i terroristi avessero sparato, avremmo risposto». Ma il rischio non si porrà. «Mentre stiamo atterrando sull’incrociatore il pilota ci informa che la missione è annullata. “I terroristi si sono arresi, cessata crisi“, ci dice». I dirottatori lasciano l’Achille Lauro, s’imbarcano sul Boeing 737 dell’Egypt Air che sarà poi intercettato dai quattro caccia americani decollati dalla portaerei «Saratoga». Reagan ottiene da Craxi il permesso di farli atterrare a Sigonella. Comincia il braccio di ferro tra Italia e Usa, che proseguirà poi tra Ciampino e Fiumicino. «Mentre stiamo tornando in elicottero verso l’Italia, arriva l’ordine di fare rotta su Sigonella. E poi, ancora, ci bloccano sopra Ciampino». Ma Craxi la spunta con Reagan. E per Gattoni e gli altri incursori la crisi cessa davvero. 

Lodo Moro. Quei patti inconfessabili tra Sismi e terrorismo palestinese, scrive Gea Ceccarelli su “Articolo 3”. Con l'imperversare della crisi di Gaza, tutti hanno imparato a conoscere Hamas. Chiunque, adesso, sa che si tratta di un'organizzazione paramilitare e terrorista, contro cui si è scatenata la furia di Israele con quello che ne è conseguito: un vero e proprio genocidio di innocenti, arabi colpevoli semplicemente di essere non ebrei. Quello che in pochi sanno è come, Hamas, abbia una storia lunga e travagliata: come la stessa sia stata probabilmente vista di buon occhio per lungo tempo, dagli israeliani, a causa della sua rivalità con un'altra organizzazione palestinese, l'Olp, fondato, tra gli altri, da Yasser Arafat. Nell'aprile scorso, Hamas e l'Olp hanno firmato un accordo, un'alleanza. Un patto che ha istantaneamente fatto allertare Israele, la quale, da parte sua, ha tuonato chiaramente come esso avrebbe rappresentato un ostacolo insormontabile per la pace tra i due paesi. Pochi mesi dopo, il rapimento di tre ragazzi ebrei s'è configurato come la scintilla in grado di scatenare l'inferno, con Netanyahu che giurava vendetta, pur sapendo, come è stato confermato da alcuni funzionari di polizia, che la responsabilità non era stata di Hamas. Ogni scusa, però, era valida per intervenire. Così, riconoscendo in Hamas il nemico supremo, si dimentica l'Olp. La cui storia sta per tornare a galla, fra pochi giorni, in Italia. Il motivo è semplice: fu proprio questa organizzazione a scendere a patti con il Sismi italiano, nell'ambito del cosiddetto "lodo Moro", i cui dossier relativi stanno per diventare pubblici. Erano gli anni '70-'80. Anni di stragi, nel nostro Paese. Anni di ombre incombenti e alleanze inconfessabili. Una di queste sarebbe proprio quella intercorsa tra la nostra intelligence e i terroristi palestinesi: un patto, firmato dall'allora Presidente del Consiglio Aldo Moro, che garantiva agli islamici la possibilità di far passare fiumi d'armi nel nostro paese, destinati a cellule terroriste sparse in tutto il continente, e la liberazione dei prigionieri palestinesi. In cambio, i militanti non avrebbero colpito gli italiani, avrebbero lasciato il nostro Paese tranquillo, pur non inserendo negli accordi l'incolumità per gli ebrei residenti nel Belpaese. Tanto più che, nell'82, venne attaccata la Sinagoga di Roma. Fu quella, forse, a squarciare il velo di misteri che avvolgeva gli accordi. Il 3 ottobre del 2008, in occasione del 30esimo anniversario dell'attentato, l'ambiguo ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, rivelò chiaramente l'esistenza del lodo in un'intervista rilasciata al quotidiano israeliano Yediot Aharonot. “Vi abbiamo venduti”, dichiarava in essa  Cossiga. “Lo chiamavano ‘Accordo Moro’ e la formula era semplice: l’Italia non si intromette negli affari dei palestinesi, che in cambio non toccano obiettivi italiani”. “Per evitare problemi, l’Italia assumeva una linea di condotta  tale da non essere disturbata o infastidita”, continuava l'uomo nell’intervista “Poiché gli arabi erano in grado di disturbare l’Italia più degli americani, l’Italia si arrese ai primi." Ma non solo: Cossiga rivelava anche l'esistenza di simili accordi con l'Hezbollah libanese, "per cui le forze UNIFIL chiudono un occhio sul processo di riarmo, purché non siano compiuti attentati contro gli uomini del suo contingente”. Nonostante secondo Giovanni Pellegrino, ex presidente della Commissione Stragi il patto risalga all'autunno del 1973, Cossiga dichiarava di esserne a conoscenza soltanto dal 1976, da quando, cioè, divenne ministro dell'Interno. "Mi fecero sapere che gli uomini dell’OLP tenevano armi nei propri appartamenti ed erano protetti da immunità diplomatica", raccontava nell'intervista. "Mi dissero di non preoccuparmi, ma io riuscii a convincerli a rinunciare all’artiglieria pesante ed accontentarsi di armi leggere”. Anni dopo, quando divenne Presidente del Consiglio, ebbe la certezza dell'esistenza di tali accordi: “Durante il mio mandato, una pattuglia della polizia aveva fermato un camion nei pressi di Orte per un consueto controllo”, raccontava. “I poliziotti rimasero sbigottiti nel trovare un missile terra-aria, che aveva raggiunto il territorio italiano via mare”. In pochi giorni, una sua fonte del Sismi gli fece sapere dell'esistenza di un telegramma, arrivato da Beirut, nel quale era "scritto che secondo l’accordo, il missile non era destinato ad un attentato in Italia, e a me fu chiesto di restituirlo e liberare gli arrestati”. “Col tempo", aggiungeva ancora Cossiga nell'intervista, "cominciai a chiedermi che cosa potesse essere questo accordo di cui si parlava nel telegramma. Tutti i miei tentativi di indagare presso i Servizi e presso diplomatici si sono sempre imbattuti in un silenzio tuonante. Fatto sta che Aldo Moro era un mito nell’ambito dei Servizi Segreti”. Secondo Pellegrino, il patto fu stilato dal Sismi, e solo firmato da Moro, che pure ne faceva riferimento in alcune missive inviate durante la seconda metà degli anni Settanta. Numerose le testimonianze che confermano tale versione. Come quella, rilasciata al Corriere della Sera, di Bassam Abu Sharif, portavoce del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, "costola" dell'Olp, da cui successivamente si separò. "Ho seguito personalmente le trattative per l'accordo", ricorda Abu Sharif. "Aldo Moro era un grande uomo, un vero patriota. Voleva risparmiare all'Italia qualche mal di testa", ma "non l'ho mai incontrato. Abbiamo discusso i dettagli con un ammiraglio, gente dei servizi segreti, e con Stefano Giovannone (capocentro del Sid e poi del Sismi a Beirut, ndr). Incontri a Roma e in Libano. L'intesa venne definita e da allora l'abbiamo sempre rispettata". Grazie a questa, prosegue, "ci veniva concesso di organizzare piccoli transiti, passaggi, operazioni puramente palestinesi, senza coinvolgere italiani. Dovevamo informare le persone opportune: stiamo trasportando A, B, C… Dopo il patto, ogni volta che venivo a Roma, due auto di scorta mi aspettavano per proteggermi. Da parte nostra, garantivamo anche di evitare imbarazzi al vostro Paese, attacchi che partissero direttamente dal suolo italiano". C'è però altro: quando, il 2 agosto del 1982, Bologna fu sconvolta dalla strage alla stazione, Cossiga puntò dapprima il dito contro i neofascisti e, successivamente,  contro i palestinesi. Secondo lui,a compiere l'incredibile attentato erano stati proprio i terroristi arabi, dopo che il "patto" era stato tradito. Un'ipotesi venuta a crollare nelle settimane scorse, quando quando i pm di Bologna hanno depositato la richiesta di archiviazione per le posizioni di Thomas Kram e Margot Christa Frohlich, due terroristi tedeschi indagati e legati ai palestinesi. Secondo i magistrati, la presenza dell'esperto di esplosivi Kram a Bologna la notte prima dell'attentato è accertata, ma “quel solo e sorprendente fatto non è tuttavia sufficiente per ipotizzare in assenza di altri elementi” sul suo conto “una partecipazione alla strage della stazione”. Per i pm, poi, è tutta la teoria a non reggere, in quanto, secondo tale ipotesi, il legame tra terrorismo palestinese e Kram avrebbe dovuto essere il terrorista venezuelano "Carlos". Rapporto non solo indimostrabile, ma pure confutato dal diretto interessato. Fu lui, Carlos, a sottolineare infatti come, non solo ai tempi della strage avesse già rotto da anni i ponti con il Fplp, ma che inoltre non vi sarebbero stati motivi, per gli arabi, di colpire degli innocenti italiani: avrebbero solo rischiato di danneggiare i rapporti tradizionalmente buoni tra la Palestina e il nostro paese. Secondo lui, dunque, a Bologna a colpire furono piuttosto piuttosto la Cia e il Mossad, così da punire l'Italia e distoglierla dai propri interessi “antiatlantici” e “filoarabi”. Ipotesi, questa, supportata da Abu Sharif: "Non c'entriamo niente", ha infatti spiegato. "Nessuno ordine è venuto da me. Il massacro non ha niente a che vedere con organizzazioni palestinesi. Neppure un incidente. Non c'era nessuna ragione per farlo, soprattutto a Bologna". L'unica possibilità è che "la Cia o il Mossad abbiano usato un palestinese, un loro agente. E' stato fatto esplodere, senza che lo sapesse, per accusare noi." D'altronde, sottolinea, "Gli americani non erano affatto felici della nostra cooperazione con l'Italia. Soprattutto perché passavamo agli italiani informazioni top secret su quello che gli americani stavano facendo nel vostro Paese". Ma l'Olp e il Flpl avevano contatti anche con le Br: "Solo cooperazione", chiarisce l'ex portavoce. "Qualcuno di loro faceva parte dell'" Alleanza" che venne stabilita nel 1972, assieme a organizzazioni di tutto il mondo." "Erano", spiega, "le "operazioni speciali" guidate da Wadie Haddad. Questi gruppi stranieri non sono mai stati ai nostri ordini, c'era solo coordinamento". Per questo, quando, nel '78 venne rapito il segretario della Dc, i palestinesi avrebbero potuto intervenire. Ma, prosegue Abu Sharif, "ho chiamato un numero, ho lasciato un messaggio dopo l'altro. Nessuna risposta. Davvero strano: una linea speciale e nessuno risponde". Certo è che, del lodo Moro, l'opinione pubblica seppe in seguito, e sempre a spezzoni. Dopo la sparizione dei due giornalisti De Palo e Toni, che indagavano sul traffico d'armi, si alzò subito un impenetrabile muro di silenzi e depistaggi atto a oscurare l'esistenza stessa degli accordi che, nell'ambito delle indagini sulla loro scomparsa, sarebbero inevitabilmente emersi.  Nell'84, poi, l'ufficiale del Sismi Giovannone invocò il segreto di Stato su tali patti, ottenendolo grazie a Bettino Craxi. Un sigillo poi ribadito da Silvio Berlusconi per due volte tra il 2009 e il 2010. Il 28 agosto prossimo, però, scadono i trent’anni previsti dalla recente riforma sui servizi come limite massimo per il segreto di Stato. Non c'è più niente che possa esser nascosto ancora. Circa un'ottantina di faldoni verranno alla luce e riconsegnati agli inquirenti. In essi, si potrà trovare la verità su numerosi misteri italiani e non solo: stragi e rapimenti, accordi inconfessabili. Potrebbe, altresì, esser compresa una volta per tutte l'attuale situazione di equilibri tra le potenze in gioco a Gaza, dove "buoni" e "cattivi" non esistono, e dove l'Italia ha una sua, enorme, colpa.

Si apre una breccia nel muro di gomma. I rapporti inconfessabili tra palestinesi e Sismi. Occhi chiusi sul fiume di armi destinate alle cellule dell'Olp. In cambio niente attentati. E' il patto tra servizi segreti, Dc e Yasser Arafat. Un quadro già emerso in un processo menomato dai veti politici. Fino a ora: i documenti decisivi stanno per essere desecretati, scrive Andrea Palladino su “L’Espresso”. Una doppia politica. Un lodo - firmato da Aldo Moro - che garantiva tutti. Niente attentati, ma occhi chiusi sul fiume di armi da far passare nel nostro paese, destinate alle cellule internazionali palestinesi sparse in tutta Europa. Accordi per tre decenni coperti dal segreto di Stato, l’omissis tutto politico. Un sigillo che neanche la magistratura può violare. Ancora per poco. Perché i dossier sui rapporti tra la nostra intelligence e l’Olp di Yasser Arafat che hanno marcato la politica estera italiana tra gli anni ’70 e ’80 stanno per diventare pubblici. Ed è la prima volta nella storia repubblicana. Scade il 28 agosto il termine ultimo del segreto invocato nel 1984 dall’ufficiale del Sismi Stefano Giovannone - confermato da Bettino Craxi il 5 settembre dello stesso anno e ribadito da Silvio Berlusconi per due volte tra il 2009 e il 2010 - di fronte alla domanda del pm romano Giancarlo Armati, che indagava sulla scomparsa in Libano dei giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni. Che rapporti avevate con i palestinesi? Era questa la questione chiave per capire non solo che fine avessero fatto i due reporter arrivati a Beirut nell’agosto del 1980, ma soprattutto i motivi del sistematico depistaggio attuato dall’intelligence italiana per coprire gli autori del rapimento e della successiva esecuzione. Ovvero la fazione più dura dei palestinesi, quella di George Habbash, detto al-akīm, il dottore. Per le famiglie dei due giornalisti, che hanno lanciato una petizione per togliere il segreto di Stato e pubblicare on line tutti i documenti disponibili , i prossimi giorni saranno cruciali. Potrebbero essere il punto finale di una battaglia che dura da 34 anni. La verità sostanziale è nota e certificata dalla carte processuali, che hanno portato alla condanna di un brigadiere dei carabinieri addetto all’ufficio cifra dell’ambasciata italiana a Beirut (gli altri indagati, Giovannone e Santovito, alti ufficiali dei servizi, nel frattempo sono deceduti). Graziella De Palo, giovane freelance - collaboratrice di Paese Sera e dell’Astrolabio - e Italo De Toni, giornalista di esperienza di Diari con la passione sfrenata per il jazz, erano partiti per Beirut con idee precise. La capitale libanese godeva in quegli anni della fama di città più pericolosa del Medio Oriente, forse del mondo. Crocevia di spie, terroristi di ogni matrice, trafficanti di armi e di droga, faccendieri arrivati da ogni dove, gente pronta a sfruttare le opportunità di una guerra civile infinita, in una città divisa in due, tra i cristiani maroniti del partito falangista di Bashir Gemayel e le fazioni filo palestinesi. Toni e De Palo avevano contatti buoni, presi in Italia prima della partenza, direttamente con l’Olp di Arafat. Cosa cercavano? Tante le ipotesi. Di certo non si accontentavano del semplice racconto di una città in guerra. Graziella De Palo seguiva ormai da mesi il filo del traffico di armi. La sua agenda e i suoi quaderni erano pieni di annotazioni precise, nomi di società legate alla nostra difesa. Partono tre settimane esatte dopo l’attentato alla stazione di Bologna, quando in Italia si viveva la stagione delle bombe e dei misteri di Stato. Un anno prima a Ortona i carabinieri avevano fermato un gruppo di terroristi, una cellula composta dall’esponente dell’Autonomia Daniele Pifano, dal militante del Fplp di George Habbash (Fronte popolare per la liberazione della Palestina) Saleh Abu Anzeh, da Giuseppe Nieri e Giorgio Baumgartner, con un lanciamissili. Solo più tardi si scoprirà che quell’arma micidiale apparteneva all’Olp, e che l’Italia era solo un punto di transito, come spiegarono gli stessi palestinesi del Fplp in una lettera inviata al Tribunale di Chieti, competente per il caso. La prova dei rapporti inconfessabili tra l’intelligence militare italiana e l’organizzazione palestinese è arrivata - per il pm Armati che indagò sul caso - dal muro di silenzi e depistaggi alzato immediatamente dopo la scomparsa di De Palo e Toni. Scrive il magistrato nella sua richiesta di rinvio a giudizio per George Habbash, Stefano Giovannone (ufficiale del Sismi a capo degli uffici di Beirut) e Damiano Balestra (brigadiere dei carabinieri addetto all’ufficio cifra dell’ambasciata italiana in Libano): “L’istruttoria finora compiuta avrebbe certamente consentito di fare piena luce sulla complessa vicenda della scomparsa all’estero dei due giornalisti”. Ma troppi sono stati gli ostacoli che hanno bloccato la procura di Roma: “In primo luogo l’atteggiamento completamente negativo delle autorità libanesi; in secondo luogo le difficoltà frapposte dalle autorità elvetiche (coinvolte per il caso del depistaggio sulla strage di Bologna attuata da Elio Ciolini, ndr); in terzo luogo la conferma da parte dell’autorità di governo del segreto di Stato opposto dal Giovannone, (…) che ha avuto l’effetto non voluto di coprire anche le ragioni della condotta dell’ufficiale del Sismi nei confronti dell’Olp”. Per il pm Armati la condotta dei nostri servizi nella vicenda “presenta aspetti oscuri certamente estranei ai suoi fini istituzionali”. Con un coinvolgimento - ipotizzato dalla procura - dello stesso direttore del servizio, il generale Giuseppe Santovito. Il primo novembre del 1980 - due mesi dopo la scomparsa dei giornalisti - il capo del Sismi incontrò Arafat. Il leader dell'Olp chiese alla nostra intelligence di “stendere un velo pietoso sulla vicenda”. Circostanza che lo stesso Santovito ammise davanti al pm Armati. Da quel momento - si legge nelle carte del processo - l’ambasciatore italiano D’Andrea, intenzionato a chiarire quello che era accaduto, si trovò davanti il classico muro di gomma, metafora che il nostro paese stava imparando a conoscere molto bene. Gli ufficiali del Sismi iniziarono a monitorare le indagini condotte dall’ambasciata, convincendo il brigadiere Balestra - poi condannato in via definitiva - a passare all’intelligence i messaggi scambiati con la Farnesina. Stefano Giovannone, a quel punto, intervenne direttamente con la famiglia, chiedendo il silenzio stampa, accusando i Falangisti di Beirut, giocando sulla speranza dei parenti dei giornalisti di poter risolvere il rapimento. Nonostante i depistaggi, la Procura di Roma riuscì a ricostruire almeno il contesto della scomparsa, attribuendone la responsabilità ai palestinesi: “I due erano stati uccisi dal gruppo di Habbash, subito o quasi”, spiega il magistrato romano citando una nota dell’ambasciata italiana a Beirut. Il mistero nasce sui motivi del rapimento e dell’omicidio, con un’ipotesi inquietante: “Forse i palestinesi avevano ricevuto qualche indicazione errata”, era l’indicazione arrivata dalle forze di sicurezza libanesi. Una trappola, un mandante esterno. Italiano? Chissà. Il 28 agosto scadono i trent’anni previsti dalla recente riforma sui servizi come limite massimo per il segreto di Stato. Già il 10 marzo del 2010 - attraverso l’intervento del Copasir presieduto da Francesco Rutelli - le famiglie dei due giornalisti avevano ottenuto un primo accesso a 1.161 documenti classificati. Mancavano all’appello un’ottantina di fascicoli, per i quali fu confermato il segreto di Stato da Silvio Berlusconi. Fabio De Palo, fratello minore di Graziella, oggi giudice civile a Roma, ha catalogato con cura le migliaia di pagine consultate (che ha potuto copiare solo dopo un ricorso al Tar). All’Espresso spiega che dal 29 agosto è pronto a chiedere l’accesso alle carte mancati al premier Matteo Renzi, che - secondo le norme attuali - non potrà più autorizzare gli omissis. “Gli interessi economici prevedevano lucrosi affari nella vendita delle armi - spiegano in un appello i familiari di Graziella De Palo e Italo Toni - a quei paesi nei confronti dei quali vigevano embarghi economico militari”. Una politica che Paolo Emilio Taviani sintetizzò nella formula “della moglie americana e dell’amante libica”. Sintesi di quel lodo “Moro” che l’ufficiale del Sismi Stefano Giovannone (uomo di stretta fiducia del leader Dc) attuò con meticolosità, e che Vincenzo Parisi citò in parlamento “per spiegare il movente di tante stragi ancora oggi inspiegabili e coperte da inquietanti aloni di mistero”, come ricordano i familiari dei due giornalisti uccisi nel 1980. “Ci aspettiamo di riavere i resti degli scomparsi e la riapertura di un processo” che era stato interrotto, bloccato dal segreto di Stato confermato da Bettino Craxi, trent’anni fa. Verità e giustizia, al posto dell’eterno muro di gomma italiano.

L'accordo con l'Olp degli anni 70'. In questi giorni di fervore patriottico per il caso Battisti proviamo a riesaminare alcuni degli episodi altrettanto irrisolti della storia del nostro Paese. Vi propongo un articolo che fà riflettere, fatti irrisolti di cui si preferisce  ancora tacere. Decidete voi se significa qualcosa o significa nulla.

Tratto da  L’accordo Moro e la strage di Bologna del 2 agosto 1980 di Matteo Masetti su “Vietato Parlare”. Negli anni Settanta il governo italiano siglò un accordo segreto con l’Olp per evitare atti di terrorismo nel nostro Paese. In cambio l’organizzazione di Arafat ottenne la libera circolazione dei fedayn palestinesi nella penisola. L’intesa sarebbe stata pensata da Aldo Moro. Ma tra la fine del 1979 e i l’agosto del 1980 qualcosa andò storto. L’attentato alla stazione di Bologna potrebbe essere maturato in quel clima. Una delle pagine più oscure e tragiche nella storia della nostra Repubblica è quella dell’attentato alla stazione ferroviaria di Bologna il 2 agosto 1980. Questa strage fu un fatto di una violenza terroristica mai apparsa fino ad allora nel nostro paese e avvenne poco tempo dopo il misterioso incidente al DC-9 Itavia in volo da Bologna a Palermo il 27 giugno di quell’anno, inabissatosi con 81 passeggeri nel mar Tirreno nei pressi dell’isola di Ustica. Ecco dunque la breve cronaca di quel tragico 2 agosto: alle ore 10,25 nella sala d’aspetto della stazione di Bologna Centrale circa 23 kg di esplosivo di fabbricazione militare vennero fatti saltare con un comando a tempo. Assieme alle vittime – 85 morti e 200 feriti – andarono distrutti gran parte della stazione, il parcheggio antistante e il treno Ancona-Chiasso in sosta. Tre giorni dopo l’attentato, a seguito di una riunione del comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza, il presidente del Consiglio Francesco Cossiga dichiarò: “La strage è di chiara marca fascista”. Le indagini porteranno all’arresto tra il 1981 e il 1982 di due estremisti di destra dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), Giuseppe Valerio Fioravanti e la sua fidanzata Francesca Mambro, i quali dopo un processo che era stato annullato, verranno condannati in modo definitivo all’ergastolo con sentenza del 23 novembre 1995. A questo riguardo l’ex presidente della Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino, ha sostenuto che il movente attribuito ai condannati per quell’eccidio, “non ha alcun senso”. Mambro e Fioravanti hanno ammesso altri delitti assai gravi per i quali hanno ricevuto condanne pesantissime; ma si sono sempre professati innocenti per quella bomba alla stazione di Bologna. Da notare che Cossiga, in una lettera inviata all’on. Enzo Fragalà – membro della Commissione d’inchiesta sul dossier Mitrokhin – e letta nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio il 20 luglio 2005 aveva scritto: “Premetto che non ho mai ritenuto la Francesca Mambro e Giusva Fioravanti responsabili dell’eccidio di Bologna. L’ultima, assai debole sentenza di condanna è da ascriversi alle condizioni ambientali, politiche ed emotive della città in cui è stata pronunziata, nonché alle teorie allora largamente imperanti nella sinistra e nella cosiddetta magistratura militante “. Il 30 maggio 2005, cioè due mesi prima di questa importantissima dichiarazione – che quindi smentiva quanto il presidente emerito della Repubblica aveva affermato quando la strage era stata appena compiuta – l’ANSA dava una notizia riferita al 1980, secondo la quale il giorno 11 luglio di quell’anno, il prefetto Gaspare De Francisci, direttore dell’UCIGOS (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali), scriveva al direttore del SISDE generale Grassini che il FPLP (Fronte Popolare Liberazione Palestina) minacciava ritorsioni contro il nostro paese a causa della vicenda di un giordano arrestato e condannato il 25 gennaio 1980 dal Tribunale di Chieti. De Francisci avrebbe poi coordinato le indagini sul sequestro Dozier, l’alto ufficiale statunitense rapito da un commando delle Brigate Rosse il 17 dicembre 1981 e liberato da una brillante operazione dei Nocs il 28 gennaio 1982. Il direttore dell’UCIGOS di quegli anni era quindi un grande professionista. Ma perché De Francisci aveva parlato del terrorismo palestinese che minacciava da vicino l’Italia? L’intricata vicenda è stata ben ricostruita da un dossier apparso sul numero di luglio/agosto 2005 del mensile “Area” e firmato da un brillante giornalista investigativo, Gian Paolo Pellizzaro. Consulente della commissione di inchiesta parlamentare sulle stragi e sul terrorismo, oltre ad avere svolto lo stesso incarico per la commissione Mitrokhin, presieduta tra il 2001 e il 2006 dal senatore Paolo Guzzanti, Pellizzaro si è occupato delle ricerche inerenti la strage di Bologna, citata infatti nel capitolo conclusivo del documento della commissione Mitrokhin. Secondo questa ricostruzione ampiamente documentata le origini dell’attentato sono da far risalire all’episodio dei “missili di Ortona”, ovvero all’arresto avvenuto il 7 novembre 1979 nei pressi di Ortona (Chieti) di tre rappresentanti dell’Autonomia Operaia di Roma. Baumgartner, Pifano e Nieri – questi i nomi degli arrestati – stavano infatti trasportando due lanciamissili di fabbricazione sovietica del modello SAM-7 Strela con relativo munizionamento avuti da un contrabbandiere di armi, il quale le aveva sbarcate quel giorno da una motonave presso il porto di Ortona al Mare. Ecco come vengono descritti i missili Sam-7 Strela nel capitolo conclusivo della relazione di maggioranza sul dossier Mitrokhin (pag. 285): “I missili [.] possono essere impiegati per un solo colpo e il missile è dotato di una testa auto cercante che consente di manovrare in modo automatico per colpire l’obiettivo, con una gittata massima di 6-7 chilometri. Il sistema è destinato contro aerei a bassa quota ed è idoneo a lanci contro aerei in allontanamento, in fase di decollo e di atterraggio”. Nello svolgimento della vicenda è fondamentale il successivo arresto operato a Bologna il 13 novembre 1979 del giordano Abu Anzeh Saleh, ovvero del responsabile del FPLP in Italia. E’ quindi importante ricordare che il capoluogo romagnolo era il luogo di residenza del giordano e che in questa ricostruzione la scelta del luogo dell’attentato – al di là delle motivazioni che vedremo – sia da ricondurre a questo fatto. Saleh avrebbe infatti dovuto essere presente alla consegna delle armi ma quel giorno aveva avuto un impedimento e quindi aveva delegato i tre autonomi romani per assolvere questo compito. Oltre ad essere una figura di spicco in Italia del FPLP, comandato dal noto terrorista palestinese George Habbash, A. A. Saleh era anche un uomo legato all’organizzazione del venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, noto anche come “Carlos”, ora condannato all’ergastolo e detenuto in Francia. Comunque la vicenda dei missili, lungi dal risolversi con l’arresto delle persone coinvolte, cominciò invece a diventare una questione molto spinosa per la magistratura e la politica italiana. Infatti il 2 gennaio 1980 il Comitato Centrale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina inviava una nota ufficiale al presidente del Tribunale di Chieti, presso il quale si stava svolgendo il processo. Ecco alcuni passaggi di quella nota: “I missili trovati ad Ortona sono dell’FPLP [.] Non c’è mai stata intenzione da parte del Fronte di usarli in Italia [.] E quindi il passaggio-chiave: “Noi richiedemmo che queste informazioni fossero trasmesse al governo italiano. Alcuni giorni dopo, l’ambasciata italiana ci confermò che il governo italiano era stato informato in modo esatto e completo”. Tutto il documento venne letto in aula durante il dibattimento ma a questo punto è opportuna una precisazione importante, perché la missiva era stata affidata a Damasco al colonnello Stefano Giovannone, il quale era subito partito per l’Italia senza informare l’ambasciatore a Beirut del motivo del viaggio. Questo alto ufficiale era stato designato nel 1972 come capo centro del SISMI a Beirut e lì rimase fino al 1981. Ecco cosa scrisse di lui l’ammiraglio Fulvio Martini – ex direttore del SISMI – nel suo libro “Nome in codice: Ulisse”: “Penso che l’Italia debba qualcosa a questo ufficiale dei carabinieri; in centrale [.] avevano scelto per lui il nome in codice Maestro e questo è già di per sé indicativo. Pochi riuscivano a capire con quali difficoltà il colonnello Giovannone avesse a che fare nello svolgimento della sua missione di capo centro a Beirut. Il compito principale di Giovannone era quello di mantenere il SID informato con continuità sull’evoluzione degli avvenimenti. Il Servizio, come era suo dovere istituzionale, aveva necessità di conoscere esattamente la situazione, non solo per poterla analizzare e fare delle previsioni utili alla politica estera del nostro governo, ma anche al fine di provvedere alla difesa dell’Italia da eventuali operazioni di terrorismo che avrebbero potuto coinvolgerla.[.] Era un maestro della cosiddetta diplomazia parallela – quella che ti scarica se non riesci e che ha come solo scopo l’interesse superiore del tuo Paese. Il suo successo fu completo. L’Italia fu molto ingrata con lui. Rientrò da Beirut nel 1980 e morì nel 1985, di tumore, dopo un calvario giudiziario che durò a lungo e durante il quale non fu difeso da quei politici che l’avevano utilizzato”. Poco prima di morire rilasciò un’intervista nella quale dichiarò: “Il mio dialogo con i palestinesi ha dato sette anni di pace all’Italia”. Possiamo a questo punto evidenziare nella lunga citazione tratta dal libro dell’ammiraglio Martini il termine di “diplomazia parallela”, quindi credo sia lecito domandarsi che tipo di agreement esistesse tra il nostro paese e i palestinesi per lasciare in pace l’Italia in quegli anni. Esistono infatti tutti gli indizi per ricostruire l’esistenza di un patto per assicurare al nostro paese un livello di tranquillità in cambio di una specie di salvacondotto per gli estremisti arabi. Nel saggio “Fratelli d’Italia” uscito nel 2007, l’autore Ferruccio Pinotti scrive: “Come è emerso successivamente, il governo italiano aveva siglato negli anni Settanta un accordo segreto con l’Olp mirato a evitare atti di terrorismo: in cambio della possibilità degli attivisti palestinesi di circolare sul territorio italiano, l’organizzazione di Arafat si sarebbe impegnata affinché non avvenissero attentati sul suolo nazionale. L’intesa sarebbe stata pensata già da Aldo Moro”. A questo proposito Rosario Priore, il magistrato che ha indagato nel corso della sua carriera su casi come la strage di Piazza Fontana, “l’incidente” di Ustica e l’attentato a Papa Giovanni Paolo II, ha affermato nel corso della trasmissione “Omnibus” su LA7 del 14 maggio 2007: “Io vorrei solo fare un piccolo riferimento a questo patto, questo è un patto di cui parla Moro in quattro importantissime lettere [.] Questo è un patto, diciamo la verità, che ha determinato la nostra storia per oltre trent’anni.” Le lettere di cui parla Priore sono evidentemente quelle che lo statista democristiano scrisse durante la sua prigionia nelle mani delle Brigate Rosse e i riferimenti a questo patto dovevano servire a giustificare uno scambio per la sua liberazione. Ecco il passaggio della lettera inviata alla Democrazia Cristiana: “in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la DC lo ignorasse, anche la libertà (con l’espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità”. In un’altra lettera indirizzata a Flaminio Piccoli Moro farà preciso riferimento al colonnello Giovannone affinchè venga in Italia ed influisca per la sua liberazione. Ma allora a quando risale la data di questo patto? Probabilmente una data precisa di stipula non esiste, ma le condizioni perché esso si realizzasse avvennero attraverso una serie di incontri e successivamente ad azioni terroristiche di “stimolo”. Ad esempio a seguito della strage all’aeroporto di Fiumicino operato da un commando palestinese di Settembre Nero, che il 17 dicembre 1973 provocò 32 morti e decine di feriti: fu così che il governo italiano nella persona dell’allora ministro degli Esteri Aldo Moro si decise a condurre le trattative per una “tregua” mantenendo il colonnello Giovannone dislocato a Beirut in qualità di garante affinchè potesse controllare e monitorare costantemente la situazione. Di fatto un accordo tutto sulla parola ma senza nulla di scritto. In pratica, a fronte della “distrazione” delle autorità italiane per il transito di materiale esplosivo e armi attraverso il nostro paese, l’Italia sarebbe stata risparmiata dalle cruente azioni del terrorismo palestinese e dai pericoli di ritorsione israeliana: e ciò in effetti accadde. Il nostro paese infatti, per la sua posizione geografica in mezzo al Mediterraneo era considerato un punto strategico ed inoltre proprio in quel periodo si verificò lo scontro arabo-israeliano del Kippur (6-22 ottobre 1973), con le dovute ripercussioni nell’area. Trattandosi comunque di un patto non scritto e a causa della cronica instabilità della situazione politica italiana, le condizioni andavano di volta in volta riviste a seconda dei vari accadimenti del nostro scenario politico. E sicuramente la morte di Moro (9 maggio 1978) dovette creare non poche complicazioni. Questa lunga digressione per spiegare cosa aveva innescato il sequestro dei missili – che durante il processo si scoprì essere solo in transito nel nostro paese – e l’arresto del responsabile del FPLP in Italia alla fine del 1979. Sempre Cossiga nella lettera inviata alla commissione Mitrokhin nel 2005 scriveva: “La richiesta avanzata dall’FPLP di restituzione dei missili faceva forse parte dell’accordo mai dimostrato ‘per tabulas’, ma notorio, stipulato sulla parola tra la resistenza ed il terrorismo palestinese da una parte, e dal governo italiano dall’altra, quando era per la prima volta Presidente del Consiglio dei Ministri l’on. Aldo Moro. La totale fedeltà e conseguente riservatezza che i collaboratori sia del Ministero degli esteri sia del Sifar e poi Sismi nutrivano per lui, impedì sempre a me, benché autoritariamente curioso, di sapere alcunché di più preciso sia da ministro dell’Interno, che da Presidente del Consiglio dei Ministri e da Presidente della Repubblica”. Inoltre nel corso della trasmissione “La storia siamo noi” su Rai Due del 24 maggio 2007 l’ex presidente della Repubblica ha affermato: “Arrivò attraverso Giovannone, un messaggio del capo di un’organizzazione terroristica, a me diretto, molto cortese che diceva: Ma qui stiamo violando i patti, il missile è mio, voi me lo dovete restituire “. Vi fu in quell’occasione un vero e proprio braccio di ferro tra la posizione dell’allora premier Cossiga e il nostro servizio segreto militare – i cui vertici risulteranno iscritti alla loggia massonica P2 – che riteneva ancora in vigore quell’accordo nonostante Moro non fosse più in vita. Tra l’altro, proprio in quel periodo il nostro paese era impegnato in una fase di importante riavvicinamento agli interessi degli Stati Uniti, di Israele e della NATO. Ma la posizione palestinese verso il governo italiano andò peggiorando nei mesi successivi, anche perché, come abbiamo accennato, il giordano Saleh, del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, era anche un uomo che faceva parte dell’organizzazione terroristica di Carlos, con il quale si era incontrato in più di un’occasione a Bologna e di certo non per dei briefing di tipo culinario. Il gruppo Carlos denominato Separat dalla Stasi dell’ex DDR ed attivo tra il 1976 e il 1989 ha avuto al suo attivo una serie di azioni terroristiche soprattutto sul territorio francese. Quindi la vicenda del sequestro dei missili Strela si stava intrecciando pericolosamente anche a questo gruppo che tra l’altro non era solo una variabile rischiosa ma altamente imprevedibile per gli sviluppi che poteva provocare. L’organizzazione terroristica di Carlos, detto anche lo Sciacallo, godeva inoltre della protezione dei governi dell’Est Europa e del Medio Oriente ed era in contatto con altri gruppi eversivi in Italia, Francia, Germania, Spagna, ecc. Da una ricerca della Digos di Bologna del marzo 2001 su segnalazione dell’allora capo della Polizia Gianni De Gennaro è emerso che Thomas Kram, membro di spicco delle Cellule Rivoluzionarie (RZ) e facente parte a tutti gli effetti del gruppo Carlos, alloggiò a Bologna la notte del 1° agosto 1980, cioè proprio il giorno prima dell’attentato. Kram, cittadino tedesco qualificato negli atti giudiziari come un grande esperto di esplosivi, si rese poi irreperibile la mattina del 2 agosto rimanendo latitante fino al 2006 quando si costituì in Germania. Va quindi annotato che, come indicato nell’ultimo capitolo dalla Commissione Mitrokhin, la Procura di Bologna ha aperto un procedimento a carico di ignoti per l’ipotesi di strage e successivamente ha chiesto, con rogatoria internazionale, di interrogare Kram come persona informata dei fatti. Tra l’altro lo stesso Carlos, nel corso di un’intervista in carcere rilasciata al “Corriere della Sera” il 23 novembre 2005 ha affermato che “un compagno tedesco era uscito dalla stazione pochi istanti prima dell’esplosione. Ho ricordato il suo nome leggendo il Corriere: Thomas Kram”. Se ciò non fosse ancora sufficiente a seguire questa pista, vorremmo anche ricordare che lo stesso tipo di esplosivo utilizzato nell’attentato di Bologna è stato rintracciato al momento dell’arresto nella valigia della terrorista tedesca Christa Margot Froehlich, anch’essa legata al gruppo Carlos, avvenuto il 18 giugno 1982 all’aeroporto di Fiumicino: purtroppo però gli esperti non lo hanno mai accertato con sicurezza assoluta e questo rimane un interrogativo ancora aperto di quella vicenda.L’attentato di Bologna venne poi a legarsi anche alla improvvisa sparizione, avvenuta a Beirut il 2 settembre 1980, di due giornalisti italiani, Italo Toni e Graziella De Palo. Ecco cosa scrive ancora Ferruccio Pinotti nel suo libro “Fratelli d’Italia”: “Lo stato, il governo, i servizi segreti avrebbero coperto i veri responsabili della strage di Bologna per rispettare l’accordo coi palestinesi. Si tratterebbe di una verità sconvolgente. E se Italo Toni e Graziella De Palo, attraverso le loro fonti palestinesi in Libano, avessero messo le mani su una simile “lettura” della strage di Bologna, si giustificherebbe la loro sparizione e si spiegherebbero le coltri di fumo e i depistagli posti in essere da Giovannone e dal generale Santovito sulla loro morte, tanto da essere rinviati a giudizio. Soprattutto si capirebbe il motivo dell’imposizione, sull’intera vicenda, del ‘segreto di Stato’, che permane tutt’oggi.” Se quindi l’ipotesi dell’attentato di matrice medio-orientale, finora senza esiti processuali, può comunque essere considerata una traccia molto credibile, considerando l’intreccio di motivazioni, connivenze e interessi – oltre alla sentenza molto dubbia nei confronti degli imputati Mambro e Fioravanti -, aggiungiamo un altro elemento che ha contribuito in questi anni all’offuscamento della verità processuale. Infatti il 13 gennaio 1981 sul treno Taranto-Milano in sosta alla stazione di Bologna veniva rinvenuta una valigia contenente esplosivo simile a quello utilizzato per la strage oltre ad armi ed altro materiale compromettente. Le indagini fecero scoprire che questo ritrovamento costituiva una vera e propria sceneggiata operata dal SISMI che, sempre fedele al “patto”, tentò il depistaggio verso elementi neo-nazisti e ciò spiega perché ufficiali del SISMI vennero condannati per questo episodio. Tornando invece alla condanna degli imputati al processo di Chieti per l’episodio dei missili, il giordano Saleh venne rimesso in libertà il 17 giugno 1981 per decorrenza dei termini di custodia, mentre gli altri complici italiani continuarono a rimanere in carcere. E’ quindi evidente la disparità del trattamento degli imputati. E ciò non può non essere stata una coincidenza casuale in seguito all’attentato avvenuto meno di un anno prima. Un’ultima nota crediamo sia doverosa per le vittime di quel tragico 2 agosto: persone ignare del proprio destino che vide 85 vittime o che avrebbero visto la propria vita completamente cambiata per un grave ferimento così come per la perdita di un familiare o di un caro amico. La perdita di fiducia nella giustizia e nelle istituzioni di cui oggi dobbiamo constatare la drammatica attualità è dovuta anche – ovviamente non solo – a situazioni irrisolte come quella di Bologna che, a distanza di quasi 30 anni, chiede una chiave di lettura diversa rispetto a quella finora rivelata. Mi sembra infatti che gli elementi oggi a nostra disposizione richiedano quindi un nuovo impegno da parte degli organi inquirenti e giudiziari per arrivare ad una memoria processuale condivisa che possa cominciare a ridare credibilità al nostro panorama istituzionale. Allo stesso tempo è certo che continuerà l’azione di sbarramento dei “guardiani della verità”, cioè di coloro che non vogliono che queste rivelazioni diventino di ampia diffusione, poiché si ha quasi l’impressione che la nostra opinione pubblica non sia ancora preparata alla lettura di fatti che accaduti da troppo poco tempo per essere completamente metabolizzati. Oltre alle inevitabili ripercussioni che simili verità possano divenire fonte di attrito con i vicini medio-orientali e i nostri interessi nell’area.

Rapporti Italia-OLP, segreti svelati!, scrive “Liberali per Israele”.

FRANCESCO COSSIGA: « Vi sono sempre delle cose, delle verità che è meglio che in certi momenti non si sappiano. Le faccio un esempio: quando io da Ministro dell'Interno o presidente del Consiglio mi vedevo con gli esponenti dell' Olp, non era bene che si sapesse, o quando abbiamo trattato con l'Urss per coprire un caso di spionaggio che aveva portato all'arresto di alcuni italiani e un brillante ufficiale del sevizio militare sovietico; all'arrivo di Gorbaciov facemmo in modo che questo funzionario fosse scarcerato.

Cari giudici girotondini, vi svelo una cosa. Io e Moro i terroristi li abbiamo sequestrati, cacciati, incastrati con la droga. E abbiamo vinto. Voi invece...

Caro dottor Spataro, io ho per Lei una grande simpatia, anche se l'ho denunziata e spero che di quella denunzia Lei debba rispondere, a onore degli uomini dei servizi segreti italiani e delle potenze alleate e amiche che ci difendono dal terrorismo (pardon, dalla "resistenza"). Stia certo che io andrei a trovare in carcere chiunque, anche se fosse un giudice, e porterei le arance siciliane e le ciliegie di Vignola prodotte da un mio amico, che non è né della Cia né del Sismi. Dicevo: io ho per Lei una grande simpatia perché siamo entrambi dei politici. Io lo sono in panni normali e combatto con la parola e lo scritto; Lei lo è nei panni del magistrato che lotta con l'esercizio dell'azione penale e con gli ordini di custodia cautelare. Da ragazzino io per la Repubblica e la Democrazia Cristiana facevo a botte; Lei non ho ben capito per che cosa, ma forse già allora faceva i girotondi. ::: Voglio raccontarLe alcune istruttive cose. Aldo Moro molto si preoccupava di tenere al riparo i cittadini italiani dagli attacchi del terrorismo arabo-medio orientale e palestinese: l'Olp di Arafat non aveva ancora rinunciato a compiere "azioni di convinzione" all'estero contro obiettivi ebraici e occidentali. Si operava nell'ambito del più generale accordo segreto chiamato il "patto Giovannone", dal nome del residente del Sismi a Beirut. Quando terroristi palestinesi tentarono - con missili terra-aria piazzati nei dintorni all'Aeroporto di Fiumicino - di abbattere un aeromobile civile israeliano dell'El-Al e furono arrestati, Moro intervenne personalmente sul presidente del tribunale, con la cortesia e la fermezza che gli erano proprie, e fece concedere ai terroristi la libertà provvisoria. All'uscita dal carcere vi erano agenti dell'allora Sid che prelevarono i terroristi appena scarcerati, li portarono in un aeroporto militare, li imbarcarono su un aeromobile DC 3 dello stormo dello Stato Maggiore, sigla "Argo", quello di cui normalmente si serve la V Divisione e cioè "Gladio" (mamma mia, "Gladio!") e li spedì a Malta, da dove raggiunsero la Palestina. Arafat ringraziò. Fortunatamente Lei, dottor Spataro, era impegnato in un girotondo! Gli israeliani anni dopo ci risposero e fecero saltare in aria l'Argo: pari e patta. Nella "guerra sporca" dei servizi si fa così! Altra storia. Un magistrato arrestò un giorno il capo del Sid, uomo fedele ad Aldo Moro che era allora presidente del Consiglio dei ministri, e arrivò vicino a scoprire la struttura di Gladio. Moro convocò un giovane ministro che ero io, e gli diede istruzioni di prendere contatto con la famiglia, e di esprimere ad essa e tramite essa la solidarietà del governo al generale. Moro mi diede le indicazioni per impartire all'arrestato le istruzioni su ciò che doveva e su ciò che non doveva dire al magistrato. Il generale fu messo in libertà e delicati segreti di Stato non furono rivelati al magistrato, con e senza password! E Lei, il dottor Spataro non c'era, perché si allietava a fare già i girotondi contro i futuri Ds, quando il Pci si fosse trasformato in essi! Quando diventai ministro dell'Interno, il capo dell'Ispettorato Antiterrorismo mi disse che potevamo fare un "colpo" catturando un terrorista (pardon, un "resistente rosso"!), rapendolo con la forza da un Paese confinante. Diedi l'autorizzazione, i nostri ragazzi penetrarono in "territorio amico", localizzarono il "rapendo", ebbero con lui un conflitto a fuoco e lo trasportarono di forza in territorio nazionale. Al processo il terrorista tacque perché su nostra richiesta il magistrato gli aveva promesso un trattamento di favore. Lei, dottor Spataro fortunatamente non c'era, perché si riposava dai girotondi. Sempre io giovane e spregiudicato ministro dell'Interno, mi feci consegnare da un mio più giovane collega straniero in un aeroporto militare di quel Paese un gruppetto di terroristi di destra (questi "delinquenti", e non "resistenti"), e li feci riportare in Italia senza le complicazioni di domande di estradizione e simili. Sempre ministro dell'Interno, escogitai un sistema per far fermare e interrogare sospetti terroristi o loro fiancheggiatori, per i quali i magistrati proprio non ci potevano concedere mandati di arresto e cattura o confermare fermi di polizia giudiziaria (solo dopo un paio d'anni riuscii infatti a far reintrodurre il fermo di polizia, con l'aiuto dei comunisti). E Le racconto un'altra cosa ancora, dottor Spataro. Nella calca delle grandi città, nostri ragazzi dell'Arma o della Polizia facevano scivolare buste di cocaina o di altra droga (in modica quantità!) nelle tasche del ben-capitato di turno. Qualche metro dopo una squadra della Guardia di finanza in divisa, che si trovava per caso di passaggio per servizio antidroga, fermava il sopraddetto, lo perquisiva, gli trovava la droga e lo portava in caserma dove, dopo un sommario interrogatorio sul possesso di droga, insieme a carabinieri o agenti di polizia dell'antiterrorismo in borghese il bencapitato veniva interrogato su fatti di terrorismo... con minor dolcezza! Gli Spataro non c'erano: erano i tempi degli Occorsio, dei Sica e dei Di Matteo..., quelli che con seri politici, soprattutto democratico-cristiani e comunisti, sconfissero il terrorismo (perdono! La "resistenza"!). Chissà quanti ostacoli alla lotta contro il terrorismo rosso ci avrebbe messo il girotondino Spataro, allora con baffi meno bianchi! Andiamo avanti con i ricordi. Dopo un devastante attacco terrorista contro obiettivi israeliani a Fiumicino (il "patto Giovannone" non venne violato!), dopo che gli "steward" e le "hostess" della El-Al fecero fuori tre o quattro terroristi la polizia italiana riuscì a catturarne uno, ferito. Il sostituto procuratore e il capo di una sezione antiterrorismo che mi incontrarono nell'obitorio dove ero andato a rendere omaggio alle salme dei cittadini israeliani (mi scusi, qualche girotondino direbbe "sporchi sionisti"!) uccisi, mi chiesero se ritenessi opportuno che, con l'aiuto degli anestesisti, gli agenti dessero una "strizzatina" al ferito per farlo parlare, in presenza del magistrato della procura di Roma, che naturalmente non era girotondino ma della sinistra vera. Il consiglio di dare strizzatine ai terroristi detenuti mi era stato dato anche da un grande capo partigiano, "icona" del Pci e leninista di ferro. Risposi che mi sembrava un'ottima idea. Così fu fatto: e la magistratura "mise dentro" un bel po' di complici dei terroristi (pardon, di resistenti contro il sionismo). Il "resistente" fu condannato all'ergastolo e fu poi oggetto di uno scambio. Lei, dottor Spataro non c'era, perché aveva ripreso gli allenamenti di girotondo! Avendo avuto forti insegnanti di diritto costituzionale e di diritto penale (sì, mi sono laureato in diritto penale ottenendo il voto di 110 su 110 e lode, con dignità di stampa!) conosco che cosa sia la legalità ordinaria e la legittimità istituzionale dei tempi di guerra. Non si affanni a fare indagini, dottor Spataro, perché è tutto prescritto... In conclusione: io, democratico, antifascista e antiterrorista, ringrazio gli agenti del Sismi, quelli della Cia (sì, anche quelli della Cia con le "extraordinary rendition") del Security Service, quelli della BND, quelli dell'SFB che hanno fatto (complimenti!) il bel colpo contro il capo terrorista ceceno. Li ringrazio per il contributo che danno, anche con metodi spicci, alla lotta contro il terrorismo islamico (pardon, la resistenza islamica!) Spero che Clemente Mastella riesca a salvarsi dalla stretta della lobby politicosindacale dell'Associazione Nazionale Magistrati e a rifiutarsi di inoltrare la domanda di estradizione degli agenti Cia che Lei - insieme al non girotondino conoscitore delle "carte di Montenevoso" - inoltrerete agli Stati Uniti. Spero che Mastella riesca ad evitare che dall'altra parte dell'Atlantico ci arrivi una pernacchia imperiale! Sa che cosa mi duole di tutta questa vicenda, dottor Spataro? Che né il governo né il Sismi abbiano dato una mano alla Cia, come quasi tutti gli altri Stati e servizi di intelligence europei hanno fatto! Con sincera cordialità.»

FRANCESCO COSSIGA: «Adesso le dico un segreto, quando venne in Italia Arafat per i funerali di Berlinguer, nei suoi confronti c'era un ordine di cattura emesso dal giudice Mastelloni. Avevamo paura che ci arrestassero Arafat, e io allora ero presidente del Senato lo nascosi insieme ai suoi all'interno dell'allora mio appartamento al Senato, e depistammo i carabinieri che avevano avuto l'ordine dal giudice Mastelloni di eseguire il mandato di cattura. Adesso lo si può dire».

Lo sa che Cossiga per far partecipare Arafat ai funerali di Berlinguer lo nascose al Senato?

CARLO MASTELLONI - Procura di Venezia: «Non mi meraviglio perché si mosse tutta una macchina, in maniera abbastanza violenta, virulenta. Io ricevetti perquisizioni per scoprire quali fossero le mie idee politiche, fu un episodio molto doloroso. Da una parte si può anche capire le motivazioni politiche che spingono un parte politica ad intervenire, dall'altra bisogna andare sempre dritti per fare il proprio dovere.»

BERNARDO IOVENE: «Tra l'organizzazione per la liberazione della Palestina e l'Italia c'era un accordo segreto che aveva fatto Aldo Moro. Un accordo ancora oggi sconosciuto».

FRANCESCO COSSIGA: «Non si è mai saputo, io non ho mai conosciuto i termini reali dell'accordo che fece Moro con l'OLP, ma tale accordo prevedeva che quando furono arrestati dei guerriglieri arabi con dei lanciamissili terra-aria destinati ad abbattere un aereo di linea israeliano a Fiumicino, questi su richiesta dell'OLP furono portati a Malta e liberati».

BERNARDO IOVENE: «In pratica furono beccati dei terroristi palestinesi con dei missili terra aria per abbattere un aereo israeliano e in barba alle leggi italiane furono riaccompagnati a casa».

E ritorniamo al segreto di Stato, quanto dura?

GIUSEPPE DE LUTIIS - Consulente Commissione Stragi: «Attualmente i segreti dei servizi sono eterni a meno che un presidente del Consiglio non decida di farne decadere qualcuno in specifico».

Da spararsi un colpo in testa, ragazzi!

ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?

“Tranquilli amici, la Calabria non esiste”, scrive il 14 agosto 2015 Piero Sansonetti su "Il Garantista". Un giorno un cronista di un giornale del nord andò dal suo caporedattore, un po’ agitato, e gli chiese: “Cosa devo fare con il ciclone che ha sconvolto la Calabria, provocando danni enormi, isolando paesi, città, campagne, facendo mancare acqua e luce, trascinando decine di macchine nel mare? E’ una apocalisse: è da prima pagina. Forse dovremmo aprirci il giornale”. Il suo capo redattore alzò lo sguardo, sornione, e con tutta calma domandò: “c’entra la ‘ndrangheta in questa storia?”. Il cronista dovette ammettere che la ‘ndrangheta stavolta non c’entrava. E il caporedattore allora gli spiegò che la Calabria è la terra della ‘ndrangheta e della criminalità, e la Calabria interessa ai giornali solo se si parla di ‘ndrangheta. Per il ciclone basta qualche riga in una pagina interna. Molto interna…Ieri, più o meno, le cose devono essere andate così nelle redazioni di quasi tutti i giornali del centro-nord. “Repubblica” sistema la Calabria a pagina 21 e il “Corriere” fa la stessa scelta. Se avete letto il “Garantista” o un altro giornale calabrese sapete cosa è successo, l’altro giorno, nel litorale Ionico. E conoscete l’ampiezza dei danni. Il Presidente Oliverio ha chiesto che sia dichiarata la calamità naturale. Né il governo, né i vertici dello Stato, né i grandi giornali sono rimasti molto impressionati, e hanno tutti continuato a scannarsi, anche nei partiti, un po’ sulla questione del Senato e un po’ sul litigio tra Gianni Cuperlo e Sergio Staino. Cosa sarebbe successo se l’uragano che ha devastato il cosentino avesse colpito Genova, o Firenze o magari persino Vicenza? L’iradiddio, giustamente. Tutti i giornali nazionali avrebbero dedicato all’avvenimento l’apertura e cinque o sei pagine interne, apertura anche dei telegiornali, decine di inviati, dichiarazioni e impegni solenni del Presidente della repubblica, del premier, dei ministri, polemiche feroci dei partiti di opposizione. Ma la Calabria non esiste. Tranquilli. Non può esserci stata nessuna calamità naturale, in Calabria, perché la Calabria non esiste. Esiste la ‘ndrangheta, non la Calabria.

Dici Calabria o Sicilia o Campania, pensi a tutto il Sud Italia.

Nei libri scritti da Antonio Giangrande, “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE”, “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE, CENSURA ED OMERTA’” ed “ITALIA RAZZISTA”, un capitolo è dedicato all’Antimafia razzista e censoria.

Su questo tema Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti del razzismo palese o latente contro il popolo dell’Italia meridionale si è soffermato prendendo spunto dai fatti di attualità.

Quando i posti di chi ha ragione sono tutti occupati……..e gli occupanti parlano, anche il Papa si fa abbindolare………

Gli ‘ndranghetisti rinchiusi nel carcere di Larino non vogliono più partecipare alla messa della domenica, scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. Dopo le parole pronunciate da Papa Francesco proprio in Calabria ("Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati"), in tanti hanno protestato con il cappellano del penitenziario don Marco Colonna e annunciato che non parteciperanno più alle funzioni in cappella. E lo sciopero della messa è andato avanti per giorni. A rivelarlo è stato il vescovo di Termoli-Larini Gianfranco De Luca che ha varcato la soglia del carcere di Larino per incontrare i detenuti che protestano e officiare una messa speciale per loro.  "Ma per favore non parlare di rivolta... - s’infuria don Marco rispondendo alle domande di Repubblica.it - qui nessuno è in rivolta. Oggi alla messa erano in tanti per fortuna. La verità è che in questi giorni tanti detenuti hanno manifestato dubbi e proteste dopo le parole del Papa. Parole che a quanto pare hanno colpito nel segno se tanti di loro sono venuti a parlarmi per chiedermi cosa dovevano fare. Se dovevano ritenersi scomunicati. Alcuni mi hanno detto: padre, ma se siamo scomunicati noi a messa che ci veniamo a fare? A questo punto non veniamo più... Io invece ho spiegato loro che il Papa non vuole cacciare nessuno. Ha indicato solo la retta via, ha chiesto la loro redenzione, non la loro espulsione”. Ed è stato il vescovo di Campobasso, Giancarlo Bregantini a confermare la vicenda: «la Sezione di alta sicurezza del carcere di Larino - ha spiegato durante un intervento alla radio Vaticana - si è messa in protesta con questa frase: “Se siamo scomunicati, a Messa non vale la pena andarci”. Ne hanno parlato con il cappellano; quest’ultimo questa mattina ha invitato il vescovo al carcere per parlare e spiegare il senso dell’intervento del Papa. Questo dimostra come non sia vero che dire certe cose, sia clericalismo; in realtà le parole del Papa, come quelle della Chiesa e di Gesù Cristo, hanno sempre una valenza etica che diventa poi sempre culturale ed economica, quindi con grandi riflessi politici». La direttrice del carcere Rosa Ginestra ha voluto comunque smentire la notizia della rivolta. «Ma chi ha usato il termine rivolta? Quale rivolta... E’ falso. Oggi in carcere è un giorno tranquillo come gli altri». E don Marco spera di aver fermato lo sciopero della messa. A Oppido Mamertina, nelle stesse ore, esplode il caso della Madonna portata in processione davanti alla casa di un boss ergastolano ai domiciliari. "Interverremo con provvedimenti energici", assicura il vescovo.

Il razzismo è latente: dici Calabria, pensi al Sud Italia.

RAZZISTI. SE QUESTA E’ L’ANTIMAFIA. Questo è un pezzo scritto da Nando Dalla Chiesa. Esso va letto con gli occhi e con il senso che si può dare al di là delle parole. Si capisce fino in fondo quanto può essere cattivo l’animo umano di un settentrionale. Interi paesi del nord Italia contro l’infiltrazione della ‘ndrangheta? No. Contro l’inserimento dei calabresi nel loro territorio padano. “Mettiamola così: questo è un diario di bordo, una testimonianza doverosa di un militante dell’antimafia che in vita sua ne ha viste, studiate e sentite tante. E che una sera capita a Viadana, ricca provincia mantovana. Invitato da militanti locali del Pd che vogliono dare la sveglia all’ambiente. Strattonare gli ignavi, gridare che con la ‘ndrangheta non si può convivere. “Per favore, vieni a presentare il tuo Manifesto dell’Antimafia, ce n’è bisogno”. E’ la sera di martedì 1 luglio quando arrivo a Viadana dopo un passaggio alla biblioteca comunale di Mantova. Ho già scoperto dai toni tirati, preoccupati, usati nell’occasione dall’ex sindaco del capoluogo Fiorenza Brioni che deve esserci qualcosa di grave nell’aria. La classica cortina di ferro, già vista innumerevoli volte, da Palermo a Milano, tirata su, stavolta anche a sinistra, in difesa del solito argomento: l’inesistenza della mafia in provincia, la rimozione maledetta; magari pure la derisione o l’alzata di spalle verso che denuncia. Affetto da protagonismo, mosso da ragioni personali. E’ appena finita una bufera d’acqua. La presentazione, prevista in piazza, è stata spostata sotto i portici. Che sono già affollati all’ora dell’inizio, file di sedie bianche che gli organizzatori continuano ad allungare e allargare all’esterno dei portici. Al tavolo un membro del circolo anti-‘ndrangheta del Pd locale (commissariato come l’altro), un esponente dell’associazionismo e il corrispondente della “Gazzetta di Mantova”. Non ci vuole molto per capire che l’atmosfera è elettrica. Che i presenti (c’è anche qualcuno di Forza Italia) vogliono ribellarsi a qualcosa. Vengono subito in mente gli incontri fatti negli ultimi anni a Desio, Lonate Pozzolo, Bordighera, i comuni dove i clan calabresi avevano affermato il loro dominio contrastati da un pugno di persone senza ascolto nei partiti. Questa è zona di tradizioni democratiche. Eppure è successo qualcosa che ha sconvolto tutto. “Viadana è nostra” giurava gongolando nel 2006 un giovane esponente dei clan in una telefonata. Una millanteria? No, i segni ci sono tutti. Gli incendi, linguaggio inconfondibile e prova provata della presenza mafiosa. Le imprese edili calabresi infarcite di pregiudicati che crescono nel mezzo di una crisi che non risparmia nessuno. L’ingresso di tesserati sconosciuti nel maggior partito di governo (il Pd), provenienza Isola di Capo Rizzuto e zone confinanti. Gli avvertimenti che giungono sibillini a chi promuove in consiglio comunale un questionario da dare ai cittadini sulla percezione della presenza mafiosa, nulla di forte, per carità, ma loro capiscono e prendono cappello lo stesso. O l’assessore che porta un ferito da arma da fuoco in ospedale asserendo di averlo raccolto per strada come un buon samaritano: uno sconosciuto, dice; mentre l’interessato lo dichiara amico suo. Eccetera eccetera. Un oratore racconta che chi ha dato i volantini della serata è stato seguito e oggetto di attenzioni non amichevoli. Il giornalista aggiunge che quando ha indagato sull’accoglienza riservata al questionario, si è imbattuto nel vittimismo. Ce l’hanno con noi perché siamo calabresi, è un pregiudizio razzista. Obietto che i veri razzisti sono gli uomini dei clan, visto che in tutte le conversazioni intercettate identificano se stessi con “la Calabria”. Mi viene poi detto che i più tosti nell’innalzare la bandiera vittimista non ne vogliono però sapere di prendere le distanze dagli Arena, il clan che a Isola di Capo Rizzuto spadroneggia che è un piacere. “E’ accaduto tutto quello che dici nel libro. Le tre ‘C’, i complici, i codardi e i cretini. L’avessimo saputo prima… anche il gemellaggio che dici, pure quello abbiamo fatto, con la processione del loro santo. Ma ti rendi conto?”. Mi rendo conto. L’ho visto decine di volte. E’ così che conquistano i paesi, che si mette nelle loro mani un pezzo d’Italia dopo l’altro. Con le autorità che concedono le white list a imprese assai discusse, per non avere grane con il Tar. Con i partiti più preoccupati dei loro equilibri interni che dei drammi del paese e che proprio non ci riescono a pensare come se fossero lo Stato. Metti una cosa dietro l’altra e alla fine succede la cosa più logica: vincono loro. Soprattutto se chi si ribella viene commissariato”.

SINONIMI E CONTRARI: 'NDRANGHETISTA E' UGUALE A CALABRESE. QUEL FASTIDIOSO MARCHIO MESSO NERO SU BIANCO DA DALLA CHIESA. "Nei cantieri che sono di Expo abbiamo rilevato segni di presenza mafiosa così come abbiamo rilevato la capacità delle organizzazioni criminali di inserirsi in opere anche appaltate direttamente da Expo. C'è una situazione che deve essere controllata meglio". È questo l'allarme lanciato dal presidente del Comitato antimafia del Comune di Milano, Nando Dalla Chiesa, nel corso della presentazione della V relazione stilata dall'organo da lui presieduto il 3 agosto 2014. Una relazione questa presentata "con una certa urgenza - ha chiarito Dalla Chiesa - e che riporta i segni di presenza mafiosa riscontrati dal Comitato". Fin qui tutto nella norma potremmo dire, Ferdinando Dalla Chiesa presiede il Comitato antimafia del Comune di Milano che a sua volta stila una relazione nella quale segnala la presenza di forze mafiose nei cantiere dell'Expo. Nulla da dire se non fosse che nel documento in questione i calabresi tutti vengano bollati come affiliati alla 'ndrangheta, ma andiamo con ordine, scrive Maria Chiara Coniglio su “Telemia”. Dalla Chiesa nel corso della conferenza stampa del Comitato antimafia ha detto senza troppi giri di parole che bisogna chiudere i varchi non agli 'ndranghetisti ma ai calabresi. Una gaffe, può aver pensato qualcuno, e invece no, Dalla Chiesa a scanso di equivoci ha ampiamente ribadito il concetto all'interno del documento in cui per ben 13 volte il termine calabrese viene utilizzato come sinonimo di 'ndranghetista. Nel testo si fa infatti riferimento alla presenza di "padroncini calabresi nello svolgimento di lavori che pur si realizzano a forte distanza dai comuni di loro residenza" o ancora a come l'impresa Perego avesse il compito di mantenere "150 famiglie calabresi". Insomma basta con questo stupido buon senso e addio al non far di tutta l'erba un fascio, un capro espiatorio dovrà pur esser trovato e qual miglior posto della Calabria per dar frutto ad una simil ed ardua ricerca. Del resto in regione al fango si è purtroppo concesso che ci abituassero e poco è stato fatto per rimuovere il marchio dei brutti, sporchi e cattivi. Calabrese è uguale a 'ndranghetista ed ora Dalla Chiesa lo ha messo nero su bianco in un documento ufficiale in barba ai calabresi, silenti vittime di un razzismo sempre più manifesto. 

Il delegato di Confindustria Calabria per Expo 2015, Giuseppe Nucera, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio regionale Francesco Talarico, stigmatizzando la mancata presa di posizione del mondo politico-istituzionale calabrese di fronte alle affermazioni rese nei giorni scorsi da Nando Della Chiesa durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto del Comitato Antimafia del Comune di Milano, scrive “Stretto Web”. In quella sede, Dalla Chiesa, che presiede l’organismo, ha affermato che bisogna “chiudere ai calabresi” in quanto ‘ndranghetisti. Nella missiva, Nucera sollecita una presa di coscienza e una corale reazione da parte della società civile e dei corpi intermedi della comunità calabrese. “Alla gravità di quanto sostenuto da Dalla Chiesa – scrive Nucera a Talarico – non è seguita una ferma e forte presa di posizione da parte dei politici calabresi e/o degli organi istituzionali regionali . L’ufficio che lei presiede rappresenta tutti i calabresi residenti e non e, quindi, ci aspettavamo che la massima istituzione della Calabria scendesse in campo per difendere la dignità e l’onore dei suoi cittadini. Silenzio assoluto da destra e da sinistra. Allo sconcerto di quelle dichiarazioni oggi aggiungiamo l’indignazione nei confronti di chi esercita una funzione di rappresentanza dei calabresi”. “Solo Confindustria – aggiunge il delegato degli industriali calabresi per l’Expo – ha preso posizione e porterà in tribunale Nando Della Chiesa. Questo è il fatto. Da qui bisogna partire per iniziare un percorso diverso, una riflessione, una strategia che ci consenta di uscire dal ghetto in cui ci hanno portato. Abbiamo il dovere di reagire per i nostri figli, per i nostri nipoti che vivono, studiano, lavorano in Lombardia e in tutto il mondo” Ad avviso di Giuseppe Nucera, “bisogna reagire con un piano strategico di comunicazione su vasta scala, che metta in evidenza la vera identità del popolo calabrese. Un’identità sfregiata dai mafiosi e da coloro che se ne servono per i loro sporchi affari sia in loco che nel nord Italia. Saranno i giudici a stabilire le responsabilità penali ed a colpire il ghota mafioso e gli ambienti economici che ci sguazzano. Noi siamo positivi, siamo la vera Calabria e chiederemo ai calabresi di scienza, di cultura, di impresa, che hanno dato prova di ottima e sana amministrazione pubblica e privata, di scendere in campo, di testimoniare con la propria storia l’identità di un popolo. E’ un grande impegno a cui dobbiamo far fronte – conclude Nucera – altrimenti ci saranno altri Nando dalla Chiesa e qualcuno, quanto prima, chiederà la deportazione dei calabresi e l’apertura dei campi di sterminio. Adesso basta”.

Da diversi mesi sono troppe le notizie e le illazioni che leggiamo sui media locali e nazionali e sui diversi social network tese a delegittimare un intero sistema economico e sociale. I calabresi non sono tutti malavitosi. Basta con questi vili attacchi, scrive Angelo Marra, Presidente del Gruppo giovani imprenditori di Confindustria Reggio su “Zoom Sud”. Purtroppo l’ostilità mediatica degli ultimi giorni sta innescando un circuito pericoloso che avrà conseguenze molto negative. Credo che quanto stia accadendo non nasca in maniera accidentale, bensì sia il risultato di un’azione ben programmata al fine di delegittimare tutto e tutti, aziende e cittadini, per una volontà politica-commerciale precisa. Se si continua su questa scia, se i vari personaggi pubblici continueranno a descriverci come ‘pericolosi’ o ‘disonesti’, tutte le nostre imprese correranno grossi rischi, perderanno commesse o trattative. In un periodo storico di grandi difficoltà economiche, eliminare un competitor, considerando tra le altre cose, che gli spazi sono sempre più ristretti, è una strategia di mercato. Non sta a noi descriverci come aziende sane e rispettose delle regole, ma tutti gli sforzi fatti fin qui da migliaia di uomini e donne reggini e calabresi, rischiano di divenire vani se continuano ad etichettarci come qualcosa che non siamo. La Calabria è colma di imprenditori onesti e professionali, di giovani talentuosi e vogliosi di fare impresa e dare corpo alle proprie idee. Vogliamo competere ad armi pari con le imprese settentrionali e per farlo pretendiamo dalle istituzioni da un lato maggiori controlli, a garanzia di legalità e trasparenza, e dall’altro, con la stessa scrupolosità, maggiore impegno ad eliminare radicalmente il gap atavico del nostro geographical handicap ”.

QUANDO L'ANTIMAFIA DIVENNE RAZZISMO: CALABRESE= 'NDRANGHETA. LETTERA APERTA A NANDO DALLA CHIESA. Carissimo dott. Dalla Chiesa (scrive Angelo Costantino Presidente "Giovani Per il Futuro"), curiosando sulla prima pagina de "Il Garantista",non ho potuto fare altro se non acquistare il quotidiano e sfogliare frettolosamente sino a pag. 4. Il titolo era alquanto emblematico, ma volevo capirci meglio. Non potevo credere ai miei occhi. Le parole riportate nell'articolo, la relazione che Lei ha presentato al Comune di Milano nella veste di coordinatore del comitato antimafia sarebbero dovute essere state scritte da un neofita, ma non da Lei. Lei che ha visto i propri genitori morire sotto i colpi della mafia per le strade di Palermo, Lei che è docente di Sociologia della Criminalità organizzata presso l'Università degli Studi di Milano, Lei che ha ricordato nei suoi scritti Falcone e Borsellino, ma anche uno sconosciuto a molti come Rosario Livatino, Lei che è un esperto dell'argomento non poteva permettersi una simile caduta di stile. Chi Le parla è uno studente di Giurisprudenza presso l'Università Cattolica di Milano, REGGINO CALABRESE INCAZZATO. "Del resto chi è nato e cresciuto da quelle parti, qualcosa da nascondere ce l'ha sempre, al limite qualche parentela o amicizia sospetta." Con queste parole Lei ha chiaramente voluto intendere che chi nasce in Calabria è marchiato a vita,che calabrese equivale a 'ndranghetista. Che per noi non v'è alcuna speranza. Lei questa la chiama realtà, io razzismo. Le replico con durezza perché queste parole mi hanno fatto male,e so per certo che rappresento lo sgomento di milioni di calabresi. Lei con poche ma incisive parole ha mancato di rispetto ai milioni di cittadini onesti; ai numerosi ragazzi che militano nelle associazioni antimafia; agli imprenditori che resistono, denunciano, e non pagano il pizzo; ai politici che non si fanno piegare; ai magistrati che per speranza e passione non hanno più una vita normale; ai ragazzi che non si arrendono e sperano ogni giorno in un futuro migliore. Ha offeso suo padre, morto per combattere il sistema. Ha offeso tutti i morti "ammazzati", i nostri veri eroi. La sua grande conoscenza dell'argomento l'ha portata ad una conclusione ignorante. Non si diventa simboli dell'antimafia sparando a zero o facendo di tutta l'erba un fascio, ma solo arrivando al cuore del problema, lottando e appoggiando la gente onesta e desiderosa di cambiamento, quella stessa gente che Lei ha offeso. La invito a scusarsi per alcune parole da Lei pronunciate e, mi auguro, interpretate in modo errato. Ma soprattutto La invito a venire qui da noi, ospite dei Calabresi onesti, per dimostrarLe che la nostra terra è più bella che maledetta, ma soprattutto ricca di speranza.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo  come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale  e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza,  nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati. Eppure la demagogia e l'ipocrisia non si spegne.

La Madonna si inchina al covo del padrino, processione shock tra i vicoli di Ballarò. Il boss Alessandro D’Ambrogio è in carcere a Novara ma domenica, a Palermo, la sfilata del Carmine gli ha reso onore davanti al luogo simbolo di Cosa Nostra. La chiesa: “Ancora una sosta anomala”, scrivono Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta su “La Repubblica”. L’ultimo padrino di Cosa Nostra è rinchiuso nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora tra i vicoli di Ballarò, qui dove due anni fa portava orgoglioso la vara della madonna del Carmine. Domenica scorsa il boss Alessandro D’Ambrogio non c’era. Ma la processione ha voluto comunque rendergli onore: si è fermata proprio davanti all’agenzia di pompe funebri della sua famiglia. Un uomo di mezza età, con la casacca della confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, urla: «Fermatevi». E così la processione della madonna del Carmine si ferma, mentre la banda continua a suonare. La vara tutta dorata di Maria immacolata si ferma davanti all’agenzia di pompe funebri della famiglia del capomafia Alessandro D’Ambrogio, uno dei nuovi capi carismatici di Cosa nostra palermitana. Lui non c’è, rinchiuso dall’altra parte dell’Italia, nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora qui, tra i vicoli di Ballarò. Questo accadeva domenica, intorno alle 19: la processione ferma per quasi cinque minuti davanti all’agenzia di via Ponticello, tra la gente in festa per l’arrivo della statua della madonna. Fino a un anno e mezzo fa, in questi uffici arrivavano solo poche persone, scendevano da auto e moto di lusso e si infilavano velocemente dentro. Nell’agenzia di pompe funebri dove la processione si è fermata Alessandro D’Ambrogio organizzava i summit con i suoi fedelissimi, ripresi dalla telecamera che i carabinieri del nucleo investigativo avevano nascosto da qualche parte. Ecco perché questo luogo è un simbolo per i mafiosi di tutta Palermo, il simbolo della riorganizzazione di Cosa nostra, nonostante la raffica di arresti e di processi. Ecco perché il capomafia di Ballarò sembra ancora qui: la processione gli rende omaggio nella sua via Ponticello, a due passi dall’atrio della facoltà di Giurisprudenza dove sono in bella mostra le foto dei giudici Falcone e Borsellino il giorno della loro laurea. È questa l’ultima cartolina di Palermo. Ancora una volta, diventa sottilissimo il confine fra mafia e antimafia. Quasi non esiste più confine fra sacro e profano. Due anni fa, D’Ambrogio portava orgoglioso la vara di questa madonna con la casacca della confraternita. Adesso è accusato di aver riorganizzato la mafia di Palermo, aver diretto estorsioni a tappeto e traffici di droga milionari. Ma la processione continua a rendergli onore. I tre fratelli del padrino sono tutti lì, davanti all’agenzia di pompe funebri, per accogliere la festa più importante dell’anno. Franco, con amici e parenti. Iano e Gaetano un po’ in disparte. I fratelli D’Ambrogio non sono mai stati indagati per mafia, ma non è per loro che si ferma la processione. Sembra una sosta infinita, la più lunga di tutto il corteo. Anzi, soste ce ne sono ben poche lungo il percorso. Per i giochi d’artificio o per le offerte di alcuni fedeli. I D’Ambrogio non fanno né fuochi d’artificio, né offerte. Chiedono ai confrati di portare sin sulla statua due bambini della famiglia. Poi, Franco D’Ambrogio saluta con un sorriso. E la processione riprende. «È stata una fermata anomala», ammette fra’ Vincenzo, rettore della chiesa del Carmine Maggiore. «Anche quest’anno è accaduto», sussurra il giorno dopo la processione. «Io ero avanti, su via Maqueda, stavo recitando il santo rosario. A un certo punto mi sono ritrovato solo. Ho capito, sono tornato indietro di corsa, e ho visto la statua della madonna ferma. Qualcuno stava passando un bambino ai confrati, per fargli baciare la Vergine. Cosa dovevo fare? Era pur sempre un atto di devozione quello. Qualche attimo dopo, la campanella è suonata e la processione è andata avanti». Adesso, frate Vincenzo cerca con dolore le parole: «Avevo cercato di esprimere concetti chiari durante la preparazione del triduo della Madonna, richiamando tutti al senso di questa processione così importante. Ho detto certe cose nel modo più gentile possibile, per evitare reazioni, ma le ho dette. Ed è accaduto ancora. Cosa bisogna fare?». Il frate va verso l’altare. «Cosa bisogna fare?», ripete. Da quando l’anziano sacerdote si è ammalato lui è solo nella frontiera di Ballarò, che continua ad essere il regno dei D’Ambrogio, nonostante i blitz disposti dalla procura antimafia. «Da qualche tempo, la Curia si sta muovendo in modo deciso — il tono della voce di fra’ Vincenzo diventa più sollevato — sono stati chiesti gli elenchi dei componenti delle confraternite, e poi il cardinale ha inviato suoi rappresentanti alle processioni ». Anche domenica pomeriggio, a Ballarò, c’era un ispettore inviato dal cardinale Paolo Romeo. Perché Cosa nostra continua ad essere molto legata ad alcune processioni. Uno degli ultimi boss arrestati, Stefano Comandè, era addirittura l’autorevole superiore della Confraternita delle Anime Sante, che organizza una delle più importanti processioni del Venerdì Santo a Palermo. I carabinieri l’hanno fermato alla vigilia di Pasqua, poche ore dopo aver portato in giro per il quartiere della Zisa le statue di Cristo morto e di Maria Addolorata: le microspie hanno svelato che Comandè era fra i registi di una faida che stava per scoppiare. La Curia l’ha rimosso e ha sciolto la confraternita. Anche perché il boss devoto non si rassegnava e dal carcere faceva sapere tramite i familiari: «A giugno faremo un’altra grande processione. E alla confraternita nomineremo una brava persona». Ma questa volta l’intervento della Chiesa è stato severissimo: «Scioglimento della confraternita a tempo indeterminato per infiltrazioni mafiose». È la prima volta che accade in Sicilia.

Gli “inchini” della Chiesa ai boss? Cosa volete, sono le superstizioni dei poveri meridionali sottosviluppati. Su Repubblica il commento di Augias al video della processione palermitana con presunto omaggio mafioso diventa un affondo devastante sulla fede del Sud Italia, scrive “Tempi”. Nella rubrica delle lettere di Repubblica tale Plinio Garbujo chiede oggi a Corrado Augias un commento sul caso – sollevato un paio di giorni fa dalla stessa Repubblica – del «video shock» in cui si vede una scena che il lettore, sulla base della ricostruzione offerta dal quotidiano, sintetizzata così: «Durante la processione della Madonna del Carmine, la statua con il baldacchino si è fermata davanti all’agenzia funebre del boss D’Ambrogio, luogo simbolo di Cosa Nostra, per rendergli onore, mentre lui è in carcere a Novara». «Sembrerebbero notizie del lontano Medio Evo, anche se il fatto è accaduto domenica scorsa», osserva Garbujo, scandalizzato perfino dal fatto che «i genitori che partecipano a tale processione si affrettano a far salire i loro bambini sul baldacchino (…) per poter baciare la Madonna». Insomma, rimprovera il lettore di Repubblica, «siamo nel 2014 dopo Cristo. Di quanto tempo ha ancora bisogno il Sud per potersi liberare di queste tradizioni e di queste manifestazioni in cui chi comanda non è la parrocchia – e a quanto pare nemmeno il Papa – ma il boss locale?». Bene. A parte l’avventatezza del giudizio di Garbujo (è ancora tutta da verificare la tesi secondo la quale la tappa della processione filmata da Repubblica fosse in effetti un “inchino al boss”), quello che stupisce davvero – si fa per dire – è la risposta di Augias, il quale anziché restituire il giusto spazio al dubbio sulla vicenda, come ci si aspetterebbe da un intellettuale laico quale egli dice di essere, decide di approfittarne per buttare là valutazioni anche più spinte. «Gli abitanti di quelle città riusciranno mai a rendersi conto che siamo cittadini d’Europa dove si rispettano le regole, si pagano le tasse, si protegge il territorio e non ci si nasconde dietro all’omertà e al servilismo interessato per qualche favore clientelare?», domanda indignato il lettore in coda alla missiva. «Non lo so», replica Augias. «Temo che non lo sappia nessuno, del resto». Però c’è una cosa cha Augias ritiene di sapere con sorprendente certezza: «Avergli reso omaggio (al boss mafioso, ndr) facendo sostare la statua della Madonna davanti alla sua agenzia di pompe funebri è un insulto sia religioso sia civile» che «contraddice lo stesso indirizzo che la Chiesa cattolica si è data di recente grazie al papa Francesco». Ma l’intellettuale non si ferma all’aspetto “legale” della vicenda. Come gli capita spesso si sente in dovere di giudicare anche l’aspetto religioso della faccenda. In questo modo: «Le processioni – scrive – sono retaggio di una religiosità tipicamente mediterranea», infatti, all’epoca, quando «i nostri emigranti meridionali» tentarono di riprodurle in America secondo Augias «suscitarono la riprovazione degli irlandesi, cattolici anche loro ma di una fede meno idolatrica». Con la diffusione del cristianesimo, insiste il commentatore di Repubblica, «il culto dei santi e della Madonna sostituì i cortei dedicati alle varie divinità o a momenti dell’anno agricolo o al culto della fecondità con la famose “falloforie”. Si tratta di manifestazioni sconosciute all’ebraismo, alle confessioni protestanti e allo stesso cattolicesimo nordeuropeo. Sopravvivono nel Mezzogiorno dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni, sfiducia, speranza, complicità, un semiconsapevole bisogno di assistenza celeste». La rubrica è finita, andate in pace. Anzi no: «Gli inchini ai capi criminali sono solo l’appendice di tutto questo. Non sarà facile venirne a capo». Amen.

“Inchino” a Palermo, parla il priore: «Escludo che ci siano stati omaggi alla mafia. Sono strumentalizzazioni per chiuderci dentro le chiese», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Intervista a padre Leta, superiore dei carmelitani organizzatori della processione a Ballarò finita nel “video shock” di Repubblica: «Il diavolo si annida tra i mafiosi. Ma anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». «Sono certo che il diavolo si annida dentro i mafiosi. Ma a volte anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». Padre Pietro Leta è il priore dei frati carmelitani del Carmine maggiore di Palermo, gli organizzatori della processione della “vara” della Madonna che domenica 27 luglio ha attraversato il quartiere di Ballarò, intorno alla quale si sono scatenate violente polemiche mediatiche a causa di un video di Repubblica che documenterebbe il presunto omaggio della Vergine al boss Alessandro D’Ambrogio, provato – secondo il quotidiano – dalla fermata del corteo per il cosiddetto “inchino” davanti all’agenzia funebre di proprietà del mafioso.

«Escludiamo categoricamente che a Ballarò ci sia stato alcun omaggio, inchino o gesto di compiacenza alla mafia» scandisce invece padre Leta a tempi.it.

Padre, cos’è successo allora domenica scorsa? Nel mirino dei media è finita la confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, che nel momento della fermata portava la statua della Madonna. Ma voi avete svolto indagini per vostro conto.

«Occorre inquadrare la festa nel suo insieme innanzitutto. La statua della Madonna è molto grande, la cosiddetta “vara”, su cui è poggiata la statua, ha una base mastodontica, tanto che dev’essere spinta da numerosi confrati, i quali si devono dare addirittura dei turni. Nel percorso la processione incontra sempre alcuni ostacoli, e deve tener conto di alcune tradizioni. Gli ostacoli sono ad esempio i cavi elettrici lungo le strade, che possono essere pericolosi, perciò la statua, e di conseguenza la processione, è costretta spesso a fermarsi per consentire un passaggio non rischioso. Una delle tradizioni di cui tenere conto, invece, è quella che vuole che durante la processione i genitori, come gesto di “dono” e domanda di benedizione alla Madonna, chiedono alla vara di fermarsi e porgono i loro bambini ai confrati perché li avvicinino alla statua. A questi due fatti, se ne aggiunge un terzo: attorno alla vara, oltre ai membri della confraternita che indossano un abito ufficiale, si affiancano diversi uomini che non hanno nulla a che fare con i confrati e che indossano uno scapolare fatto in casa, usato da diverse generazioni e passato di padre in figlio. Domenica, durante il percorso ufficiale della processione, sono state fatte almeno una quarantina di fermate della statua e del corteo, alcune per evitare il pericolo dei cavi elettrici, altre per potere avvicinare alla statua alcuni neonati».

Nell’occhio del ciclone è finita però una particolare fermata. Perché proprio lì?

«La fermata vicino all’agenzia di D’Ambrogio in realtà non ha nulla – ripeto: nulla – a che vedere con l’inchino ai boss. Abbiamo approfondito e posso assicurare che la fermata c’è stata per i pochi minuti necessari a consentire a una giovane coppia di avvicinare il proprio bambino alla statua. Una cosa naturale, tanto è vero che poco dopo la statua è ripartita e si è fermata nuovamente a pochi metri di distanza, perché una signora africana che aveva assistito alla scena precedente ci ha chiesto a sua volta di poter issare la sua neonata vicino alla statua. Dunque tutto quello che si è ipotizzato sui giornali è autentica strumentalizzazione. Il cronista di Repubblica ha “zoomato” la sua attenzione e il suo video esclusivamente sulla fermata davanti all’agenzia, tagliando tutti gli elementi che avrebbero fatto capire cosa aveva portato a farla. La strumentalizzazione è consistita nel collegare quella fermata a un fatto che risale a due anni fa: all’epoca un mafioso aveva preso parte al gruppo dei portatori. Poi il mafioso è stato arrestato. Ma attenzione: noi escludiamo categoricamente che quel boss facesse parte della confraternita del Monte Carmelo. Lo escludo nel modo più assoluto».

Perché secondo lei c’è stata questa strumentalizzazione?

«La strumentalizzazione del giornalista Palazzolo si è giocata nel collegamento tra la fermata e il vocabolo “inchino”, che è rimasto cristallizzato nella mente dell’opinione pubblica a causa della processione di Oppido Mamertina e per le parole di giusta condanna del Papa nei confronti dei mafiosi. Solo che qui a Ballarò invece non c’è stato alcun inchino, né nessun altro gesto di compiacenza verso la mafia. Lei mi insegna che il cronista vuole fare lo scoop, ed è questo quello che persegue. Palazzolo ci è riuscito creando questo collegamento, e in effetti tutti i lettori sono stati portati a pensare che “ancora una volta succede quello che è accaduto in Calabria”. Questo non è giornalismo, bensì spregiudicatezza nell’uso dell’opinione pubblica. Il diavolo certo si annida tra i mafiosi, ma anche tra i giornalisti che vogliono fare scoop. La chiave di quello che è accaduto è che un cronista ha ottenuto quello che voleva. La sua notizia si è guadagnata la prima pagina e poi è stata ripresa dai principali media, cavalcando l’onda dell’indignazione provocata dai fatti calabresi (che tra l’altro personalmente condivido) attraverso tre parole evocative: inchino, processione e Madonna. Ma nel modo più categorico io dico: la Madonna non si inchina ai mafiosi, sono i mafiosi al contrario che si devono piegare e inginocchiare davanti a Lei. Le anticipo inoltre una notizia: la confraternita ha presentato un esposto al procuratore della Repubblica contro il giornalista per diffamazione».

Sempre su Repubblica Corrado Augias ha scritto che le processioni sopravvivono ormai solo nel Mezzogiorno «dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni». Lei che ne dice?

«Augias fa il suo lavoro, e pure lui come il collega unisce le parole processione e superstizione. In realtà dal Concilio Vaticano II c’è stato nella Chiesa un lungo cammino di purificazione della tradizione popolare nelle celebrazioni religiose. È chiaro che c’è un retaggio antico nelle tradizioni, ma la richiesta di fede si esprime anche attraverso le tradizioni. Bisogna chiedersi quali grandi ruoli hanno esercitato le confraternite religiose, non solo al Sud, ma anche al Nord. Le “Misericordie”, ad esempio, che hanno svolto a partire dalla Toscana un lavoro di assistenza e carità».

Nelle feste religiose a cui partecipano migliaia di persone diventa difficile separare i mafiosi dal resto dei fedeli. Cosa è possibile fare allora secondo lei?

«Non si può separare i “buoni” dai “cattivi”, né possiamo esigere per ogni bambino che viene presentato alla Madonna i nomi del padre e della madre, o la loro fedina penale. È chiaro che una persona conosciuta da tutti come mafiosa la allontaniamo. Ma è anche vero che Gesù ha chiesto la conversione del peccatore e ha inveito contro il peccato: nella parabola della zizzania ha detto di lasciare crescere il grano con la zizzania, perché c’è il rischio che togliendo la zizzania si distrugga anche il grano buono. Questo significa che anche al mafioso, come a ogni peccatore, è data la possibilità di convertirsi: noi possiamo solo continuare a lavorare per isolare la mafia».

Ma papa Francesco ha scomunicato i mafiosi. 

«E chi non è d’accordo con il Papa su questo? Noi lo siamo pienamente. In Sicilia, tanto più a Palermo, viviamo queste cose sulla pelle. Noi vogliamo testimoniare la nostra fede insieme a padre Pino Puglisi che è stato martire della mafia».

Secondo lei andrebbero eliminate queste processioni a rischio “infiltrazione”?

«Va chiarita una cosa. Non si arriva a una processione come quella del 27 luglio da un giorno all’altro, ma dopo un cammino di un anno. La confraternita è seguita nel suo cammino di formazione spirituale con incontri mensili, il programma della festa viene predisposto da confraternita e religiosi molti mesi prima, sin da marzo, e tutta la comunità, religiosi e laici, si prepara alla processione con un itinerario spirituale ben articolato. A chi partecipa alla processione “dall’esterno”, infine, possiamo solo dare una testimonianza della nostra fede, pregando e cantando. Ci sono alcuni gesti poi che non si possono sradicare: non si può fare una processione dentro la chiesa, ma nel territorio. E non vogliamo smettere di farla lì, perché il territorio è uno spazio importante, mentre i falsi benpensanti, con le polemiche di questi giorni, mirano proprio a tagliare il nostro legame con il territorio, chiudendo la fede dentro le chiese. Non a caso con queste polemiche chiedono indirettamente anche di eliminare le confraternite, che sono segno invece di una lunga tradizione di rapporto tra la Chiesa e la comunità locale. Le confraternite vanno continuamente educate alla fede, questo sì. Ma eliminate no».

In tutta questa ipocrisia stona la retorica del sud assistito.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

Lo scandalo del giorno, un inchino inventato, scrive Giovanni Alvaro. Eccoli di nuovo all’attacco. Schierati come un sol uomo, sorretti da un unico obiettivo, determinati, senza alcuna soluzione di continuità e pronti a massacrare senza possibilità di appello. Dalle Alpi alle Piramidi si ode, quindi, un solo grido: giustiziamo sulla pubblica piazza il sacerdote della chiesa di Oppido Mamertina, responsabile della processione e del cerimoniale che ne consegue. Uniti in una santa alleanza si ritrovano, quindi, mass media nazionali, scritti e parlati (salvo qualche eccezione), a cui non sembra vero poter denigrare un pezzo di Calabria, una sua provincia e la stessa intera regione presentati come perduti nelle spire ‘ndranghitiste; professionisti dell’antimafia pronti a cavalcare il conseguente giustizialismo che è la loro stessa ragion d’essere, ma che stanno con l’occhio attento ai propri interessi economici e politici. Oltre a pubblici ministeri votati a missioni salvifiche, interessati a non perdere la centralità mediatica conquistata (trampolino di lancio per futuri incarichi). E poi, con loro, alleati occasionali: gli stessi carabinieri che si accorgono dopo trent’anni di ipotetici inchini. Dulcis in fundo, politici di mezza tacca pronti a dire la propria. Nessuno di costoro si è chiesto se fosse vero o meno quanto rimbalzato sulle agenzie di stampa. Anzi, per la verità, molti di costoro non si son posti alcuna domanda, dato che per loro è essenziale essere presenti al debutto di un avvenimento, infischiandosene di come potrebbe andare a finire. E allora, avanti con la mazurka. Alfano: “Deplorevoli e ributtanti rituali cerimoniosi”; Rosy Bindi: “Quanto è avvenuto nel corso della processione sconcerta”; Enzo Ciconte: “Il gesto dell’inchino è stato un atto di sfida, di forza e tracotanza”; Cafiero de Raho: “Fermare un corteo religioso per ossequiare il vertice della cosca locale è sovvertire le regole sociali, religiose e di legalità”; Nicola Gratteri: “Ora la ‘ndrangheta ha sfidato ufficialmente il Papa”. È solo un assaggio delle dichiarazioni demenziali sentite in questi giorni. Demenziali perché costruite su un falso, un vero e proprio falso, se è vero come è vero che la processione a Oppido prevede, da molti decenni, cinque fermate a incroci prestabiliti per far girare l’immagine della Madonna verso quella parte di paese dove non è previsto il passaggio della processione stessa. Vuole il caso che in una di queste traverse (non dinanzi all’abitazione dove da dieci anni il mafioso sconta per motivi di salute, gli arresti domiciliari, ma nella traversa incrociata) abiti l’82enne ergastolano. inchino al boss, in vergognosa sottomissione al malavitoso? Chi ha spinto per montare il casus belli che ha riacceso la polemica della procura reggina contro la Chiesa? Chi ha tirato le fila riattizzando il razzismo ormai non più latente, del Nord nei confronti del Mezzogiorno? Dalle risposte a queste domande si potrà capire quanto strumentale possa essere l’antimafia da convegno e come essa venga usata per fini diversi dalla lotta al crimine. “Non riescono a battere la mafia e se la prendono con la Chiesa” ha dichiarato l’Arcivescovo di Reggio in un’intervista a “Il Garantista” di Piero Sansonetti e ha continuato: “Chissà se un giorno si decideranno ad affrontare le cause vere del fenomeno ‘ndranghetista”. Di sicuro il non riuscire a battere la mafia nasce anche dalle “distrazioni” che i ruoli dell’antimafia offrono per sentirsi pienamente appagati. E la grancassa continua con l'applauso della ‘ndrangheta.

Guai però a schierarti contro il conformismo.

Cafiero De Raho contro i giornalisti del Garantista. Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho: «esistono giornalisti coraggiosi i quali denunciano episodi del genere, e altri che invece coprono la verità e che bisogna decidere da che parte stare.»

Così muore la democrazia. «Cafiero de Raho (procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, ndr) è convinto di essere alla testa di un esercito di magistrati, politici, giornalisti, preti, professionisti e popolo, il cui compito è la lotta militare e poliziesca all’illegalità e alle cosche. Non è così. I magistrati devono indagare, i poliziotti arrestare, i preti predicare, i politici riformare la società, i giornalisti raccontare e anche esprimere pareri. Il giorno in cui i giornalisti dovessero diventare – e in gran parte, purtroppo, già lo sono diventati – soldati della Procura, in Italia sarebbe finita la democrazia. Forse la lotta alla mafia avrebbe dei buoni risultati – li ebbe anche durante il fascismo – ma noi perderemmo la libertà. Mi dispiace, signor procuratore, ma il prezzo è troppo alto. Preferiamo non arruolarci». Piero Sansonetti, Il Garantista, 17 luglio 2014.

«Caro procuratore  De Raho, ho letto la sua dichiarazione. Faccio uno sforzo per capire le sue ragioni ma voglio anche porle alcuni problemi che lei non può ignorare. So qual è la sua bussola e il suo obiettivo: fare delle indagini, farle bene, ottenere dei risultati. Giusto. Però non è questa l’unica garanzia del funzionamento di una società moderna e democratica. Talvolta gli interessi degli inquirenti possono entrare in conflitto con altre spinte che sono essenziali a garantire un regime di libertà. Per esempio i diritti degli imputati, o delle persone sospette, o i diritti dei testimoni, oppure – questo oggi mi interessa, soprattutto – i diritti dell’informazione e della stampa. Quando il buon funzionamento dell’attività giudiziaria confligge con il diritto all’informazione, come si stabilisce il confine da non oltrepassare? E’ un buon tema di discussione, mi sembra, e mi piacerebbe affrontarlo con lei  e con altri settori della magistratura. Non è stata mai fatta questa discussione, nel nostro Paese, perché la lotta senza quartiere tra magistratura, giornalismo e politica si è svolta solo sulla base delle convenienze di gruppi, lobby, partiti, schieramenti, e mai sui grandi principi e sulle idealità. Voglio essere ancora più chiaro, rivolgendole questa domanda: secondo lei, le esigenze degli inquirenti possono “sospendere” quel comma dell’articolo 21 della Costituzione che dice: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”? Caro Procuratore, secondo me voi, con i sequestri e le perquisizioni compiuti l’altra sera nella nostra redazione di Reggio, e con l’avviso di garanzia consegnato al nostro cronista giudiziario Consolato Minniti, avete violato quel comma della Costituzione. Sono convinto del fatto che non volevate compiere una azione di intimidazione. E tuttavia, caro Procuratore, oggettivamente l’intimidazione c’è stata, noi l’abbiamo vissuta come tale e per noi, da oggi, sarà più difficile lavorare a Reggio. E’ un problema o no? E’ un vantaggio o no per la città? E anche per la magistratura reggina, questa “dimostrazione di potere”, questa prova di forza, giova? O invece danneggia la vostra immagine? Caro Procuratore, a me sembra enorme ipotizzare che la pubblicazione di notizie relative all’azione della DNA possa essere un atto di aiuto alla mafia. Ma scusi, come dobbiamo intendere la lotta alla mafia, come un atto militare, nel quale anche i giornalisti – sul modello della guerra in Iraq – devono essere embedded? Non credo che sia la sua opinione, ammetterà però che l’attacco dell’altra sera al nostro giornale abbia dato questa impressione. Lei dice: «Ma era un obbligo quell’azione, perché c’era stato il reato». Sarà anche vero, ma io so che lo stesso reato è stato commesso negli ultimi anni centinaia di volte da altri giornali. Perché non si è mai intervenuti? Ci sono quotidiani che, se non violassero il segreto istruttorio, sarebbero costretti ad uscire massimo un giorno alla settimana! Lei questo lo sa. E allora: siamo uguali tutti, davanti alla legge, o forse no? E lei capirà benissimo come il dubbio che il segreto si possa violare se si è testata molto amica dei giudici, e invece non si possa violare se – come nel nostro caso – si è spesso critici verso la magistratura, sia un sospetto del tutto legittimo. Mi piacerebbe poterla incontrare, per spiegarle meglio queste mie idee. Se vorrà, sono a disposizione. Per il resto, le assicuro, il nostro giornale continuerà a fare il suo lavoro con tenacia, a criticare i giudici e i politici quando gli sembrerà giusto, a combattere la mafia, ad essere totalmente indipendente e un po’ corsaro. E forse, anche, qualche volta, a violare di nuovo il segreto d’ufficio… Con Stima. Piero Sansonetti».

Ed ancora......Gratteri contro i giornalisti del Garantista: «Bisogna stanarli, vi fanno ammazzare». Ma questo giornale non cambia linea, scrive Piero Sansonetti. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria – che è stato anche candidato a fare il ministro della Giustizia – l’altro giorno, partecipando a una pubblica manifestazione, ha lanciato un attacco furibondo contro i giornali calabresi che criticano la magistratura. Gratteri non ha fatto nomi, però noi siamo sicuri che ce l’avesse con “Il Garantista”, perché non esistono in Calabria molti giornali critici con la magistratura, e non ne esiste nessuno – tranne “Il Garantista”- critico con Gratteri. (La certezza che ce l’avesse con noi è venuta dopo una telefonata con lo stesso Gratteri che vi raccontiamo tra qualche riga). La frase pronunciata da Gratteri è agghiacciante, perché, nella sostanza, accusa i giornalisti critici verso la magistratura di essere assassini, o almeno istigatori all’assassinio. Per questo chiediamo l’intervento delle autorità, in particolare del ministero della Giustizia (oltre che della federazione della stampa  e della stessa Procura di Reggio) a difesa dei giornalisti calabresi critici verso la magistratura e in particolare a difesa del nostro giornale. Ci domandiamo se si ritiene normale, in un regime di democrazia, che un procuratore aggiunto si scagli contro giornalisti e giornali e li accusi di istigazione all’omicidio, e se questo non possa essere considerato un atto illegale di attacco alla libertà di stampa e ai diritti costituzionali, oltreché una offesa e una diffamazione. Per essere più chiari, vi trascrivo qui il testo delle dichiarazioni rilasciate da Gratteri e poi vi riferisco della telefonata che ho avuto con lui ieri pomeriggio. Ha detto Gratteri, rivolto ai vertici della federazione della stampa: «Bisogna stanare certo giornalismo calabrese che sguazza negli interstizi che lasciate. Dovete essere severi, feroci. In Calabria vi sono giornali e giornalisti che, per partito preso, per motivi ideologici, sono sempre contro qualcuno, scrivono cose non vere, fanno disinformazione». Poi Gratteri si è riferito a coloro che attaccano la magistratura e ha detto: «Non li denuncio perché darei loro pubblicità. Ma il punto di partenza per tutelare i giornalisti come Albanese è stanare chi non ha a che fare col giornalismo. Vi sovrespongono, vi fanno ammazzare». Vi confesso che quando ho letto queste frasi ho pensato a un equivoco. E ho fatto la cosa più semplice, per verificare: ho preso il telefono e ho telefonato a Gratteri. Mi ha risposto. Quando ha sentito il mio nome è diventato gelido. Gli ho chiesto se ce l’aveva con noi. Mi ha risposto, sempre più gelido: «Stia tranquillo, io non ce l’ho con lei, io non ce l’ho con nessuno». Ho insistito, gli ho detto se allora per favore mi diceva con quali giornali ce l’aveva, visto che in Calabria non ci sono moltissimi giornali. Mi ha risposto: «Io con lei non parlo, dovrei denunciarla, querelarla, per le cose che lei ha scritto su di me. Non lo faccio per non farle pubblicità. Lei deve imparare che non si possono lanciare accuse senza avere le prove». Io gli ho fatto notare che non lo avevo mai accusato di niente, tranne che di essere poco esperto di diritto. Ma questa è una mia opinione e non bisogna avere le prove. Dopodichè, siccome era impossibile proseguire il dialogo, lo ho salutato e ho messo giù il telefono. Però la frase che mi ha detto è uguale a quella che ha pronunciato la sera prima in pubblico (dovrei denunciarla ma non le farò pubblicità…). Dunque, indirettamente – ma non tanto – Gratteri ha confermato che ce l’aveva con me e con noi del “Garantista”. E dunque anche il seguito della frase pronunciata in pubblico (fino al: «Vi fanno ammazzare!») era riferita a noi. Posso garantire ai lettori del “Garantista” che nonostante una intimidazione così pesante e smaccata da parte di una delle più alte autorità giudiziarie, il nostro giornale non cambierà linea rispetto alla magistratura. Continuerà a criticarla e anche – come sapete – a darle la parola, perché ci piace discutere e non ci piace dare dell’assassino a chi non è d’accordo con noi. Vorremmo sapere dal ministro Orlando se possiamo contare su qualche protezione da parte dello Stato democratico, o se dobbiamo pensare che questa battaglia per la democrazia ci tocca combatterla in assoluta solitudine.

Gli strali della stampa ossequiosa e conformista, nonostante, o forse proprio per l’oscuramento del loro sito web, non si sono fatto attendere. Di tutti se ne riporta uno. La posizione del direttore Luciano Regolo de “L’Ora della Calabria”. L’attacco di Sansonetti a Cafiero De Raho: opportunismo garantito? Angela Napoli: “Così si rischia di isolare i magistrati”. «Debbo confessare che non leggo e non ho mai aperto dalla sua fondazione il nuovo quotidiano di Sansonetti. Oggi, però, sollecitato dai colleghi e amici di Cosenza che stanno collaborando con me al progetto del nostro giornale, ho visto, inviatomi per e-mail, l’editoriale odierno del direttore de “Il Garantista”: un attacco duro al procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho. Che cosa avrebbe fatto il magistrato per meritarsi l’invettiva (copiosa) di Sansonetti? Ha semplicemente dichiarato, riguardo alla vicenda della processione con l’inchino al boss di Oppido Mamertina, che esistono giornalisti coraggiosi i quali denunciano episodi del genere, e altri che invece coprono la verità e che bisogna decidere da che parte stare. Tanto basta al direttore romano, andato via dalla Calabria scrivendo di esserne rimasto profondamente deluso, per poi tornare a stringervi intese editoriali dopo pochi mesi, per dedurne che Cafiero De Raho avesse voluto attaccare lui o il suo giornale. Troppo astuto lo scrivente perché si pensi a un’excusatio non petita (visto che il magistrato non nomina alcuna testata). Molto più verosimile l’ipotesi che Sansonetti cerchi di fare pubblicità al suo prodotto giocando il ruolo della voce controcorrente, l’intellettuale fuori le riga “de noantri”, come si direbbe nel suo (a)dorato e salottiero contesto capitolino. Ognuno, sia chiaro, può fare il “gioco” che vuole e soprattutto professare ogni opinione. Ma la libertà di pensiero non può esimere dal rispetto verso chi effettivamente conduce, con rischi pesanti e impegno costante, una durissima lotta contro la criminalità organizzata e le sue oscure aderenze nei poteri costituiti della Calabria. Screditare, Cafiero De Raho, ipotizzare che voglia una stampa prona a lui, come avviene in regimi dittatoriali, oltre che grottesco è a mio avviso estremamente pericoloso. Io ho visto soltanto una volta il procuratore, lo incontrai per pochi minuti nel tribunale di Reggio, quando fui ascoltato dalla Commissione Antimafia dopo l’oscuramento del sito e la sospensione delle pubblicazioni dell’Ora della Calabria. Ma ho imparato ad apprezzarne il rigore e il piglio, quando, poco dopo il mio arrivo, in un intervento sul nostro giornale a proposito del commissariamento dei Comuni sciolti per mafia spiegò che sarebbe necessario prolungarlo non soltanto durante le elezioni ma anche per un certo periodo successivo all’insediamento della nuova amministrazione perché solo così si potrebbe veramente spezzare l’influenza delle cosche. Poi ne ho ascoltato la relazione in occasione della “Gerbera Gialla” in cui illustrò in termini molto chiari in quanti e quali modi si estendano i tentacoli della ‘ndrangheta sul territorio calabrese, spesso favoriti da lobby oscure e infedeli di Stato. Non mi sembra affatto uno che fa crociate, che vuole schieramenti o che cerca ribalta mediatica, come lascia intendere Sansonetti. Il direttore de “Il Garantista” aggiunge che Cafiero De Raho sarebbe contro la Chiesa ma è un assurdo, perché le esternazioni di papa Francesco e del presidente della Conferenza episcopale calabrese (oggi riunita per parlare proprio di quello che l’Osservatore Romano dopo il caso di Oppido Mamertina ha definito “pervertimento religioso”), monsignor Salvatore Nunnari, vanno nella medesima direzione del magistrato. Bergoglio ha detto con estrema chiarezza a Scalfari che ci sono tanti sacerdoti che sottovalutano l’influenza della mafia e non si levano abbastanza e tutti lo abbiamo letto e sentito. Ma la superficialità è diffusa, a volte è ingenua, altre no. Può nascere da interessi precisi o dalla semplice vanagloria, oppure essere conseguenza della paura delle ritorsioni. Io credo che correttamente Cafiero De Raho abbia voluto semplicemente richiamare l’intera comunità calabrese, giornalisti e non, a non sottovalutare i mezzi (come le incursioni in pratiche religiose di lunga tradizione) con cui la ‘ndrangheta tende a legittimare la propria supremazia territoriale. Sottovalutare questo aspetto come ha scritto il procuratore significa sul serio favorirne l’azione, consapevolmente o meno. Io l’ho sostenuto più volte, ma non sono nella squadra dei magistrati come sostiene, non senza alterigia, Sansonetti. Né credo lo siano Pollichieni, Musolino, Inserra, tanti altri giornalisti calabresi che sono intervenuti sulla questione di Oppido Mamertina stigmatizzando quell’inaccettabile inchino. Fra questi anche il vicesegretario nazionale e segretario regionale della Federazione nazionale della Stampa, Carlo Parisi, che ha di recente, dopo i sospetti insorti anche sulla processione di San Procopio, ricordato con veemenza quanto siano assurdi gli attacchi ai colleghi che rivelano queste realtà scomode, miranti a farli passare come dei denigratori della Calabria o degli smaniosi di protagonismo. Anche il sindacato dei giornalisti, secondo Sansonetti, scrive sotto… dittatura della magistratura? Perché il direttore è convinto che solo lui sia immune da questa influenza, così com’era convinto quando lasciò l’Ora della Calabria di essere diventato immune dall’influenze delle famiglie potenti della nostra regione e lo annunciò nell’editoriale di congedo, sparando accuse contro il suo ex editore e amico conviviale, Piero Citrigno, che poi invece è andato a salutare prima di lanciare la sua nuova creatura “Il Garantista”. L’essere concentrati troppo su stessi, sulle proprie idee o sui propri business, a volte distrae da problemi molto seri in una regione come la Calabria. Mentre spiegavo alla Commissione Antimafia dei rapporti insoliti, non rientranti nelle consuete dinamiche delle aziende editoriali, tra Citrigno e De Rose, il nostro stampatore protagonista della telefonata del cinghiale, l’onorevole Dorina Bianchi mi domandò come mai il mio predecessore (Sansonetti, ndr) in tre anni di direzione non avesse ravvisato nulla d’insolito. Risposi che dovevano domandarlo a lui, perché non lo sapevo. Non so se gliel’abbiano mai domandato. Ma so che l’onorevole Bruno Bossio, grande estimatrice di Sansonetti, presentatasi all’audizione nonostante i duri attacchi che mi aveva rivolto (su Facebook e in una lettera inviatami al giornale, in cui cercava di farmi passare come uno che voleva ottenere da lei documenti giudiziari secretati), cercava per tutto il tempo di minimizzare la vicenda che riguarda noi dell’Ora, sostenendo che la sospensione delle pubblicazione fosse unicamente dovuta all’indisponibilità finanziaria dell’editore e non aveva alcuna relazione con il caso Gentile-De Rose. Questo nonostante ci fosse stato oscurato anche il sito, proprio il giorno in cui in un editoriale denunciavo la manovra di far finire la proprietà del giornale nelle mani di De Rose. Per la cronaca il legale di Bilotta, il nostro liquidatore, è quello stesso avvocato Celestino, che difese Adamo, il marito della Bruno Bossio nell’inchiesta “Why not”, e assiste anche i Citrigno: io lo conobbi nel suo studio, accompagnato lì da Alfredo Citrigno, pochi giorni dopo l’Oragate, quando lo stampatore che non aveva mai sollecitato i suoi pagamenti non riscossi, improvvisamente con una lettera che noi pubblicammo chiedeva tutto subito o avrebbe fatto fallire l’azienda. Forse la drammaticità di quanto i colleghi dell’Ora e io abbiamo vissuto e stiamo vivendo, potrebbe rendermi troppo emotivamente coinvolto. Per questo, riguardo all’attacco sferrato da Sansonetti contro De Raho, ho pensato di chiedere un parere ad Angela Napoli, ex presidente della Commissione Antimafia e tuttora impegnata in prima linea contro le influenze delle ‘ndrine. Ecco la sua valutazione: «Alcuni giorni fa evidenziavo sulla mia pagina Facebook lo stato di preoccupazione che sto vivendo alla luce sia di alcune sentenze giudiziarie sia di alcune cronache giornalistiche, a mio parere, eccessivamente garantiste e, sempre a mio parere, non utili a debellare il fenomeno mafioso ed i suoi collaterali. Oggi sono più che mai convinta che la preoccupazione ha ragione di permanere, ritenendo che sia in atto una “strategia” tendente ad isolare quei pezzi della Magistratura, delle Forze dell’Ordine, delle Istituzioni e della politica che realmente lavorano con coraggio non solo per reprimere la ‘ndrangheta ma anche per aiutare a sradicare quella sub-cultura mafiosa che per anni ha invaso alcuni cittadini calabresi. Ho parlato di “strategia” di isolamento: l’attacco al dottor Gratteri, apparso la scorsa settimana su “Il Garantista” e quello odierno al Procuratore Cafiero De Raho, sempre sullo stesso quotidiano, e che recano la firma del suo direttore responsabile, non possono che apparire, almeno ai miei occhi, ma sicuramente anche a quelli del comune lettore, proprio come tendenti a raggiungere l’obiettivo dell’isolamento. Sono convinta che tale obiettivo non verrà conseguito perché con piacere incomincio a registrare una voglia di riscatto nel cittadino calabrese. Questa voglia non potrà che portare alla rivolta nei confronti di tutti coloro che, dopo aver affossato, in supporto alla ‘ndrangheta, la nostra Calabria, oggi tentano ancora di mantenere a galla il “sistema malato” che sovrasta questa Regione. Ormai la stragrande maggioranza dei cittadini calabresi e’ in grado ed ha la volontà di saper distinguere il “bene” dal “male” e di saper anche quale “autobus” prendere per percorrere la strada della piena legalità».»

Piero Sansonetti: “l’Ora, fallimento di un’esperienza”. Lascio la direzione di questo giornale, per via di alcuni dissensi con la proprietà. Mi era stato chiesto di preparare un piano di ristrutturazione che prevedesse un fortissimo taglio del personale e io mi sono rifiutato. Ho messo a punto un piano alternativo, che consentiva risparmi molto forti senza sacrificare il personale. Il mio piano è stato approvato all’unanimità dall’assemblea ma all’editore non è piaciuto. Non lo ha considerato sufficiente. E così, dopo travagliate discussioni e tentativi di trovare vie d’uscita, l’altra sera siamo arrivati alla decisione dell’editore di respingere il mio piano, procedere al mio licenziamento e nominare un nuovo direttore. Il motivo per il quale mi sono opposto ai tagli del personale non credo di doverlo spiegare a voi. Se in questi tre anni avete letto qualche mio articolo conoscete la mia posizione si questi problemi. La lotta contro i licenziamenti, contro il dilagare del lavoro precario, contro lo sfruttamento, è stata sempre una mia idea fissa. Tra qualche riga proverò a dirlo meglio, ma già lo ho scritto spesso: considero l’assenza di “Diritto nel lavoro” il problema principale di questa regione. Penso che è lì che avvengono le sopraffazioni maggiori. E addirittura penso che l’assenza del diritto sia un male più grande ancora della ’ndrangheta e della criminalità organizzata. Me ne vado da qui, e torno a Roma, con una grande amarezza e con la convinzione di avere fallito. Sia chiaro: non do la colpa a nessuno. E’ una vecchia abitudine, quando si va a sbattere contro un muro e ci si fa male, quella di strepitare: “è colpa sua, è colpa sua”. E’ semplice: se sono andato a sbattere vuol dire che guidavo male. Volevo fare un giornale che desse una scossa vera all’intellettualità e alla classe dirigente calabrese. E che fosse un giornale davvero popolare, cioè vicino al popolo, ai suoi bisogni, capace di difenderlo senza assecondare le pulsioni populiste e qualunquiste. So benissimo di non esserci riuscito. E di avere dato poco a questa regione della quale – questo ve lo giuro – in questi anni mi sono perdutamente innamorato. Per questo sento l’angoscia di essere cacciato dalla Calabria. Quando si prende atto di un fallimento – netto, chiaro, indiscutibile, come è stato il mio – bisognerebbe avere la lucidità per capirne le cause, e dirle. Purtroppo non ho questa lucidità, o ancora non la ho. So di avere accettato troppi compromessi, perché pensavo di essere così forte e bravo da potere guidare io i compromessi, e di poterli utilizzare, e di sapere ricondurre tutto al mio disegno. Che sciocchezza! Non ci sono riuscito mai. E quando ho deciso di non fare più compromessi, ed ero ancora convinto di essere così forte da poter sconfiggere qualsiasi nemico, mi hanno stritolato in un tempo brevissimo. Ma siccome la presunzione è una malattia inguaribile, resto presuntuoso, e prima di andarmene voglio dirvi cosa credo di avere capito di questa regione. Di solito, se si parla della Calabria, si dice che il suo problema è l’illegalità. Io non ho mai creduto al valore della legalità, anzi, disprezzo la legalità. Credo a un principio molto diverso: quello del Diritto e dei Diritti. La legalità può essere ingiusta, può essere oppressiva, può essere conformista, bigotta, vetusta, persecutoria, conservatrice – anzi: è sempre conservatrice – e non è affatto detto che sia garanzia dei diritti. La legalità è il contrario della ribellione. Non mi è mai piaciuta. Il Diritto è un’altra cosa: il diritto – e i diritti – sono quei grandi valori della civiltà, in continua evoluzione, che si oppongono alla sopraffazione, al dominio, e tendono ad affermare l’uguaglianza delle donne e degli uomini e la primazia della loro dignità rispetto agli interessi dell’economia e del potere. Il Diritto tende all’uguaglianza. Ed è il contrario del Potere. Quando si dice che il problema della Calabria è la legalità si cerca di irrobustire quel vecchio pregiudizio del Nord, secondo il quale la questione meridionale è una questione criminale. E così è facile trovare la soluzione: più polizia, più giudici, più manette, un po’ di esercito e un po’ di razzismo sano e moderno, alimentato dalla buona stampa nazionale. Io invece penso che il problema all’ordine del giorno sia il Diritto, soprattutto il Diritto della Calabria nei confronti del Nord. E’ il Nord che da decenni viola i diritti fondamentali della Calabria. Prima di tutto il diritto del popolo calabrese ad essere popolo calabrese. Quello che solitamente viene chiamato il fenomeno dell’emigrazione – ma che io preferisco chiamare “la deportazione” – e cioè il trasferimento al Nord di milioni di calabresi, sottomessi e spinti a lavorare per il miracolo economico lombardo, o piemontese, o ligure o romano – è uno dei più grandi atti di sopraffazione di massa compiuti sotto l’occhio benevolo della Repubblica italiana. E’ un delitto. E non ha trovato opposizione. Neppure la sinistra, nel dopoguerra, si è mai fatta carico di questa gigantesca ingiustizia. Perché? Perché purtroppo, in Italia, anche la sinistra è settentrionale. La Calabria – nonostante grandi personaggi politici isolati, come Sullo, o Mancini, o Misasi – non ha mai avuto una sinistra. Così come tutto il Mezzogiorno d’Italia. Nasce da qui, esattamente da qui, la consuetudine di cancellare il Diritto della Calabria, e in particolare il Diritto del lavoro. Mi piacerebbe raccontare qualcosa di scandaloso ai miei amici e compagni di Roma e del Nord, compresa Susanna Camusso, il capo del sindacato che recentemente è scesa qui da noi e ha anche detto cose sagge, perché sicuramente è una persona seria. Cara Camusso, lo sai quanto paga la ’ndrangheta un picciotto? Mille euro al mese. E sai quanto guadagna un coetaneo del picciotto che lavora legalmente a tempo pieno in un call center, o in campagna, o anche in ufficio e persino in un giornale, come giornalista? E’ facile che guadagni meno della metà. Qui ho imparato che un trentenne con uno stipendio di sette o ottocento euro si considera fortunato. Camusso, pensi che in queste condizioni ci sia da stupirsi se la ’ndrangheta prospera? E pensi che aumentando il numero dei poliziotti e dei giudici – ottime e spesso eroiche persone – le cose possano migliorare? Mi piacerebbe davvero, Camusso, conoscere la tua risposta, perché non sono domande retoriche, né polemiche, però sento che sono domande drammatiche e penso che sia giusto porle. Quando sono sceso a Cosenza, da Roma, e ho preso la direzione di Calabria Ora, ho scritto un editoriale nel quale dicevo essenzialmente una cosa: qui manca la classe dirigente. La Calabria ha bisogno di una classe dirigente che sappia rappresentare il popolo, sbattere i pugni sul tavolo a Roma e assumersi finalmente la responsabilità dell’affermazione dei diritti. Dopo tre anni confermo quelle cose, con l’angoscia di chi sa di non essere riuscito a smuovere nemmeno uno stecchetto di paglia per cambiarle. Vedete, io penso che la Calabria soffra dell’assenza delle classi sociali che hanno costruito l’Italia: la borghesia e la classe operaia. Qui non c’è borghesia: c’è il padronato. E non c’è classe operaia: c’è un popolo sconfitto, sfregiato, deportato, oppresso, e che non riesce ad uscire dalla rassegnazione. Sì: il “padronato”, proprio con quell’accezione assolutamente negativa della parola che usavamo noi ragazzi degli anni settanta. Un padronato che considera il proprio borsellino come un Dio, e tratta gli esseri umani come cose, accidenti, strumenti, “rifiuti”. Già lo ha detto il papa, ha usato, indignato questa parola: “rifiuti”. Per una volta fatelo scrivere anche a me, ateo e anticlericale: viva il papa. Prima di tornarmene a Roma devo dire qualcosa sui giudici. Perché in questi anni sono stati un mio bersaglio fisso. In realtà ho grande stima per quasi tutti gli investigatori calabresi, credo però che il compito di un giornale sia quello di mettere sempre sotto controllo e sotto accusa il potere. E io sono persuaso che oggi in Italia – ma soprattutto in Calabria – il potere dei magistrati sia – insieme al potere economico e padronale – di gran lunga il potere più forte. Per questo io considero il garantismo un valore assoluto, da difendere coi denti, come caposaldo della civiltà. Oggi il garantismo è pesantemente messo in discussione – anzi sconfitto – dal dilagare, nell’opinione pubblica, di un feroce giustizialismo. Talvolta ispirato dai più tradizionali principi reazionari, talvolta da forti spinte etiche. Recentemente ne ho discusso, in un dibattito a Gerace, in Aspromonte, col Procuratore di Reggio, Federico Cafiero De Raho. Lui, a un certo punto della discussione, ha sostenuto che la giustizia serve ai deboli, perché i forti non ne hanno bisogno. Io gli ho risposto che apprezzo la sua spinta etica, ma che giustizia ed etica non devono mai coincidere, perché il male dei mali è lo Stato etico, che può essere solo autoritario e fondamentalista. Come fu lo stato fascista, come furono gli stati comunisti. Devo dire, onestamente,  che lui –  Cafiero –  poi ha precisato meglio il suo parere, e che io ho apprezzato moltissimo la sua capacità di discutere – e ci siamo detti che avremmo proseguito la discussione in altra sede, e invece, con dispiacere, dovrò disdire l’appuntamento – ma in me resta questo grande timore: per i giudici – capaci, onesti – che pensano di svolgere una missione. Non è così, fare il magistrato è un mestiere, non una missione assegnata da Dio! E il prevalere di una concezione giudiziaria della vita pubblica non può che nuocere alla Calabria, ne sono convintissimo.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo  come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale  e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza,  nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati.

ITALIANI. MARPIONI PER SFIDUCIA NELLO STATO.

Alberto Sordi: "Facciamo i marpioni per sfiducia nello Stato". Nessuno meglio di Alberto Sordi ha raccontato vizi e virtù di un popolo senza carattere ma pieno di fantasia: "I comici sono i politici". Ecco un’intervista di Roberto Gervaso  del 13 marzo 2000 e pubblicata Venerdì  04/07/2014 - 13:55 su “Il Giornale”. Non è più un uomo; non è più un attore»; non è più un divo: è un monumento nazionale. Ma anche - da trasteverino doc - un Marc’Aurelio a cavallo, l’erma di Pasquino, il busto di Meo Patacca. C’è in lui un po’ del Belli, un po’ di Trilussa, un po’ Pascarella. C’è la rivista, l’avanspettacolo, il cinema, la televisione. C’è tutto. E, su tutto, c’è Roma, e ci sono i romani, gli italiani più antichi, i conquistatori conquistati che credono nei santi e nei miracoli, nella fortuna e nella iella. Che si ritengono furbi finché non trovano qualcuno più furbo di loro che li fa fessi. Che si atteggiano a domatori di donne e infaticabili amatori, che tradiscono la moglie, tradendosi; che vendono fumo spacciandolo per arrosto, che si vantano d’imprese mai compiute e di avventure ma vissute. Chi, meglio di questo proteiforme, inimitabile attore, ha saputo incarnare, portandoli sullo schermo, i vizi e le virtù, le astuzie e le ingenuità, gli estri e gli umori di un popolo senza carattere ma pieno di fantasia, che si caccia nei guai, ma se la cava sempre. Un popolo che perde la guerra, anzi le guere, ma non si perde d’animo, che nell’emergenza si rimbocca le maniche e rimette in piedi un Paese in ginocchio, trasformando la disfatta in boom. Alberto Sordi, ormai sulla soglia degli ottanta, è un pezzo della nostra vita, una pagina della nostra Storia. E non solo di quella dello spettacolo e del cinema, ma anche del costume. Non sarebbe ora di offrirgli il laticlavio come a Trilussa e a Eduardo? L’americano a Roma lo vogliamo a Palazzo Madama.

In che cosa, l’Italia del 2000 è diversa da quella degli anni Cinquanta?

«Il consumismo di oggi, l’Italia degli Anni Cinquanta nemmeno se lo sognava. Eravamo poveri, usciti da quell’incubo che fu la guerra, anzi la guera. Ci rimboccammo le maniche e ricostruimmo un Paese disastrato. E poi non c’era invidia sociale».

E i giovani?

«Per quelli di allora - e mi ci metto anch’io - la più piccola cosa era una conquista».

Mentre per quelli di oggi?

«Tutto è scontato, tutto è dovuto, si sono trovati la pappa fatta. Da noi».

Siamo più un popolo di santi, di poeti, di navigatori, di artisti, o di marpioni e mandruconi?

«Oggi di marpioni e mandruconi».

Le nostre più ipocrite virtù?

«Non essere mai noi stessi, presentarsi sempre come altri. E poi l’estrema diffidenza, tipica di chi ha conosciuto la povertà e ha preso un mucchio di fregature».

I nostri vizi più veniali?

«L’inguaribile ottimismo e l’estroversione caciarona, che tanto colpisce gli stranieri. E poi grande versatilità, a volte truffaldina».

L’italiano è più un individualista o una pecora anarchica?

«È un individualista che se ne frega “Che ti importa? Chi te lo fa fare?”. Le istituzioni non ci piacciono e le sfottiamo».

Siamo sempre maestri nell’arte di arrangiarci?

«Sempre. Nessun’arte è più italiana».

L’arte di arrangiarsi è una virtù o una necessità?

«È una necessità. Una difesa contro il potere».

Da che cosa nasce?

«Dalla sfiducia del cittadino nello Stato e dalla sfiducia dello Stato nel cittadino o, se preferisce, dalla diffidenza del fisco verso il contribuente e dalla diffidenza del contribuente verso il Fisco».

Perché, alla fine, ce la caviamo sempre e, bene o male, sbarchiamo il lunario?

«Perché siamo intelligenti e fantasiosi, furbi e pieni di risorse».

Ma l’arte di arrangiarsi non è un po’ la versione latina del pragmatismo anglosassone?

«Latina, ma anche levantina e bizantina».

L’italiano crede più in Dio, nella Madonna o nei Santi?

«E me lo domanda? Nella Madonna».

Meglio i romani di oggi o quelli di ieri?

«Di ieri».

Perché?

«Erano più romani, più veraci. Impiegati, burocrati, cinematografari, ci si conosceva tutti. Oggi non si conosce nemmeno il vicino di casa».

Perché i politici e i cornuti fanno tanto ridere?

«Perché i politici, anche i più insignificanti, si atteggiano a grandi statisti, si danno importanza, montano in cattedra e tromboneggiano».

Che cosa dirà, fra un secolo al momento dell’estremo congedo?

«E che ne so. Certo, se mi trovassi sul set, davanti alla macchina da presa, tutto mi sarebbe più facile, la battuta mi verrebbe spontanea».

Che cosa diranno di lei i posteri?

«Quello che vorranno. Io, da buon romano, me ne frego».

C’ERA UNA VOLTA LA MAFIA AL SUD E LE TANGENTI AL NORD. OGGI C’E’ LA MAFIA DEL NORD.

La mafia al Nord esiste. Ora è difficile negarlo. Una notte della scorsa settimana la Cassazione ha reso definitive le condanne del maxiprocesso di Milano sulla 'ndrangheta in Lombardia. Ora negare o nascondere sarà più difficile, ma se ne parla malvolentieri, scrive l'11 giugno 2014 Elisa Chiari su “Famiglia Cristiana”. Alessandro Manzoni aveva già capito tutto. Solo chi diceva che al Nord la mafia non esiste, poteva pensare che quel metodo intimidatorio, grazie al quale bastava un nome, per piegare i diritti alla prevaricazione, l’avesse “inventato” don Lisander facendo emergere dal nulla della fantasia l’incontro tra don Abbondio e i bravi. Troppo bello per essere anche vero, ma adesso, come si dice, “è Cassazione”. La ‘ndrangheta al Nord esiste e c’è la prova che, ovunque faccia affari sporchi, non è una faida tra ‘ndrine isolate, ma un struttura ramificata e unitaria, anche se con una struttura verticistica diversa da quella riconosciuta per cosa nostra. Il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti plaude all'efficacia dell'inchiesta e dei processi e definisce la sentenza di «eccezionale importanza». Chi studia la storia della criminalità organizzata ritiene che la sentenza definitiva relativa al troncone milanese del processo noto alle cronache come Crimine-Infinito, condotto tra Milano e Reggio Calabria, ­- abbia portata storica, in termini di conoscenza del fenomeno e di creazione di un precedente significativo, in fatto di giurisprudenza. C'è anche  chi la paragona a quella del maxiprocesso di Palermo del 1992. Anche per questo fa un po’ impressione che il maxiprocesso di Milano faccia molta meno notizia di quello di allora a Palermo, quasi che ci si fosse assuefatti al rischio o, peggio, alla tentazione di cullarsi nell’incoscienza. Se ci avessero detto vent’anni fa che 22 anni dopo avremmo assistito a un maxiprocesso milanese di criminalità organizzata con centinaia di imputati, che sarebbe durato meno di 4 anni tra chiusura delle indagini e conferma in Cassazione, avremmo gridato a una previsione malata di catastrofismo, dimenticando che la litania della mafia che non esiste, aveva già avuto tanti precedenti al Sud,  negati, finché il maxiprocesso palermitano non li ha messi nero su bianco in Tribunale. Ma ora che il punto fermo arriva a Milano quasi non se ne parla. Eppure, altre inchieste tra gli anni Novanta e primi anni duemila, sempre a Milano, avevano acceso luci, magari meno diffuse, ma significative sul problema, altri processi sono in corso a Torino. Ma c’è ancora chi si sente offeso: offeso non dall’esistenza di una locale di ‘ndrangheta che si chiama La Lombardia, offeso non dal fatto che sia potuto accadere, ma offeso dalle parole come pietre che la scolpiscono in una sentenza. E forse il problema è proprio qui: invece di indignarsi perché le cose contenute nelle sentenze accadono ci si indigna perché qualcuno indaga e le svela. Invece di voler capire per prevenire, si preferisce non sapere. Ma non è chiudendo gli occhi che si risolvono i problemi, e le cronache sulla corruzione lo dimostrano. A chi le ricorda, però, alla prova dell'attualità fanno eco le parole, scosse di commozione e di rabbia, che tuonarono ventidue anni fa nell’aula magna del palazzo di giustizia di Milano: «Oggi è finita la Duomo connection, alla quale Giovanni e io avevamo lavorato assieme. La mafia si può sconfiggere. Ma esiste, signor procuratore. A Milano come a Palermo, non ci sono confini». Oggi era il 25 maggio 1992, la Duomo connection era il primo processo che chiamava in causa la mafia, cosa nostra in quel caso, a Milano. Giovanni era Giovanni Falcone, saltato per aria due giorni prima a Capaci su mezza tonnellata di tritolo, le parole erano di Ilda Boccassini che vent’anni dopo, da capo della Direzione distrettuale antimafia milanese, in sinergia con Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Nicola Gratteri a Reggio Calabria, ha coordinato insieme ai sostituti procuratori Alessandra Dolci e Paolo Storari l’indagine portata al vaglio della Cassazione il 5 giugno scorso. La linea della palma non si ferma, il malaffare prospera, ma, almeno, Giovanni Falcone aveva ragione: «Se succede qualcosa a me altri continueranno». La magistratura, però,  non può arrivare che a reati già commessi. Ad altri spetterebbe provare a prevenirli. Ma spesso sono gli stessi che preferiscono non vedere.

Mafie al nord, il timbro della Cassazione, scrive Lorenzo Frigerio su “Articolo 21”. Quando gli storici ne scriveranno tra qualche decennio – sempre che decidano di scriverne, privilegiando una volta tanto le vicende più complesse di questo Paese e non i giochi di Palazzo – si ricorderà senza dubbio la notte tra il 6 e il 7 giugno del 2014 come data epocale nella storia del contrasto alla criminalità organizzata al nord e in particolare della lotta alla ‘ndrangheta in Lombardia, un tempo considerata immune dalle possibili infiltrazioni mafiose.
Una criminalità, quella di origine calabrese, senza ombra di dubbio oggi la più agguerrita tra le mafie nostrane, in grado di estendersi con i suoi tentacoli al di fuori del nostro Paese tanto da diventare una minaccia pubblica a livello internazionale. Una data da ricordare dunque. Una data davvero storica perché segnata dalla decisione della VI sezione penale della Corte di Cassazione che, mettendo un timbro definitivo al primo filone del processo “Crimine/Infinito”, nato dal blitz ordinato dalle DDA di Milano e Reggio Calabria a metà luglio del 2010, certifica l’esistenza di un organismo verticistico di controllo delle cosche nel bel mezzo della fantomatica Padania e ne sanziona l’esistenza, comminando in totale ben otto secoli di carcere ai soggetti facenti parte delle cosche all’opera nella regione più importante del nord del Paese, in quello che viene considerato il motore economico d’Italia. Un organismo direttivo quello di cui la Suprema Corte parla – denominato dagli stessi affiliati con una non malcelata ironia “la Lombardia” – in grado di garantire unitarietà d’azione ai locali sparsi sul territorio regionale e identificate negli atti processuali. Un elenco da mandare a memoria, per evitare le amnesie di chi preferirebbe archiviare tutto rapidamente: Milano centro, Bollate (MI), Bresso (MI), Cormano (MI), Corsico (MI), Legnano (MI), Limbiate (MI), Pioltello (MI), Rho (MI), Solaro (MI), Pavia, Canzo (CO), Erba (CO), Mariano Comense (CO), Desio (MB), Seregno (MB). Una rete diffusa sul territorio lombardo fatta di contatti informali e di rapporti solidi con quello che è “il capitale sociale” della ‘ndrangheta in Lombardia: un fitto reticolo di relazioni con insospettabili esponenti dell’economia e della finanza e rappresentanti della politica e delle istituzioni, in grado di assicurare agli uomini delle ‘ndrine di arrivare a massimizzare profitti e di perfezionare business leciti e illeciti a favore di un’organizzazione criminale ritenuta – a torto – fino ad un decennio fa un pericolo minore rispetto a Cosa Nostra. La sentenza della Cassazione scrive l’ultima pagina del giudizio abbreviato emesso dal gup del Tribunale di Milano Roberto Arnaldi nel novembre 2011 e poi parzialmente confermato in appello nell’aprile 2013 e riguarda la gran parte dei soggetti indiziati, al termine delle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dei pm Alessandra Dolci e Paolo Storari. Altri filoni processuali sono in itinere presso i Tribunali di Milano e di Reggio Calabria e sarà interessante vedere se avranno la stessa lettura assicurata da quest’ultima sentenza. Secondo la ricostruzione operata nei diversi gradi di giudizio, “la Lombardia” era arrivata addirittura a vagheggiare progetti secessionisti dalla casa madre in Calabria, rappresentata dalle storiche “Province” di Reggio, della Piana e della Ionica. Un progetto peraltro suicida che portò prima all’eliminazione di un boss come Carmelo Novella nel 2008 in un bar di San Vittore Olona, alle porte di Milano, e poi allo storico summit dell’ottobre 2009, ripreso dalle telecamere dei ROS dei Carabinieri nel circolo per anziani di Paderno Dugnano, dove i capi della ‘ndrangheta in Lombardia si riunirono. Un incontro segreto resosi assolutamente necessario per nominare i nuovi vertici, dopo l’eliminazione di Novella, voluta per reprimere nel sangue il tentativo di affrancarsi dai clan calabresi e per lanciare un monito a tutti gli affiliati. Un summit le cui immagini sono poi state consegnate alla memoria collettiva grazie ad internet e ai social network e che racconta di come i boss ‘ndranghetisti si diedero appuntamento in quella struttura dedicata alla memoria dei giudici Falcone e Borsellino, noncuranti dell’offesa alla loro memoria. Uno sfregio pensato e voluto, ma che si immaginava sarebbe rimasto un segreto custodito dai partecipanti alla riunione. La sentenza della Corte di Cassazione inaugura una nuova chiave di lettura del fenomeno ‘ndrangheta, storicamente considerata refrattaria ad organismi verticistici di comando e proprio per questa libertà organizzativa in grado di diffondersi in Italia e nel mondo, senza troppi vincoli gerarchici, facendosi però forte delle tradizioni e delle regole che pure restavano quelle delle origini e della terra calabrese. Sono passati meno di quattro anni dal blitz del luglio 2010 e sembra passato un secolo. Soprattutto oggi diventa difficile leggere il quadro della presenza delle mafie nel nord, in particolare in Lombardia, la regione più toccata dalle indagini antimafia degli ultimi anni. Sembra sempre più difficile per la politica negare l’esistenza di una ramificata presenza delle cosche nel territorio, presenza definita ormai con il termine della “colonizzazione” da parte della Direzione Nazionale Antimafia. Sembra sempre più difficile per l’opinione pubblica far finta di non avere questa presenza scomoda in casa, ben dentro i confini di una terra colpevolmente ritenuta immune. Sembra, infine, sempre più difficile però scaricare il peso del condizionamento criminale degli appalti per EXPO 2015 sulla cricca dei “soliti noti” presi con le mani nella marmellata appena qualche settimana fa. Eh sì, perché la matematica non è un’opinione. All’indomani dell’operazione del luglio 2010, Ilda Boccassini in conferenza stampa annoverò tra gli effettivi a disposizione della ‘ndrangheta in Lombardia ben 500 elementi. Se 150 furono arrestati allora, significa che in circolazione ce ne sono almeno 350. E anche se alcuni fossero finiti nelle maglie della giustizia in altri procedimenti, vogliamo pensare che i molti restanti se ne stiano buoni e calmi, in attesa che passi la “nuttata” o meglio l’EXPO, senza provare a fare quello che sanno fare meglio?

La 'ndrangheta nata al Nord che nessuno voleva vedere. L'inchiesta "Infinito" ha dimostrato l'esistenza delle mafie nel Settentrione. La sentenza conferma che non si tratta più di un'invasione. La cultura e i meccanismi criminali si formano nel territorio come a sud, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. La prima pagina de Il Giornale che nel novembre 2010 lanciò la raccolta di firme contro Roberto Saviano La 'ndrangheta comanda al nord. È una sentenza storica questa della Cassazione che conferma le condanne e tutto l'impianto accusatorio del processo Infinito. Quando ne parlai, in prima serata tv, nel novembre del 2010, su Raitre, le mie accuse generarono una reazione incredibile. Raccontare come la 'ndrangheta comandasse nel nord Italia sembrò un'accusa insopportabile: ancor più, svelare che la criminalità interloquiva con tutti i poteri politici. Una bestemmia, per di più pronunciata all'ora di cena in tv, nella casa di ogni italiano. Quando, poi, l'inchiesta smentì la diversità della Lega, che anzi era spesso complice o nel silenzio o nella connivenza - come si vedrà con il caso Belsito anni dopo - la scoperta scatenò tutti i pretoriani del governo Berlusconi - e un impegno diretto dell'allora ministro dell'Interno. Roberto Maroni si precipitò a smentire in ogni angolo delle tv, cercando di far passare la presenza criminale al nord come una cosa minore, anzi scontata: lo sapevano tutti, e poi la Lega non c'entrava. I professionisti del fango iniziarono a raccogliere firme contro di me che osavo dare "del mafioso al nord". Finì così anche la mia esperienza in Rai: dopo aver raccontato come imprenditoria criminale e politica si saldano in una esponenziale crescita economica corrotta. Ma torniamo alla sentenza. Era il luglio del 2010 quando partì il blitz dell'inchiesta Infinito-Crimine: 154 arresti in Lombardia, altri 156 in Calabria. L'inchiesta della Dda di Milano svelava gli interessi mafiosi nelle Asl, l'infiltrazione nelle istituzioni pubbliche, le prime mire sull'Expo, i subappalti, le estorsioni, le aziende che vengono divorate perché - senza liquidità - si affidano a linee di credito delle 'ndrine. E ancora: la scoperta di una "confederazione" di diversi locali di 'ndrangheta nella struttura definita "Lombardia". Il tentativo del boss Carmelo Novella di rendersi sempre più autonomo rispetto alle 'ndrine calabresi, che dimostra il grado di maturità raggiunto dalla 'ndrangheta al nord, e la sua conseguente eliminazione. Ecco: tutto questo oggi non sono più accuse, ipotesi o condanne di primo o secondo grado. Oggi siamo di fronte a una sentenza di Cassazione e questa sentenza è chiara: l'inchiesta Infinito è confermata, al nord la 'ndrangheta comanda con una sua struttura unitaria. Ecco perché questa sentenza sta alla lotta della mafia come la scoperta dell'atomo alla ricerca fisica. I pm Ilda Boccassini, Paolo Storari e Alessandra Dolci della Dda, insieme con i Carabinieri, la Dia, i Ros di Milano e la Polizia - questa è un'indagine in cui credette molto il compianto Antonio Manganelli - hanno compiuto un'operazione complicatissima. E il ruolo di Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino - all'epoca dei fatti procuratore a Reggio Calabria e ora a Roma - è stato fondamentale per permettere l'elaborazione di questa inchiesta doppia: fatta da sud e da nord. Perché questa sentenza non mostra semplicemente che c'è una presenza mafiosa al Nord: questo lo sapevamo dagli anni Settanta e a dimostrarlo c'erano già state diverse sentenze. No, questa sentenza dimostra invece che la presenza della 'ndrangheta non è più frutto di "invasioni", di cellule che vagano e arrivano ovunque anche al nord. Dimostra che la Lombardia, e più in generale il nord Italia, sono ormai diventati territorio di mafia. Questa sentenza fa cadere anche l'ultimo finto sillogismo: "Se è vero che tutti i meridionali non sono mafiosi, è vero però che tutti i mafiosi sono meridionali". Non è così: non è più così. I rapporti strutturali con il territorio e i meccanismi scoperti smontano l'idea che si sia trattato di invasione. Ma suggeriscono, al contrario, la formazione a livello locale di meccanismi e di cultura mafiosa. Di più. L'inchiesta dimostra che l'imprenditoria e una parte delle istituzioni lombarde si connettevano alle organizzazioni criminali per rafforzarsi, per consolidare potere economico. I livelli di responsabilità sono diversi, ovviamente: ma non v'è stata, da parte della politica, una vera scelta di contrasto al segmento economico mafioso. Per ultimo, andrebbe ricordato come ha lavorato l'Antimafia di Milano. Su Ilda Boccassini è stata riversata da anni una caterva senza precedenti di insulti e accuse, esterne e interne. Il pm non ha mai risposto agli attacchi: lo fa oggi, con questa sentenza storica che cambia il paese. Intercettazioni, riscontri, pedinamenti. L'inseguimento dei flussi di denaro, il ruolo delle banche, gli investimenti sospetti. E poi i traffici, gli omicidi. Anni, silenziosi, di inchiesta: senza colpi di scena, fughe di notizie, arresti chiassosamente eccellenti. È così che sono arrivati i risultati. E ora che cosa diranno coloro che hanno governato e governano la Lombardia? Quali firme raccoglieranno, quali bugie racconteranno i professionisti del fango? Da oggi è ufficiale: le mafie non riguardano più solo il Sud. 

La mafia al Nord: quando dirlo era troppo scomodo, scrive Tiziano Resca su “Avvenire”. A volte può bastare un film per risvegliare la memoria, incrinare un comodo torpore e ricondurci a forza dentro la realtà. Tre giorni fa è stata presentata una realizzazione Rai dal titolo L'assalto. Andrà presto in onda, è una storia che si muove tutta al Nord del Paese, scosso dai tentacoli della più pericolosa piovra: la mafia, la 'ndrangheta, tutto quanto fa business sporco in modo facile e spietato muovendosi in una società in crisi di ogni cosa, o quasi. La "mafia al Nord" è un'ombra che si è fatta concreta almeno da una decina d'anni, ma che secondo alcuni ha origine negli anni Sessanta-Settanta, quando almeno cinquecento "uomini d'onore" vennero sottratti al loro brodo di coltura e inviati in quelle regioni grazie alla legge sul soggiorno obbligato. Oggi decine di inchieste, centinaia di arresti anche eccellenti, altrettanti "affari sporchi" portati alla luce hanno ormai dimostrato come uomini dei clan siano ben attivi in molta parte del Settentrione. Ma per lungo tempo i sospetti sulla mafia al Nord hanno trovato altalenanti risposte. Se qualcuno lanciava un allarme, qualcun altro cercava spesso di sopire, sminuire, dimenticare. Perché era vista come gratuita denigrazione – scomoda e imbarazzante – la sola idea che cosche e 'ndrine potessero davvero estendere i propri confini, incunearsi in zone dove più allettanti erano interessi e affari, cercare complicità e collusioni sempre più aggrovigliate e raffinate. Insomma, sarebbe stato come ammettere che quei tentacoli al Nord potevano contagiare anche parte del potere politico piccolo o grande, e gestori della cosa pubblica a livello locale. Sindaci di importantissime città e funzionari dello Stato sobbalzavano sulla poltrona solo a sentire quella parolaccia e la stessa Lega, partito decisivo nella gestione delle regioni settentrionali – Lega che peraltro aveva espresso un ministro dell'Interno quale Roberto Maroni, impegnato in una severa lotta ai clan – fu a volte protagonista di polemiche contro chi sosteneva che fosse in atto una strategia espansionistica delle cosche. Oggi – negli ultimi anni – una più diffusa presa di coscienza anche a livello politico ha certo fornito qualche puntello in più a magistrati e forze dell'ordine. Ma ormai le macerie lasciate dai nuovi "colletti bianchi" dei clan – forse meno dediti dei loro predecessori all'omicidio, ma ben specializzati in riciclaggio, usura, estorsioni, minacce – restano ad ingombrare le terre del Nord. Dove, per lorsignori, le attrattive continuano a non mancare. Milano, e con essa buona parte del Settentrione, sta viaggiando verso l'Expo 2015. Va riconosciuto: c'è la massima attenzione sui rischi di infiltrazione negli appalti. Ne parlava già esattamente quattro anni fa l'allora presidente della Commissione antimafia Giuseppe Pisanu. Lo scorso mese la stessa Commissione, ora presieduta da Rosy Bindi, è stata in trasferta a Milano. Anche in questa occasione si è riusciti ad innescare qualche polemica a livello politico, ma pazienza. Quello che conta è che, a giochi fatti, non si creino i presupposti perché tra qualche anno i luoghi dell'Expo siano al centro di iniziative come quella appena avviata sulla costa romagnola: un tour in pullman sui luoghi della mafia, una sorta di gita tra alberghi bar ristoranti simbolo della colonizzazione dei clan. Ottima l'intenzione di sensibilizzare, forse discutibile il metodo.

Eppure c'è ancora chi nega l'evidenza.

Le ossessioni di Saviano fanno il gioco della mafia. Il fatto che al Nord ci sia la mafia non vuole dire in alcun modo che il Nord sia mafioso, e neppure che rischi di essere contaminato, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Saviano, lo scrittore di mafia, gode come un matto. È entusiasta perché una recente sentenza della Cassazione ha stabilito, per legge, che la 'ndrangheta del Nord non è una parente povera della 'ndrangheta del Sud, ma è la stessa cosa. «Avevo ragione io - dice e scrive in queste ore -, il Nord è in mano alla mafia». Quella di Saviano ormai è una ossessione, direi un tifo interessato: senza la mafia non saprebbe che scrivere e addio libri, articoli, conferenze e incontri antimafia. Ora io non metto in dubbio le parole della Cassazione, è che mi sembra la scoperta dell'acqua calda. Mi sembra ovvio che la mafia ci sia, evidente che ci sono i mafiosi ma, addetti ai lavori a parte - direi maniaci a parte -, chi se ne importa se i clan che operano a Milano sono gli stessi o solo cugini di quelli che comandano a Corleone o a Reggio Calabria. Quello che Saviano non vuole capire - o finge di non capire - è che il fatto che al Nord ci sia la mafia non vuole dire in alcun modo che il Nord sia mafioso, e neppure che rischi di essere contaminato. Un conto è infiltrarsi in un appalto, riuscire a inserire con l'inganno un proprio esponente in una struttura pubblica o politica, altro è inquinare il vivere della comunità, comandare, disporre della vita e della testa delle persone. Fattene una ragione, caro Saviano, noi al Nord non siamo e non potremo mai essere in balia della mafia. Sappiamo combatterla ed estirparla non appena ne individuiamo una cellula. Non siamo omertosi, non siamo solidali, non applaudiamo i mafiosi all'uscita dalle caserme quando vengono arrestati, non insultiamo né aggrediamo - come avviene purtroppo in tante, troppe zone del Sud - i poliziotti che ammanettano i boss. Ci possono essere in giro - e probabilmente ci sono - anche migliaia di mafiosi, ma restano un corpo estraneo alla comunità. Al Nord un mafioso non è un padrino e neppure un uomo d'onore: è solo un criminale da assicurare alla giustizia il più presto possibile. Capiamo che chi ha costruito la sua fortuna economica e professionale sull'antimafia sia costretto a soffiare sul fuoco per tenere alti tensione e interesse. Buttafuoco, raffinato scrittore siciliano, di recente ha scritto che ci sono due tipi di mafia: la mafia e la mafia dell'antimafia. Un suo celebre conterraneo, Leonardo Sciascia, sostenne questa tesi già nel 1987, e per questo fu cacciato dal Corriere della Sera e linciato dai suoi amici comunisti. Chi sostiene che «tutto è mafia» porta inevitabilmente la gente all'assuefazione che «nulla è mafia». A vantaggio, caro Saviano, della mafia.

La mafia al nord? Saviano si sbaglia, scrive Franco Pelella su “Il Corriere della Sera”. Caro Beppe, Roberto Saviano ha preso spunto dalla recente sentenza della Corte di Cassazione relativa all’inchiesta “Infinito” per sostenere di nuovo una tesi da lui ripetuta più volte e cioè che la mafia è diffusa capillarmente nel nord dell’Italia. Secondo lui la sentenza “Dimostra che la Lombardia, e più in generale il nord Italia, sono ormai diventati territorio di mafia”. (“La ‘ndrangheta nata al Nord che nessuno voleva vedere”; La Repubblica, 8/6/2014). La mia opinione è che la sentenza della Cassazione mette in evidenza una consistente presenza della mafia al Nord ma essa non basta per dire che siamo di fronte ad una sua presenza capillare. Secondo me l’errore di fondo che fa Roberto Saviano è quello di basare le sue affermazioni su poche fonti di dati (soprattutto i processi) piuttosto che su molteplici fonti, come sarebbe corretto che facesse un sociologo “ad honorem” come lui. Se avesse consultato la ricerca più completa sulle mafie italiane (“Gli investimenti delle mafie”, redatta nel 2013 dal Centro di ricerca “Transcrime” dell’Università Cattolica di Milano) avrebbe avuto un quadro più completo del problema e avrebbe tratto conclusioni diverse. Il Centro “Transcrime” ha effettuato una misurazione della presenza delle organizzazioni mafiose sul territorio nazionale; tale misurazione è stata effettuata mediante la creazione dell’indice di presenza mafiosa (IPM). Il risultato finale del calcolo dell’IPM è una graduatoria delle regioni italiane formulata sulla base di tale indice. Ecco la graduatoria delle prime dieci regioni sulla base dell’IPM calcolato per ognuna di esse: 1) Campania 61,21; 2) Calabria 41,76; 3) Sicilia 31,80; 4) Puglia 17,84; 5) Lazio 16,83; 6) Liguria 10,44; 7) Piemonte 6,11; 8) Basilicata 5,32; 9) Lombardia 4,17; 10) Toscana 2, 16.

Il Giornale, Feltri: "Firmate contro Saviano che dà del mafioso al Nord". Il direttore editoriale del quotidiano di via Negri chiama a raccolta i suoi lettori contro lo scrittore di Gomorra, "reo" di aver parlato delle collusioni tra 'ndrangheta e Lega: "Sono fanfaronate, senzazioni che fanno guadagnare, non notizie", scrive Elena Rosselli su “Il Fatto Quotidiano”. Il giorno dopo l’arresto di Antonio Iovine, boss dei casalesi latitante da 14 anni, Il Giornale va alla guerra contro Roberto Saviano. In prima pagina, Vittorio Feltri, lancia l’iniziativa: “Una firma contro Saviano che dà del mafioso al Nord”. A fianco dell’editoriale al veleno dedicato allo scrittore, il quotidiano di via Negri mette a disposizione un indirizzo mail e numeri per fax ed sms invitando i lettori a scrivere chiaramente il proprio nome e cognome per dire al “signor Gomorra” che “Sondrio non è Casoria, Como non è torre Annunziata e Brescia non è Corleone”. Lunedì sera, durante il suo monologo nel programma di Raitre “Vieni via con me”, Roberto Saviano aveva raccontato la risalita delle organizzazioni criminali lungo lo stivale accostando alcuni esponenti della Lega al fenomeno della ‘ndrangheta in Lombardia. Durissime le reazioni il giorno dopo da parte degli esponenti del Carroccio. Ad arrabbiarsi più di tutti, il ministro dell’Interno Maroni che ha immediatamente chiesto alla Rai di poter replicare alle accuse dello scrittore campano nella puntata di lunedì prossimo. Alla risposta negativa del capostruttura di Raitre Loris Mazzetti, il titolare del Viminale ha prima minacciato querela e chiesto l’intervento del Quirinale, poi ha proposto allo scrittore “di metterci una pietra sopra e lavorare insieme contro la criminalità”. Tutto questo, nel giorno in cui  la Direzione investigativa antimafia (Dia), lancia l’allarme sulle collusioni fra imprenditori e ‘ndrangheta in Lombardia. E in cui il Viminale mette a segno un gran colpo nella lotta alla criminalità organizzata: l’arresto di Antonio Iovine, superboss dei Casalesi latitante da 14 anni. Non sotterra l’ascia di guerra però Il Giornale, che in un servizio di cinque pagine attacca l’autore di Gomorra e chiama a raccolta i lettori perché esprimano tutto il loro sdegno contro l’accostamento tra lombardi e criminali. In prima pagina, Feltri dopo aver ricordato che “questo governo, quanto nessun altro prima, si è distinto nelle botte alla mafia”, si chiede: “E un giovanotto campano letterariamente fortunato salta su a dire che la Lega fa affari con la cupola?” Scontata la conclusione: “Ma ci faccia il piacere”. Secondo l’editorialista de Il Giornale, quelle di Saviano, “più che riflessioni sono fanfaronate”. Esagerazioni che portano soldi: “Compilare cronache (con pretese di saggio) sulla mafia sia redditizio assai e dia titolo per avere accesso agli studi televisivi, con relativo compenso, tuttavia ciò non affranca dal dovere di non spacciare sensazioni per notizie”. Insomma, la’ndrangheta al Nord? Per Feltri una “senzazione” di Saviano. Ecco perché i lombardi “che nel loro piccolo si incazzano”, secondo il quotidiano di via Negri sommergeranno il giornale di mail, messaggi e fax di adesione alla campagna. Ma il servizio contro Saviano non si limita alla prima pagina. Sono sei le facciate che Il Giornale dedica allo scrittore. Innanzitutto la cronaca della querelle tra Saviano e Maroni. Laddove l’autore di Gomorra diventa “il Pippo Baudo dell’antimafia ” (Borghezio dixit), il titolare del Viminale appare l’eroe buono che perdona “il telepredicatore impreparato” Saviano e gli chiede di “deporre le armi”. La terza pagina, sotto l’etichetta “agguato al Carroccio” è dedicata a un vecchio racconto di Saviano, “Un sogno padano” che lo scrittore aveva pubblicato nel 2003 per Nazione Indiana, una rivista letteraria online di Milano. Secondo l’articolo, dal “sogno” dello scrittore di Casal di Principe si capirebbe cosa egli pensi esattamente del Carroccio: “L’armata padana guidata da Bossi è un esercito pronto a usare il mitra contro immigrati, meridionali e negri. Il Saviano d’antan – continua l’articolo – è lo stesso di oggi, feroce con il Nord, settario e fazioso”. A fianco il commento di Salvatore Tramontano nota strani parallelismi tra la scelta dell’argomento criminalità – Lega usato dallo scrittore in Vieni via con me e l’uscita ieri della relazione della Dia che affronta l’esistenza dell’ndrangheta al Nord (inviata al Parlamento ieri, ma terminata a ottobre, e comunque controfirmata dal ministro dell’Interno Maroni, ndr). “La fabbrica sudista del fango ha subito sfruttato la relazione della Direzione investigativa antimafia – scrive Tramontano – che parla, con una coincidenza un po’ sospetta di tempi, di una presenza consolidata della malavita in Lombardia”. La penultima pagina del servizio, titolata “le balle di Saviano“, riprende articoli già usciti su Il Giornale sugli “strafalcioni” dell’autore di Gomorra accusato di aver “scopiazzato” pezzi di altri giornalisti per comporre il suo celebre reportage sulla camorra: “Così Saviano ha copiato Gomorra. Interi brani ripresi, senza citarli, da ‘corrispondenze di guerra’ di cronisti con l’elmetto da sempre”. Lo scrittore è chiamato in causa anche per le sue “amicizie imbarazzanti”: “Improbabile il legame tra Roberto e Pietro Taricone“. Perché? “Per i quattro anni di differenza”. A chiudere il cerchio degli articoli contro Roberto Saviano è Vittorio Sgarbi con un commento dal titolo “Scrittori coraggiosi? La malavita si combatte sul campo”. Il critico d’arte indossa la fascia tricolore in qualità di sindaco di Salemi e dopo essersi lamentato per il mancato invito a Che tempo che fa “perché sono un maleducato”, lancia la bordata contro Saviano “il coraggioso scrittore con scorta”. Sgarbi si paragona all’autore di Gomorra: “Anch’io vivo sotto scorta per le mie denunce, dalla Sicilia al business eolico in Molise”. Secondo il critico d’arte Saviano in trasmissione è stato “evasivo e non convincente” perché “non ha parlato di Molise, Puglia, Calabria e Sicilia, martoriate dalle pale eoliche con profitti miliardari e arresti di mafiosi. Niente, a Saviano non interessa”. Sgarbi è preoccupato per il Molise: “Vedo il Molise in pericolo. Lì con l’eolico fa affari la camorra”. Peccato che Feltri, nella conlusione dell’editoriale in seconda pagina dica il contrario e citi il Molise come esempio di regione del Sud virtuosa: “Nel Molise ad esempio, la camorra e la Sacra Corona Unita non hanno mai attecchito, perchè questa è terra sannita, e i sanniti, che hanno rotto le ossa ai romani, non hanno paura dei bulli con la pistola protagonisti di Gomorra”. Le firme contro Saviano non arrivano a sorpresa. Gli house organ di Berlusconi lavoravano da giorni a diverse varianti sul tema. Ieri mattina Libero apriva con questo titolo: “Saviano ha rotto i Maroni”. Il quotidiano di Maurizio Belpietro spiegava: “Il ministro, che ha arrestato 6500 boss in due anni, si appella al Quirinale contro le accuse dello scrittore alla Lega: “Devo andarmene?” Poi la chiosa: “Ora il presidente scelga se stare con le istituzioni o con l’avanspettacolo”. Ventiquattro ore dopo, via alla raccolta di firme su Il Giornale. A questo punto non resta che aspettare i titoli e le iniziative di domani.

Si moltiplicano intanto le iniziative a favore di Roberto Saviano. Il sito di Articolo21, l’associazione per la difesa della libera informazione diretta da Stefano Corradino, risponde a Il Giornale con l’appello “Una firma per Roberto Saviano (che dà dei mafiosi ai mafiosi)”. ”E’ grazie a Saviano e a tanti altri giornalisti che coraggiosamente indagano sulla criminalità, sui rapporti tra mafia, economia e politica  – spiega Corradino – se si è aperto uno squarcio, uno dei tanti muri di omertà di questo Paese e se si è arrivati agli arresti di capi clan come Antonio Iovine”. “Per questo siamo con Roberto – conclude il direttore di Articolo21 –  e con tutti i Saviano che ogni giorno dalle redazioni più grandi a quelle più sperdute, da nord a sud, ingaggiano una battaglia difficile e rischiosa contro la criminalità e i suoi intrecci perversi”.

Mafia e politica al Nord, ecco la mappa: 74 casi, il record a Milano con 18. L'analisi di ilfattoquotidiano.it basata sui dati delle inchieste giudiziarie degli ultimi quattro anni, dalla Liguria alla Lombardia. Un cittadino su cinque amministrato da almeno un personaggio avvicinato dai clan, soprattutto di 'ndrangheta. Cinque i Comuni sciolti sopra la linea del Po. Il sostegno elettorale al primo posto tra i motivi che determinano l'approccio, scrive Elena Ciccarello su “Il Fatto Quotidiano”. Cinque comuni sciolti per infiltrazione mafiosa e un centinaio di relazioni pericolose. È la fotografia dei contatti tra ‘ndrangheta e politica nel nord Italia scattata dalle più importanti inchieste antimafia degli ultimi quattro anni. Un quadro inquietante, sicuramente incompleto, che descrive il tentativo dei clan di influenzare la vita amministrativa di comuni, province e regioni anche nel profondo nord del Paese. Le indagini realizzate dal 2009 al 2013 indicano che il 20 per cento dei cittadini di Piemonte, Liguria e Lombardia, ossia 1 su 5, è stato amministrato o rappresentato da almeno un politico accusato di affiliazione o concorso esterno in associazione mafiosa. Circa 75mila abitanti del nord-ovest dal 2011 vivono in un comune sciolto per mafia. E in questo quadro la provincia di Milano, con quella di Torino e Genova, risulta l’area in cui più forte è il tentativo di condizionamento dei risultati elettorali. Spulciando i documenti dell’antimafia e tenendo conto solo di politici in carica e candidati – e non di uomini di partito o funzionari, che pure figurano – si ricava un elenco di almeno 74 casi di avvicinamento tra rappresentanti delle istituzioni e criminalità calabrese (grande protagonista, pochissime volte affiancata o sostituita da Cosa nostra). La stragrande maggioranza dei casi non contiene alcun reato, e in ogni caso tutte le persone citate sono da intendersi innocenti fino all’ultimo grado di giudizio. Ma gli episodi tutti insieme tracciano una prima mappa inedita dell’assalto dei clan alla politica del Nord Italia. Emergono le scelte degli uomini legati alla malavita e quella rete di “relazioni esterne” dell’organizzazione criminale che, anche quando non ha rilevanza penale, contribuisce a fare della mafia un sistema di potere e non un semplice gruppo armato. Sulla base delle informazioni fornite dai magistrati, i rapporti individuati possono essere classificati in cinque tipi per livello di coinvolgimento, a prescindere dal loro profilo penale che, lo ribadiamo, resta perlopiù irrilevante (o, in  alcuni casi, ancora da provare definitivamente in tribunale). Si passa dal semplice contatto (30 per cento degli episodi), cene, pranzi e appuntamenti in cui gli uomini dei clan tentano un primo abboccamento, al sostegno elettorale (43 per cento), che rappresenta il tipo di rapporto maggiormente rilevato e nasce talvolta da una scelta spontanea dei malavitosi (una decisione in ogni caso mai gratuita, almeno nelle intenzioni), per arrivare agli episodi in cui più chiaramente emerge una prospettiva di accordo tra le parti (16 per cento). A questi si sommano infine gli episodi in cui, secondo gli inquirenti, politici e amministratori si relazionano agli uomini di mafia sapendo  bene con chi hanno a che fare: 5 casi di presunta affiliazione e 3 di concorso esterno in associazione mafiosa. Le inchieste rivelano che il sostegno elettorale è il motivo di contatto più frequente tra cosche e classi dirigenti, così come lo scambio tra voti e appalti è la base di ogni scioglimento comunale per mafia. I voti sono una merce molto richiesta, la buccia di banana su cui rischiano di scivolare anche i politici più scafati. Passa tutto da lì: è il peccato originale che i clan sfruttano per ricavare beni e favori all’organizzazione criminale. In questo contesto i comuni sciolti per infiltrazioni mafiosa, Bordighera (il cui commissariamento è stato successivamente annullato), Ventimiglia, Leinì, Rivarolo e Sedriano, raccontano solo una parte della storia. Guardando ai rapporti tra politica e mafia ogni territorio, comune, collegio o circoscrizione elettorale del nord Italia diventa lo specchio del potere conquistato dai clan. L’area di elezione di politici e amministratori costituisce infatti lo spazio su cui si misura la capacità mafiosa di penetrare le istituzioni, condizionare un territorio e la sua vita democratica. La dimensione della sua scalata al potere. In questa classifica alla città di Milano tocca il valore massimo, con 11 episodi segnalati. E i numeri peggiorano quando gli episodi si sovrappongono sullo stesso territorio. La cifra che ne risulta (indicata nella mappa con una diversa gradazione di colore) è ben più grave e colloca, ad esempio, il capoluogo lombardo in vetta alle posizioni con 18 casi complessivi. Nelle intercettazioni e nei documenti ufficiali (i dati sono aggiornati al 31 dicembre 2013), la stragrande maggioranza dei politici si mostra inconsapevole, distratta, responsabile tutt’al più di una caccia al consenso che conduce talvolta a pericolosi incontri ravvicinati. E infatti tutti i politici si dichiarano estranei a qualsiasi coinvolgimento o responsabilità. Le relazioni con uomini legati ai clan nascono spesso in un’area grigia popolata da colletti bianchi, affaristi e fiancheggiatori di ogni sorta, in cui si stringono molte mani e non sempre è facile capire chi si ha di fronte. Capita, poche volte per la verità, che i politici vengano addirittura scelti a loro insaputa, sostenuti dai “calabresi” per giochi di sponda o di interessi incrociati, quando collettori di voti – luogotenenti dei boss, uomini di partito, affaristi e persino genitori o parenti – intercettano per i candidati inconsapevoli i consensi della rete criminale (è il caso, ad esempio, del sindaco di Torino Piero Fassino o delle giovani Fortunata Moio e Teresa Costantino). Accanto a questi episodi emergono però anche abboccamenti diretti e più compromettenti. Richieste di voto avanzate senza fare troppe domande. In questi casi i politici coinvolti non possono negare di aver chiesto quei voti, ma giurano di non aver minimamente sospettato della qualità criminale dei loro interlocutori, in alcuni casi ancora da provare in tribunale. Sono gli episodi in cui, come scrivono i magistrati della procura di Milano “non sempre è l’appartenente alla mafia che si infiltra nella società civile” ma “esponenti di istituzioni, della società civile o delle professioni ricercano il rapporto con la mafia”. A questi fatti si sommano poi alcuni casi limite, una decina in tutto, in cui lo scambio, secondo gli inquirenti, avviene nella piena ed esplicita consapevolezza dei ruoli. È sconcertante vedere quanto in alto riescano a salire gli uomini legati alla criminalità calabrese, nei loro rapporti, prima che scatti un qualche campanello d’allarme. Come un sasso tirato nello stagno, i rapporti tra mafia e politica disegnano centri concentrici che si propagano da alcuni punti nevralgici verso l’esterno. Più rapidi a diffondersi sono trovano interlocutori disponibili, più radi dove i servizi mafiosi non hanno mercato. Dal punto di vista della collocazione politica il partito di gran lunga più avvicinato è il Pdl, con 40 episodi, coincidenti ad oltre la metà dei casi totali, per il resto quasi equamente distribuiti tra Pd, Udc, Idv, liste civiche e altri partiti. Mentre sono tutte di centro-destra le amministrazioni dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa. I comuni commissariati per mafia sono tutti medio-piccoli, ma il dato non deve trarre in inganno. I tentativi di contatto riguardano infatti anche consiglieri e amministratori provinciali, regionali, nazionali e persino un parlamentare europeo. Se negli ultimi 4 anni i boss calabresi hanno contattato, sostenuto o fatto accordi con 10 sindaci, 6 assessori e 22 consiglieri comunali (guardando ai soli candidati eletti), i rapporti che superano la soglia comunale rappresentano nel complesso circa il 40 per cento del totale, con 12 avvicinamenti di consiglieri o assessori regionali e 6 di politici con cariche provinciali.

Nota metodologica e fonti. I dati riportati nella mappa e nei grafici sono aggiornati al 31 dicembre 2013 e riguardano gli episodi contenuti nelle principali inchieste antimafia realizzate dal 2009 al 2013. Il partito di appartenenza e la carica dei politici sono relativi al momento del contatto con l’organizzazione criminale. Molti di loro hanno successivamente assunto altre cariche, o cambiato partito. Non sono stati classificati gli intermediari o gli uomini di partito senza cariche rappresentative o amministrative al momento del contatto. La mappa segnala esclusivamente i politici citati negli atti giudiziari, molti dei quali non sono neppure indagati, e comunque tutti sono da considerarsi non colpevoli fino all’ultimo grado di giudizio. Ad ogni soggetto è attribuito un territorio in relazione al contesto di elezione: comune, collegio o circoscrizione. La situazione giuridica indicata per ognuno riguarda esclusivamente le condotte che abbiano attinenza con  il tema della ricerca. Nel caso del sostegno elettorale, per ogni soggetto è indicata la carica conquistata anche grazie al sostegno mafioso e, in caso di mancata elezione, la carica – se presente – posseduta prima della candidatura. Viceversa compare la dicitura “non eletto”. Il lavoro ha utilizzato le seguenti fonti: Relazione Commissione antimafia XVI legislatura, gennaio 2013; G. Barbacetto e D. Milosa, Le mani sulla città, Chiarelettere, 2011; E. Ciconte, Politici e malandrini, Rubbettino, 2013; Marco Grasso e Matteo Indice, A meglia parola, De Ferrari, 2013; Vittorio Mete, Fuori dal Comune, Bonanno, 2009; M. Portanova, G. Rossi, F. Stefanoni, Mafia a Milano, Melampo, 2011, Rocco Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove, Donzelli, 2009. Archivio web de Ilfattoquotidiano.it. La Repubblica, Il Corriere, La Stampa e alcune testate locali. I dati demografici e i confini territoriali attingono agli ultimi rilevamenti Istat (2011-2013).

Nicola Gratteri: "Non c'è mafia senza corruzione". Il maxiprocesso, tra Milano e Reggio Calabria, ma anche le inchieste sulla corruzione che devastano il Nord: quanto sono legate mafia e corruzione e soprattutto che fare, per essere efficaci? Ne parliamo con il procuratore aggiunto Nicola Gratteri, scrive Elisa Chiari su “Famiglia Cristiana”. Nicola Gratteri è procuratore aggiunto a Reggio Calabria, ha lavorato con Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, al ramo calabrese dell'inchiesta nota alle cronache come Crimine-Infinito. Il troncone lombardo, coordinato da Ilda Boccassini, Paolo Storari e Alessandra Dolci,  nei giorni scorsi ha avuto piena conferma in Cassazione, mentre il Paese annega nella corruzione dilagante.

Dottor Gratteri, è  davvero una sentenza storica? Perché?

«Certamente è di fondamentale importanza, la sentenza della Cassazione conferma la presenza massiccia della ‘ndrangheta in Lombardia, ma anche in passato ci sono state inchieste di enorme rilievo, grazie a magistrati quali Alberto Nobili e Armando Spataro, che hanno dimostrato l’esistenza della ‘ndragheta in Lombardia. Purtroppo, c’è la tendenza a dimenticare, a sottovalutare esiti giudiziari importanti, quali quelli scaturiti da indagini come Nord-Sud, Zagara, La notte dei Fiori di San Vito e Riace. L’inchiesta Crimine-Infinito ha confermato molte delle “intuizioni investigative” del passato sull’unitarietà della ‘ndrangheta e sulla capacità di questa organizzazione criminale di mettere radici anche lontano dai territori di origine».

Quel processo, iniziato con l'indagine diventata pubblica nel 2010,  svelava tra l'altro gli appetiti della 'ndrangheta sull'Expo, oggi ne vediamo, da altre indagini, la faccia corrotta: è un caso corruzione e criminalità organizzata spesso ramifichino dalla stessa malapianta?

«Il professor Antonio Nicaso, mio coautore ed esperto di mafie a livello internazionale, dice sempre che ci può essere corruzione senza mafia, ma non c’è mafia senza corruzione. Le indagini confermano questo assioma. Quello che prima si faceva con la violenza, oggi si fa con la corruzione, utilizzando prestanomi, avvocati, broker, commercialisti, faccendieri di ogni tipo. Le mafie, ed in modo particolare la ‘ndrangheta che ricava gran parte dei suoi proventi dal traffico internazionale di cocaina, ha bisogno di giustificare la propria ricchezza. Cerca di infiltrarsi dove c’è da gestire denaro e potere. Lo fa da sempre, anche se parte della politica tende a dimenticare e a sottovalutare gli esiti processuali, probabilmente per una sorta di marketing territoriale».

Che cosa deve aspettarsi un magistrato dal legislatore per un contrasto serio?

«Bisogna continuare ad aggredire i patrimoni mafiosi, ma soprattutto le cointeressenze, sempre più frequenti, tra politici e mafiosi. La lotta alle mafie non può prescindere da questi presupposti investigativi. Le mafie vanno impoverite, così come le risorse pubbliche vanno attentamente monitorate. Se non cominciamo a fare pulizia nel settore delle opere pubbliche, faremo sempre più fatica a combattere le mafie. Le organizzazioni mafiose per sopravvivere e rafforzarsi hanno bisogno di stringere relazioni con il potere».

La magistratura per reprimere, l'authority e la politica per prevenire: quanto è importante che le due cose coesistano?

«Sono due aspetti fondamentali. Non dovrebbe essere la magistratura a fare le pulci alla politica. Dovrebbe essere la politica a isolare i comportamenti discutibili, i rapporti con i mafiosi, le frequentazioni pericolose. Una volta c’erano i probiviri, oggi avanzano i furbi. La politica dovrebbe rimettere l’etica, i comportamenti virtuosi al centro del dibattito. Quando interviene la magistratura spesso è troppo tardi. Bisognerebbe prevenire certe pratiche e certi comportamenti. Mi auguro che la politica sia in grado di rigenerarsi».

Quanto è alto il rischio che si prevenzione e azione penale si intralcino a vicenda?

«Per combattere le mafie, così come la corruzione, c’è bisogno di una forte volontà politica. Nel rapporto presentato all’allora presidente del Consiglio, Enrico Letta, abbiamo indicato una serie di proposte. Mi auguro che il Parlamento abbia la forza e la volontà di adottarle».

 Sentiamo parlare di poteri speciali all'Authority, di che cosa avrebbe bisogno per non essere una foglia di fico?

«Avrebbe bisogno di tutti quei poteri necessari per incidere, garantendo strumenti legislativi adeguati. Cantone è stato chiaro: non ha nessuna intenzione di fare passerella. È un magistrato serio e preparato. Resterà al suo posto, solo se gli verranno garantiti i poteri che ha chiesto al Governo».

Quando si parla di commissariamenti e di appalti da revocare le imprese insorgono e i lavoratori temono per il lavoro: esistono modi concreti di ripulire senza fermare tutto? O è un'utopia una volta scoperto un caso Expo, un caso Mose?

«Bisogna fare prevenzione, bisogna seguire attentamente tutta la filiera degli appalti. Si potrebbe cominciare con una sorta di “white list", una lista nella quella figurano aziende con profili virtuosi, affidabili, lontane da compromessi e contiguità politico-mafiose».

Esiste ancora una speranza di contrasto quando la corruzione lambisce anche i controllori?

«Esiste solo nella misura in cui si decide di voltare seriamente pagina. Non servono rattoppi, ma misure drastiche ed esemplari. Oggi non domani».

Già, il caso Expo. La denuncia dell'Authority dei contratti a Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione: "Deroghe a ottanta regole, così la spesa è lievitata", scrivono Giuliano Foschini e Fabio Tonacci su “La Repubblica”. "Appalti senza controlli per mezzo miliardo". È stato più facile costruire le fondamenta dell'Expo che una pista ciclabile a Monza, più semplice affidare un contratto di vigilanza da qualche milione di euro che non assumere due bidelli in una scuola pugliese. In attesa di vedere quello che sarà, l'Esposizione universale del 2015 si è già rivelata per quello che è: una delle più grandi deroghe che lo Stato abbia mai concesso a se stesso. Mezzo miliardo di euro di denaro pubblico sottratto "alle norme e ai controlli" in nome dell'"emergenza" più prevista del mondo. "Ben 82 disposizioni del Codice degli appalti sono state abrogate con quattro ordinanze della Presidenza del consiglio  -  denuncia Sergio Santoro, l'Autorità garante per la vigilanza dei contratti pubblici  -  così hanno escluso noi e la Corte dei conti da ogni tipo di reale controllo". Dopo gli arresti dell'inchiesta di Milano, però, è scattato l'allarme e gli uffici tecnici dell'Authority hanno analizzato tutti i contratti per capire cosa sarebbe accaduto se quelle deroghe non ci fossero state, se il Codice nato nel 2006 apposta per combattere i fenomeni di corruzione fosse stato rispettato alla lettera. Ed ecco che sono venuti fuori affidamenti diretti oltre le soglie consentite, goffi riferimenti a commi di legge inesistenti, procedure ristrette poco giustificabili. "Le nostre sono osservazioni  -  ci tiene a specificare Santoro  -  fatte sui documenti disponibili online". Numeri, casi, segnalazioni, appunti, finiti in un dossier che Repubblica ha avuto modo di consultare e che è stato consegnato al magistrato Raffaele Cantone, il commissario voluto dal premier Matteo Renzi per evitare altri scempi. Le falle. Per capire di cosa stiamo parlando basta prendere l'opera al momento più famosa dell'Expo, le cosiddette "Architetture di servizio" per il sito, cioè le fondamenta dei capannoni. Famosa per il costo, 55 milioni di euro, ma soprattutto perché attorno a quel contratto ruota l'indagine di Milano sulla banda di Frigerio. Lo ottiene la Maltauro, ma come? Per l'affidamento Expo sceglie di non bandire una gara europea, aperta a tutti, ma di seguire la procedura ristretta. Partecipano sette aziende e dopo la valutazione della commissione vince un'Ati (Associazione temporanea di imprese) che ha come capofila appunto la Maltauro, l'azienda che è accusata di aver pagato mazzette a Frigerio e Greganti. La procura di Milano accerterà cosa è accaduto e come. Per il momento si può dire che a spalancare la porta alla corruzione è stata proprio la legge, permettendo la procedura abbreviata. "Come in molti altri casi per l'Expo  -  scrive il Garante nel suo dossier  -  si è seguito il criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa". A individuare quale sia, deve essere una commissione di 3 o 5 membri, "imparziale e altamente qualificata". Ma, ed ecco l'anomalia, nell'offerta della Maltauro hanno avuto più peso gli elementi qualitativi "per loro natura soggettivi", quali l'estetica e il pregio, rispetto al prezzo e ai tempi di esecuzione, "che sono invece dati oggettivi". Il punteggio qualitativo era 65 punti, quello quantitativo 35 punti. In sintesi, basta avere dei commissari amici e il gioco è fatto. "Ne abbiamo due su tre", si compiacevano Frigerio e Greganti, al telefono. E lo stesso Maltauro, interrogato dopo l'arresto, ha confermato il sistema. L'urgenza che non c'è. Ma a impressionare l'Authority è l'"emergenza perenne" che tutto giustifica. Perché, per esempio, viene affidato "in deroga" a Fiera di Milano spa l'allestimento, la scenografia e l'assistenza tecnica (2,9 milioni)? "Non si ravvisano evidenti motivi di urgenza  -  annota Santoro  -  per un appalto assegnato il 28 novembre scorso, un anno e mezzo prima della data del termine dei lavori". Ancora: con procedura "ristretta semplificata" sono stati dati i 2,3 milioni per il servizio di vigilanza armata a un'Ati (la mandataria è la Allsystem Spa), nonostante quella modalità "è consentita solo per contratti che non superino il milione e mezzo di euro". Sforamenti simili, ma di entità inferiore, sono avvenuti con l'"affidamento diretto", utilizzato 6 volte. "Il tetto massimo ammissibile è 40mila euro", segnala Santoro, ma nella lista figurano i 70mila a un professionista per lo sviluppo del concept del Padiglione 0 e i 65mila per servizi informatici specialistici. Ben 72 appalti sono stati consegnati "senza previa pubblicazione del bando", tra cui figurano il mezzo milione a Publitalia per la fornitura di spazi pubblicitari e i 78mila euro per 13 quadricicli alla Ducati energia, impresa della famiglia del ministro dello Sviluppo Federica Guidi. A Fiera Milano congressi  -  il cui amministratore delegato era Maurizio Lupi fino al maggio scorso, quando si è autosospeso  -  viene invece affidata l'organizzazione di un meeting internazionale dal valore di 881mila euro. Anche in questo caso Expo decide di seguire la via della deroga, appoggiandosi a una delle quattro ordinanze della presidenza del Consiglio (il dpcm del 6 maggio 2013). Lo fa in maniera quantomeno maldestra, perché nel giustificativo pubblicato sul sito ufficiale "si rileva un riferimento al comma 9 dell'articolo 4 che risulta inesistente". Un refuso. Il caso Mantovani. Su un caso, la realizzazione della "piastra del sito espositivo", l'Authority si sofferma un po' di più. È l'appalto più consistente, la base d'asta è fissata a 272 milioni di euro. Con un ribasso addirittura del 41 per cento e un offerta di 165 milioni lo ottiene, il 14 settembre di due anni fa, una cordata guidata dal colosso delle costruzioni Mantovani, il cui presidente Piergiorgio Baita sarà arrestato il febbraio successivo nell'ambito di un'inchiesta sul Mose di Venezia. "Con lo stesso aggiudicatario  -  rileva il garante  -  Expo ha stipulato però altri due contratti, rispettivamente di 34 milioni e 6 milioni, in opere complementari alla piastra". Un'osservazione che rimane tale, che non arriva ad assumere le forme di una qualche accusa specifica contro la cordata di imprese vincitrici, ma che per Raffaele Cantone (che martedì si incontrerà con Santoro) potrebbe valere un approfondimento. La Pedemontana. Quando l'Authority ha potuto ficcare il naso, sono stati guai. "Solo per la costruzione della Pedemontana  -  spiegano  -  non siamo stati esautorati dal nostro ruolo di vigilanza". A marzo del 2013, dopo uno screening dello stato di avanzamento, oltre a segnalare gravi ritardi ha individuato un incremento del costo complessivo dell'opera complementare all'Expo di 250 milioni di euro. Non sarebbe un caso. Nella relazione ispettiva si legge che l'appalto era stato affidato con "elementi oggettivi di distorsione della concorrenza e conseguente alterazione del risultato della gara". In sostanza appalto sbagliato, costi impazziti, autostrada che rischia di non essere mai terminata.

Tangenti alla Lega in Veneto, c'è un'indagine segreta. La procura di Milano indaga su dieci milioni di euro versati al partito nel 2011. L’ex cassiere Belsito e il suo consulente Bonet accusano il sindaco di Verona, Flavio Tosi, e l’ex primo cittadino di Treviso, Giancarlo Gobbo, di aver quantomeno avallato un sistema di finanziamento parallelo ed esclusivo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Nel numero in edicola domani “l'Espresso” rivela che la Procura di Milano indaga da più di un anno su un giro di presunte tangenti che potrebbe collegare i vecchi e i nuovi vertici della Lega Nord. Soldi sospetti, usciti dalla casse di multinazionali come la Siram, un colosso francese degli appalti di energia e calore, o di grandi aziende italiane come il gruppo statale Fincantieri. Versamenti per almeno dieci milioni di euro, fatturati come consulenze considerate molto anomale, che risultano incassati da due distinte cordate di faccendieri e politici, tutti legati ai vertici del Carroccio in Veneto. L’ex cassiere Francesco Belsito e il suo consulente Stefano Bonet hanno accusato proprio i big veneti del Carroccio, in particolare il sindaco di Verona, Flavio Tosi, e l’ex primo cittadino di Treviso, Giancarlo Gobbo, di aver quantomeno avallato un sistema di finanziamento parallelo ed esclusivo: un giro di soldi gestito da faccendieri ed ex parlamentari leghisti. “L'Espresso” scrive che il primo a parlare di presunti «rapporti illeciti» tra Lega e Siram è stato proprio Belsito: «Bonet e Lombardelli mi dissero che la Lega del Veneto aveva chiesto denari, da versare a una società di Enrico Cavaliere (ex deputato del Carroccio ed ex presidente del consiglio regionale Veneto, ancora presente nel collegio dei probiviri del partito) e del suo socio, Claudio Giorgio Boni, come percentuale dei guadagni della Siram. Fui io a transare l’importo finale. Ho trattato personalmente con Boni, che mi disse che Cavaliere aveva avuto l’ok da Tosi a chiudere per un milione. Boni mi assicurò più volte che lui e Cavaliere agivano per conto del sindaco di Verona». Belsito sostiene che nella Lega, almeno fino al 2011, sarebbero esistiti due livelli di finanziamento illecito, locale e nazionale (anzi, «federale»), come succedeva nei partiti della Prima Repubblica. Il tesoriere doveva rivolgersi ai vertici proprio per capire a chi spettassero i soldi della Siram. «L’autorizzazione a chiudere a un milione l’ho avuta direttamente da Bossi, che mi disse che era roba dei veneti», dichiara Belsito, che aggiunge: «Ne parlai anche con Gobbo e Zaia, che non fecero alcun commento, mentre Roberto Calderoli mi disse di stare tranquillo e non fare denuncia». Nel settembre 2013, dopo tre mesi di carcere, anche Stefano Bonet vuota il sacco e aggiunge altri particolari: «L’ex onorevole Cavaliere e il suo socio ligure, Boni, erano importanti procacciatori d’affari per la Siram. Nel 2010 pretendevano due milioni dalla mia Polare. Fu la Siram ad accollarsi anche questa loro pretesa, per non compromettere i rapporti con la politica e i propri interessi nella sanità in Veneto. Cavaliere infatti era legato al sindaco Tosi e si occupava dei finanziamenti alla Lega. Questo mi fu riferito dagli stessi Cavaliere e Boni, di fronte a dirigenti della Siram». Nelle sue confessioni, Bonet aggiunge che la Siram non poteva dire di no alla Lega Nord, perché non voleva perdere due appalti colossali con la sanità veneta. E a questo punto rivela di aver partecipato a un incontro delicatissimo nel municipio di Treviso: «Oltre a me, erano presenti due dirigenti della Siram e, per la Lega, Gianpaolo Gobbo, allora sindaco, Stefano Lombardelli (ex dirigente di Fincantieri, latitante da un anno) e Belsito. Lombardelli alla fine rimase solo con il sindaco e dopo l’incontro mi disse che era stata già concordata la somma di cinque milioni di euro per pagare la politica, e segnatamente Gobbo, perché a Treviso non si muove nulla se la Lega non vuole». La Siram proprio nel 2011, dopo una tornata di gare costellate di irregolarità e per questo durate tre anni, ha vinto davvero due maxi-appalti decennali per le forniture di calore agli ospedali veneti: l’Asl di Treviso si è impegnata a versarle ben 260 milioni di euro, quella di Venezia altri 241 milioni.

Lega e tangenti, a Milano c'è un'indagine segreta. Consulenze usate per distribuire un fiume di milioni: 'Tosi e Gobbo sapevano'. Nelle carte riservate dei pm milanesi potrebbe esserci il pezzo mancante della maxi-inchiesta sul Mose, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. La Procura di Milano indaga da più di un anno su un giro di presunte tangenti che potrebbe collegare i vecchi e i nuovi vertici della Lega Nord. Soldi sospetti, usciti dalla casse di multinazionali come la Siram, un colosso francese degli appalti di energia e calore, o di grandi aziende italiane come il gruppo statale Fincantieri. Versamenti per almeno dieci milioni di euro, fatturati come consulenze considerate molto anomale, che risultano incassati da due distinte cordate di faccendieri e politici, tutti legati ai vertici del Carroccio in Veneto. Le carte giudiziarie più scottanti sono ancora segrete, ma gli atti già depositati nel primo processo all’ex tesoriere della Lega, Francesco Belsito, arrestato nell’aprile 2013 e reo confesso, disegnano un quadro accusatorio che, se verrà confermato, potrebbe rappresentare il pezzo mancante della maxi-inchiesta sul Mose. Le tangenti per almeno 25 milioni distribuite dalle aziende del Consorzio Venezia Nuova, infatti, hanno arricchito politici di Forza Italia e del Pd veneziano, mentre la Lega ne risulta del tutto estranea, come ha rivendicato il governatore Luca Zaia. Ora però si scopre che l’ex cassiere Belsito e il suo consulente Stefano Bonet hanno accusato proprio i big veneti del Carroccio, in particolare il sindaco di Verona, Flavio Tosi, e l’ex primo cittadino di Treviso, Giancarlo Gobbo, di aver quantomeno avallato un sistema di finanziamento parallelo ed esclusivo: un giro di soldi gestito da faccendieri ed ex parlamentari leghisti. Come Enrico Cavaliere, deputato dal 1994 al 2000, poi presidente del consiglio regionale veneto fino al 2005, quindi condannato in primo grado per la bancarotta di un fallimentare progetto edilizio da 2.300 appartamenti in Croazia. O come Stefano Lombardelli, ex dirigente ligure di Fincantieri (di cui Belsito era consigliere d’amministrazione in quota Lega), fuggito in Libia e ormai latitante da più di un anno. Alla base della nuova inchiesta ci sono le confessioni dei primi arrestati. Belsito è il faccendiere genovese che fu nominato tesoriere nazionale dal padre fondatore della Lega, l’onorevole Umberto Bossi. Già nell’aprile 2012 aveva ammesso di aver gestito anni di ruberie private sui finanziamenti statali al partito. Ora, nell’atto d’accusa del suo primo processo, Belsito è imputato di aver intascato due milioni e 401 mila euro e di aver dirottato altri fondi pubblici per pagare spese personali di Umberto Bossi (208 mila euro), dei suoi figli Riccardo (157 mila) e Renzo (145 mila) e della sindacalista padana Rosy Mauro (99 mila), vicepresidente del Senato fino al 2013. Quel gran pezzo di storia padana, sul piano politico, si è chiuso con il sofferto passaggio del Carroccio nelle mani dell’ex ministro Roberto Maroni, oggi governatore lombardo, e dei suoi alleati, decisi a spazzare via l’era dei rimborsi-truffa. Scongiurando così anche il pericolo che la Lega dovesse restituire ben 57 milioni di contributi elettorali ritenuti irregolari. Belsito si era tradito tra il 28 e il 30 dicembre 2011, quando cercò di trasferire 5,7 milioni di euro a Cipro e in Tanzania, dove però la banca africana rifiutò i soldi del partito padano, segnalando un  sospetto riciclaggio di tangenti. Come spalla finanziaria, l’ex tesoriere leghista si era affidato a un consulente veneto, Stefano Bonet, poi arrestato con lui. Bonet è il titolare di una società, chiamata Polare, che è riuscito a far accreditare come «organismo di ricerca»: una ditta privata che, grazie a una favolosa legge italiana, può certificare le innovazioni industriali e far ottenere ad altre aziende ricchi crediti d’imposta. Secondo i magistrati, la Polare avrebbe emesso fatture false per 18 milioni di euro a favore della Siram, che con quelle triangolazioni avrebbe abbattuto le tasse da pagare in  Italia. La nuova indagine sulla Lega nasce dai documenti e archivi informatici sequestrati nel 2013 nelle sedi della Siram, della Polare e di altre ditte venete. Il primo a parlare di presunti «rapporti illeciti» tra Lega e Siram, ma soltanto dopo l’arresto e quelle perquisizioni a sorpresa, è proprio Belsito: «Bonet e Lombardelli mi dissero che la Lega del Veneto aveva chiesto denari, da versare a una società di Cavaliere e del suo socio, Claudio Giorgio Boni, come percentuale dei guadagni della Siram. Fui io a transare l’importo finale. Ho trattato personalmente con Boni, che mi disse che Cavaliere aveva avuto l’ok da Tosi a chiudere per un milione. Boni mi assicurò più volte che lui e Cavaliere agivano per conto del sindaco di Verona». Belsito sostiene che nella Lega, almeno fino al 2011, sarebbero esistiti due livelli di finanziamento illecito, locale e nazionale (anzi, «federale»), come succedeva nei partiti della Prima Repubblica. Il tesoriere doveva rivolgersi ai vertici proprio per capire a chi spettassero i soldi della Siram. «L’autorizzazione a chiudere a un milione l’ho avuta direttamente da Bossi, che mi disse che era roba dei veneti», dichiara Belsito, che aggiunge: «Ne parlai anche con Gobbo e Zaia, che non fecero alcun commento, mentre Roberto Calderoli mi disse di stare tranquillo e non fare denuncia». Nel settembre 2013, dopo tre mesi di carcere, anche Stefano Bonet vuota il sacco e aggiunge altri particolari: «L’ex onorevole Cavaliere e il suo socio ligure, Boni, erano importanti procacciatori d’affari per la Siram. Nel 2010 pretendevano due milioni dalla mia Polare. Fu la Siram ad accollarsi anche questa loro pretesa, per non compromettere i rapporti con la politica e i propri interessi nella sanità in Veneto. Cavaliere infatti era legato al sindaco Tosi e si occupava dei finanziamenti alla Lega. Questo mi fu riferito dagli stessi Cavaliere e Boni, di fronte a dirigenti della Siram». Fin qui sono soltanto parole di due arrestati che in teoria potrebbero anche aver tramato false manovre per screditare quei leghisti puliti che li avevano già scaricati. I documenti sequestrati dalla Guardia di Finanza, però, confermano che Cavaliere ha effettivamente incassato mezzo milione di euro (più Iva) e il suo socio Boni altri 350 mila (sempre netti). Nel novembre 2013, quando viene indagato e perquisito per quei bonifici, l’ex onorevole accusa i pm di aver fatto un gravissimo errore: Cavaliere e Boni giurano di aver fornito vere consulenze alla Polare, per cui quel milione lordo sarebbe semplicemente una loro regolarissima liquidazione. Il problema è che la società di Bonet aveva appena ricevuto esattamente gli stessi soldi dalla Siram. Di qui la conclusione dei pm: la multinazionale francese ha usato la ditta di Bonet per pagare con una triangolazione, cioè senza comparire direttamente, quei due «procacciatori di appalti» legati alla politica. Nelle sue confessioni, Bonet aggiunge  che la Siram non poteva dire di no alla Lega Nord, perché non voleva perdere due appalti colossali con la sanità veneta. E a questo punto rivela di aver partecipato a un incontro delicatissimo nel municipio di Treviso: «Oltre a me, erano presenti due dirigenti della Siram e, per la Lega, Gianpaolo Gobbo, allora sindaco, Lombardelli e Belsito. Lombardelli alla fine rimase solo con il sindaco e dopo l’incontro mi disse che era stata già concordata la somma di cinque milioni di euro per pagare la politica, e segnatamente Gobbo, perché a Treviso non si muove nulla se la Lega non vuole». Ma se gli appalti sanitari li assegnano i tecnici delle Asl, che bisogno avevano i manager di un’azienda privata di incontrare i politici di Treviso insieme ai tesorieri e faccendieri leghisti? L’unica certezza per ora è che la Siram proprio nel 2011, dopo una tornata di gare costellate di irregolarità e per questo durate tre anni, ha vinto davvero due maxi-appalti decennali per le forniture di calore agli ospedali veneti: l’Asl di Treviso si è impegnata a versarle ben 260 milioni di euro, quella di Venezia altri 241 milioni. Bonet, negli interrogatori in carcere, precisa di poter parlare solo di quell’incontro preparatorio, ma giura di non sapere se i presunti cinque milioni li abbia poi incassati veramente Gobbo, oppure Lombardelli «che voleva il suo 5 per cento» o magari altri leghisti. Alla fine del 2011, infatti, i dirigenti italiani della Siram hanno escluso Bonet dai rapporti con i politici, spiegandogli però che al suo posto sarebbe subentrata un’altra società di consulenza. Forse è solo una coincidenza, o forse no, fatto sta che nello stesso periodo la Siram e altre grandi aziende interessate a vincere appalti (soprattutto in Veneto e in Liguria) hanno versato molti altri soldi a un nuovo «organismo di ricerca», chiamato Care, fondato proprio da Boni e Cavaliere, che nel frattempo incassavano ricchissime consulenze anche tramite le loro società Matco, Leb e Archimedia. Consulenze molto singolari: tariffe del tre per cento che le aziende private pagano solo in caso di effettiva aggiudicazione di appalti pubblici. Nonostante le ricadute dello scandalo Belsito e l’iscrizione tra gli indagati per l’affare Bonet-Siram, l’ex onorevole Cavaliere resta molto amico del sindaco Tosi, almeno per ora. E conserva ottimi agganci con i vertici del suo partito, tanto da figurare ancora all’inizio del 2014 nel «collegio dei probiviri» della Lega.

LEGA NORD: I MOSTRI SON SEMPRE GLI ALTRI.

Lega Nord: il mostro c'è solo se conviene. Ora che il presunto assassino di Yara sarebbe un bergamasco doc, il Carroccio appare silenzioso. Ma all'inizio tuonava quando l'omicida sembrava essere un ragazzo marocchino. Non è la prima volta. Da Novi Ligure in poi, in molti casi i leghisti hanno cavalcato casi di cronaca nera per dare la colpa agli immigrati. Salvo poi tacere quando si è scoperto che gli autori erano italiani, scrivono Paolo Fantauzzi e Francesca Sironi su “L’Espresso”. “Ieri un matto, che girava nudo per Milano, ha ucciso e ferito senza nessun motivo. Non sarebbe il caso di riaprire delle strutture dove accogliere, curare e controllare i malati di mente?”. Su Facebook il segretario della Lega nord Matteo Salvini mostra comprensione nei confronti di Davide Frigatti, responsabile dell’accoltellamento di tre passanti a Cinisello Balsamo, uno deceduto e due ricoverati in gravi condizioni. Eppure lo stesso “garantismo” il Carroccio (e Salvini in persona) non sembrano averlo mostrato quando casi di cronaca nera hanno coinvolto cittadini non italiani. Al contrario, ogni delitto compiuto da un extracomunitario (vero o supposto che fosse) è stato quasi sempre il pretesto per campagne politiche sul tema dell’immigrazione. A cominciare dal caso di Adam Kabobo, il ghanese che lo scorso anno uccise tre passanti a picconate a Milano e al quale Salvini augurava di marcire in prigione. Così il segretario della Lega Nord sulla mancata richiesta dell'ergastolo ai danni Adam Kabobo, il ghanese che l'11 maggio del 2013 uccise a colpi di piccone tre passanti a Milano. Il pm Isidoro Palma ha chiesto una condanna a vent'anni di reclusione. Discorso simile per il caso di Yara Gambirasio, che nei giorni scorsi ha portato al fermo di Massimo Giuseppe Bossetti. Il 5 dicembre 2010, ad esempio, quando il marocchino Mohammed Fikri era stato appena fermato quale sospettato dell’omicidio, l’europarlamentare Mario Borghezio apparve sicuro della sua colpevolezza. Tanto da tuonare sulla necessità di «raccogliere le impronte digitali» perché era evidente la «necessità di introdurre un'aggravante per i reati commessi dai clandestini». Una posizione isolata? Non proprio, visto che lo stesso Matteo Salvini si diceva convinto che - a prescindere dalla nazionalità del colpevole - se era vero che «queste cose succedevano anche prima che arrivassero gli immigrati, da quando ci sono così tanti irregolari succedono di più». Insomma, la colpa era dei danni prodotti dall’“immigrazione incontrollata” e perché «c' è un senso di impunità». E siccome «Brembate è una città tranquilla e ospitale dove episodi del genere non si ricordano negli ultimi anni e se si verificano adesso un motivo ci sarà». Parole cui fa da contraltare il silenzio di questi giorni.

NOVI LIGURE. La fretta di incolpare gli immigrati non è arrivata solo per Yara. Un altro esempio clamoroso di uso strumentale della cronaca risale al febbraio del 2001. Delitto di Novi Ligure. Erika, quella che poi si scoprirà aver ucciso col fidanzatino adolescente madre e fratello, incolpa all'inizio due presunti ladri slavi. Albanesi, probabilmente. Occasione ghiotta per la Lega Nord, che organizza subito una fiaccolata in nome della sicurezza. In un'interrogazione immediata il parlamentare Mario Borghezio ricorda una donna stuprata pochi giorni prima chiedendo al ministro dell'Interno se non si ritiene «necessaria e urgente un'azione coordinata interforze per individuare e sradicare dalla zona le bande criminali di extracomunitari clandestini che attualmente vi spadroneggiano pressoché indisturbati, con misure efficaci ed effettive di espulsione». Criticato da tutti gli esponenti politici dopo il riconoscimento di Erika e Omar come gli autori del massacro, Borghezio non arretrò di un passo: «Citare la criminalità albanese ed extracomunitaria è un riflesso condizionato naturale di fronte al reiterarsi di episodi che hanno creato una grande paura» disse, e ancora: «Queste mie affermazioni sono la conferma che vi è una grande preoccupazione e averle citate non è nient'altro che la riprova, la dimostrazione che queste bande criminali sono troppo libere di agire». Borghezio non fu solo. Il clima anti-immigrati che si era creato lo ha ricordato in una recente intervista a Il Secolo XIX anche Mario Lovelli (Pd) che nel 2001 era sindaco di Novi: «Per la città furono giorni traumatici, c’è voluto tempo per metabolizzare la tragedia. Ricordo il giorno dopo il delitto, la reazione strumentale della Lega Nord e di Forza Italia, quando non si conosceva ancora la verità. C’era stato un consiglio Comunale infuocato, molti esponenti del centrodestra chiedevano di usare la mano pesante contro gli immigrati clandestini: si pensava che gli assassini fossero extracomunitari».

I ROM DEL FALSO STUPRO. Di tono simile le dichiarazioni lasciate da un esponente leghista dopo la denuncia, da parte di una ragazzina torinese di 16 anni, di uno stupro ad opera di alcuni rom. La violenza si rivelò poi falsa, un'invenzione, ma nel frattempo una spedizione punitiva andò a incendiare le abitazioni del campo nomadi della Continassa, alla periferia di Torino. In quei giorni Davide Cavallotto dichiarava: «A Torino l'emergenza rom è diventata ormai una piaga sociale. C'è voluto un episodio deprecabile come l'incendio doloso di un campo nomadi per capire che ormai la misura è colma. La politica deve mettere da parte l'ipocrisia e iniziare a fare i conti con l'impossibilità di una convivenza civile fra chi vive nella legalità e paga le tasse e chi rifiuta ogni forma d'integrazione e si macchia di reati restando impunito anche di fronte alla legge».

LA CAMIONETTA ASSALTATA. «Varese, ASSALTO a un furgone della POLIZIA per far scappare un detenuto ALBANESE. Primi effetti bastardi dell'infame legge SVUOTA CARCERI». Così commentava a caldo sempre Matteo Salvini  la notizia di un furgoncino della Penitenziaria preso d'assalto a Gallarate, in provincia di Varese. Poi si venne a sapere che il detenuto evaso grazie alla sparatoria era Domenico Cutrì. «Per me poteva essere anche Finlandese», cerca di minimizzare allora Salvini, messo di fronte all'errore: «Cambia poco: lo svuota carceri resta una boiata».

Matteo Salvini e l’urgenza della sparata razzista, scrive Mauro Munafò su “L’Espresso”. A Gallarate, in provincia di Varese, un furgone della polizia penitenziaria è stato preso d’assalto da un commando che ha permesso a un detenuto condannato all’ergastolo di evadere. Nei primi minuti si è diffusa la notizia che il detenuto in questione fosse originario dell’Albania, fatto che è stato poi smentito: si tratta infatti di Domenico Cutrì, originario della Calabria e in carcere perché mandante dell’omicidio di un magazziniere polacco compiuto in quel di Novara. Quello riportato qua sopra è il messaggio condiviso su Facebook dal segretario della Lega Nord Matteo Salvini, che ha pensato bene di non aspettare conferme sull’identità dell’evaso e di scrivere in MAIUSCOLO che si trattava di un ALBANESE, chiaramente con l’intento di aizzare un po’ i suoi tanti fan sul social network. Che cosa c’entri in questo caso la legge svuota carceri (che la Lega ha tutto il diritto di contestare) non è dato saperlo. UPDATE: 20 e 36. Qualcuno ha finalmente avvisato Salvini che il detenuto era italiano e non albanese. Facendo finta (…) che davvero per il segretario della Lega Nord “cambi poco”, resta ancora non chiarito il collegamento tra un’evasione e il dl svuota carceri.

IL GARANTISMO E' DI SINISTRA!!!!

Il garantismo è di sinistra, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Può esistere il garantismo di sinistra? Può esistere, per una ragione storica: è esistito, ha pesato, ha avuto una influenza notevole sulla formazione degli intellettuali di sinistra. Tutto questo è successo molto, molto tempo fa. Soprattutto, naturalmente, quando la sinistra era all’opposizione, o addirittura era “ribelle”, e quando i magistrati – qui in Italia – erano prevalentemente legati ai partiti politici conservatori o reazionari, e in gran parte provenivano dalla tradizione fascista. Allora persino il Pci, che pure aveva delle fortissime componenti staliniste, e quindi anti-libertarie, coltivava il garantismo. Il grande limite del garantismo, in Italia – e il motivo vero per il quale oggi quasi non esiste più alcuna forma vivente di garantismo di sinistra – sta nel fatto che non è mai stato il prodotto di una battaglia di idee – di una convinzione assoluta – ma solo di una battaglia politica (questo, tranne pochissime eccezioni, o forse, addirittura, tranne la unica eccezione del Partito radicale). La distinzione tra garantismo e non garantismo oggi si determina calcolando la distanza tra un certo gruppo politico – o giornalistico, o di pensiero – e la casta dei magistrati. Il “garantismo reale”, diciamo così, non è qualcosa che si riferisce a dei principi e a una visione della società e della comunità, ma è soltanto una posizione politica riferita a un sistema di alleanze che privilegia o combatte il potere della magistratura. Per questo il garantismo non riesce più ad essere un “valore generale” e dunque entra in rotta di collisione con il corpo grosso della sinistra – moderata, radicale, o estremista – che vede nella magistratura un baluardo contro il berlusconismo, e al “culto” di questo baluardo sacrifica ogni cosa. Tranne in casi specialissimi: quando la magistratura, per qualche motivo, diventa nemico. Per esempio nella persecuzione verso il movimento no-tav. Allora, in qualche caso, anche spezzoni di movimenti di sinistra diventano “transitoriamente” garantisti, e contestano il mito della legalità, ma senza mai riuscire a trasformare questa idea in idea generale: quel garantismo resta semplicemente uno strumento di difesa. Di difesa di se stessi, del proprio gruppo delle proprie illegalità, non di difesa di tutta la società. Il garantismo può essere di sinistra, per la semplice ragione che il garantismo è una delle poche categorie ideal-politiche che non ha niente a che fare con le tradizionali distinzioni tra di sinistra e destra. La sinistra e la destra – per dirla un po’ grossolanamente – si dividono sulle grandi questioni sociali e sulla negazione o sull’esaltazione del valore di eguaglianza; il garantismo con questo non c’entra, è solo un sistema di idee che tende a difendere i diritti individuali, a opporsi alla repressione e a distinguere tra “legalità” e “diritto”. Può essere indifferentemente di destra o di sinistra. A destra, tradizionalmente, il garantismo ha sempre sofferto perché entra in conflitto con le idee più reazionarie di Stato- Patria- Gerarchia- Ordine- Obbedienza- Legalità. A sinistra, in linea teorica, dovrebbe avere molto più spazio, con il solo limite della scarsa “passione” della sinistra per i diritti individuali, spesso considerati solo una variabile subordinata dei diritti collettivi. E quindi, spesso, negati in onore di un Diritto Superiore e di massa. Ed è proprio in questa morsa tra destra e sinistra – tra statalismo di destra e di sinistra – che il garantismo rischia di morire. Provocando dei danni enormi, in tutto l’impianto della democrazia e soprattutto nel regime della libertà. Perché il garantismo ha molto a che fare con la modernità. Ormai si stanno delineando due ipotesi diverse di modernità. Una molto cupa, ipercapitalistica. Quella che assegna al mercato e all’efficienza il potere di dominare il futuro. E questa tendenza – che a differenza dalle apparenze non è affatto solo di destra ma attraversa tutti gli schieramenti, compreso quello grillino – passa per una politica ultra-legalitaria, che si realizza moltiplicando a dismisura le leggi, i divieti, le regolazioni, le punizioni, le confische e tutto il resto. L’idea è che moderno significhi “regolato”, “predeterminato” e che per fare questo si debba separare libertà e organizzazione. E anche, naturalmente, libertà e uguaglianza (uguaglianza sociale o uguaglianza di fronte alla legge, o pari opportunità eccetera). E che la libertà sia “successiva” agli altri valori. Poi c’è una seconda idea, del tutto minoritaria, che vorrebbe che il mercato restasse nel mondo dell’economia, e non pretendesse di regolare e comandare sulla comunità; e vorrebbe organizzare la comunità su due soli valori: la libertà piena, in tutti i campi, e il diritto, soprattutto il diritto di ciascuno. Questa idea qui è l’idea garantista. E non ha nessuna possibilità di decollare se non riesce a coinvolgere la sinistra. Rischia di ridursi a un rinsecchito principio liberista, o individualista, che può sopravvivere, ma non può volare, non può prendere in mano le redini del futuro. E’ la sfida essenziale che abbiamo davanti. Chissà se prima o poi qualcuno se ne accorgerà, o se continuerà a prevalere la sciagurata cultura reazionario-di-sinistra dei girotondi.

Pubblichiamo ancora qui di seguito l’intervista che il direttore Piero Sansonetti ha rilasciato a editoria.tv  e ripubblicata da “Il Garantista”. “La sinistra non ha un’idea di libertà”. In un editoriale di due anni fa su Gli Altri, Piero Sansonetti sintetizzava così la sua posizione. Hanno scelto il liberismo, diceva, perchè è l’unica via possibile, quando non sai – tu, Stato – governare il mercato, indirizzarlo, farci i conti. Altro che “liberal” americani. Da noi non esistono. Quelli lì, oltreoceano, sono chiamati in questo modo dai conservatori “con lo stesso sdegno con cui Berlusconi dà ogni tanto a qualcuno del comunista”. Qui da noi è un’altra storia. Qui la sinistra è fuori da tutto, non esiste, e quella che si spaccia per tale “è di destra”, come recita il titolo del suo ultimo libro. E allora che si fa? Come s’articola il discorso politico nuovo? Con quali voci, con quali forze? Sansonetti, giornalista d’altri tempi, da una vita ai vertici dei quotidiani “rossi” storici (dall’Unità, a Liberazione, al Riformista, fino a Gli Altri) mette in riga le questioni e porta in edicola una nuova testata. Un foglio di carta di nome Garantista. Uscirà il prossimo 18 giugno 2014  (tra poco scoprirete con che formula) e nasce dalle ceneri di Liberal (a volte il destino…) del forzista Ferdinando Adornato e andrà a giocare la sua partita in questo mare impazzito che è il mercato di oggi, con la pubblicità che è una bestia in estinzione, i lettori (o clienti) che hanno scoperto l’eden del gratuito sul web e i fondi pubblici che sono diminuiti fino quasi scomparire. Il Garantista riparte senz’altro dal contributo pubblico, ma quello – si sa – ormai ti può dar sangue per vivere un po’. E poi?

Direttore, ci vuole coraggio a fondare un giornale di carta in questo caos di oggi. Dove lo ha trovato?

«Nella consapevolezza che esiste uno spazio, sebbene non vasto, dove poter affermare dei ragionamenti diversi. Delle idee.»

E perché crede di potercela fare? In fondo i numeri dicono che il mercato dell’editoria è un disastro.

«Sì, ma la questione è più complessa. Io credo che la crisi dei giornali vada indagata a partire da due ragioni. La prima è senz’altro l’avvento di internet. Il web ha dato una direzione diversa al mercato, della quale si deve prendere atto e sulla quale non si ha potere di intervento. La seconda ragione è che in Italia si è smesso di pensare. Non ci sono idee. Non ci sono novità da decenni. L’ultimo caso “innovativo” è forse Repubblica, ed era il 1976. Poi più niente, a parte il Fatto Quotidiano, forse.»

Perché forse?

«Perché per me non è una grande novità. E’ la diretta conseguenza di una via giustizialista, sulla quale camminano anche gli altri, dal Corriere in giù.»

E il Garantista? In un’intervista rilasciata proprio al sito del giornale di Padellaro e Travaglio, Adornato, l’editore di Liberal, dice che lei ha proprio in mente un anti-Fatto. E’ vero?

«Ma no. Noi siamo molto più di un anti-Fatto, siamo un anti-tutto. Vogliamo affermare un giornalismo che va alla verità. E la parola stessa Garantismo suona come un insulto di questi tempi. Noi però quest’idea la portiamo sul mercato ben sapendo che è minoritaria. Siamo sicuri, tuttavia, che conquisteremo il nostro spazio sapendo che di voci nuove c’è bisogno.»

Ma facciamo un po’ di storia. Quand’è che la sinistra s’accoda ai magistrati? Quand’è che nasce quest’amore?

«Di certo negli anni ’70. Quando si decide di cancellare la lotta armata. Anzi, si può dire di più. C’è una data precisa che è la legge Reale (la legge 152 del 1975, Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico, ndr).»

Poi?

«Il giustizialismo nasce lì e poi l’idea si consolida. Il giustizialismo è la realizzazione di un’alleanza che si salda, ancora di più, con Tangentopoli, quando si decide di cacciare quelli che fino ad allora avevano governato con la clava.»

Ma da dove nasce questa tendenza? Quale origine culturale ha?

«E’ un rigurgito stalinista. E’ da lì che proviene questo metodo. E’ lì che affonda la sua radici.»

Lei, nei suoi pezzi, differenzia i liberal dai liberisti. I primi sono tipica espressione della sinistra americana: pensano che lo Stato debba intervenire sul mercato per garantire le libertà di tutti. I secondi sono di destra, e pensano che il mercato si debba autoregolamentare, e che sia questa la vera libertà. Detto questo: Renzi è un liberal o un liberista?

«Lui bisogna aspettarlo al varco. Non lo so che sarà. Ma di certo l’andazzo è lo stesso. Se così non fosse, Renzi non parlerebbe usando termini come “li cacciamo tutti a calci”. Non le pare? Ho l’impressione che siamo sempre lì: la sinistra non sa scegliere e piega l’idea di libertà al mercato. E’ più facile così.»

A proposito di questioni immanenti. Lei dopo Liberazione è andato a dirigere dei giornali in Calabria. Che idea s’è fatto del Sud?

«Il Mezzogiorno è la parte più povera del Paese. I meridionali non hanno strumenti di potere. E in quell’area non c’è stata alcuna affermazione della cultura dei diritti. Le condizioni attuali sono il risultato di questo.»

E allora? Che si fa?

«Si deve ripartire dallo stato di diritto. Non ci sono altre vie. Il Nord ha portato al Sud le prigioni, le manette, nient’altro. Ma alla modernità s’arriva con un’altra cultura. Quella che noi, soprattutto in quelle aree, cercheremo di proporre. Anche se – ripeto – la nostra è una battaglia minoritaria.»

Che macchina state mettendo in piedi? Che giornale sarà?

«Dei contenuti ho già parlato. Per quanto attiene all’organizzazione, le redazioni saranno distribuite a Reggio Calabria, a Cosenza, a Catanzaro e poi a Roma. Il giornale nazionale avrà 24 pagine. E le redazioni locali 20 pagine, per ognuno dei posti che ho menzionato. Puntiamo molto sulla dimensione locale.»

A Cosenza ci sarà dunque un giornale diverso rispetto a quello di Reggio Calabria.

«Esatto. E sarà un giornale di 44 pagine. Avremo, poi, 16 pagine in più per Napoli e Salerno. Quindi i posti dove avremo una presenza più capillare, all’inizio, saranno la Calabria e la Campania.»

E sul web?

«Sarà online il sito del giornale e sarà possibile scaricare il pdf, abbonarsi e acquistare le copie, come è ormai consuetudine. La nostra sfida, ripeto, si gioca sulle idee non sulle tecniche.»

LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.

Carnevale: "I magistrati? Politicizzati e pigri". L'ex presidente di Cassazione: "Appartenendo alla giusta corrente si ha carta bianca. Doveroso separare le carriere", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Essendo stato il giudice più bravo d'Italia e il più perseguitato, Corrado Carnevale è contemporaneamente esperto di giustizia e malagiustizia. Ha indossato la toga nel 1953, quando fu primo assoluto al concorso. L'ha deposta nel 2013, sessant'anni dopo. Nel mezzo, la sospensione dal servizio con l'accusa di mafiosità gettata lì da Gian Carlo Caselli, capo della Procura di Palermo. Era il 1993 e a calunniare era il pentito Gaspare Mutolo. L'ostracismo durò sei anni e mezzo. Finché fu assolto con formula piena. Poi, per recuperare il tempo ingiustamente perduto, Carnevale è tornato in Cassazione, circondato dalla massima deferenza, fino a 83 anni compiuti. La penombra in cui il giudice tiene l'appartamento, ci protegge dalla calura. Da quando un decennio fa è morta la moglie, Carnevale non ha mosso una sedia. Questa scomparsa è il suo unico cruccio. Sulle mascalzonate subite, fa il filosofo. «Che sentimenti ha verso Caselli?», gli ho chiesto. «Nessuno», ha detto col tono di chi non dà spazio al superfluo. Il mobbing giudiziario lo ha inseguito anche nello studio dove sediamo. Un giorno scoprì che il telefono era isolato. Avvertì la Sip e vennero due tipi che armeggiarono un po'. «Quanto devo?» chiese alla fine. «È gratis, giudice», fu la risposta. «Come facevano a sapere che ero giudice?», sorride oggi Carnevale. Così, intuì che era stato un trucco per mettergli delle cimici e spiarlo in casa, non avendo potuto scoprire nulla con le normali intercettazioni. Fatica sprecata: anche le cimici confermarono il galantuomo. Carnevale è passato alla storia come l'Ammazzasentenze per avere annullato, da presidente di Cassazione, sentenze infarcite di svarioni. Alcune riguardavano mafiosi, il che scatenò polemiche. Ma la caratteristica di Carnevale è di essere inflessibile sul rispetto integrale della legge. Ho isolato le seguenti frasi della nostra chiacchierata che sono il cuore del suo credo: «Un giudice che ha dubbi su una norma, può chiedere alla Consulta di cancellarla. Ma finché la norma c'è, la deve rispettare. Gli piaccia o non gli piaccia. Non può scegliere, le deve rispettare tutte. Non può inseguire le sue chimere (salvare il mondo, ndr), fossero anche le più nobili. Suo unico compito è applicare tutte le regole che l'ordinamento si è posto». Da scolpire nella pietra.

Il punto molle del processo penale è la troppa vicinanza del giudice al pm, a scapito della difesa.

«Il nodo è chi ha permesso questa vicinanza. Ossia la politica che ha consentito all'Anm di tutto e di più. Non c'è ormai alcun controllo sull'idoneità dei magistrati. Basta che appartengano alla giusta corrente e hanno carta bianca».

Che rapporto ha avuto con l'Anm?

«Mi dimisi nel 1957, quattro anni dopo l'ingresso in magistratura. Capii subito che non si battevano per la giustizia ma per soldi e prebende, nonostante il loro trattamento fosse già il più favorevole».

Separazione delle carriere?

«Per farlo, bisogna cambiare la Costituzione. Ma nulla vieta di impedire da subito a pm e giudici di passare da una funzione all'altra, come oggi sciaguratamente succede».

Una scuola post-laurea per pm, giudici, avvocati?

«Perfettamente inutile. Il problema è di cultura generale, non di cultura giuridica».

Più ingressi di prof e avvocati in magistratura?

«Non serve a nulla, come dimostra il Csm in cui un terzo dei membri è composto di docenti e avvocati, scelti dal Parlamento, che però si adeguano puntualmente all'andazzo».

A che serve il Csm?

«Alla carriera dei magistrati appartenenti alle correnti giuste».

Come va riformato?

«Estraendo a sorte i membri. Che oggi sono invece scelti dalle correnti di Anm tra i più supini ai loro diktat».

Com'è che lei, considerato un cannone, invece di essere il fiore all'occhiello dei colleghi ha rischiato da loro la galera?

«È accaduto appena ho diretto uffici. Terminavo in tre mesi, ciò che gli altri facevano in un anno. Ero la prova che i loro alibi - scarsità di mezzi, troppe liti, mancanza di carta igienica - era il tentativo di addebitare alla politica le proprie lacune».

Per questo volevano rovinarle la vita?

«Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell'invidia».

Quello di Caselli, dopo le calunnie di Mutolo, fu atto dovuto o smania di annichilirla?

«Atti dovuti non esistono. L'attendibilità dei mafiosi va controllata con rigore, nonostante la teoria di Falcone che i pentiti dichiarano sempre la verità. Si voleva colpire me».

In un grado del processo prese sei anni per concorso esterno. Che pensa di questo reato?

«Che non è configurabile. Il concorso esterno è un'invenzione che ha sostituito il terzo livello con il quale si pensava di colpire i politici».

Il fantomatico terzo livello...

«Il terzo livello non funzionò e si cambiò col concorso perché aveva una parvenza più giuridica. In diritto esisteva già la categoria del concorso e, a orecchio, lo si estese a esterno».

Se in Cassazione si fosse trovato davanti Dell'Utri, condannato a sette anni per concorso esterno, che avrebbe detto?

«Che non era ravvisabile quel reato perché la legge non lo prevede. Ciò non esclude però che i suoi comportamenti potessero avere un rilievo penale diverso».

Ai mafiosi si applica un diritto speciale: 41 bis, ecc. Costituzionale?

«Assolutamente no. I cittadini sono uguali davanti alla legge».

Contro il Cav c'è stato un eccesso di zelo?

«Berlusconi, come tutti i magnati, compreso Agnelli, è stato disinvolto, ma da imprenditore fu ignorato da Mani pulite. Entrò nel mirino da politico. Segno della politicizzazione della magistratura».

Come ricondurre le toghe nell'alveo?

«Oltre all'estrazione a sorte del Csm, va introdotta la responsabilità civile personale dei magistrati. Esattamente ciò contro cui si batte in queste ore l'Anm».

Giudizio finale sullo stato della giustizia?

«Siamo tutti esposti a iniziative giudiziarie capricciose da Paese incivile. Un brutto modo di vivere il tempo che ci è dato su questa terra».

IL MONDO SEGRETO DEGLI ITALIOTI.

ALL'INIZIO FU IL SOCIALISMO.

Differenze tra Socialismo e Comunismo. Si tratta di una differenza nata a partire dal 1848 con la pubblicazione del "Manifesto del Partito Comunista" di Marx ed Engels, in cui per la prima volta i due termini, un tempo interscambiabili, assumono una connotazione differente. Marx e Engels differenziarono il "socialismo utopistico" da quello "scientifico", che venne chiamato, appunto, Comunismo, scrive Alessandro Cane. Il Socialismo nacque invece a partire dagli anni '30 dell'800 a seguito di problemi sociali in Francia e Inghilterra e si tratta di una serie di dottrine politiche, come l'owenismo, il sansimonismo o il fourierismo, che proponevano un sistema sociale ed economico differente dal Capitalismo, prevedendo: la scomparsa o la limitazione della proprietà privata, la cooperazione collettiva e l’eguaglianza sociale ed economica. Diverse sono le critiche che mossero Marx e Engels a queste forme di Socialismo, a partire dall'obbiettivo di ottenere l'appoggio, non delle classi operaie, ma delle classi "istruite". Mentre per i due filosofi il vero Socialismo, cioè il Comunismo doveva rivolgersi alle classe operaie e al proletariato per poter rivoluzionare il sistema capitalistico dominato dalla borghesia. Per questo il Comunismo si connota come "movimento rivoluzionario". Engels infatti sosteneva che "il Socialismo era un movimento borghese, il comunismo un movimento rivoluzionario". Vi è anche una differenza per quanto concerne la giustizia distributiva, o meglio, come allocare le risorse, scrive Tommaso Biagi. Nel socialismo (sempre marxista), con la presa rivoluzionaria dello Stato e con l'instaurarsi della dittatura del proletariato, si darebbe teoricamente ad ognuno secondo quanto lavora. Lavoro 8 prendo 8. Passata questa fase (necessaria per Marx in quanto passibile di contro-rivoluzioni borghesi) si estinguerebbe/assorbirebbe lo Stato poichè non essendoci più una classe borghese dominante da salvaguardare (e i relativi interessi in contrasto con gli interessi proletari), la funzione dello Stato cesserebbe. A questo punto si passerebbe ad un'altra forma di organizzazione sociale chiamata comunismo ove la distribuzione delle risorse seguirebbe la famosa citazione marxista "da ognuno secondo le sue possibilità, a ognuno secondo i suoi bisogni". Se posso dare 3 ma ho bisogno di 4 avrò 4. Se posso dare 4 ma ho bisogno di 3 avrò 3. Mi dissocio politicamente dal proprietario della seguente citazione ma può essere interessante (: "ogni leninista sa, se è un vero leninista, che il livellamento nel campo dei bisogni e della vita personale è una stupidità reazionaria piccolo-borghese, degna d’una qualsiasi setta primitiva di asceti, ma non d’una società socialista organizzata marxisticamente, perché non si può esigere che tutti gli uomini abbiano bisogni e gusti eguali, che tutti gli uomini vivano la loro vita personale secondo un solo ed unico modello. (dal Rapporto al XVII Congresso del Partito, 26-1-1934, in Questioni del leninismo, Edizioni in lingue estere, Mosca, 1946, p. 511)".

Fascismo e Comunismo: i figli (degeneri) della guerra. Il Primo conflitto mondiale con i suoi lutti diede vita a due movimenti opposti. Uno voleva il paradiso in terra e scimmiottava le religioni, l'altro militarizzò la società per volontà di potenza, scrive Marcello Veneziani su "Il Giornale”. La prima guerra mondiale ebbe due figli, uno rosso come il sangue che versò la rivoluzione, l'altro nero come i lutti che causò la guerra: il comunismo e il fascismo. Il primo preesisteva come idea e come movimento. Il secondo aveva fra i precursori il nazionalismo e l'interventismo. Ambedue venivano dal socialismo ma divennero realtà, partito unico e regime sotto i colpi della guerra. Al di là di quel che oggi si dice, a Mussolini gli italiani credettero davvero e non smisero di credere nemmeno nel pieno della seconda guerra mondiale, come documentano Mario Avagliano e Marco Palmieri in Vincere e vinceremo! (Il Mulino, pagg. 376, euro 25). Come testimoniano le lettere dal fronte pubblicate dai due storici, il consenso popolare all'entrata in guerra e anche oltre, fu sincero, «vasto e diffuso» e la partecipazione al regime e all'impresa bellica fu «attiva ed entusiasta». E ben superiore rispetto alla prima guerra mondiale. Per la verità anche Stalin ebbe consenso popolare nel mondo, che in Russia si cementò in chiave patriottica nella seconda guerra mondiale; ma i russi, a differenza degli italiani sotto il fascismo, vivevano sotto il terrore e le sue vittime furono milioni. Ma proviamo a leggere sotto un'altra luce la parabola del comunismo e del fascismo. Una lettura transpolitica, oltre la storia e il Novecento. Il comunismo fu il tentativo fallito di estendere l'ordine religioso alla società e il fascismo fu il tentativo tragico di estendere l'ordine militare alla nazione. Il primo infatti s'imperniò sulla rinuncia all'individualità, sulla comunanza di ogni bene, sulla comune catechesi ideologica e sull'attesa del paradiso, nonché sulla legge egualitaria, degna di un convento, «ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Ma passando da una comunità eletta di frati - che scelgono quel tipo di vita e rinunciano ai beni terreni - all'intera società costretta a osservare quelle norme, il paradiso trasloca in terra e diventa inferno. Gli angeli e i diavoli vengono storicizzati e identificati rispettivamente nella classe operaia e nei padroni, coi loro servi; l'eterno si risolve nel futuro, e dal processo spirituale al processo economico-materiale la scelta totale si fa servitù totalitaria, il convento si fa soviet e poi lager, la comunità si fa Partito e poi Stato, soffocando nel sangue chi si oppone o solo dissente. È nel passaggio dalla comunità al comunismo che la libera rinuncia ai beni terreni e individuali di un ordine conventuale si fa costrizione, tirannia ed espropriazione. La comunione dei beni su base volontaria è una grande conquista, il comunismo egualitario per obbligo di Stato è una terribile condanna. Nel fascismo avviene un processo analogo: i codici, i linguaggi, le divise, i valori eroici attinenti a un ordine militare vengono estesi all'intera nazione, la milizia si trasforma in mobilitazione di massa. La società viene organizzata come un immenso esercito, in ogni ordine e grado, e relativa gerarchia, e viene resa coesa dall'amor patrio e dalla percezione del nemico. I valori di un ordine militare, come credere obbedire e combattere, vengono estesi all'intera nazione. L'impianto del fascismo è tendenzialmente autoritario, perché attiene all'agire e alla milizia, quello del comunismo è tendenzialmente totalitario perché pervade ogni sfera, incluso il credere e il pensare. La guerra come proiezione verso l'esterno e la militarizzazione come orizzonte interno rende il fascismo un regime in assetto di guerra, animato da volontà di potenza e da una fede assoluta nei confini, trasferita anche nei rapporti umani. L'ordine militare come scelta volontaria attiene a un'aristocrazia, ma nel fascismo viene nazionalizzato, si fa Stato-Popolo, coscrizione obbligatoria di massa, inclusi donne e bambini. Il comunismo è la degradazione di un ordine religioso imposto a un'intera società e il fascismo è l'imposizione di un ordine militare a un'intera nazione. Entrambi sono risposte sacrali, idealiste e comunitarie alla società secolarizzata, utilitaristica e individualista: il carattere sacrale del comunismo è sostitutivo della religione, condannata dall'ateismo di Stato; il carattere sacrale del fascismo è integrativo della religione, come una religione epica e pagana della patria in cui sono ammessi più déi e ciascuno domina nel suo regno, storico o celeste. L'archetipo del comunismo è di tipo escatologico, l'archetipo del fascismo è di tipo eroico. La redenzione promessa dal comunismo avviene tramite la rivoluzione dei rapporti di classe. La vittoria promessa dal fascismo avviene tramite le armi. Infatti il fascismo, nato da una guerra, muore in guerra, sconfitto sul campo di battaglia. Invece il comunismo, nato da una rivoluzione, fallisce proprio sul terreno economico, sconfitto sul piano del progresso e dell'emancipazione. Mussolini sta al socialismo come Napoleone sta alla Rivoluzione francese: è il loro antefatto. Se il prototipo ideale del comunismo è la rivoluzione francese, il modello storico del fascismo è il bonapartismo, che su un'impresa militare fonda un nuovo ordine civile. Napoleone da giacobino diventa generale e poi imperatore; il Duce, ex-socialista, segue una parabola affine. Fascismo e comunismo sovietico nascono ambedue dal collasso dell'Ordine preesistente, imperniato sugli Imperi Centrali. La caduta dell'Impero zarista per la rivoluzione russa, la guerra irredentista contro l'impero austroungarico per la rivoluzione fascista. La Madre di ambedue è la Grande Guerra, col suo corredo di sangue e trincea, la leva obbligatoria e lo sgretolarsi del Mondo di ieri sorretto da quell'Ordine. A complicare le cose venne poi il terzo incomodo, nato anch'egli dalla Guerra ma a scoppio ritardato: il Nazionalsocialismo tedesco, da cui scaturì la Seconda Guerra Mondiale, fatale per l'Europa, letale per il fascismo. La storia avrebbe preso un'altra piega se il patto Molotov-Ribbentrop tra Hitler e Stalin avesse retto alla prova del conflitto e all'indole dei due dittatori. In quel caso, probabilmente, la Seconda Guerra Mondiale avrebbe vendicato la Prima e ne avrebbe rovesciato l'esito, seppure con soggetti mutati: l'Urss al posto della Russia, il Terzo Reich al posto della Prussia e dell'Austria asburgica. Salvo una finale resa dei conti tra il comunismo asiatico e il nazismo indoeuropeo. Resta il paradosso della Prima Guerra Mondiale: fu la Grande Guerra a far nascere il fascismo e il comunismo e a galvanizzarli, ma fu la stessa Guerra a decretare la vittoria sul campo delle democrazie liberali e poi l'americanizzazione del mondo. L'ambigua follia della guerra.

Differenze tra Comunismo e Fascismo.

Il Comunismo è un pensiero filosofico, sociale, politico ed economico che propone una prospettiva di una stratificazione sociale egualitaria: propone la comunanza dei mezzi di produzione e l’organizzazione collettiva del lavoro. Si sviluppa dai tre dettami della rivoluzione francese: eguaglianza, fratellanza e libertà, anche se su come il comunismo interpreti quest’ultimo ci sono grosse riserve. Marx ed Engels, fondatori del pensiero comunista, non ritengono il comunismo un principio filosofico, nè tanto meno un’utopia, ma il necessario epilogo del modello capitalista. I valori fondanti del Comunismo sono la consapevolezza di classe, il ripudio della proprietà privata e la rivoluzione.

Il Fascismo descrive sé stesso come una terza via alternativa al capitalismo liberale e al comunismo marxista. Il Fascismo è un’ideologia politica di carattere nazionalista, autoritario e totalitarista che nacque in Italia nel XX secolo principalmente per iniziativa di Benito Mussolini. Diversi altri movimenti e partiti si sono poi ispirati alla stessa ideologia. L’ideologia fascista, sostiene che una nazione necessiti  di una dirigenza forte, di un’identità collettiva e  di violenza per mantenersi in vita. Vi è un forte rifiuto dell’individualismo sia in capo sociale che artistico. Dio, Patria e Famiglia sono i più alti valori riconosciuti dal pensiero fascista.

Differenze tra Fascismo e Nazismo.

Il Fascismo è una corrente politica sviluppatasi in seguito alla Prima Guerra Mondiale e che vede come suo ideatore e promulgatore Benito Mussolini. Nato come partito sindacale, il Fascismo ha un caratteren azionalista, autoritario e totalitario: nel 1922, infatti, Benito Mussolini, con la Marcia su Roma, prende il potere sulla Monarchia e trasforma il governo in una dittatura nel 1925. L’aspetto nazionalista del Fascismo si fonda sull’idea di Stato, il bene superiore per eccellenza: per Mussolini e i suoi seguaci, infatti, la Nazione è l’insieme dei molti che devono rinunciare alla propria individualità adeguandosi alla cultura dominante. Vi è infatti un totale rifiuto dell’individualismo e dei gruppi minoritari, culturali o religiosi, che si distinguono dalla massa. Secondo il Fascismo, il controllo dello Stato deve essere mantenuto con forza e violenza, eliminando qualsiasi minoranza politica si vada a sviluppare.

Il Nazismo emerge a partire dal 1933, con la salita al potere delPartito Nazionalsocialista e del suo esponente massimo, Adolf Hitler, che racchiuse tutti i valori, i principi e gli ideali fondanti di questa ideologia in un “manuale-diario” da lui scritto, il Mein Kampf. Hitler fonda le basi dell’ideologia nazista proprio sul Fascismo di Mussolini: ne riprende, infatti, la politica totalitaria e assolutista, l’avversione per i movimenti operai, la strutturazione economica dello Stato. Mentre per il Fascismo lo Stato è il bene supremo, per il Nazismo la nazione e il controllo di essa è solo un mezzo, uno strumento che permette ai governanti di raggiungere il bene supremo che per i nazisti consiste nella supremazia della razza ariana e, se possibile, nell’annientamento completo di alcune minoranze etniche e culturali (ne sono un esempio le persecuzioni di ebrei, omosessuali, slavi).

Contiguità tra Comunismo e Nazifascismo nel dopoguerra.

Nazifascismo, quelle stragi impunite per preservare le relazioni italo-tedesche. In uno studio di prossima pubblicazione la studiosa Isabella Insolvibile mostra come molti eccidi In Italia e all'estero, rivelati dal giornalista dell'Espresso Franco Giustolisi, non siano stati oggetto di alcuna indagine. I casi furono archiviati per non danneggiare le relazioni italo-tedesche. E aspettano ancora giustizia, scrive Pier Vittorio Buffa su "L'Espresso". La verità sui crimini nazifascisti ha fatto e fa ancora paura. Non si può spiegare altrimenti quello che è successo al tribunale militare di Roma tra la fine degli Novanta e l’inizio del nuovo secolo e che è raccontato in uno studio, che sta per essere pubblicato, della storica Isabella Insolvibile. Stiamo parlando delle decine di migliaia di italiani (civili e militari) trucidati dai tedeschi e dai fascisti in Italia e all’estero e delle centinaia di processi chiusi per decenni nell’archivio segreto scoperto nel 1994 nelle stanze della procura generale militare. Franco Giustolisi, che per primo ne parlò sull’Espresso, lo definì l’ “Armadio della vergogna” e in un libro con questo titolo ne descrisse nel dettaglio il contenuto. Nell’armadio della vergogna vi erano 695 fascicoli “archiviati provvisoriamente” nel 1960 e dalle intestazioni capaci di evocare, al solo leggerle, terrore, sangue, morte: Cefalonia, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, Fosse Ardeatine… Sono le stragi impunite, nascoste per decenni perché la ricerca dei responsabili non interferisse nella costruzione dei nuovi rapporti italo-tedeschi. L’armadio venne aperto, molti processi celebrati, decine di condanne all’ergastolo comminate. Sembrava, insomma, che la giustizia avesse fatto qualche passo. Anche se con decenni di ritardo, anche se nessun criminale ha fatto poi un solo giorno di prigione. Lo scrupoloso lavoro della Insolvibile (Archiviazione “definitiva”, la sorte dei fascicoli esteri dopo il rinvenimento dell’armadio della vergogna, in Giornale di storia contemporanea, XVIII, 1,. 2015) dimostra invece che quell’armadio, in realtà, è rimasto in parte chiuso perché molti fascicoli sono stati aperti solo formalmente per poi essere richiusi frettolosamente, senza reali indagini. Tra il 1994 e il 1995, dopo la scoperta dell’armadio, le carte vennero mandate alle procure militari competenti ma i processi “sono stati istruiti e si sono svolti perlopiù solo dal 2003 a oggi: su 695 fascicoli rinvenuti, infatti, le più di 300 indagini istruite e portate a compimento sono state effettuate quasi tutte dalla procura militare di La Spezia tra il 2002 e il 2008, da quella di Verona dal 2008 al 2010 e da quella di Roma dal 2010 a oggi. Limitandosi a un computo banale, c’è evidentemente un buco lungo almeno 8 anni, che va dal 1994 al 2002-2003”. La Insolvibile ha concentrato il proprio studio sui cosiddetti “casi esteri”. Sono gli eccidi di militari italiani compiuti dalle truppe tedesche subito dopo l’8 settembre, soprattutto nelle isole greche, nei Balcani, nei campi di prigionia. Il caso più famoso è quello dell’ isola di Cefalonia dove i soldati della divisione Acqui, che si rifiutarono di arrendersi, vennero sterminati. Ed è da Cefalonia, per capire concretamente quello che è successo negli uffici giudiziari militari romani, che parte la Insolvibile. “La documentazione relativa alla strage avvenuta nell’isola ionica”, scrive, “spettava, per competenza, alla procura militare di Roma. A capo di tale procura c’era, fino al 2010, colui che è unanimemente considerato lo “scopritore” dell’archivio segreto, Antonino Intelisano, che rinvenne i fascicoli durante le indagini del 1994 relative al caso Priebke. L’indagine di Intelisano su Cefalonia partì però solo nel 2007, dopo le sollecitazioni provenienti dalla stampa, da un’assai opinabile decisione della corte di Monaco di Baviera (nel 2006 aveva archiviato l’inchiesta su Cefalonia per prescrizione, ndr) e da un’istanza presentata da alcuni parenti delle vittime”. L’unico indagato, l’allora sottotenente Otmar Mühlhauser, venne rinviato a giudizio nel 2009, ma poco tempo dopo morì e l’indagine condotta dalla procura romana si concluse. “Sarebbe stato solo il successore di Intelisano, Marco De Paolis, a riprendere in mano il caso, includendo sottufficiali e truppa tra i possibili responsabili, e portando finalmente Cefalonia in aula, con la condanna all’ergastolo (in contumacia) del caporale Störk nell’ottobre 2013”. Ma Cefalonia, scrive Isabella Insolvibile, non è l’unico caso “a ricevere un’attenzione quanto meno frettolosa e inadeguata”. Ha contato 41 episodi riconducibili ai “casi esteri” e sui quali “era ancora necessaria un’indagine e possibile un processo” in 26 dei quali vi erano “i nomi di alcuni dei presunti responsabili”. Solo per 18 di questi si è tentato un “qualche tipo di indagine” che non ha portato a nulla. Come nel caso delle stragi di Kos (vennero uccisi almeno 89 ufficiali italiani, ndr) e Leros (almeno 12 morti) il cui percorso giudiziario dopo il 1994 è ricostruito dettagliatamente nel saggio. L’allora pubblico ministero militare Intelisano chiede l’archiviazione del fascicolo quasi subito, nel 1995, per prescrizione. Ma il giudice respinge la richiesta ricordando che si tratta di reati imprescrittibili. Dopo otto mesi parte la prima lettera per la Germania con la richiesta, tra l’altro, di individuare un generale, Friedrich Wilhelm Muller , di cui si fornisce un nome errato e di cui era nota l’esecuzione ad Atene nel 1947. Le ricerche, ovviamente, non ebbero esito, e così il 12 ottobre 1999 Intelisano chiede nuovamente l’archiviazione del fascicolo intestato a “Muller Franz Ferdinando” che questa volta venne concessa. Sorte simile a quella di Kos-Leros anche per gli altri fascicoli sui casi esteri dell’armadio della vergogna di competenza della procura romana e analizzati da Isabella Insolvibile. Le statistiche che si ricavano dalla dettagliata appendice, che analizza i procedimenti uno per uno, dimostrano a sufficienza la “frettolosa e inadeguata attenzione” riservata alle indagini sui massacri dei soldati italiani. I procedimenti per i quali non è stata svolta alcuna attività di indagine (in tutto 22) sono stati archiviati entro il 1996 (ad eccezione di un fascicolo archiviato nel 1999). Gli altri 18, per i quali qualche indagine, del tipo di quelle fatte per Kos e Leros, sono state svolte, sono stati archiviati nel 1999. Ma con una singolare concentrazione dei provvedimenti in pochi giorni. La procura della Repubblica militare chiede l’archiviazione dei 18 procedimenti in 11 giorni: per cinque l’8 ottobre 1999, per otto il 12 e per gli ultimi cinque il 19 ottobre. Il giudice per le indagini preliminari risponde con grande velocità. Archivia 11 procedimenti il 5 novembre, sei il 9 novembre e solo per uno la decisione slitterà al 28 luglio del 2000. Insomma tra l’8 ottobre e il 9 novembre 1999 è come se un’anta dell’armadio della vergogna si fosse richiusa, negando ancora una volta giustizia a migliaia di morti. Alla procura militare di Roma, dopo l’assegnazione, tra il 1994 e il 1995, dei processi alle procure competenti, non restarono solo i fascicoli sui casi esteri ma anche quelli sulle stragi di centinaia e centinaia di civili massacrati dai nazifascisti nel centro Italia durante il periodo dell’occupazione. Per tentare di capirne la sorte avevo chiesto personalmente e formalmente, al Gip militare di Roma, il permesso di visionare i fascicoli archiviati da anni. La procura militare, guidata adesso da Marco De Paolis, aveva dato parere positivo spiegando che non sussiste “alcun impedimento”. Il gip Isacco Giorgio Giustiniani ha invece rigettato la richiesta perché “generica, relativa alla totalità degli atti, di una serie sostanzialmente indeterminata di procedimenti”. Eppure la richiesta non era per nulla generica, era accompagnata dall’elenco dettagliato dei processi fornito ufficialmente dalla procura. Processi su stragi famose e sanguinose su cui segreti e riservatezza dovrebbero essere spariti da tempo. Ma cosa è successo alle indagini su queste stragi? Incrociando l’elenco fornito dalla procura e gli atti della commissione parlamentare che indagò sull’occultamento dei fascicoli si capisce facilmente come anche i fascicoli sui “casi italiani” abbiano subito la sorte dei quelli studiati da Isabella Insolvibile. Ricorrono, ad esempio, le stesse date. Il 5 novembre 1999, il giorno in cui il gip firma l’archiviazione di 11 “casi esteri” viene archiviato anche il fascicolo 536 relativo a fatti avvenuti a Capistrello e lo stesso giorno cade il silenzio anche su omicidi commessi a Tagliacozzo, sempre nell’aquilano. Tre anni prima ci fu un altro giorno di grande attività per il gip militare di Roma. Il 18 aprile 1996 archivia senza nessuna attività investigativa, come documenta la Insolvibile, quattro “casi esteri”. Lo stesso giorno, verosimilmente anche in questi casi senza nessuna attività investigativa, torna la pietra tombale sulla strage di Calvi, in Umbria (12 morti), di Tolfa, in provincia di Roma (quattro morti), dell’Aquila (nove morti). Tutto questo dimostra che l’archivio segreto scoperto nel 1994, l’armadio della vergogna, alla fine non è mai stato aperto del tutto. In poco più di un lustro quasi un terzo dei fascicoli che vi erano contenuti sono tornati a chiudersi dopo nessuna indagine o dopo indagini come quelle descritte. Proprio come se, davvero, la verità su quei crimini facesse ancora paura e rischiasse di creare tensioni nei rapporti tra Italia e Germania. Conclude il suo saggio Isabella Insolvibile: “Il lavoro giudiziario che avrebbe dovuto essere fatto sulle stragi riscoperte, avrebbe potuto creare problemi, oltre a rappresentare un onere notevole per uno Stato, il nostro, da sempre a corto di risorse. Si scelse, quindi, di dichiarare la prescrizione e in ogni caso di archiviare, trasformando così una decisione illegale quale quella dell’archiviazione provvisoria in una sentenza storica definitiva, chiusa dal sigillo di una formale legalità”.

Calcio, politica e soldi. Tutti i luoghi comuni dell'italiano medio. Da "i ricchi evadono" al "solito inciucio": ormai le litanie dilagano. E chi le recita si sente un po' più onesto degli altri, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. Mica c'è bisogno dell'Istat e dei sondaggi, per capire gli italiani basta vedere di cosa si lamentano in continuazione, lagne entrate nel linguaggio popolare come tic, frasi fatte che si sentono ovunque, una volta solo al bar o in famiglia o se prendevi un tassì a Roma, ormai perfino in televisione. A cominciare dalla considerazione «Solo in Italia». Solo in Italia ci sono mille parlamentari. Solo in Italia non trovano i colpevoli dei delitti. Solo in Italia la giustizia funziona male, ovviamente se per caso tocca noi, se tocca un altro «dovrebbero metterlo dentro e buttare la chiave», come fanno all'estero. Tanto nessuno conosce l'estero, per questo ogni legge elettorale te la propongono alla francese, alla tedesca, all'americana, per mostrare di conoscere il mondo quando non si sa un cavolo neppure di come si vota in Italia. Coltivando il mito di paesi nordici come la Scandinavia o la Norvegia, dove i servizi funzionano a meraviglia, dove lo tasse sono bassissime, basta che non domandi dove sta la Norvegia perché non saprebbero neppure indicartela sulla carta geografica. Sebbene abbiano sentito Grillo che ti spiega come lì si ricicli anche la pupù. Ma perché non cerchi lavoro? Perché tanto «non c'è lavoro», perché «bisogna andare fuori», e poi tutti sono sempre qui, mai che muovano il sederino, come all'estero appunto. Tanto «è tutto un magna magna», e «tutti rubano», sempre a sottintendere che chi lo dice non appartiene alla categoria, sempre a sottolineare una propria specchiatissima onestà, perché solo in Italia «i ricchi evadono lo tasse», l'hanno visto da Santoro e a Report, te lo dice il barista che intanto non ti rilascia lo scontrino fiscale e il medico o l'idraulico che senza fattura, se vuoi, paghi meno, e tu ci stai perché tanto mica te la scarichi, come in America. E comunque ve lo immaginate un inglese o in americano che si lamenta del magna magna e dice « it's all an eat eat »? Tanto «gli italiani so' tutti ignoranti», sbotta quello che non ha mai aperto un libro e un quotidiano lo sfoglia a scrocco mentre sbocconcella il cornetto, leggendo solo i titoli, non per altro quanto a lettura di giornali veniamo dopo la Turchia, e l'editoria è in crisi qui più che altrove, perché se si legge qualcosa «l'ho letto su internet». Che poi se cerchi lavoro, è noto, «prendono solo raccomandati», e intanto non è che per caso conosci qualcuno? Troppi immigrati, «arrivano solo da noi, perché non li mandiamo in Francia e in Germania?», che però ne hanno più di noi, e al contempo gli italiani sono pure tutti cattolici (non praticanti, per carità), con un papa che gli immigrati, cristianamente, li farebbe entrare tutti, per dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati. Noi al massimo porgiamo l'altra guancia, ma degli altri, insomma «se ne dovrebbe occupare l'Europa!», la quale Europa quando elargisce i finanziamenti a noi spariscono non si sa dove, e però «è tutta colpa della Merkel!». Se non altro stiamo rivalutando Andreotti, Craxi, «loro sì che erano politici», e quando c'erano loro i nostalgici pensavano a Mussolini, «con lui non si rubava». In un paese dove «non c'è meritocrazia», e mica se ne lamenta il laureato a Harvard, se ne lamentano tutti, un popolo di meritevoli, informati, studiosi, sentono che c'è «la fuga dei cervelli» e si identificano subito col cervello in fuga. Mai sentito nessuno che ammetta di non essere all'altezza, di aver studiato poco, di non meritarsi nulla, tutti sanno tutti, in qualsiasi campo, dalla medicina all'economia. Convintissimi che se i parlamentari si tagliassero lo stipendio si abbasserebbe il debito pubblico. O almeno potrebbero «dare l'esempio», quasi che i deputati fossero arrivati in parlamento con un'astronave e non li avessero votati loro. Perché qui «è tutto un inciucio», e nel frattempo pure a me scrittore, nel mio piccolo, arrivano in posta sporte di manoscritti mediocri che vogliono essere letti da gente che non ha mai letto niente, tanto meno me, ma se glielo fai notare rispondono «Mica sarà peggio di tanti che pubblicano?». È il diritto alla mediocrità, solo in Italia.

Eguaglianza «aritmetica» o «proporzionale», secondo la distinzione di Aristotele? Nel punto d'arrivo o di partenza? Verso l'alto o verso il basso, come vorrebbero le teorie della decrescita? Se due mansioni identiche ricevono retribuzioni differenti, dovremmo elevare la peggiore o abbassare la piú alta? Ed è giusto che una contravvenzione per sosta vietata pesi allo stesso modo per il ricco e per il povero? Sono giuste le gabbie salariali, il reddito di cittadinanza, le pari opportunità? E davvero può coltivarsi l'eguaglianza fra rappresentante e rappresentato, l'idea che «uno vale uno», come sostiene il Movimento 5 Stelle? In che modo usare gli strumenti della democrazia diretta, del sorteggio e della rotazione delle cariche per rimuovere i privilegi dei politici? Tra snodi teorici ed esempi concreti Michele Ainis ci consegna una fotografia delle disparità di fatto, illuminando la galassia di questioni legate al principio di eguaglianza. Puntando l'indice sull'antica ostilità della destra, sulla nuova indifferenza della sinistra verso quel principio. E prospettando infine una «piccola eguaglianza» fra categorie e blocchi sociali, a vantaggio dei gruppi piú deboli. Una proposta che può avere effetti dirompenti.

Michele Ainis racconta le ingiustizie italiane nel nuovo "La piccola eguaglianza". In un libro il costituzionalista denuncia le piccole e grandi storture che inquinano la vita pubblica e professionale del Paese. E le colpe della sinistra, scrive Tommaso Cerno su “L’Espresso”. C'è una mappa italiana che la sinistra fa finta di non vedere. Racconta centinaia di piccole ingiustizie, una miriade di micro diseguaglianze, di stravaganti contraddizioni, iniquità, storture di un Paese dove essere uguali a parole è l’obiettivo di tutti, nei fatti resta un traguardo lontano. Michele Ainis ne traccia una radiografia tanto dettagliata quanto inquietante nel suo libro-breve “La piccola eguaglianza” (Einaudi, 136 pagine, 11 euro), un viaggio da costituzionalista ma prima ancora da cittadino dentro la contraddizione che fonda il sistema-Italia: nella teoria, siamo tutti uguali davanti alla legge, nella pratica la Repubblica nulla fa per rimuovere - come da mandato dei padri costituenti - gli ostacoli che impediscano di godere a pieno di tale principio. Con una denuncia chiara e nitida delle responsabilità della politica e, in particolare, della sinistra. Se Norberto Bobbio, spiega il costituzionalista, «scolpì la distinzione fra destra e sinistra in base al loro atteggiamento verso l’idea dell’eguaglianza», tanto da farne la stella polare dei progressisti, nei fatti tutti questi paladini dei più deboli, dei diseredati, dei potentati economici non si vedono. Anzi, aggiunge Ainis, «in Italia resistono i privilegi di stampo feudale», denunciati sempre e soltanto dai movimenti liberali e radicali. Poco, anzi pochissimo, dai riformisti di governo. La copertina del libro di Michele Ainis L’elenco del professore è serrato: bancari che lasciano il posto ai figli (siamo al 20 per cento dei casi in Italia), famigliari di ferrovieri che ancora nel 2015 viaggiano gratis sui treni, assicuratori che ci propinano le polizze più care d’Europa, e ancora tassisti che si proteggono con il numero chiuso. E avanti con farmacisti e notai, definiti da Ainis “creature anfibie”, nel senso terrestre della funzione pubblica e in quello acquatico dei guadagni privati. Spesso grazie a strafalcioni semantici, come nel caso dei medici che per prendersi lo stipendio dell’Asl e quello del privato a caccia di un luminare che risolva l’enigma di una malattia si affidano, portafoglio alla mano, all’intramoenia extramuraria. Uno scioglilingua che sembra scritto apposta per fregare i cittadini. Eppure, denuncia Ainis, gli unici a reclamare non sono quelli della sinistra parlamentare. Un saggio, dunque, ma anche un manuale delle fregature italiche che la politica finge di non vedere. Una guida ragionata del delirio di una democrazia che si professa a parole e non si applica nei fatti. Ainis spazia dal lavoro, dove di fronte a tassi di disoccupazione da record, non c’è alcuna trasparenza dell’offerta, nessuno “bandisce” i posti, consentendo una vera concorrenza. Per non parlare delle donne, abbandonate a se stesse, senza aiuti reali per educare i figli, dalla scarsità dei nidi alla casa, e rese dunque non eguali nella concorrenza con gli uomini. D’altra parte, avverte il professore, la sinistra «è anche quella che accetta i benefit di cui gode il Vaticano o in generale lo statuto di favore attribuito alla confessione cattolica» in un’Italia che, Costituzione alla mano, non ha certo una religione di Stato. Fino al caso dei famosi prof di religione, che finiscono per mettere in tasca più quattrini dei colleghi di ginnastica. Tanto per dimostrare anche nel portafoglio, come lo spirito e il corpo non valgano uguale in Cielo, ma nemmeno sulla Terra. E tanto per ricordare, come Ainis fa, che la legge sulla libertà religiosa fu proposta «dal più democristiano fra i politici democristiani (Andreotti durante il suo sesto governo, nel 1990), e poi mai approvata dagli esecutivi di sinistra che si sono alternati nel quarto di secolo successivo». Vale a dire Prodi, per due volte, D’Alema, Amato, Letta e Renzi. Per diventare un paese dove essere poveri o nullatenenti sembra l’unico modo per non essere attaccati o sospettati di chissà quale furto allo Stato o ai concittadini. In un’escalation pauperista indegna di una democrazia. «Dunque fermiamoci, finché siamo ancora in tempo», avverte Ainis. «Perché da un malinteso ideale di giustizia deriva la massima ingiustizia». E perché da un’ideologia del genere sgorga un veleno che può uccidere la democrazia stessa nel nome del quale si è generato.

Non tutte le eguaglianze sono eguali (e alcune fanno male), scrive Sabino Cassese su “Il Corriere della Sera”. Nei primi giorni di gennaio, l’incontro tra scienziati sociali e economisti americani tenutosi a Boston, nel quale l’economista francese Thomas Piketty ha esposto le sue idee sulle crescenti diseguaglianze di reddito e di ricchezza nelle società capitalistiche, ha suscitato accesi dibattiti, trasformando una compassata riunione di circa 12 mila studiosi in un campo di battaglia, diviso tra coloro che ritengono accettabile il livello di diseguaglianza delle nostre società e quelli che, all’opposto, pensano che occorra porvi rimedio, semmai con una tassa mondiale sulla ricchezza. Questo è solo un indizio dell’importanza del tema dell’eguaglianza, al quale opportunamente Michele Ainis dedica un breve libro (“La piccola eguaglianza”, Einaudi) che è, nello stesso tempo, di riflessione e di divulgazione. Ainis parte da una ricchissima illustrazione di casi di incongruenze amministrative e normative, di irrazionalità, di piccole iniquità, di storture, per poi passare in rassegna piccole e grandi diseguaglianze ed esporre e sviluppare, in forma divulgativa, idee maturate nei suoi lavori scientifici. Spiega che alla eguaglianza in senso formale (tutti sono eguali di fronte alla legge) si è venuta ad accostare l’eguaglianza in senso sostanziale (per cui la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza). Rileva che le due declinazioni dell’eguaglianza sono in conflitto. Infatti, la prima si esprime attraverso misure negative, la seconda con azioni positive. La prima tende a conservare lo status quo , la seconda a ribaltarlo. La prima comporta eguaglianza degli stati di partenza, la seconda eguaglianza dei punti di arrivo. La prima ha come destinatario il singolo, la seconda riguarda gruppi o categorie. Infine, la prima spinge verso discipline uniformi, la seconda verso discipline differenziate. Per far consistere le due declinazioni dell’eguaglianza, ambedue necessarie — continua Ainis — occorre convincersi che la prima deve funzionare come regola, la seconda come eccezione temporanea, destinata a durare finché le discriminazioni a danno di particolare categorie siano finite. Le azioni positive «possono opporsi alle piccole ingiustizie, quelle che penalizzano gruppi o classi di soggetti all’interno di una comunità statale. La piccola eguaglianza, l’eguaglianza “molecolare” è tutta in questi termini. E i suoi destinatari sono i gruppi deboli, le minoranze svantaggiate». L’altra lezione che Ainis trae dalla sua ampia rassegna di casi è quella che l’egualitarismo è pericoloso. L’eguaglianza radicale è l’antitesi dell’eguaglianza, perché appiattisce i meriti e perciò salva i demeriti. Così come l’appiattimento dei destini individuali, ispirato all’ideologia del pauperismo, discende da un malinteso ideale di giustizia, da cui deriva la massima ingiustizia. In un’Italia affamata di giustizia, temi come questi dovrebbero divenire motivi di discussione quotidiana. Stanno maturando altre esigenze di eguaglianza, mentre istituti chiamati ad assicurare l’eguaglianza producono vistose diseguaglianze. Consideriamo solo quattro ostacoli all’eguaglianza. Il primo è quello che deriva dall’accesso privilegiato al lavoro e colpisce specialmente i giovani. Alle difficoltà del mercato del lavoro, derivanti dalla limitatezza dell’offerta di posti di lavoro, si aggiunge la scarsa trasparenza dell’offerta. Né i datori di lavoro privati né quelli pubblici «bandiscono» i posti, consentendo conoscenza e concorrenza in modo eguale a tutti. Al lavoro si accede, quindi, attraverso procedure privilegiate, la famiglia, le conoscenze personali, i legami di «clan» politici, i canali «mafiosi». Un secondo ostacolo è quello che non consente alle donne l’accesso al lavoro. Carenza di provvidenze per la famiglia, scarsità di asili nido, mancanza di supporti ai nuclei familiari escludono le donne dal lavoro (con il paradosso che la loro presenza in ogni grado di scuola è prevalente, mentre diminuisce sensibilmente negli altri luoghi di lavoro, con poche eccezioni, quali l’insegnamento e la magistratura). Un terzo grave problema di giustizia sociale riguarda gli immigrati. Sia i giudici sia il Parlamento stanno estendendo a loro favore, ma in maniera contraddittoria e parziale, i diritti politici, i diritti di libertà e i diritti a prestazioni da parte dello Stato (accesso alla scuola, al sistema previdenziale, al sistema assistenziale, alla sanità) spettanti ai cittadini. Ma dopo quanto tempo gli immigrati cominciano a godere di questi diritti, avvantaggiandosi della solidarietà della collettività nella quale sono entrati? Perché alcuni di questi diritti vengono riconosciuti e altri non lo sono? Quali costi il riconoscimento comporta e quali condizioni, quindi, bisogna porre a esso? Infine, lo Stato del benessere opera principalmente a favore dei pensionati, meno per gli inoccupati e i disoccupati. Lo squilibrio delle risorse conferite, per vincere le diseguaglianze, ai diversi rami del welfare produce, paradossalmente, altre diseguaglianze.

Questo breve saggio sul principio di eguaglianza e su ciò che lo mette in crisi si articola in sei capitoli, scrive Fulvio Cortese.

Il primo chiama subito in causa la disperante concretezza del tema e si risolve in una carrellata di esempi, tratti dalla cronaca, su quale sia, nel nostro paese, la varia e diffusa fenomenologia della discriminazione.

Il secondo capitolo spiega preliminarmente quale sia l’approccio migliore per garantire l’eguaglianza, suggerendo che il principio possa garantirsi in modo credibile solo in una prospettiva relativa – definita dall’Autore come “molecolare” – e quindi resistendo alla tentazione di “alzare gli occhi al cielo” e di voler realizzare un’impossibile eguaglianza assoluta.

Proprio in questa direzione, il terzo capitolo chiarisce in modo sintetico, ma efficace, come la dottrina costituzionalistica e la Corte costituzionale abbiano elaborato e consolidato precise tecniche di analisi per verificare il puntuale rispetto del principio da parte del legislatore.

Il quarto capitolo si domanda se esitano anche dei criteri positivi per guardare all’eguaglianza, da un lato evidenziando che il principio non esige sempre una parità di trattamento verso l’alto o verso il basso (dipende dalla rilevanza costituzionale del “diritto” cui di volta in volta si ambisce), dall’altro ricordando che alla base di una corretta metabolizzazione dell’eguaglianza sta la consapevolezza che essa non serve per assicurare a tutti un identico punto d’arrivo, bensì per consentire a ciascuno di esprimere le proprie capacità.

Il quinto capitolo, allora, è la mise en place delle acquisizioni maturate nel corso della trattazione, volgendo così lo sguardo, in modo talvolta originale, a fattori differenzianti ancora e sempre particolarmente spinosi (il sesso, l’età, l’etnia, la provenienza territoriale, la religione; ma anche la pericolosa e strutturale frattura che si insinua invariabilmente tra governanti e governati).

Il sesto capitolo, infine, non ha un valore veramente conclusivo. Preso atto che la sinistra ha ormai abbandonato il suo ruolo di essere paladina dei più deboli, il libro si chiude con la sconsolata ricognizione del dibattito pubblico dei nostri giorni e della costante e strisciante tentazione di molti a risolvere la percezione della propria diseguaglianza nella speranza che i destini individuali si appiattiscano e nell’affermazione dell’infelicità altrui. Nella parte in cui si limita a rievocare – in modo peraltro riuscito – il succo della giurisprudenza costituzionale  sul principio di eguaglianza, la tesi “molecolare” illustrata da Ainis non presenta profili di particolare novità, se non per un pubblico totalmente digiuno del contributo che il diritto sa dare alla razionalizzazione delle discriminazioni. Spunti intelligenti, però, ci sono, e si trovano soprattutto dopo p. 84, nella parte in cui (capitolo quinto) l’Autore affronta le “categorie dell’eguaglianza” e si pronuncia su come sciogliere i fattori differenzianti sopra ricordati. Sulla diseguaglianza sessuale, si ribadisce l’importanza delle affirmative actions, ma si ricorda che lo strumento va usato con cura e a tempo, e si guarda con scetticismo all’introduzione delle quote di genere nelle competizioni elettorali. Si esprime, poi, cautela anche nei confronti della tendenza giovanilistica che pretende di rimuovere le diseguaglianze anagrafiche con una netta espulsione dei più vecchi; si critica la perdurante situazione di minorità cui sono condannati gli stranieri, rimarcando come l’impossibilità di esercitare il diritto di voto, specie a livello locale, comporti un’aperta violazione del principio cardine “no taxation without representation”; si sottolinea la sopravvenuta insostenibilità delle differenze di regime tra nuove e vecchie minoranze (tanto che lo Stato appare “forte con i deboli, debole con i forti”); si argomenta l’opportunità di considerare apertis verbis le differenze socio-economiche Nord-Sud, ripescando l’esperienza della gabbie salariali; si insiste sul carattere indispensabile di una legge sulla libertà religiosa (per non dover più ammettere, con Orwell, che “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”); si guarda, infine, alle lezioni degli antichi per ristrutturare i vizi della democrazia dei moderni (ipotizzando, ad esempio, non solo il ricorso a forme di recall, ma anche l’introduzione del sorteggio per talune cariche pubbliche, e anche per affidare ad una rappresentanza qualificata di cittadini alcune funzioni su cui i parlamentari versano in conflitti di interesse: “la verifica dei poteri, le cause di ineleggibilità e d’incompatibilità, il giudizio sulle loro immunità, la legge elettorale, la misura dell’indennità percepita da deputati e senatori, il finanziamento dei partiti”). Michele Ainis – che oltre ad essere un apprezzato costituzionalista e un noto opinionista, è anche un romanziere – si conferma uno scettico costruttivo, che non cede mai al fascino di visioni radicali e ottimalistiche, e il cui sforzo appare quello di fornire, come se fossero pillole, un po’ di istruzioni per l’uso a chi siede nella cabina di pilotaggio delle riforme.

Eguaglianza molecolare, scrive l'8 febbraio 2015 Il Sole 24 Ore, ripreso da Stefano Azzara sul suo Blog "Materialismo Storico". In un episodio della serie Dr. House, il medico televisivo politicamente scorretto si trova di fronte un paziente di colore, il quale si aspetta la prescrizione di un farmaco largamente usato dalla popolazione bianca, che però sarebbe inefficace a causa delle caratteristiche genetiche dell’uomo (data cioè la sua appartenenza etnica). Quando House gli prescrive un diverso farmaco, il paziente lo insulta, accusandolo di razzismo. Il nostro ritiene tempo perso cercare di spiegargli la questione, e se ne libera accontentandolo, cioè discriminandolo rispetto a un bianco per quanto riguarda l’appropriatezza del trattamento. Le decisioni che si prendono in ambito medico continuano a essere utili, come lo erano per Socrate, Platone e Aristotele, per ragionare sulla logica delle regole da usare per trattare gli altri e governare una società con giustizia, nonché sugli aspetti della psicologia umana che interferiscono con l’efficace uso di tali regole. La medicina e i medici non sono più quelli dell’antichità o di prima dell’avvento della medicina sperimentale, nel senso che fanno riferimento al metodo scientifico per controllare l’adeguatezza dei trattamenti. Un metodo che ha stabilito il principio che i pazienti vadano trattati in modo eguale, salvo che non vi siano ragioni valide, cioè dimostrabili e controllabili, per fare diversamente. Il biologo molecolare e premio Nobel Francois Jacob ha ricordato che l’eguaglianza, come categoria morale e politica, è stata inventata «precisamente perché gli esseri umani non sono identici». Lo studio dei contorni concreti della diversità biologica in rapporto all’idea astratta e controintuitiva dell’eguaglianza politica e morale, usando i risultati che scaturiscono dalla ricerca naturalistica e che dimostrano le difficoltà psicologiche individuali di elaborare un’idea razionale di giustizia, può essere un’ottima opportunità di avanzamento anche per le scienze umane. Che comunque arrivano a conclusioni coerenti e valide anche confrontando i risultati che derivano dall’uso di idee diverse di eguaglianza. Infatti, anche per il costituzionalista Michele Ainis, «la storia del principio di eguaglianza è segnata dalla differenza, non dalla parità di trattamento. [...]è segnata dalla progressiva consapevolezza della necessità di differenziare le situazioni, i casi, per rendere effettiva l’eguaglianza». Il libro di Ainis passa in rassegna le diseguaglianze o i soprusi causati da leggi ideologiche o etiche, che prevalgono in Italia rispetto ad altri Paesi. E argomenta che non è prendendo di mira le macro-diseguaglianze (es. sconfiggere la povertà nel mondo) che si riesce a migliorare il funzionamento delle società umane, ma concentrandosi sulle dimensioni micro, dove si può più agire per ripristinare una concreta giustizia sociale e politica. Se si osservano le diseguaglianze con il microscopio, invece che con il cannocchiale, e si va alla ricerca di un’«eguaglianza molecolare», cioè non tra individui, ma tra gruppi o categorie, ci si può aspettare almeno una gestione «minima, ma non minimale» dei problemi e delle sfide. Ainis ricorda un fatto, dietro al quale esiste una montagna di prove, cioè che l’eguaglianza ha a che fare con la giustizia, e che siamo disposti ad accettare un danno piuttosto che un’ingiustizia. Si tratta di una predisposizione evolutiva che funziona come un universale umano, e implica che si devono negoziare politicamente i valori, sapendo che questi tendono a variare nelle società complesse, e che la loro diversità è una risorsa da valorizzare. Ciò può essere fatto usando tre criteri: a) evitando di pensare che eguaglianza equivalga a identità; b) le decisioni che differenziano i diversi casi devono avere una base di ragionevolezza; c) usare proporzionalità o misura, per stabilire un vincolo oggettivo grazie al quale le decisioni legali continuino a dimostrarsi migliori nel discriminare e pesare fatti e contesti, rispetto alla politica. Il libro di Ainis è una salutare lezione di politica e diritto in chiave liberale, cioè suggerisce una strategia che coincide con i principi di fondo del liberalismo, per governare efficacemente società umane complesse e fortemente dissonanti rispetto alle predisposizioni evolutive che condizionano il comportamento umano. È un fatto che nell’età moderna i sistemi liberali si sono dimostrati, col tempo, le strategie migliori, anzi meno peggio di tutte le altre, per evitare che le diversità naturali diano luogo a diseguaglianze e quindi ingiustizie e sofferenze. Ma perché le idee liberali sono migliori? A parte la banale considerazione che non incarnano una credenza cioè non riflettono un’ideologia, ma un metodo, alla domanda risponde l’ultimo libro di Michael Shermer, editor di Skeptic e uno dei più lucidi sostenitori dell’esigenza di superare l’antinaturalismo che ancora caratterizza in larga parte l’epistemologia delle scienze umane. Shermer riassume lo stato delle conoscenze e dei dati che dimostrano che nel corso degli ultimi due secoli si è avuto un massiccio progresso morale, e che tale risultato è dovuto al prevalere della scienza e della razionalità negli affari umani. Soprattutto per quanto riguarda l’economia e il governo della società. L’efficacia del metodo scientifico e i presupposti sociali per farlo funzionare hanno ispirato anche la logica del costituzionalismo liberale. Rilanciando alcune idee di James Flynn e di Steven Pinker e passando in rassegna una serie impressionante di prove, intercalate da storie e aneddoti, Shermer ritiene che la diffusione della scienza, e in modo particolare del metodo scientifico, abbia determinato uno sviluppo delle capacità di astrazione e quindi un livello di razionalità che ha consentito alle persone di capire l’infondatezza e l’ingiustizia delle discriminazioni di genere, religione, sesso o appartenenza tassonomica. L’immagine dell’arco morale è presa da un celebre discorso di Martin Luther King, per il quale tale arco «è lungo, ma flette verso la giustizia». Shermer ritiene che le forze che hanno piegato l’arco morale sono la scienza e la razionalità.

Siamo tutti bravi a sciacquarci la bocca sull'uguaglianza. Ecco il fenomeno dei populisti.

Il Populismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il populismo (dall’inglese populism, traduzione del russo народничество narodničestvo) è un atteggiamento culturale e politico che esalta il popolo, sulla base di principi e programmi ispirati al socialismo, anche se il suo significato viene spesso confuso con quello di demagogia. Il populismo può essere sia democratico e costituzionale, sia autoritario. Nella sua variante conservatrice è spesso detto populismo di destra. Prende il nome dall'omonimo movimento sviluppatosi in Russia tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento che proponeva un miglioramento delle condizioni di vita delle classi contadine e dei servi della gleba, attraverso la realizzazione di un socialismo basato sulla comunità rurale russa, in antitesi alla società industriale occidentale. Un partito populista (Populist o People’s party) venne fondato nel 1891 anche negli Stati Uniti da gruppi di operai e agricoltori che si battevano per la libera coniazione dell’argento, la nazionalizzazione dei mezzi di comunicazione, la limitazione nell’emissione di azioni, l’introduzione di tasse di successione adeguate e l’elezione di presidente, vicepresidente e senatori con un voto popolare diretto; sciolto dopo le elezioni presidenziali del 1908. Il termine è stato riferito alla prassi politica di Juan Domingo Perón (vedi la voce peronismo e la sua recente variante di sinistra, il kirchnerismo), al bolivarismo e al chavismo, in quanto spesso fanno riferimento alle consultazioni popolari e ai plebisciti, perché il popolo decida direttamente nei limiti della Costituzione. Il movimento precursore di questa idea di democrazia può essere indicato e riconosciuto nel bonapartismo (Napoleone I e Napoleone III, in accezione cesaristica) e nella rivoluzione francese, specialmente nelle fazioni che si rifacevano alle idee politiche del filosofo Jean-Jacques Rousseau, come i giacobini. In Italia è stato spesso usato con accezione negativa, nei confronti del fascismo o del berlusconismo, e di vari movimenti leaderistici, spesso affini alla destra, ma anche al centro-sinistra (come l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro); spesso questi gruppi hanno rifiutato questa etichetta. L'accezione del termine in senso positivo, come "vicinanza al popolo e ai suoi valori", è stata invece rivendicata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio per il proprio movimento politico. La parola populismo può avere numerosi campi di applicazione ed è stata usata anche per indicare movimenti artistici e letterari, ma il suo ambito principale rimane quello della politica. In ambito letterario si intende per populismo la tendenza a idealizzare il mondo popolare come detentore di valori positivi. Il largo uso che i politici e i media fanno del termine "populismo" ha contribuito a diffonderne un’accezione fondamentalmente priva di significato: è rilevabile infatti la tendenza a definire "populisti" attori politici dal linguaggio poco ortodosso e aggressivo i quali demonizzano le élite ed esaltano "il popolo"; così come è evidente che la parola viene usata tra avversari per denigrarsi a vicenda – in questo caso si può dire che "populismo" viene talvolta considerato dai politici quasi come un sinonimo di "demagogia". La definizione di "populismo" data dal vocabolario Treccani è "...atteggiamento ideologico che, sulla base di princìpi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi. Con significato più recente, e con riferimento al mondo latino-americano, in particolare all’Argentina del tempo di J. D. Perón (v. peronismo), forma di prassi politica, tipica di paesi in via di rapido sviluppo dall’economia agricola a quella industriale, caratterizzata da un rapporto diretto tra un capo carismatico e le masse popolari, con il consenso dei ceti borghesi e capitalistici che possono così più agevolmente controllare e far progredire i processi di industrializzazione.".

La definizione di "populismo" data dal dizionario Garzanti è:

1. atteggiamento o movimento politico, sociale o culturale che tende all’elevamento delle classi più povere, senza riferimento a una specifica forma di socialismo e a una precisa impostazione dottrinale;

2. (spreg.) atteggiamento politico demagogico che ha come unico scopo quello di accattivarsi il favore della gente;

3. (st.) movimento rivoluzionario russo della seconda metà del XIX secolo, anteriore al diffondersi del marxismo, che teorizzava il dovere degli intellettuali di mettersi al servizio del popolo.

Per alcuni tale nozione sembra essere più volta a spiegare fenomeni politici passati che non a descrivere il significato attuale del termine. Populista, oggi, è piuttosto chi accetta come unica legittimazione per l'esercizio del potere politico quella derivante dal consenso popolare. Tale legittimazione è considerata unica e di per sé sufficiente a legittimare un superamento dei limiti di diritto posti, dalla Costituzione e dalle leggi, all'esercizio del potere politico stesso. Il termine non ha alcun legame con una particolare ideologia politica (destra o sinistra) e non implica un raggiro del popolo (come al contrario implica la demagogia), ma anzi presuppone un consenso effettivo del popolo stesso. Per altri la parola in ambito politico conserva il senso dispregiativo sinonimo di demagogia. Il termine nasce come traduzione di una parola russa: il movimento populista è stato infatti un movimento politico e intellettuale della Russia della seconda metà del XIX secolo, caratterizzato da idee socialisteggianti e comunitarismo rurale che gli aderenti ritenevano legate alla tradizione delle campagne russe. Allo stesso modo il termine può essere considerato legato al People's Party, un partito statunitense fondato nel 1892 al fine di portare avanti le istanze dei contadini del Midwest e del Sud, le quali si ponevano in conflitto con le pretese delle grandi concentrazioni politiche industriali e finanziarie, e anch’esso caratterizzato da una visione romantica del popolo e delle sue esigenze.

Gli studiosi di scienze politiche hanno proposto diverse definizioni del termine ‘populismo’. «A ognuno la sua definizione di populismo, a seconda del suo approccio e interessi di ricerca», ha scritto Peter Wiles in Populism: Its Meanings and National Characteristics (1969), il primo testo comparativo sul populismo internazionale curato da Ernest Gellner e Ghita Ionescu. Tuttora giornalisti e studiosi di scienze politiche usano spesso il termine in maniera contraddittoria e confusa, alcuni per fare riferimento a costanti appelli alla gente che ritengono tipici di un politico o un movimento, altri per riferirsi a una retorica che essi considerano demagogica, altri infine per definire nuovi partiti che non sanno come classificare. Negli ultimi anni diversi studiosi hanno proposto nuove definizioni del termine allo scopo di precisarne il significato. Ad esempio, nel loro volume Twenty-First Century Populism: The Spectre of Western European Democracy, Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell hanno definito il populismo come «una ideologia secondo la quale al ‘popolo’ (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono delle élite e una serie di nemici i quali attentano ai diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del popolo sovrano». Regimi come quello fascista nella persona di Mussolini, quello nazista di Hitler e in generale la maggior parte delle dittature, sono un perfetto esempio del rapporto diretto fra il leader e le masse che si definisce populismo. Ma al di là di questo e di alcune caratteristiche retoriche, la definizione di populismo è rimasta estremamente vaga, facendone per lungo tempo una comoda categoria residuale, buona per catalogare una grande varietà di regimi difficili da classificare in maniera più precisa ma nei quali era possibile ritrovare qualche elemento comune. Questi elementi erano la retorica nazionalista ed anti-imperialista, l’appello costante alle masse e un notevole potere personale e carismatico del leader. Questa concezione nebulosa del populismo è stata utile durante la seconda metà del Novecento per inserire in una categoria comune vari regimi del Terzo Mondo, come quello di Juan Domingo Perón in Argentina, Gamal Abd el-Nasser in Egitto e Jawaharlal Nehru in India, che non potevano essere definiti democrazie liberali né socialismi reali. Un’altra accezione di populismo (ma neanche questa tenta di dare al termine una definizione precisa) è quella che lo rende un “contenitore” per movimenti politici di svariato tipo (di destra come di sinistra, reazionari e progressisti, e via dicendo) che abbiano però in comune alcuni elementi per quanto riguarda la retorica utilizzata. Per esempio, essi attaccano le oligarchie politiche ed economiche ed esaltano le virtù naturali del popolo (anch’esso mai definito con precisione, e forse indefinibile), quali la saggezza, l’operosità e la pazienza. Il populismo guadagna perciò consensi nei momenti di crisi della fiducia nella "classe politica". Il politologo Marco Tarchi, in "L'Italia populista", ricostruisce le vicende del populismo in Italia, dove i momenti di minima fiducia nella politica (e nei politici) si sono avuti con la Seconda guerra mondiale e con la denuncia della corruzione del sistema politico a seguito delle inchieste di Mani Pulite. Tarchi si sofferma soprattutto sui due movimenti più schiettamente populisti: l'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini (l'"uomo qualunque" contro l'"uomo politico") e la Lega Nord (il "popolo del nord" contro "Roma ladrona"). Nella politica italiana contemporanea per Guy Hermet Forza Italia è invece un esempio di «neo-populismo mediatico», ovvero una forma di demagogia che fa dei mass media il suo veicolo di diffusione.

Tutti populisti, scrive Leopoldo Fabiani su “L’Espresso”. Chi è più populista, Beppe Grillo o Matteo Salvini? E se scoprissimo che a battere in breccia tutti e due fosse invece Matteo Renzi? Volendo, ognuno potrebbe divertirsi a compilare la propria classifica, seguendo le indicazioni fornite da Marco Tarchi nel libro Italia populista (il Mulino, 380 pagine, 20 euro), seconda edizione sostanziosamente aggiornata rispetto alla prima del 2003. Partiamo dalla definizione: più che un'ideologia o uno stile politico, dice Tarchi, il populismo è una mentalità.«Che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l'integrità all'ipocrisia, all'inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche sociali e culturali e ne rivendica il primato, come forma di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione». Alla luce di questa definizione e seguendo il percorso del libro tra le varie formazioni italiane ed europee che populiste possono essere classificate, si potrebbe dire che oggi tutta la politica è populista. A destra come a sinistra. E in fondo, si può aggiungere, quando Angela Merkel sostiene che non si capisce perché l'operaio tedesco dovrebbe pagare per l'incapacità e le ruberie dei governanti greci, ecco che anche l'austera cancelliere propone un discorso populista, sia pure in un'inedita forma “transnazionale”. Se la mentalità populista è ormai così pervasiva da aver egemonizzato tutta la politica, si potrebbe essere tentati di concludere che è inutile oggi demonizzare il populismo, che i politici sono in qualche modo obbligati a parlare questo linguaggio. E che poi quello che conta è quello che fanno. Ma proprio qui c'è un problema: si sono visti molti leader ottenere consensi, anche ampi, esaltando questa mentalità. Qualcuno, Berlusconi per esempio, così è anche riuscito ad andare al potere. Ma nessuno poi è stato capace di governare. Almeno finora.

Siamo tutti populisti. Se è comunicazione personale diretta, allora va ben oltre la Lega, Grillo e Berlusconi. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, scrive Ilvo Diamanti su “La Repubblica”. C'è un fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e opprimente. Il populismo. Una minaccia diffusa, che echeggia in questa confusa campagna elettorale, in vista delle Europee. Eppure "mi" è difficile spiegare di che si debba avere "paura". Il populismo, infatti, associa forze politiche diverse e, talora, opposte fra loro, ma "unite" contro l'Unione Europea e contro l'Euro. Il termine, ad esempio, viene applicato al Front National, in Francia, e alla Lega, in Italia. Insieme ad altri partiti, di altri Paesi, fuori dall'Euro. Come l'Ukip, in Inghilterra. Anche se il Fn e l'Ukip si oppongono alla Ue in nome della sovranità, rispettivamente, della Francia e dell'Inghilterra. La Lega, invece, in nome dell'indipendenza dei popoli padani e contro la sovranità dell'Italia. Fino a poco più di vent'anni fa, al contrario, era a favore dell'Europa - delle Regioni. Ma la Lega è abituata a cambiare idea, in base alle convenienze. Come ha fatto nei confronti dei veneti(sti). Nel 1997, al tempo dell'assalto al campanile di San Marco, i Serenissimi, secondo Bossi, erano "manovrati dai servizi segreti italiani". Oggi, invece, sono perseguitati dall'imperialismo romano. Ma la lista dei populisti va ben oltre. Coinvolge gli antieuropeisti del Nord Europa e quelli dell'Est. Per tutti e fra tutti, il Fidesz di Viktor Orbán che ha trionfato di recente in Ungheria (dove Jobbik, movimento di estrema destra, ha superato il 20%). Oltre ad Alba Dorata, in Grecia. In Italia, però, il populismo è un'etichetta applicata senza molti problemi. Riguarda, anzitutto, il M5s e Beppe Grillo. Per il loro euroscetticismo ma, soprattutto, per l'esplicita opposizione alla democrazia rappresentativa. In nome del "popolo sovrano" che decide da solo. Senza rappresentanti. Grazie al referendum che ormai si può svolgere in modo permanente nella piazza telematica. La Rete. Naturalmente, il Popolo, per potersi riconoscere come tale, ha bisogno di riferimenti comuni. Così si rivolge a un Capo. Che comunichi con il Popolo direttamente. Senza mediazioni e senza mediatori. Attraverso i Media. La Rete, ma anche la televisione. Dove il Capo parla con me. Direttamente. In modo "personale". Non a caso, il Grande Populista del nostro tempo è stato Silvio Berlusconi. Il Berlusconismo, in fondo, è proprio questo: partito e Tv riassunti nella persona del Capo. La Rete ha moltiplicato il dialogo personale. Perché tutti possono parlare con tutti. Con il proprio nome, cognome, account e alias. Associato a un'immagine, una fotina, un marchio, un profilo. Naturalmente, c'è bisogno di un blogger, che orienti il dibattito e che, alla fine, tiri le somme. Ma che, soprattutto, dia un volto comune a tanti volti (oppure un "voto" comune a tanti "voti"). Che fornisca una voce comune a un brusio di messaggi fitto e incrociato. Senza Grillo, il M5s non sarebbe un MoVimento. Ma un'entità puntiforme priva di "identità". Grillo, d'altronde, sa usare la Tv, oltre che la Rete (guidato da Gianroberto Casaleggio). La maneggia da padrone. C'è sempre senza andarci mai. È la Tv che lo insegue, nelle piazze e, ora e ancora, nei teatri. Riprende e rilancia i suoi video, prodotti e postati nel suo blog. Ma se il populismo è comunicazione personale diretta senza mediazione, allora va ben oltre la Lega, Berlusconi e Grillo. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, politicamente. Perché deve saper usare la Tv e i nuovi media. Diventare protagonista di quella che Georges Balandier ha definito "La messa in scena della politica". Come ha fatto Matteo Renzi. Capace, meglio di ogni altro, di parlare direttamente al "popolo". Di lanciare sfide simboliche e pratiche. In Italia, d'altronde, ogni riforma promessa è rimasta tale. Imbrigliata da mille difficoltà, mille ostacoli. Renzi, per questo, va veloce. E parla direttamente al popolo. A ciascuno di noi. Guarda dritto nella macchina da presa. E ci chiama per nome. È per questo che Grillo lo ha preso di mira, come il suo principale, vero "nemico" (politico). Perché il popolo ha bisogno di un capo che gli indichi i suoi nemici. Gli "altri" da cui difendersi. L'Europa, la globalizzazione, le banche, i mercati. Gli "stranieri". Gli immigrati, i marocchini, i romeni, i veneti, i romani, gli italiani. E, ancora, le élite, la classe politica, i partiti, i giornalisti, i giornali, i manager, le banche, i banchieri. Così il catalogo dei populismi si allarga, insieme all'elenco dei populisti. Berlusconi, Grillo, Marine Le Pen (per non parlar del padre), Renzi. Ma anche Vendola, con il suo parlar per immagini e il suo partito personalizzato. Lo stesso Monti, bruciato dal tentativo di diventare pop, con il cagnolino in braccio (che fine avrà fatto Empy?). Uscendo dal "campo" politico, Papa Francesco è, sicuramente, il più bravo a parlare con il suo "popolo". Il più Pop di tutti di tutti. D'altronde, alle spalle, ha esempi luminosi, come Giovanni Paolo II e, ancor più, Giovanni XXIII. E poi è argentino, come Perón. Scivola sull'onda di una lunga tradizione. Non è un caso, peraltro, che la fiducia nei suoi confronti sia molto più alta di quella nella Chiesa. Perché Francesco, sa toccare il cuore dei fedeli (e degli infedeli). E supera ogni confine. Ogni mediazione. Va oltre la Chiesa. Parla al suo popolo, senza distinzioni (visto che la fiducia nei suoi riguardi viene espressa da 9 persone su 10). Per questo, diventa difficile dire chi sia populista. O meglio, chi non lo sia. Perché tutti coloro che ambiscano a imporsi sulla scena pubblica debbono usare uno stile "populista". E lo ammettono senza problemi, mentre ieri suonava come un insulto. Echeggiando Jean Leca: "Quel che ci piace è popolare. Se non ci piace è populista". Oggi invece molti protagonisti politici rivendicano la loro identità populista. Grillo e Casaleggio, per primi, si dicono: "Orgogliosi di essere insieme a decine di migliaia di populisti. (...) Perché il potere deve tornare al popolo". Mentre Marine Le Pen si dichiara "nazional-populista", in nome del "ritorno alle frontiere e alla sovranità nazionale". Meglio, allora, rinunciare a considerare il "populismo" una definizione perlopiù negativa e alternativa alla democrazia. Per citare, fra gli altri, Alfio Mastropaolo, ne fa, invece, parte. Come il concetto di "popolo". Il quale, quando ricorre in modo tanto esplicito e frequente, nel linguaggio pubblico, denuncia, semmai, che qualcosa non funziona nella nostra democrazia "rappresentativa". Perché il "popolo" non trova canali di rappresentanza efficaci. I rappresentanti e i leader non dispongono di legittimazione e consenso adeguati. Perché il governo e le istituzioni non sono "efficienti" e non suscitano "passione". Così non resta che il populismo. Sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia.

Il linciaggio di Pansa: a sinistra era un dio a destra è un infame. Per anni i salotti di sinistra hanno acclamato Pansa come un dio. Ma da quando non dice più quello che piace loro, lo hanno relegato tra i reietti della penna, scrive Vittorio Feltri su Il Giornale. Giampaolo Pansa, noto giornalista che ha lavorato alla Stampa, al Giorno, al Corriere della Sera, alla Repubblica, all'Espresso, al Riformista (ora è a Libero ), ha scritto un altro libro: La destra siamo noi. Ne ha pubblicati tanti e ne ho perso il conto. Il titolo dell'ultimo fa capire subito il contenuto: pendiamo tutti da qualche parte, dipende dai momenti e dalla convenienza. Giampaolo è stato povero. Da ragazzo era molto studioso, obbediente alla famiglia e si è laureato con una tesi pubblicata da Laterza (che è un editore e non il numero delle scopate messe a segno in un sol giorno dall'autore). Finita l'università trovò subito un posto in redazione e cominciò l'attività di cronista, quella in cui è riuscito meglio. Si è guadagnato da vivere con le virgole, ha svirgolato per anni e anni e seguita a svirgolare come un pazzo. Credo che per lui riempire fogli di parole sia come bucarsi per un drogato: non può farne a meno. Senza la «roba» nero su bianco, Pansa non campa. Se sta tre ore senza picchiettare sui tasti, va in crisi di astinenza. Il mestiere di scrivere è il peggiore. Quando ti dedichi a esso, ti ammali di una malattia grave, pensi che la tua esistenza abbia un senso solo se la racconti; altrimenti non ha significato, sei morto. Giampaolo è stato un maestro inimitabile di giornalismo finché ha dato l'impressione di essere di sinistra, stando cioè dalla parte dei vincitori, sempre di moda. I suoi articoli sul Corriere e sulla Repubblica erano considerati gioielli, giustamente. Egli in effetti si era inventato un modo di narrare i fatti italiani e le gesta dei protagonisti talmente originale da piacere a chiunque, anche a coloro che lo invidiavano. Per lustri e lustri fu indicato al popolo come il più bravo della categoria. Poi, dato che il tempo è democratico, invecchiò e iniziarono per lui i guai. Guai si fa per dire. Poiché non era direttore (l'unica figura professionale non soggetta a licenziamento per questioni anagrafiche), fu cortesemente invitato a sloggiare dall' Espresso , testata che fornisce a chi vi lavora il certificato di autentico progressista. Se ne andò in pensione, ma non smise di scrivere. E furono libri, uno dietro l'altro, uno più dissacrante dell'altro e, per giunta, di successo. Il sangue dei vinti ebbe sui lettori un effetto clamoroso: quelli di destra lo apprezzarono, soddisfatti di constatare che finalmente uno scrittore dicesse il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa; quelli di sinistra, automaticamente, lo condannarono con una sentenza inappellabile: Pansa si è rovinato, è diventato fascista. Da quel momento, il maestro è stato collocato fra i reietti della corporazione degli scribi, espulso dall'elenco degli autori di qualità, meritevole di uscire dal club dei grandi maestri e di entrare in quello dei cattivi maestri. I libri di Giampaolo si vendono, eccome se si vendono, ma sono giudicati dagli intelligentoni merce avariata. La vicenda di quest'uomo talentuoso e perbene è paradigmatica dell'imbecillità italiana; il tuo voto in pagella non dipende da ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni. Pansa di sinistra era un dio; Pansa di destra è una grandissima testa di cazzo. I cittadini (non solo italiani) hanno opinioni variabili, tanto è vero che una volta votano di qua e un'altra di là, ma si arrogano il diritto di dare della banderuola ai giornalisti che mutano fede pur non avendone una e che si limitano a osservare la realtà con spirito laico, riferendo ciò che vedono e sentono, filtrando il tutto attraverso il proprio spirito critico. Una realtà complessa e in continuo divenire la cui valutazione non può avvenire sempre con lo stesso metro, ma necessita di costanti revisioni e aggiornamenti. Non c'è nulla di statico a questo mondo, tantomeno il cervello degli uomini che s'imbottisce quotidianamente di nuove informazioni e, perché no, suggestioni. Pansa, che conosco da 40 anni, non è mai stato fermo nelle proprie convinzioni come un paracarro; è stato ed è un coltivatore di dubbi, disponendo di un'intelligenza superiore alla media. Quando era di sinistra aveva qualche pensiero di destra; ora che dicono sia di destra ha qualche inclinazione a sinistra e la manifesta senza ipocrisia. Non fosse che per questo, Giampaolo è da ammirare. Uno della cui onestà bisogna fidarsi. La sua prosa non è contraddittoria; è frastagliata, ricca di umori e di amori. Va accettata per quello che è: lo specchio del casino nel quale ci dibattiamo in Italia da secoli.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: Ma il Caselli aggredito dai No Tav si fida di questa sinistra? Ho sempre avuto stima e simpatia per il magistrato Gian Carlo Caselli. Per una serie di motivi a cominciare dalle origini famigliari abbastanza simili alle mie e dall’età che lo vede in vantaggio di poco: tra un paio di mesi compirà 76 anni. Lui ha origini alessandrine, io monferrine. Noi del Monferrato non siamo mai andati troppo d’accordo con i mandrogni. Ma esistevano altri fatti a renderci vicini. I nonni contadini a Fubine, il papà operaio, la laurea a Torino. Oggi Caselli è in pensione, ma ha conservato la figura asciutta e il carattere forte di quando dava la caccia al terrorismo rosso. All’inizio degli anni Settanta era giudice istruttore a Torino. E dobbiamo pure a lui se le prime Brigate rosse, quelle fondate e capeggiate da Renato Curcio, furono sconfitte. Il mitico Renè venne catturato. L’unico errore dei magistrati fu di rinchiuderlo nel piccolo carcere di Casale Monferrato. Per la moglie Mara Cagol si rivelò uno scherzo entrare in quella prigione e portarsi via il marito, senza sparare un colpo. Caselli è sempre stato un coraggioso. Le Br miravano anche ai magistrati. A Genova, nel giugno 1976, accopparono il procuratore generale Francesco Coco e i due carabinieri che lo scortavano. Penso che pure Caselli rischiasse la pelle. Ma una volta fatto il proprio dovere a Torino, nel 1992, dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, si candidò all’incarico di procuratore capo a Palermo e si trasferì lì per un bel po’ di anni, comportandosi con onore. Insomma, siamo di fronte a un uomo che ha fatto tanto per la nostra sicurezza. Gli italiani gli debbono molto. Voglio dirlo adesso che la magistratura sta declinando come il resto del paese. E non si può fingere che gli uomini e le donne in toga siano senza responsabilità. Perché questi brevi cenni sul percorso di Caselli? Perché accade che Gian Carlo sia preso di mira da gruppi di antagonisti violenti. A cominciare dai guerriglieri anti Tav e per finire ai loro compagni di Firenze, non vogliono che lui parli in pubblico. L’hanno preso di mira e non smetteranno. Caselli e i suoi tanti sostenitori non s’illudano. Mi sembrano vane le lezioni di democrazia che lui tenta di impartire a certe bande. L’ultima è apparsa venerdì sul Fatto quotidiano. Il dotto articolo di Caselli era intitolato: «Il bavaglio. La storia riscritta dagli squadristi». Uno sforzo inutile. Spiegare al sordo che è sordo non serve a nulla: lui non ti sentirà. Lo dico perché sono passato anch’io per le stesse forche caudine imposte a Caselli. Con la differenza che lui viene difeso, sia pure inutilmente, dalle molte sinistre. Il Pansa, invece, fu lasciato solo, tanto da essere costretto a rinunciare di parlare in pubblico. Ossia a uno dei diritti che la Costituzione garantisce a tutti, specialmente a chi fa politica, ai magistrati ormai fuori carriera, a chi scrive sui giornali e pubblica libri. La mia colpa erano proprio i libri. Nel 2003 avevo pubblicato «Il Sangue dei vinti», una ricostruzione senza errori di quanto era accaduto in Italia dopo il 25 aprile 1945. Era un libro che abbatteva il muro di omertà che aveva sempre nascosto la sorte dei fascisti sconfitti. E per questo ebbe subito un successo imprevisto e strabiliante. I violenti rossi dell’epoca lì per lì non se ne accorsero, forse perché non leggono i giornali e non frequentano dei luoghi chiamati librerie. Se ne resero conto soltanto tre anni dopo. Così, a partire dall’ottobre 2006, cominciarono a darmi la caccia, non appena pubblicai un altro dei miei lavori revisionisti, «La Grande bugia». Il primo assalto lo sferrarono il 16 ottobre 2006. Una squadra capeggiata da un funzionario di Rifondazione comunista, arrivata apposta da Roma con un pulmino, cercò di impedire la prima presentazione in un hotel di Reggio Emilia. Mentre stava per iniziare il dibattito tra me e Aldo Cazzullo, generosa firma del Corriere della sera, la squadra ci aggredì. Ci lanciarono contro copie del libro, poi tentarono di coprirci con un lenzuolo tinto di rosso, che recava la scritta «Triangolo rosso, nessun rimorso». Volevano farci scappare, ma a tagliare la corda furono gli aggressori, cacciati dalla reazione del pubblico. Il giorno successivo ero atteso in una grande libreria di Bassano del Grappa. Ma nella notte i balilla rossi avevano bloccato con il silicone le serrature degli ingressi. Una squadra di fabbri lavorò a lungo per liberarle. Allora tentarono di entrare e di leggere un loro proclama, ma la polizia lo impedì. Il giorno dopo, a Castelfranco Veneto, nuovi fastidi. L’indomani mi riuscì di parlare a Carmignano sul Brenta, protetto da agenti della polizia guidati dal capo della squadra mobile di Padova. Era un dirigente giovane, intelligente ed esperto. Mi avvisò che in Veneto avrei incontrato dappertutto gli stessi problemi. Aggiunse: «Comunque verrà sempre difeso da noi. Conosciamo bene questi gruppi e li terremo a bada». Fu allora che mi posi un problema di etica pubblica. Chiesi a me stesso: «Quale diritto ho di mobilitare reparti di polizia e di carabinieri per proteggere le presentazioni dei miei libri? Le forze dell’ordine hanno compiti ben più importanti, dal momento che tanta gente è vittima di furti, rapine, scippi, aggressioni». Se ci ripenso a nove anni di distanza, sono ancora convinto che fosse una domanda sensata. E altrettanto fu la risposta che mi diedi. Studiai l’agenda e mi resi conto che erano previsti una trentina di incontri per la «Grande Bugia». Ne annullai quattordici, in città come Bologna, Ferrara, Piacenza, Parma, Crema, Treviso, Vicenza, Padova, Valdagno. A decidermi furono le parole di un amico: «Tu vieni nella mia libreria, protetto dai poliziotti. Presenti il tuo libro, poi riparti. Ma noi restiamo qui, senza difese». A qualcuno capitò di vedersi sfasciare la vetrina. A una grande libreria emiliana spararono un colpo di rivoltella contro una vetrina. L’aspetto più sgradevole della faccenda stava nel fatto che in quegli stessi momenti c’erano giornali che mi attaccavano per i miei libri revisionisti, tentando di farmi il vuoto attorno. Si andava da Liberazione, il quotidiano rifondarolo, alla Stampa di Torino e a Repubblica, passando per una serie di giornali provinciali del Gruppo Espresso. Alla Stampa c’era un collega che non mi poteva soffrire. Voglio farne il nome perché oggi conta più di allora: Massimo Gramellini, il socio televisivo di Fabio Fazio. Era un vicedirettore della «Bugiarda», così la chiamavano gli operai torinesi. E arrivò a telefonarmi con arroganza melliflua per sapere se avevo letto la pagina contro di me, vantandosi di averla confezionata con le sue manine. Dopo l’assalto di Reggio, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, stilò un comunicato in mia difesa. Ricevetti in via privata le telefonate di Romano Prodi, Piero Fassino e Walter Veltroni. Sul versante della sinistra furono i soli a farsi vivi. Sono campato lo stesso e i miei libracci hanno sempre avuto molti lettori. Ma l’esperienza di allora mi induce a rivolgere una domanda a Gian Carlo Caselli: ti fidi ancora delle sinistre italiane che oggi ti portano sugli scudi? Con l’aria che tira, e sotto i bombardamenti pesanti del Cremlino renzista, avranno bisogno di raccattare tutti i voti possibili. Tu conti per uno soltanto. Prima o poi ti molleranno, a favore delle bande che occupano gli atenei. Troppo tollerate e persino blandite.

Il grido di allarme ignorato: al Tribunale di Taranto condanna certa, perché è impedito difendersi e criticare. La rivelazione di Antonio Giangrande. Dalla relazione fatta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 dal presidente vicario della Corte d’Appello di Lecce, Mario Fiorella, il numero di processi proprio a carico di magistrati, anche tarantini, sono ben 113. Il dato ufficiale si riferisce ai procedimenti aperti nel 2013 ed il Distretto di Corte d'Appello comprende i Tribunali di Taranto, Brindisi e Lecce. Come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, sono stati infatti quelli i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!

Per esempio, il 5 marzo 2015 si tiene a Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Lucio Setola, già sostituto procuratore di quel Foro. Processo per diffamazione e calunnia su denuncia del giudice di Taranto, Rita Romano, persona offesa costituita parte civile.

La colpa di Antonio Giangrande è di aver esercitato il sacrosanto diritto di difesa, per non vedersi esser condannato ingiustamente, e per gli effetti aver presentato 3 richieste di ricusazione contro la Rita Romano, perché questa non si era ancora astenuta nei tre processi in cui giudicava il Giangrande, nonostante nel procedere in altri processi collegati già si era espressa in sentenza addebitando la responsabilità all’imputato, sebbene questi non fosse sotto giudizio, e contro il quale già aveva manifestato il suo parere in sentenze di altri processi definendolo in più occasioni, di fatto, soggetto testimonialmente inattendibile. La ricusazione oltre che fondata era altresì motivata con una denuncia allegata presentata contro la stessa Rita Romano ed a Potenza risultata archiviata, nonostante la fondatezza delle accuse e delle prove. Inoltre gli avvocati difensori De Donno e Gigli per la ricusazione presentata hanno rinunciato alla difesa. Fatto sta che i processi ricusati, con la decisione di altri giudici, però, hanno prodotto il proscioglimento per l’imputato. Sulla attendibilità di Antonio Giangrande, poi, parlano le sue opere ed i riscontri documentali nelle cause de quo.

Altro esempio è che il 30 aprile 2015 si tiene presso il Tribunale di Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Natalia Catena. Processo per diffamazione su denuncia presentata da Alessio Coccioli, quando era sostituto procuratore a Taranto prima di passare a Lecce, perché la Gazzetta del Sud Africa, e non Antonio Giangrande, pubblicava un articolo in cui si definiva il Tribunale di Taranto il Foro dell’ingiustizia, elencando tutti i casi di errori giudiziari, e per aver pubblicato l’atto originale della richiesta di archiviazione, poi accolta dal Gup, e le relative motivazioni attinenti una denuncia per un concorso truccato per il quale il vincitore del concorso a comandante dei vigili urbani di Manduria era colui il quale aveva indetto e regolato lo stesso concorso.

Come si vede le denunce a carico dei magistrati di Taranto sono 113 quelle presentate in un solo anno a Potenza e di seguito archiviate, e non sono di Antonio Giangrande, però Antonio Giangrande è uno dei tanti imputati su denuncia dei magistrati di Taranto a sottostare a giudizio, e sicuramente a condanna, per aver esercitato il suo diritto di critica e o il suo diritto/dovere di difesa. Diritti garantiti dalla Costituzione ma disconosciuti sia a Taranto, sia a Potenza.

Una delle frasi più amare del grande scrittore Franz Kafka è: “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è servo della Legge e come tale sfugge al giudizio umano”. Viene da pensare a questa frase quando a venire giudicato è chi dovrebbe amministrare una giustizia chiara ed imparziale, scrive Roberto De Salvatore su “Lecce Cronaca”. Dicendo questo mi riferisco alla vicenda che ha visto Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia, chiamato a rispondere davanti al tribunale di Taranto di diffamazione e calunnia. Il motivo che aveva dato origine alla vicenda era un caso di corruzione per un concorso truccato per un posto di comandante dei vigili urbani a Manduria, a detta del Giangrande ampiamente documentata. La vicenda processuale ha prodotto una serie di procedimenti nei confronti di ben 113 magistrati tarantini, ma non solo. Sono questi come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!

Ciascuno dovrebbe aver diritto ad un equo processo, a prescindere dalla categoria cui appartiene, nella convinzione (forse ingenua) che quanto si legge scritto sui muri dei tribunali ‘la legge è uguale per tutti’ non sia solo uno slogan. Non sappiamo giudicare dove sia il torto e dove la ragione, né siamo abilitati a farlo se non esprimendo un parere da cittadini, nella speranza che ancora sia permesso esprimere una opinione liberamente, ancorché però non sfoci nella calunnia. Viene in mente la recente legge sulla responsabilità dei magistrati e la levata di scudi della categoria contro questa legge rea a loro dire di mettere il bavaglio alla magistratura. A mio avviso invece è una legge civile a salvaguardia della certezza del diritto.

Certo speriamo che i potenti non siano gli unici beneficiari di tale legge, ma che serva di monito a compiere il proprio dovere senza preconcetti, o peggio ancora ispirati da concezioni politiche che con la democrazia non hanno nulla a che fare. I magistrati devono essere assimilabili a qualunque categoria del pubblico impiego per le quali chi sbaglia è giusto che paghi. Non hanno nulla da temere coloro che fanno da sempre il loro dovere, ma i tempi dei Viscinsky di staliniana memoria devono terminare, i normali cittadini sono stanchi di considerare la magistratura qualcosa di assolutamente divino e di intoccabile. E basta con le toghe rosse, nere o grigie, la toga di un magistrato non deve avere un colore, ma rappresentare un baluardo di imparzialità verso tutti.

Decine di saggi di inchiesta suddivisi per tema o per territorio dove la cronaca diventa storia e dove luoghi e protagonisti sono trattati allo stesso modo e sullo stesso piano.

Vi siete mai chiesti perché non conoscete Antonio Giangrande? Perché egli, pur avendo scritto di Mafia, Massoneria e Lobbies, non abbia la notorietà generalista di Roberto Saviano, lo stesso che a Scampia gli hanno dedicato un motto: “Scampia-moci da Saviano”? Vi siete mai spiegati il motivo sul perché, avendo Antonio Giangrande scritto decine di saggi di inchiesta e ben due libri sul delitto di Sarah Scazzi ed essendo egli stesso avetranese, mai sia stato invitato nei talk show televisivi a render presente la posizione anti giustizialista, a differenza della Roberta Bruzzone che presenzia in qualità di esperta in conflitto di interessi essendo ella autrice di un libro su Sarah Scazzi ed allo stesso tempo presunta parte offesa in un procedimento connesso?

Il motivo è chiaro. Egli non è allineato, conforme ed omologato e scrive fuori dal coro sistematico ed ideologico. Di fatto è stato estromesso dai salotti buoni e di conseguenza ignorato dal pubblico generalista.

La sua storia è paradigmatica dell'imbecillità italiana, dove il tuo valore si misura non per ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni e dove dipende tutto dai momenti della convenienza. Devi per forza dare il senso di appartenenza a sinistra, difendere lo status quo ed osannare i magistrati. Non puoi dire il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa. I cittadini devono essere imbottiti non di informazioni ma di suggestioni.

Come dire: sui social network girano le foto di otto cadaveri appesi a testa in giù ad una struttura metallica di Hawija, nella provincia di Kirkuk, allora si parla di barbarie dell’Isis, come è giusto che sia. Quando i comunisti appesero Mussolini e la Petacci in Piazzale Loreto o infoibarono gente innocente nel Carso, si parlò di atti di eroismo dei partigiani.

Se qualcuno racconta la verità e presto tacciato di mitomania o pazzia. Quando non dici più quello che piace al sistema, composto da amici e compari, ti relegano tra i reietti della penna o della tastiera, se non addirittura dietro le sbarre di una prigione: Così va questa Italia!

Questa recensione non è un tentativo di promuovere uno spot gratuito per interessi economici.

I libri di Antonio Giangrande li trovi su Amazon.it o su Lulu.com o su CreateSpace.com o su Google Libri. Ma si possono leggere parzialmente free su Google Libri ove vi sono circa 60.000 mila accessi al dì, come si possono leggere gratuitamente anche su www.controtuttelemafie.it , il sito web della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, sodalizio nazionale antimafia antagonista a Libera di Don Ciotti e della CGIL.

Si provi a leggere solo l’articolato dei capitoli per rendersi conto che in quei libri si troveranno le malefatte della mafia, ma anche gli abusi dell’antimafia. In quei libri si parla dell’Italia e degli italiani e di tutti coloro che a torto si mettono dalla parte della ragione e si lavano la bocca con la parola “Legalità”, pur vivendo nell’illegalità. Si troverà per argomento o per territorio quanto si fa fatica a scrivere. Si provi a leggere quanto nella propria città succede ma non si dice.

Fino a che la maggior parte di giornalisti, scrittori, editori, saranno succubi dell’ignavia, della politica e dell’economia, ci sarà sempre bisogno di leggere i saggi di Antonio Giangrande, giusto per conoscere una versione diversa dei fatti, così come raccontati da quelle solite esposizioni omologate che si vedono in tv e si leggono sui libri, o sui giornali, o sui siti web o blog dei soliti noti.

IL MONDO SEGRETO DEL FISCO: I DIRIGENTI TUTTI FALSI.

Equitalia, milioni di cartelle a rischio: 767 dirigenti nominati senza concorso, scrive Blitz quotidiano. Nei prossimi giorni la Corte Costituzionale deciderà sulla sorte di migliaia, anzi milioni, di cartelle esattoriali emesse da Equitalia. I giudici delle leggi sono infatti chiamati a decidere sulla costituzionalità di un decreto, sfoderato d’urgenza a marzo 2012 per sanare lo scandalo dei 767 funzionari dell’Agenzia delle Entrate (più della metà) promossi a dirigenti senza concorso. Cosa significa? Che migliaia di cartelle furono firmate da “falsi dirigenti” e di conseguenza potrebbero venire considerate nulle o addirittura inesistenti. A ricostruire bene la vicenda è l’avvocato Angelo Greco di Cosenza, in un articolo apparso sul portale La Legge per Tutti. Detto in estrema sintesi, per supplire alla carenza di organico dirigenziale, l’Agenzia delle Entrate, qualche anno fa, aveva deciso di “promuovere” alla qualifica di dirigente ben 767 funzionari, senza prima averli sottoposti a un concorso pubblico, per come invece prescrive la nostra Costituzione (“agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”). Di tanto si erano accorti sia il Tar Lazio che la Commissione Tributaria di Messina che avevano bloccato le suddette nomine a dirigenti. Risultato: migliaia di atti firmati dai “falsi dirigenti” (o meglio, “non correttamente nominati”), e le conseguenti cartelle esattoriali di Equitalia, erano da considerarsi completamente nulli o, addirittura, inesistenti, avendo trovato il loro presupposto in un soggetto privo di qualsiasi potere. Un vero e proprio terremoto. Per arginare la falla, il Governo è ricorso alla consueta arma che, in casi come questi, viene sfoderata d’urgenza: la sanatoria. Così, un decreto legge del 2012 ha concesso, retroattivamente, all’Agenzia delle Entrate il potere di attribuire, a proprio piacimento ed in barba alla stessa Costituzione, incarichi dirigenziali ai propri funzionari (con contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso). Insomma, in attesa del maxi-concorso tutte le nomine dovevano ritenersi valide. [...] E così, la questione è finita al Consiglio di Stato che, sospettando la legge di sanatoria di incostituzionalità (appunto per violazione dell’obbligo del concorso pubblico) ha rinviato la patata bollente [6] alla Corte Costituzionale. Il rischio catastrofe è dunque imminente. Va da sé che se la Consulta dovesse ritenere infondata la questione di costituzionalità, il problema non sussiste e i contribuenti destinatari delle cartelle in bilico, dovranno rassegnarsi a pagare i loro debiti. Ma se viceversa il decreto verrà giudicato incostituzionale, le prospettive possono essere molteplici. L’avvocato Greco fa alcune proiezioni:

Secondo il consolidato orientamento sposato dalla Cassazione e dai tribunali di tutta Italia, gli atti fiscali sono nulli (alcuni tribunali, addirittura, parlano di “inesistenza”) se firmati da chi non aveva il potere per farlo. E dunque, chi non ha ancora pagato potrà fare ricorso al giudice per ottenere l’annullamento della richiesta di pagamento. Lo potrà fare anche chi ha chiesto o ha già avviato una rateazione. In passato abbiamo pubblicato anche la formula da inserire nel ricorso per chiedere la nullità della cartella.

E se sono scaduti i termini per impugnare?

In verità, stando all’orientamento (maggioritario) che ritiene gli atti privi di firma “inesistenti”, questo non dovrebbe essere un problema, in quanto si tratterebbe di una nullità non sanabile neanche con il decorso dei termini. Ovviamente, però, ogni tribunale ha la sua interpretazione.

Come faccio a sapere se il mio atto è firmato da un falso dirigente?

Per evitare un ricorso “alla cieca” contro la cartella esattoriale, bisogna innanzitutto verificare che la stessa abbia come presupposto un pagamento chiesto dall’Agenzia delle Entrate e non da altre amministrazioni. Poi bisognerebbe avere la certezza che l’atto a monte sia stato notificato da uno dei falsi dirigenti. Tuttavia l’elenco dei dirigenti privi di potere non è mai stato diffuso ufficialmente. Il contribuente potrebbe tentare di superare l’ostacolo depositando una istanza di accesso agli atti amministrativi e chiedendo di verificare la documentazione inerente alla carriera del dirigente firmatario.

La Corte Costituzionale abbatte Equitalia. I dirigenti? Tutti falsi, scrive Angelo Greco su “Legge per Tutti”. Terremoto all’Agenzia delle Entrate: è incostituzionale la legge che aveva sanato le nomine dei falsi dirigenti; ora non c’è scampo per le cartelle esattoriali. Un vero fulmine a ciel sereno. La tanto attesa sentenza della Corte Costituzionale è uscita: le nomine “fasulle” dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate, portati al ruolo di dirigenti senza un pubblico concorso, sono tutte nulle. E, perciò, sono nulli anche gli atti da questi firmati e notificati ai contribuenti. Non solo: nulle diventano, conseguentemente, pure le cartelle esattoriali emesse da Equitalia sulla scorta di tali accertamenti. Che il cielo stesse annuvolandosi all’orizzonte era già chiaro da diverso tempo. E ne avevamo parlato già noi quando abbiamo scritto, a più riprese, dello scandalo dei falsi dirigenti dell’Agenzia delle Entrate. Leggi, tra i tanti: “La Corte Costituzionale fa vacillare Equitalia e milioni di cartelle esattoriali”. Il succo della sentenza è chiaro: è incostituzionale il la legge del 2012 che, dopo la bocciatura del TAR Lazio della nomina dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate a dirigenti, pur senza la qualifica, aveva introdotto una sorta di sanatoria. Insomma, in attesa che fossero indette le normali gare, gli incarichi “a tempo” da dirigente, conferiti a funzionari dell’Agenzia delle Entrate senza i concorsi regolari dovevano ritenersi validi. Il che è palesemente illegittimo per contrasto con la Costituzione e con la norma che impone che, a tutti i pubblici uffici, si giunge solo tramite concorso. Come avevamo anticipato anche noi in “Dirigenti falsi all’Agenzia delle Entrate” in sostanza è stato eluso il principio secondo cui nel pubblico impiego anche le funzioni di dirigente si acquistano con il concorso pubblico pure nell’ipotesi in cui gli incarichi vadano al personale interno. La durata degli incarichi, almeno sulla carta, era legata al tempo necessario a indire i concorsi, ma è stata seguita da proroghe, anche queste “bocciate” dalla Corte Costituzionale. La norma del DL semplificazione, scrivono oggi i giudici costituzionali, “ha contribuito all’indefinito protrarsi nel tempo di un’assegnazione temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica”. Ora la pronuncia della Corte costituzionale mette la parola “fine” alla vicenda ma apre interrogativi sulla sorte degli accertamenti sottoscritti negli anni dai funzionari-dirigenti. Insomma, poiché sono state bocciate ben 767 nomine su circa 1000 dirigenti di ruolo, ciò significa che più del 50% delle cartelle che, in tutti questi anni, Equitalia ha notificato agli italiani, sono nulle! O meglio, del tutto inesistenti perché firmate da soggetti che non avevano il potere per farlo e per ricoprire tale ruolo.

I dirigenti dell’agenzia delle Entrate erano falsi: Equitalia trema, continua Greco. Milioni di cartelle esattoriali notificate in questi anni sono a rischio nullità: la Corte Costituzionale si è pronunciata sul più forte scandalo che abbia mai coinvolto il fisco italiano. Questa mattina, l’attesa di milioni di italiani, letteralmente “assediati” da controlli e accertamenti fiscali in tutti questi anni, è finita. La Corte Costituzionale si è appena espressa sulla questione che, da un paio di anni, pendeva sulla bocca dei contribuenti: quella cioè dello scandalo dei “falsidirigenti presso l’Agenzia delle Entrate, ossia di funzionari che erano stati “elevati” al ruolo di dirigenti – per mancanza di organico – pur senza aver partecipato a un normale concorso. La questione, che era stata sollevata inizialmente dal Tar Lazio, aveva poi subito uno “stop” a causa di una legge sanatoria del 2012. Ma su quest’ultima era forte la puzza di incostituzionalità. Tant’è che il Consiglio di Stato aveva rinviato gli atti alla Corte Costituzionale perché si pronunciasse in merito e decidesse, una volta per tutte, se è vero o meno che, in Italia, anche i funzionari del pubblico impiego (così come tutti gli altri dipendenti della pubblica amministrazione) debbano sottostare all’obbligo del concorso per accedere ai posti. Per la Consulta non ci sono stati dubbi: chiunque acceda al pubblico impiego lo può fare solo tramite un concorso pubblico e mai, quindi, con una legge di “sanatoria” o con una nomina interna. E ciò vale anche se si parla del tanto temuto fisco. Insomma, questo significa che tutti gli atti che sono stati firmati dai dirigenti (o meglio, funzionari svolgenti funzioni da dirigenti) potrebbero essere dichiarati “inesistenti” (per mancanza di poteri) dalla giurisprudenza. E, con essi, a cadere sarebbero anche le relative cartelle di Equitalia che sono state notificate sulla base di tali accertamenti. Attenzione: la questione riguarda solo le cartelle determinate da atti firmati dall’Agenzia delle Entrate e non, quindi, per imposte locali, contravvenzioni o richieste di pagamento dell’Inps. Ora si apre uno scenario apocalittico per le casse dello Stato. A cui i giudici saranno chiamati, a breve, a dare risposta. Noi, intanto, vi riportiamo la sentenza per esteso della Corte Costituzionale.

SENTENZA N. 37 ANNO 2015. REPUBBLICA ITALIANA. LA CORTE COSTITUZIONALE:

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 24, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44;

2) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 14, del decreto-legge 30 dicembre 2013, n. 150 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 27 febbraio 2014, n. 15;

3) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art 1, comma 8, del decreto-legge 31 dicembre 2014, n. 192 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2015.

F.to: Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 marzo 2015. Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella Paola MELATTI

IL MONDO SEGRETO DELLE CASTE E DELLE LOBBIES.

È la bestia nera delle banche. "Errori nei conteggi e usura". Giovanni Battista Frescura: "Ho visto fallire bellissime aziende per insolvenze inesistenti. Le Procure archiviano le denunce perché colluse con il potere finanziario: è un cancro", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. «Tutti i conti delle banche sono sbagliati. Le prime a saperlo sono le banche stesse». Con tale premessa, s'intuisce perché Giovanni Battista Frescura, consulente tecnico nei processi sul contenzioso bancario, sia diventato la bestia nera degli istituti di credito. Quando lo denunciò, una decina d'anni fa, gli italiani disposti ad assumersi l'onere di un'affermazione così temeraria si contavano sulle dita della mano sinistra di Capitan Uncino. In pratica, lui solo. E subito ne aggiunse un'altra: «Tutte le banche hanno praticato o praticano l'usura». Era più scusabile, all'epoca, una bestemmia in duomo. A sconsacrare le chiese laiche dove la religione dei soldi celebra i suoi riti è stato Frescura, che in questo momento sta seguendo circa 200 casi di clienti presi per il collo da Bolzano a Messina. Lo ha fatto dapprima con il libro Usura e anatocismo nelle operazioni di credito finanziario e poi con un secondo tomo di 698 pagine, L'usura nei prestiti di banche e finanziarie, che nel sottotitolo in latino riprende la definizione attribuita a Carlo Magno nel capitolare di Nimega dell'anno 806, Usura est ubi amplius requiritur quam datur, si ha usura quando si richiede più di quanto si dà. Quasi 2 connazionali su 10 hanno qualche problema con le banche. La stima è di un banchiere, Dino Crivellari, amministratore delegato di Uccmb, gruppo Unicredit, che si occupa di crediti deteriorati. Per l'esattezza il contenzioso coinvolge 10 milioni di cittadini su 60. Frescura, 61 anni, residente a Valdagno (Vicenza), sposato, tre figli ormai adulti, è uno di questi. «Nel 1995 comprai una casa con un mutuo di Unicredit, poi rimborsato in 15 anni. Per ristrutturarla, chiesi un finanziamento quinquennale di 40 milioni di lire ad Antonveneta. Ebbi qualche difficoltà a pagare le rate. Dopo tre anni il debito era salito a 60 milioni. Avete sbagliato i conti, protestai, e ne restituii 40. Invece, secondo loro, l'anatocismo, cioè il calcolo degli interessi sugli interessi, pesava solo per 1 milione di lire. Per cui mi fecero un decreto ingiuntivo di 19 milioni. Con le spese legali, la somma da restituire superava addirittura i 20 che, a loro dire, ancora gli dovevo. Mi rifeci da solo i conteggi. Alla mia minaccia di denunciarli per usura, reagirono con violenza: "La quereliamo per diffamazione". Querela mai arrivata. In compenso, per un contenzioso da 10.000 euro, mi hanno venduto all'asta la casa, che ne vale 350.000. Ho denunciato per usura ed estorsione la banca, l'avvocato dell'ingiunzione, il notaio che ha gestito l'asta e anche l'acquirente. Per il momento abito ancora dentro la mia abitazione, in attesa che il tribunale di Vicenza decida chi ha torto e chi ha ragione». A differenza dei giudici, quasi tutti usciti dal liceo classico e quindi impermeabili alle formule matematiche, Frescura sa far di conto, avendo frequentato lo scientifico: «Non è un vantaggio da poco, mi creda». All'abilità contabile unisce una solida preparazione giuridica: si è laureato in giurisprudenza quando all'Università di Padova ancora insegnava Giuseppe Bettiol, docente di diritto penale che attirava l'attenzione degli studenti picchiando il bastone da passeggio sulla cattedra. Concluso un master al Politecnico di Torino, è diventato perito e consulente tecnico del tribunale di Vicenza. Si occupava di immobili messi all'asta dagli uffici giudiziari, argomento sul quale ha scritto un libro per le edizioni del Sole 24 Ore. Poi la crociata contro le banche. «Nonostante in Italia siano in corso innumerevoli inchieste penali - 300 solo nel Veneto - a carico degli istituti di credito, con centinaia di amministratori, dirigenti e funzionari coinvolti, finora le condanne pronunciate sono state appena quattro».

Cane non mangia cane, è questo che mi sta dicendo?

«Sì. Le Procure di solito archiviano con la motivazione che l'usura c'è stata però non si può dimostrare il dolo da parte della banca. Siamo arrivati all'assurdo per cui a Vicenza un caso di usura su un mutuo casa, già sanzionato in sede civile, non approda alla sentenza penale perché il Pm non sa a chi affibbiare l'imputazione. Ma come? È così difficile sapere il nome del presidente di una banca? E guardi che l'usura è un reato gravissimo».

Non lo metto in dubbio.

«Non mi riferisco all'aspetto etico. Gravissimo per le conseguenze sul reo: da 2 a 10 anni di reclusione. E nel caso delle banche sono contemplate tre aggravanti specifiche che possono portare a una condanna fino a 20 anni».

Ma le condanne scarseggiano.

«Già. A parte il caso Parmalat, in cui quattro funzionari dell'Ubs hanno patteggiato e il presidente della Banca di Roma è stato assolto in Cassazione per prescrizione. Il rappresentante italiano di Bank of America è ancora sotto processo a Parma. Nel frattempo la Svizzera, dove costui ha subìto una condanna per reati finanziari, l'ha fatto estradare dalla Slovenia e l'ha sbattuto in galera. Giusto per darle un'idea delle differenze tra la giustizia elvetica e quella italiana».

Il suo mestiere precisamente qual è?

«Aiuto i clienti ad accertare se i calcoli degli interessi presentati dalle banche sono esatti oppure no. Vado a caccia di tassi usurari e costi occulti. All'inizio lo facevo per passione civile, una forma di volontariato che è diventata un mestiere».

Lei sostiene che le banche sbagliano i conti intenzionalmente.

«È così. Vuole un piccolo esempio? Il conteggio degli interessi sui mutui va fatto con divisore 365. Invece alcune banche arrotondano a 360. È illegale. Un anno ha 365 giorni, non 360. Pensi che mostruose cifre complessive genera quest'arbitraria decurtazione».

Sarà perché tre dei miei quattro fratelli ci lavoravano, ma ho sempre pensato le banche fossero infallibili con la calcolatrice.

«Fino agli anni Novanta lo pensavano tutti, perché gli imbrogli venivano compensati dall'inflazione alta. Con l'avvento dell'euro, la gente s'è messa a leggere gli estratti conto con più attenzione e sono venuti alla luce gli imbrogli».

Che genere di imbrogli?

«L'uso piazza, l'anatocismo e l'usura. Tralascio la commissione massimo scoperto, che pure incide parecchio».

Parla ostrogoto. Andiamo per ordine. L'uso piazza che cos'è?

«Pochi sanno che tutti i contratti per i conti correnti aperti prima del 1992 erano standard. L'articolo 7 rinviava a un inesistente tasso "uso piazza" per il calcolo degli interessi a debito e a credito. Però la magistratura non l'ha mai contestato. Nel 1992 una legge ha stabilito che o nel contratto viene fissato un tasso preciso oppure va applicato il tasso legale. Questo significa che i conteggi a partire da allora, su tutti i contratti stipulati prima di 23 anni fa, vanno rifatti. Crede che le banche abbiano avvisato la clientela? All'epoca il tasso legale era del 5 per cento, mentre loro applicavano sui passivi un'aliquota dal 15 al 20 per cento».

Uno sbilancio pazzesco.

«Le dico solo questo: il mio elettrauto è andato in pensione e le tre banche con cui lavorava pretendevano da lui la restituzione di debiti per 100.000 euro. Rifatti i conteggi solo sull'ultimo decennio, perché le carte precedenti le aveva buttate via, è andato a credito. Devono dargli indietro parecchi soldi».

Veniamo all'anatocismo.

«Era ritenuto lecito nei conti correnti, ma nel 1999 la magistratura ha precisato che è vietato. Le banche lo calcolavano ogni tre mesi sugli interessi a debito e una volta l'anno su quelli a credito, quindi a svantaggio del cliente. Una legge ha stabilito che l'anatocismo è valido solo se applicato paritariamente. Per i contratti antecedenti al 2000 i conteggi sono tutti da rifare. Solo che gli istituti di credito si rifiutano di pagare anche quando perdono le cause».

Be', esiste il pignoramento.

«Lo sa come sfuggono quando il cliente lo chiede? Si fanno pignorare un assegno circolare con l'importo che dovrebbero versargli. Ma, anziché a suo favore, lo intestano alla cancelleria del tribunale. Quindi, finché non arriva la sentenza della Cassazione, il cliente non vede un euro».

Parliamo dell'usura.

«In Italia fu reintrodotta come reato penale dal codice Rocco del 1930 per punire lo sfruttamento dello stato di bisogno. Dal 1996 la tutela è estesa anche ai soggetti in stato di necessità economica o finanziaria. Ma le banche si sono prontamente autoescluse, sostenendo che la normativa non le riguardava».

Possibile che istituti quotati in Borsa, vigilati dalla Banca d'Italia e dalla Consob, si arrischino a praticare tassi fuori legge? Vuol dire che pensano di poter contare sull'impunità.

«È così. Giustizia e sistema bancario sono collusi, è questo il grande cancro».

Ma i tassi usurari vengono applicati da singoli dipendenti oppure costoro obbediscono a ordini di scuderia?

«Entrambi i casi. Vincenzo Imperatore, un ex funzionario di Unicredit, lo ha confessato in un libro, Io so e ho le prove. Ma si guarda bene dal restituire il maltolto».

Qual è il tasso d'interesse oltre il quale scatta l'usura?

«Magari ce ne fosse uno soltanto. Sono una trentina. Dipendono dall'importo in ballo e dalla categoria del prestito: mutui ipotecari, leasing, prestiti personali, cessioni del quinto, anticipi e via di questo passo. Nel primo trimestre del 2015 il più basso è quello dei mutui ipotecari a tasso variabile: 8,33. Il più alto è quello delle carte di credito revolving: 24,9. L'usura scatta sostanzialmente quando gli interessi applicati da banche e finanziarie superano del 50 per cento il tasso medio rilevato ogni tre mesi».

Rilevato da chi?

«Dovrebbe essere il ministero dell'Economia. Ma, con un abuso, ha delegato a computarlo la Banca d'Italia».

Il carnevale di Viareggio.

«No, è una guerra civile, questa dell'usura. Per non parlare della grande rapina chiamata cessione del quinto».

Di che si tratta?

«Di un prestito che il lavoratore riceve e che è garantito dallo stipendio. Fino al 2005 lo potevano chiedere solo i dipendenti pubblici, con un tasso d'interesse molto basso. Ma ora lo concedono anche al personale delle imprese private e ai pensionati, con un tasso soglia che va dal 18,55 al 19,57. Si sono infilate nel business finanziarie e mediatori senza scrupoli. Bankitalia sarebbe dovuta intervenire, ma fino al 2010 non ha mosso un dito. Nello spingere la povera gente a farsi tosare ci hanno guadagnato tutti, persino i sindacati, che ricevono cospicue provvigioni dalle banche, e l'Inps, che per ogni pratica evasa incassa 10 euro».

Conosce casi di imprenditori portati al fallimento o, peggio, al suicidio?

«Parecchi. Le banche hanno fatto fallire un orafo di Trissino che aveva 50 dipendenti. Una ditta bellissima. Ho rifatto i conteggi e ci siamo accorti che l'insolvenza non esisteva. Ma è molto difficile rimediare: il fallimento è come una sentenza passata in giudicato. Ha quasi perso il lume della ragione, poveretto».

Però anche le banche hanno problemi con la clientela insolvente. In sette anni di crisi le sofferenze hanno raggiunto i 181 miliardi di euro.

«Ma sarà vero credito? I conteggi sono stati fatti tenendo conto degli errori? Perché Unicredit ha messo prudenzialmente a bilancio un passivo di 17 miliardi di euro per cautelarsi da brutte sorprese? È l'unica banca ad averlo fatto».

Come si fa a chiudere questo buco?

«Ci vorranno dieci anni».

Esisterà pure una banca virtuosa.

«No, tutte applicano gli stessi trucchi. Le uniche sarebbero le banche arabe, che non possono compiere operazioni con gli interessi, come prescritto dal Corano, ma in Italia non le lasciano entrare».

E di che campano le banche arabe?

«Invece dei mutui, fanno vendite con patto di riscatto. La banca acquista una casa, me la consegna, per 20 anni pago l'affitto, trascorso il termine diventa mia. Non molto diverso da quanto fece Amintore Fanfani all'epoca del boom, senza bisogno degli arabi».

Il caso più clamoroso di cui s'è occupato?

«Due fratelli di Empoli che hanno dovuto chiudere un'azienda di pelletteria per colpa dell'anatocismo. Si sono ritrovati indebitati per 300.000 euro con la banca e per altri 300.000 con Equitalia. Ho rifatto i calcoli. La prima ha dovuto riconoscere d'aver praticato l'usura. Perciò s'è detta disposta a rinunciare ai 300.000 euro di credito, a versarne al fisco altri 300.000 al posto dei clienti e a offrirne 100.000 a titolo di risarcimento».

Ma lei si fida delle banche?

«Certo. Basta non chiedergli prestiti».

Quindi i nostri soldi depositati nelle banche sono al sicuro.

«Sì, perché il denaro non esiste. È una creazione normativa».

Il mondo segreto delle lobby. Negli Usa sono legittimi e radicati nella cultura nazionale, in Italia agiscono nell'ombra e in assenza di regole. Nel racconto di un "insider", ecco come i gruppi di interesse riescono a influenzare la vita politica del Paese, e, in assenza di norme chiare, rischiano di restringere il diritto di rappresentanza democratica, confondendo il legittimo lavoro dei lobbisti con quello ambiguo dei faccendieri, scrive “La Repubblica”.

Terra di nessuno in attesa di regole, scrive Carmine Saviano. L'accordo è raggiunto. Il testo è scritto. Il voto in aula è solo una formalità. Poi ecco l'emendamento dell'ultimo minuto, la modifica che non ti aspetti. E la legge passa mentre il coro pronuncia una sola parola: "Lobby". Lo abbiamo visto nell'ultimo decreto sulle liberalizzazioni: "Vincono le lobby", "perdono le lobby", "colpa delle lobby". Ne è piena la storia recente, almanaccarle tutte un'impresa: le pressioni, indebite o meno, cui sono sottoposi i decisori pubblici rappresentano un capitolo a sé della prassi politica. Aziende di stato sospettate di scrivere interi decreti - il caso Enel, smentito, sul taglio degli incentivi alle energie rinnovabili - multinazionali che finanziano in modo bipartisan, aziende che cercano di influenzare l'iter dei provvedimenti. Ordini professionali con il loro "paladini" tra i parlamentari. E poi tassisti, case farmaceutiche, operatori del gioco d'azzardo. Una terra di nessuno, quella dei rapporti tra politica e lobby. Di nessuno perché nessuno l'ha mai regolata: in Italia non esiste una legge per questi rapporti. Una zona grigia in cui solo il 20% - i dati sono di una ricerca ancora inedita dell'Università Unitelma Sapienza - delle attività di lobbying è parzialmente in chiaro, riconducibile a determinati soggetti: dalle società di lobbying ai lobbisti in house, i rappresentanti di grandi gruppi economici, pubblici o privati. Il restante 80% è coperto dall'ombra: qui ricostruire l'identità dei lobbisti che l'hanno generata è impossibile se non per macro-categorie: dalle società di comunicazione (circa il 60% del totale dei casi), ai grandi studi legali (il 30%) o da liberi professionisti individuali (il 10%). Ma come si svolge la giornata di un lobbista? A raccontarlo a Repubblica è Luigi Ferrata, di SEC relazioni pubbliche ed istituzionali, una delle società che opera in chiaro e che chiede al più presto una legge sui gruppi di pressione. Lo incontriamo nel suo studio, centro di Roma. Sommerso da giornali, da monitor accesi sui siti di Camera e Senato, diagrammi e grafici, telefoni che non smettono di squillare, Ferrata racconta: "Il nostro lavoro è legato all'attività del Parlamento e del governo. Durante l'approvazione della Legge di Stabilità c'è molto da fare. E nelle ultime settimane c'è stata grande attenzione sul tema delle liberalizzazioni". Si inizia raccogliendo informazioni. "Si parte con l'analisi dei provvedimenti presentati. Dopo possiamo contattare un eventuale cliente per proporre un'attività di lobbying. Ovviamente capita anche il contrario: le aziende a cui interessa sottoporre il proprio punto di vista ai parlamentari o ai membri del governo, ci chiamano e ci commissionano il lavoro". Alla fine di questa fase è tutto pronto per l'aggancio: si individuano i soggetti che possono influire sul processo decisionale e si parte alla ricerca del contatto. "Attualmente l'approccio migliore, quello più efficace, è durante la discussione nelle Commissioni: ci sono meno persone, i provvedimenti vengono discussi sul serio e c'è maggior interesse a recepire ulteriori informazioni dai soggetti che possono essere coinvolti dall'eventuale legge". Ma quello parlamentare è solo uno dei piani. Un piano secondario. Perché il reale obiettivo è l'esecutivo. Ancora Ferrata: "Qui ci si muove su due livelli: quello dei dirigenti del ministero e quello dello staff del ministro. Il nostro compito è sollecitare l'interesse, raccontare una storia, suggerire modi possibili per affrontare determinate tematiche". E dopo l'analisi dell'oggetto e l'individuazione del soggetto è tempo dell'aggancio vero e proprio. "L'approccio avviene in molti modi. Mail, telefonate, messaggi. Di solito però cerchiamo il contatto personale, magari durante un incontro in cui sappiamo che sarà presente l'uomo che ci interessa". Poi ci si siede intorno a un tavolo: "In genere si organizza un convegno sul tema d'interesse. O si pranza insieme in qualche posto". Dopo l'incontro, se si è fortunati, la posizione del portatore di interesse particolare viene "accolta" in un disegno o in una proposta di legge. Più spesso in qualche emendamento. E nell'assenza della possibilità di tracciare il lavoro del lobbista, esistono alcuni segnali che possono far comprendere se una "pressione" è stata attuata. "Non c'è un metodo per scoprire un'attività di lobbying", conclude Ferrata. "A occhio ci si può accorgere di un lavoro simile quando emergono delle posizioni trasversali che coinvolgono parlamentari di diversi schieramenti. O quando il progetto di legge presentato è molto specifico". "A occhio". Perché nel Paese dove la logica diventa ossimoro il processo che conduce alla formazione delle decisioni pubbliche non è pubblico, si può solo intuire. Non esiste un registro dei lobbisti. Ministri e politici non hanno nessun obbligo di rendere pubblici i loro incontri con rappresentanti di interessi particolari. E le porte tra grandi aziende e politica sono sempre aperte: nessuno vieta a un manager di diventare capo di gabinetto di un ministero e viceversa. Negli altri paesi il periodo di raffreddamento, il cooling off, è di due anni: in questo periodo di tempo le porte tra pubblico e privato devono restare chiuse. Perché le informazioni acquisite durante il proprio incarico governativo potrebbero essere utilizzate per favorire la propria azienda. E i rapporti costruiti al di fuori del pubblico potrebbero influenzare decisioni e scelte che riguardano la totalità dei cittadini. Eppure, una legge sul lobbying è stata spesso ricercata. Cinquantotto disegni di legge presentati nella storia della Repubblica, quasi uno all'anno: tutti lasciati marcire in attesa di finire nel dimenticatoio. Nelle ultime settimane la Commissione Affari Costituzionali del Senato, guidata da Anna Finocchiaro, sta procedendo all'esame congiunto di ben sei proposte che arrivano da tutte la parti politiche. La volontà è quella di arrivare a un testo unico da portare in aula. Perché oramai la necessità è stringente: stabilire quelle regole in grado di eliminare ogni ambiguità nel rapporto tra chi decide e chi si batte per portare al tavolo delle decisioni interessi determinati e particolari. L'obiettivo delle proposte di legge è dare un abito giuridico a chi ogni settimana compie il proprio pellegrinaggio nel Transatlantico di Montecitorio e nelle sale d'attese delle aule delle Commissioni Parlamentari. A chi incontra, giorno dopo giorno, decine di deputati, senatori, dirigenti dei ministeri, staff dei capi dei dicasteri. Distinguere, insomma: mettere dei paletti che possano aiutare a tracciare una linea di separazione tra chi offre competenza e chi traffica relazioni. Tra lobbista e faccendiere, appunto. Una legge che servirebbe a fare chiarezza, contribuendo a illuminare un contesto reso ancora più indecifrabile grazie anche all'assenza del vincolo di rendicontazione per le donazioni di privati ai partiti politici: fino a 100 mila euro e per quattro mesi, sempre che il privato acconsenta a rendere pubblico il suo nome. In definitiva: l'assenza di questa legge è un'eccezione alla trasparenza che non ha simili nel contesto dei paesi democratici. In Europa è prevista l'esistenza di un registro dei lobbisti: gli italiani iscritti, tra persone fisiche e giuridiche, sono oltre 650. Nel nostro Paese niente di simile. L'unico caso a livello nazionale è l'elenco previsto dal ministero dell'Agricoltura: lanciato con il governo Monti con gli ultimi due esecutivi è semplicemente scomparso. E negli ultimi mesi il viceministro Nencini ha messo online l'agenda dei suoi incontri. Un primo passo. Per il resto, solo promesse. L'ultima in ordine di tempo è quella del governo Renzi: nel Def la legge sul lobbying era prevista per giugno del 2014. Otto mesi fa. Perché su questo terreno la politica professa trasparenza ma sceglie di far proliferare l'opacità?

"Un comodo capro espiatorio per i politici", scrive Carmine Saviano. Ci prova da anni. Da quando fu coinvolto dall'ultimo governo di Romano Prodi per lavorare a una legge che regolasse i gruppi di pressione. Pier Luigi Petrillo è professore associato di Diritto pubblico comparato all'Università Unitelma Sapienza di Roma. E da 8 anni insegna Teoria e tecniche del lobbying alla Luiss Guido Carli. Non solo: è consulente per l'OCSE in materia di lobbying e trasparenza. Con il governo Letta il suo ultimo impegno nelle istituzioni: era l'estate del 2013 e la legge sui lobbisti sembrava realmente a un passo dal vedere la luce.

Professor Petrillo, cosa comporta la mancanza di questa legge per il tessuto democratico del Paese?

"Questa assenza consente alla politica di scaricare la responsabilità della propria inefficienza proprio sui lobbisti. Un provvedimento non viene approvato? Colpa delle lobby. Un disegno di legge si ferma? Colpa delle lobby. Le lobby sono diventate un paravento della politica che non vuole scontentare taluni soggetti e non vuole assumersi la responsabilità della scelta".

Con una normativa sul tema la politica guadagnerebbe in efficienza?

"Una legge sul lobbying, rendendo pubblici gli interessi particolari contrapposti, toglierebbe alla politica qualsiasi alibi: il decisore dovrebbe decidere, sotto gli occhi di tutti. Nei 18 paesi dove il processo decisionale pubblico è regolato dalla legge avviene tutto in trasparenza: gli incontri con i portatori d'interesse sono pubblici e la politica alla fine deve assumersi la responsabilità di indicare quale o quali interessi soddisfare. La zona d'ombra che esiste nell'ordinamento del nostro paese consente alla politica di non scegliere: e quindi di non scontentare nessuno, salvo i cittadini ai quali si fa credere che è colpa delle lobby anziché della politica".

Nel 2013 il governo guidato da Enrico Letta sembrò a un passo dall'approvazione di un decreto legge...

"Da marzo 2013 a maggio 2013 il governo chiese a un gruppo di esperti, di cui facevo parte, un lavoro preparatorio per un disegno di legge. Alla fine della fase di studio, maggio 2013, presentammo il nostro lavoro, basato essenzialmente sui principi indicati dall'Ocse. Successivamente, per redigere il testo, furono incontrati, il 5 giugno, a Palazzo Chigi, alcuni lobbisti così da analizzare l'impatto delle norme ipotizzate sui destinatari della stessa. Il provvedimento venne calendarizzato per essere approvato dal consiglio dei ministri del 5 luglio. Fino a ventiquattro ore prima sembrava filare tutto liscio. Ma durante la seduta, il Consiglio decise di rimandarlo senza approvarlo. E la successiva crisi del governo Letta mandò in soffitta il lavoro fatto".

Da dove arrivano le maggiori resistenze alla legge?

"Oggi ci sono dei soggetti facilitati nell'accesso ai decisori perché, ad esempio, rappresentano interessi di società pubbliche o a partecipazione pubblica. Una legge sul lobbying metterebbe sullo stesso piano questi lobbisti 'privilegiati' con gli altri: per questo l'OCSE ha più volte detto che una legge in materia serve per assicurare la concorrenza".

Un privilegio che esiste solo finché esiste una zona d'ombra...

"Uno studio realizzato dall'Università Unitelma Sapienza evidenzia come solo il 20% delle attività di lobbying è in chiaro nel senso che è possibile conoscere chi ha fatto lobbying e per cosa. L'altro 80% è composto da lobbisti 'di fatto': da chi gestisce le relazioni esterne delle aziende fino agli studi di comunicazione o legali. Questo 80% non è tracciabile".

La soluzione legislativa più veloce?

"Il governo potrebbe intervenire in materia senza nemmeno aspettare la legge. Con un decreto del premier - che necessita solo di una veloce approvazione in Consiglio dei ministri - finalizzato a regolamentare l'attività di lobbying diretta verso tutta l'amministrazione esecutiva, dal governo agli enti pubblici economici. Se solo si volesse...".

Allarme corruzione: "Urgenti norme chiare", scrive Carmine Saviano. Tra pochi mesi non si potrà più farne a meno. Perché l'assenza di una legge sul lobbying rischierà di incidere in modo negativo sul sistema degli appalti pubblici. Le nuove norme, infatti, sono contenute in un disegno di legge delega presentato dal governo e in discussione al Senato che recepiscono tre direttive europee: la 2014/23, la 2014/24 e la 2014/25. Tra i principi contenuti in queste direttive si prevede la "partecipazione di portatori qualificati d'interesse nell'ambito dei processi decisionali finalizzati all'aggiudicazione di appalti e concessioni pubbliche". Vale a dire: lo Stato potrà coinvolgere privati nella stesura stessa dei provvedimenti che danno il via ai lavori. La legge sui gruppi di interesse diventa quindi essenziale: è inimmaginabile, infatti, non mettere al corrente l'opinione pubblica circa i rapporti tra istituzioni e portatori d'interesse in relazione alla realizzazione di opere pubbliche. E' necessario prevedere registri consultabili, agende e resoconti degli incontri. Apparentemente: niente di più semplice se i nuovi strumenti di cui si avvale anche la comunicazione politica fossero presi sul serio: la pubblicità che la rete può fornire è enorme. Un veicolo di trasparenza. E la regolamentazione delle attività lobbistiche è un'esigenza avvertita anche - e soprattutto - dall'Anac, l'Autorità Anti Corruzione presieduta da Raffaele Cantone. Il cui team sta lavorando a un Libro Bianco da presentare al governo. Proposte e indirizzi per migliorare la gestione della cosa pubblica. Michele Corradino è uno dei quattro consiglieri di Cantone. E non utilizza mezze misure: "Dobbiamo parlarci chiaro: le lobby entrano nelle stanze della politica, nei luoghi dove vengono prese le decisioni che riguardano la totalità dei cittadini". E più i gruppi di pressione sono forti "più riescono a incontrare interlocutori che sono ai vertici delle istituzioni". Una proporzione diretta: al massimo di forza economica corrisponde la massima capacità di influenzare il decisore pubblico. Una legge che regolamenti questi incontri, che riesca a mettere in luce il percorso incontrato da una legge diventa quindi essenziale anche in relazione alla lotta contro la corruzione: "Abbiamo stabilito una sorta di equazione, accettata da tutti: l'arma migliore per combattere la corruzione è la trasparenza". E se la trasparenza è un metodo, questo metodo non può essere circoscritto alla retorica politica.

Diamanti: "Trasparenza significa democrazia", scrive Carmine Saviano. Dalle cause storiche che possono spiegare l'assenza in Italia di una cultura delle lobby alle classi in cui possono essere divisi i gruppi di influenza. Metodi di pressione, impatto sull'opinione pubblica, il ruolo del governo. La zona d'ombra tra scena e retroscena delle decisioni pubbliche. Ne abbiamo parlato con Ilvo Diamanti, professore di Scienza Politica all'Università di Urbino e di Régimes Politiques Comparés a Paris 2, Panthéon Assas. Partendo da come incide, in questo contesto, l'assenza di norme sulla qualità della democrazia italiana.

Professor Diamanti, regolamentare le lobby innalzerebbe il grado di democraticità del nostro sistema?

"Assolutamente sì. La democrazia ha diverse facce ma tutte prevedono forme di controllo sulle decisioni della politica. E' evidente che quando esistono ambiti di discrezionalità sottratti al controllo dei cittadini viene indebolita la possibilità di controllo sui decisori. Viene indebolita la rappresentanza".

Nell'opinione pubblica, lobbista è sinonimo di faccendiere...

"E' una questione di tradizione politica e culturale. E mi riferisco sia a quella cattolica che a quella comunista che condividono un'idea negativa della ricchezza. Quasi fosse necessariamente un peccato. Peraltro, scontiamo un approccio fariseo: il denaro lo si fa ma non ci importa come. Così il lobbista è un peccatore e fare lobby significa raggiungere risultati con ogni mezzo. Più o meno lecito".

Un governo non dovrebbe porre tra i suoi obiettivi primari una legge sui gruppi di pressione?

"Dovrebbe. Se non avviene è perché le lobby all'italiana sono molto forti".

Lobby all'italiana, appunto. Abbiamo provato a dare i voti...

Possiamo indicare due classi diverse. Esistono grandi sistemi di interessi che riguardano prodotti e servizi di largo interesse pubblico. Come quelli che gestiscono le fonti energetiche: risorse che dipendono da regole e concessioni della politica. E nella percezione generale questi gruppi sono sicuramente quelli in grado di influenzare maggiormente il potere politico".  

L'altra classe?

"Le professioni: dispongono di altri mezzi, possono mettere in campo altre forme di lotta. Forme 'materiali' che però riguardano beni immateriali. Pensiamo ai tassisti: gestiscono la mia 'mobilità'. Possono interromperla. E con questo possono bloccare la mia possibilità di comunicare. Anzi, possono bloccare i movimenti e la mobilità del Paese. Come, peraltro, i camionisti".

Cosa accomuna queste due classi?

"Entrambi le classi hanno lo stesso bersaglio. Intervengono sugli stessi attori politici. Tendono a esercitare pressione sulle decisioni e i decisori politici".

Ma, a oggi, la maggior parte di questi interventi resta nell'opacità...

"Naturalmente c'è differenza fra chi esercita una pressione esplicita attraverso scioperi e forme di lotta aperte e chi, invece, agisce esercitando pressioni e influenza sul ceto politico, nel retroscena. Il problema italiano è qui. E dipende dall'assenza di una cultura delle lobby. E quindi dall'esistenza di lobby implicite. Che non sono regolate ma sono contigue con il potere politico. Contiguità che è difficile da modificare: rendere pubbliche determinate procedure - pensiamo agli appalti - farebbe saltare la procedura stessa. E metterebbe in discussione gli interessi e le posizioni di potere esistenti. Per questo rendere trasparente il mercato è operazione difficile".

Usa, scandali a raffica ma è nel Dna del paese, scrive Alberto Flores D'Arcais. "Ero coinvolto profondamente in un sistema di corruzione. Corruzione quasi sempre legale". Quando alla fine del 2010 - dopo aver scontato quattro anni di carcere e aver lavorato per sei mesi a 7,5 dollari l'ora in una pizzeria - Jack Abramoff chiuse i suoi conti con la giustizia, affidò a quelle poche parole il riassunto di cosa fosse il lobbyism negli Stati Uniti. Il pentimento (con relativo libro di denuncia) del più famoso lobbista americano degli ultimi venti anni - al centro di un altrettanto famoso scandalo che avrebbe coinvolto 21 potenti uomini della Washington politica (compresi un paio di funzionari della Casa Bianca di George W. Bush) - diede il via a feroci polemiche, accuse e contraccuse, editoriali indignati e (spesso) ipocriti, su una delle attività che più condizionano (nel bene e nel male) la vita politica e finanziaria del più potente paese del pianeta. Attività del tutto legittima e legale ma che ha offerto spazio, nei dettagli di regole complicate, anche ad azioni che hanno sfiorato la soglia della criminalità. Negli Stati Uniti il lobbismo nasce insieme alla Costituzione e al free speech (protetto dal Primo Emendamento che tutela in generale la libertà di espressione e che vieta al Congresso di approvare leggi che limitino "il diritto che hanno i cittadini di inoltrare petizioni al governo") ed è un lavoro (ben remunerato) a tempo pieno grazie al quale i cosiddetti 'gruppi d'interesse' (politici, religiosi, morali e soprattutto commerciali) fanno pressione sul Congresso per approvare questa o quella legge, per difendere posizioni acquisite, per condizionare una scelta piuttosto che un'altra. Dagli anni Settanta è un fenomeno in costante crescita e oggi a Washington ci sono oltre 13mila lobbisti registrati come tali, più diverse altre migliaia che lavorano sotto-traccia e fanno spesso il lavoro 'sporco' e più rischioso. Con un volume di affari che, nel corso degli ultimi decenni, è cresciuto in modo esponenziale e che nel 2010 ha raggiunto la cifra record di 3,5 miliardi di dollari. Un'attività, quella di lobbying, che è talmente connaturata al sistema politico-costituzionale degli Stati Uniti da essere scherzosamente definita  (con una tipica espressione slang) as American as apple pie, americana come la torta di mele. Ma chi sono i lobbisti? In gran parte avvocati (o comunque persone uscite dalle Law School e dalle Business School dei migliori college degli Usa), assoldati da famose corporation (JP Morgan ha un team che costa oltre tre milioni di dollari all'anno), da grandi studi legali, sindacati e organizzazioni varie, ma soprattutto da società che nascono ed operano con l'unico scopo di fare lobbismo. La loro attività è riconosciuta da una legge bipartisan del 1995 (Lobbying Disclosure Act) - varata dopo una serie di scandali e azioni che vennero definite "poco chiare" - e i lobbisti (sulla carta tutti) devono registrarsi presso la Rules Committee, la commissione delle regole del Congresso, hanno un badge permanente che gli permette di girare tranquillamente negli uffici di deputati e senatori a Capitol Hill (può essere revocato in caso di violazioni di legge) e sono identificati come "gruppi portatori di interesse da tutelare", un giro di parole che rende bene l'idea. Un lavoro che ha come interlocutori membri del governo, parlamentari ed amministratori pubblici (a livello federale, statale e locale) e che è, o meglio dovrebbe essere, ben distinto da chi lavora in una campo contiguo come quello delle public relations. Ed è qui, quando questi due mondi si intersecano, che si trovano i confini tra il lobbismo 'buono' (e assolutamente legale) e il mondo 'grigio' del sottobosco politico-affaristico che, ogni tanto, sfocia in un grande scandalo come quello di Abramoff. Un sottobosco che (stando ad alcuni studi recenti) arriva ad impiegare una manodopera di quasi centomila persone e dove il cosiddetto metodo delle 'tre B' (booze, broads, bribes, ovvero alcol, donne e bustarelle) non è stato mai del tutto abbandonato. Un mondo che è stato combattuto in epiche battaglie da uomini come Ralph Nader, lo scrittore-avvocato-attivista (e cinque volte candidato senza speranza alla Casa Bianca) diventato un simbolo della difesa dei consumatori e una decennale spina nel fianco delle lobby anche più potenti. Un mondo (e i critici non mancano mai di ricordarlo) che deve il suo nome all'atrio degli alberghi: un posto visibile a tutti ma che nasconde qualche inconfessabile segreto.

Rosa o gay, una per ogni stagione, scrive Filippo Ceccarelli. Saranno ormai quarant'anni che si parla di regolamentare le lobby. Allora, era la metà degli anni 70, bisognava spiegare cosa significasse quella parola; nel frattempo "lobby" ha fatto a tempo a dilatarsi e insieme a rattrappirsi, comunque moltiplicando i suoi valori d'uso oltre ogni ragionevole significato. In questi casi, anche se il termine suona un po' ricercato, si dice che la lobby, anzi le lobby sono divenute polisemiche. I politici e i giornalisti, categorie per loro natura e vocazione abbastanza orecchianti, adorano le polisemie, specie quando gli lasciano le mani libere - un po' meno la testa, ma è un altro discorso. Può esistere dunque una lobby rosa, nel senso di un gruppo che favorisce gli interessi e il potere delle donne nelle istituzioni e nell'economia: "Emily", il "branco rosa" e così via. Ma anche esiste una agguerrita lobby delle armi, cioè gente che cerca di piazzare mine, cannoni e micidiali sistemi di puntamento in giro per il mondo, soprattutto ai paesi africani, cosa non proprio simpatica. Le aziende dispongono di professionisti ad hoc che battono anche il Parlamento. In una raccolta di vignette su Montecitorio, già alla metà degli anni 80 il disegnatore Vincino raffigurò "il lobbista dell'Aeritalia" che svolazzava per il Transatlantico con delle eliche che gli uscivano dal retro della giacca, come un drone ante litteram. Insomma tante cose diverse. Nell'economia la faccenda è più pacifica che in politica o nella cronaca giudiziaria. Si tratta di tutelare degli interessi, come spiegano benissimo i protagonisti dell'inchiesta di Carmine Saviano. Le Camere sono la palestra, il giacimento, l'arena, la serra, la taverna e il giardino zoologico dei lobbisti. Qualche mese fa i cinquestelle hanno beccato un ex funzionario di Montecitorio che scriveva, al volo e brevi manu, un emendamento per modificare un provvedimento in commissione, e l'hanno fatto cacciare. Hanno poi esposto il suo volto in aula con dei cartelli. Quello, poveretto, ha cercato di sminuire il suo ruolo, pure definendosi "un giuggiolone". Ma ai tempi in cui Marcello Pera presiedeva il Senato, 2005, nel depliant della sua fondazione "Magna Carta" era esplicitamente contemplata l'attività di lobbying; e l'ex presidente della Camera Irene Pivetti, adesso, cosa fa? Semplice, fa lobbying. Dal che si intuiscono gli effetti non tanto forse della mancata regolamentazione, ma della implicita e magari anche connaturata confusione che reca in sé l'ambiguo tragitto della parola "lobby", nella sua variante "all'italiana". Così alla caduta del governo Berlusconi l'ex ministro Mastella, l'ineffabile, evocò la "lobby ebraica"; ma qualche mese prima, quando alla presidenza della Rai era arrivata Letizia Moratti, venne lanciato un allarme contro la "lobby di San Patrignano", che sarebbe una nota comunità di recupero per tossicodipendenti, ma si disse così per intendere che direttori di rete o dei tg si diventava solo previo assenso della Moratti, appunto, che dell'iniziativa di Vincenzo Muccioli (poi con il figlio e la moglie hanno ferocemente litigato) era e seguita a restare la grande patrona e finanziatrice. Altre lobby entrate più o meno di straforo nella cronaca: la "lobby di Lotta continua" (ai tempi dei processi Sofri); la "lobby gay" (in Vaticano); la "lobby dei tesorieri di partito" (che continua a bussare a quattrini aggirando leggi e referendum). Si tratta di esempi per lo più negativi. Ma per anni il progetto educativo del cardinal Ruini è stato presentato anche dai suoi fautori come strutturalmente connesso a un'opera di lobbying a favore dei principi irrinunciabili. Bizzarro perciò è il destino dei grimaldelli semantici, sempre sul punto di trasformarsi in piè di porco. Questo, per dire, è un Lele Mora d'annata, già proteso a togliersi dagli impicci: "Io - diceva - non piazzo le starlette nei letti, faccio solo incontrare gente, lobbying, altro che festini!". Era la fine del 2006, poi è finita con qualche anno di galera. Nel frattempo le lobby crescono e si moltiplicano a loro indeterminato piacimento. E ciascuno le consideri un po' come meglio ritiene: se e quando verranno regolamentare, sarà probabilmente troppo tardi.

"Università, altro che merito. E' tutto truccato. Vi racconto come funziona nei nostri atenei". Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati. Un ex dottorato spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio su “L’Espresso” Non è un Paese per giovani docenti universitari. E' quanto ha scoperto sulla sua pelle da Matteo Fini, classe 1978, appena riemerso da quasi dieci anni di esperienza accademica come dottore di ricerca in statistica nel Dipartimento di scienze economiche dell’Università degli studi di Milano. “Tante illusioni svanite via via nel nulla”. Alla Statale si occupava di metodi quantitativi per l’economia e la finanza. “In pratica facevo tutto: lezioni, ricerca, davo gli esami, mettevo i voti – ci dice Fini – Ero un piccolo professore fatto e finito, senza titolo. E questa è una roba normalissima”. La sua è la storia di un giovane italiano che non ce la può fare nonostante tutto. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano” aggiunge. E ne esce, e pensa di raccontarlo. Di dissacrarlo. Ne fa la sostanza del suo libro: la vita accademica vista dall’interno, nei suoi gangli ordinari. Episodi quotidiani che non danno scandalo abbastanza se presi singolarmente. Comincia a scriverlo, e ne posta qualche estratto su Facebook. Un giorno riceve una diffida legale, girata anche all'editore con cui aveva già fatto un libro ("Non è un paese per bamboccioni"), che gli intima di non pubblicare e di eliminare tutti i post “allusivi” dal social: tra questi, una citazione di Lino Banfi/Oronzo Canà. “I post non li ho affatto tolti, e tra l’altro erano generici e astratti – racconta Matteo Fini –. Questa è censura preventiva”. Il libro è pronto, anzi c’è tutta una piccola community sul web che ne attende l’uscita; ma non si sa più quando, né con chi vedrà la luce. Abbiamo incontrato l’autore per saperne di più di questo suo pamphlet arrabbiato, rimandato a settembre per “condotta”. L’inizio del percorso da ricercatore universitario è comune a tutti. “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato e la strada si fa cieca”. Al “meccanismo” ci si abitua subito. Prendere o lasciare. I più, prendono, compreso Matteo Fini. “Ho capito subito che c’erano delle regole bislacche, ma le ho accettate: sai benissimo che lì dentro funziona così, è un sistema che non puoi cambiare, immutabile, e sai anche che la tua carriera è totalmente indipendente da quello che dici o che fai: conta solamente che qualcuno voglia spingerti avanti”. Anche Matteo ha il suo protettore. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Va avanti così per anni. Ma le cose non sono eterne. “All’improvviso la sua attenzione si è completamente spostata altrove. Dal chiamarmi quattro volte al giorno, l’ultimo anno è scomparso. Fino al gran finale: il dipartimento bandisce il concorso per il posto a cui lavoravo da otto stagioni,“che avrei dovuto vincere io”. Lui nemmeno me lo comunica. Io ne vengo a conoscenza e partecipo lo stesso, pur sapendo che, senza appoggi, non avrei mai vinto. In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. In questo volume intra–universitario che non c’è, ma c’è, Fini spiega gli ingranaggi universitari più comuni. Talmente elementari che nessuno aveva mai pensato di raccontarli. Sfogliamolo virtualmente.

Concorsi, primo esempio. Il blu e il nero. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo. A me una volta è capitato che a metà prova si siano accorti che alcuni stavano scrivendo in blu e altri in nero. A quel punto ci hanno consegnato delle penne uguali per tutti, e siamo ripartiti daccapo. A fine prova mi sono accorto che c'erano degli stranieri che avevano scritto nella loro lingua natìa... Ma con la penna uguale alla nostra, eh!”.

Concorsi, secondo esempio. Gli ultimi saranno i primi. “M’iscrissi al bando e mi presentai al test d’ammissione che era composto esclusivamente da un colloquio orale in cui si ripercorreva la carriera dei candidati. Era un concorso per titoli. I candidati erano tre: io, una ragazza del sud di trentun’anni neolaureata e una ragazza del nord che stava discutendo la tesi. I posti erano sei, le borse di studio in palio due. Indovinate in graduatoria in che posizione mi piazzai? Esatto, terzo. E ultimo. In un concorso esclusivamente per titoli, cioè non vi erano delle prove d’esame che avrebbero potuto mostrare la preparazione di un candidato piuttosto che l’altro, contava solo il curriculum vitae; in un concorso per titoli tra due neolaureate, o quasi, e io che una laurea, come loro, ce l’avevo e che possedevo anche un titolo di dottore di ricerca, pubblicazioni scientifiche, manuali didattici e un’esperienza di oltre cinque anni in accademia tra lezioni, lauree, seminari e convegni, ecco in gara con loro due mi classifico terzo, dietro di loro…”.

Concorsi, terzo esempio. La salita è in discesa. “Qualche anno fa sono andato a fare un concorso per un contratto di un anno fuori sede. Fuori sede lo dico perché ogni ricercatore, o simile, è come affiliato al dipartimento di provenienza, ogni volta che prova a partecipare a un concorso in un altro ateneo è come se andasse in guerra. Con lo scudo e la fionda contro i fucili e i cacciabombardieri. Il posto era per un assegno di ricerca in Economia e gestione delle imprese. Ci presentiamo in tre. Il vincitore, il fantoccio e io. C’è sempre un fantoccio. Quello che deve fare presenza, ma perdere. Per non dare l’idea che il concorso sia ad personam. Purtroppo per loro però, inavvertitamente, mi ero iscritto pure io. E risultavo tremendamente più titolato degli altri due, vincitore compreso. Questo capitava non perché io fossi particolarmente genio, ma perché, essendo ormai da anni attorcigliato nel meccanismo universitario senza sbocchi in attesa del posto mio, mi ritrovavo a partecipare a concorsi per retrocedere. Scendi di categoria, e sembri un fenomeno. Così succede che devono trovare un modo per fermarmi. E non potendo dire che non ho i titoli o che il mio curriculum mal si relazioni col loro progetto di ricerca. sapete cosa s’inventano? Provano con la psicologia. Anzi la psicologia inversa, il metagame. “Tu sei un ricercatore affermato, ormai hai anni di esperienza, il nostro progetto dal punto di vista quantitativo non presenta una sfida entusiasmante, saranno sì e no due calcoletti, per cui non credo che questo sia il posto adatto a te... E così ho perso un’altra volta”.

Concorsi, per concludere. Così fan tutti.“E così risulta penalizzato anche chi vince perché è più bravo e perché se lo merita. Chi vincerebbe un concorso anche in una molto ipotetica gara alla pari. Senza padrini. Pensate a quanto possa essere frustrante, anche per loro, sapere che nonostante gli anni di studi, i sacrifici, nonostante siano pronti, in realtà si sono ritrovati vincitori perché qualcuno ha deciso così. Per delle logiche che continuano a esulare dalla loro preparazione e ricerca. Tutti penseranno che tu, come tutti, il posto non te lo sei guadagnato. Puoi urlarlo forte quanto vuoi, ma nessuno ti crederà. Tutti ti vedranno come l'abusivo, il solito infame”.

Assegnazione dei fondi. Specchietti per le allodole. “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto alimentato dal blasone dei docenti unitisi (professori che magari fino al giorno prima neanche si salutavano). Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie (pubblicazioni, acquisto di pc all’ultima moda ecc.). Che fine fanno i ragazzi coinvolti? Bene che vada si spartiscono le briciole”.

Libri universitari. Self–publishing.“Molti docenti scrivono libri che poi adottano a lezione, naturalmente, e molto spesso gli editori glieli fanno pagare fino all’ultimo centesimo, della serie “Ti pubblico, ma tu devi comprarne 5 mila copie”. Ma mica li acquistano con portafogli personali, i suddetti saggi; no, ordinari e associati amano invece attingere liberamente dai fondi di dipartimento, che pure magari erano destinati a qualche ricerca seria e pluripremiata”.

Cultore della materia. Il purgatorio dei tuttologi. “Più in basso ancora di assegnisti e dottorandi, c'è la figura del “Cultore della materia”: per permetterti di affiancare un Prof. in università se non hai titoli tuoi, questo ti fa "cultore", e tu così guadagni il diritto di aiutarlo in aula con gli esami o addirittura di fare lezione. La cosa divertente è che la decisione del docente è insindacabile. E così se un domani il tuo supervisor decide che tu debba essere un cultore in Fisica applicata o Letteratura greca medievale, e lo fa soltanto perché gli servi… il giorno dopo tu sarai legittimato ad andare in Aula a parlarne. Anche se non ne sai un fico secco”.

Didattica. Il fanalino di coda. “Viene vista come un fastidio. Un intralcio. È che da noi diventi docente solo dopo aver fatto il ricercatore. Ma il ricercatore dovrebbe fare ricerca, e il docente insegnare. Ci vorrebbe una separazione delle carriere. Un ottimo ricercatore può essere un pessimo docente, e viceversa”.

Seminari e riviste. Tutto fa brodo. “Spesso i dipartimenti organizzano seminari (sempre coi soldi dei fondi) il cui unico scopo è quello di presentare i propri lavori, perché così quel lavoro finirà dritto ne "gli atti del convegno", che è una pubblicazione, e che quindi va a curriculum, fa massa, valore, prestigio, carriera, altri soldi. C’è una lunga teoria di riviste che esistono solo per pubblicare gli atti di questi convegni: periodici clandestini, che pubblicano indiscriminatamente. Ci sono poi dipartimenti che le riviste se le creano da sé. È un circuito drogato, che lievita, ma su impasti veramente fragili. Basti vedere i curriculum dei docenti italiani: le pubblicazioni sulle riviste internazionali, quando ci sono, sono messe in bella mostra, mentre quelle sulle riviste nazionali vengono liquidate sotto la dicitura “altre pubblicazioni”... Come se ce se ne vergognasse”.

I baroni regnano sull'università. Raccomandazioni, scambi di favori, meriti negati, titoli ignorati. Il concorsone per scegliere i professori è sommerso di ricorsi. Il consiglio di stato ha accolto le proteste di un bocciato e potrebbe annullare l’intera tornata di nomine. Ecco come naufragano gli atenei italiani, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Ah porci!”, esclamò Perpetua. “Ah baroni!”, esclamò don Abbondio». I lanzichenecchi che distrussero la Lombardia nel 1630 Alessandro Manzoni li chiama proprio così, «baroni». Dal latino “baro - baronis”, termine che, dice la Treccani, indicava “il briccone, il farabutto, il furfante”. I mammasantissima delle nostre facoltà non hanno portato la peste come i soldati tedeschi che assediarono Mantova, ma di certo il loro dominio incontrastato ha contribuito a devastare l’università italiana. Dove, al netto delle eccellenze e dei tanti onesti, è sempre più diffuso il morbo del familismo, della raccomandazione e del corporativismo, a scapito del merito, delle capacità dei più bravi, della fatica dei volenterosi. Per i baroni la strada maestra per mantenere il potere e gestire il reclutamento è, ovviamente, quella di controllare i concorsi. Come dimostra l’inchiesta “Do ut des” della procura di Bari, che sta indagando per associazione a delinquere decine di professori di diritto costituzionale: «Carissimo, consegno un’umile richiesta al pizzino telematico. Ti chiederei il voto per me a Roma... sono poi interessato a due concorsi di fascia due, d’intesa con Giorgio che ha altri interessi. Scusa per la sintesi brutale, ma meglio essere franchi. A buon rendere. Grazie», si legge in una mail che il bocconiano Giuseppe Franco Ferrari ha mandato qualche anno fa a un collega, missiva ora al vaglio della Guardia di Finanza. La riforma Gelmini varata nel 2010 doveva mettere fine agli scandali e modernizzare finalmente gli italici atenei, da tempo in coda a ogni classifica delle eccellenze europee. Ahinoi, non sembra essere andata come si sperava. La nuova abilitazione scientifica nazionale (che ha da poco chiuso la tornata del 2012: i promossi a professori di prima e seconda fascia sono quasi 24 mila, i bocciati circa 35 mila) è stata un flop colossale. Nonostante un costo stimato superiore ai 120 milioni di euro, il concorso ha generato proteste a catena, incredibili favoritismi, migliaia di ricorsi al Tar e - come risulta a “l’Espresso” - anche i primi esposti mandati alle procure. La lista di presunti abusi basta leggere le accuse che arrivano da ricercatori esclusi, docenti e persino premi Nobel - è impressionante: se in qualche caso sono stati promossi candidati che vantano solo dieci citazioni (in articoli e pubblicazioni varie) a discapito di altri che ne hanno oltre seicento, tre commissari di Storia medioevale avrebbero truccato i propri curriculum attribuendosi monografie mai scritte pur di far parte della “giuria”. A Storia economica, invece, sono stati esclusi specialisti apprezzati in tutto il mondo, ma privi evidentemente dei giusti agganci: un gruppo di dodici studiosi stranieri, tra cui un Nobel, hanno così spedito al ministro Stefania Giannini una lettera indignata in cui si dicono «inquietati» dall’esito delle selezioni. I casi sono decine: da archeologia a biochimica, da architettura a chirurgia, passando per storia economica e latino, quasi in ogni settore sono stati denunciati giudizi incoerenti e comportamenti al limite dell’etica. Che spesso nascondono, sussurrano i ricercatori frustrati, la volontà dei baroni di cooptare, al di là delle reali capacità dei singoli, i predestinati e gli “insider”, cioè i candidati già strutturati nelle facoltà. Andiamo con ordine, partendo dal concorso di Diritto privato. L’abilitazione è finita sulle pagine di cronaca perché il commissario straniero (il membro Ocse è una delle novità più rilevanti della riforma) parlava solo spagnolo. Come abbia fatto Josè Miguel Embid a leggere e valutare i complessi tomi di diritto prodotti dai candidati è un mistero. “La conoscenza della lingua italiana”, ha spiegato in una nota il ministero dell’Istruzione, “non è prevista dalla legge”. I giudici del Consiglio di Stato si sono però fatti beffe delle giustificazione, hanno accolto un ricorso sul merito e sospeso tutto. Le stranezze non si contano. Se il commissario Maria Rosaria Rossi, ordinaria a Perugia, prima di essere sorteggiata componente della commissione aveva annunciato di voler sabotare la riforma Gelmini («a chi lavora nell’università spetta ora il compito di operare interstizialmente tra le pieghe della legge e oltre la legge stessa e sperimentare pratiche quotidiane di sabotaggio dell’ideologia che la sostiene», ha ragionato carbonara sul “Manifesto”), il ricercatore napoletano Andrea Lepore è stato promosso anche se il giudizio scritto, inizialmente, sembrava ipotizzare ben altro epilogo: «La qualità della produzione è limitata sotto il profilo dell’originalità e dell’innovatività, nonché per il rigore metodologico... Si rinvengono, tra l’altro, ampie frasi riprodotte alla lettera da lavori di altri autori precedentemente pubblicati». Andrea Lepore, in pratica, è accusato di essere un copione. Da promuovere, però, «all’unanimità». Francesco Gazzoni, professore della Sapienza e maestro indiscusso della materia (è suo il manuale di Diritto privato più venduto d’Italia), all’abilitazione nazionale ha dedicato un saggio, intitolato “Cooptazioni: ieri e oggi”: «Il potere accademico è una vera e propria piovra mafiosa», si leggeva sulla rivista online “Judicium” prima che l’articolo fosse repentinamente rimosso. «Cooptare, in sé, non è un male, lo diventa quando la scelta avviene, come sempre avviene, in base a criteri che prescindono dal merito... I professori di università sono novelli Caligola, con in più il fatto di promuovere, all’occorrenza, anche asini patentati in difetto di cavalli». Il luminare fa nomi e cognomi, e se la prende con l’intera commissione di Diritto privato «inidonea a giudicare, essendo priva di autoritas sul piano scientifico». I più bravi, in sintesi, sarebbero stati bocciati perché «non avevano un’adeguata protezione accademica e perché non tutti i commissari erano in grado di leggere e capire i loro titoli». Forse il professore esagera, ma di certo qualche candidato di Diritto privato è stato più fortunato di altri. Come l’avvocato Claudia Irti, che ha scoperto che il presidente della commissione, Salvatore Patti, era stato suo tutor alla tesi di dottorato. Un conflitto di interesse non da poco per il docente, tanto più che è la Irti in persona a rispondere al telefono della sede milanese dello studio Patti: «Sì, sono stata promossa, ma ci tengo a dirle che io non lavoro per il professore. Perché rispondo al telefono del suo studio? È una situazione particolare, a Milano presidio la sede, ma faccio solo da rappresentanza. Il professore si sarebbe dovuto astenere dal giudicarmi? Significa che tutte le persone che collaborano con i membri della commissione non avrebbero dovuto presentare domanda al concorso. Le assicuro che sono tante». È il sistema, dunque, a permettere che possa accadere di tutto: se Patti, oltre alla Irti, ha potuto valutare i titoli di tre magistrati di Cassazione che potenzialmente possono essere giudici delle sue cause (tutti abilitati), il collega Francesco Prosperi dell’Università di Macerata ha promosso a ordinario il giovane Tommaso Febbrajo, un tempo suo allievo, e figlio dell’ex rettore dell’ateneo dove lo stesso Prosperi insegna. Non è un caso che il concorso di diritto privato conti già un centinaio di ricorsi al Tar. Un professore associato dell’università di Tor Vergata, Giovanni Bruno, ha già avuto soddisfazione dal Consiglio di Stato. I magistrati hanno accolto alcune censure decisive, tanto che qualcuno ipotizza che l’intero svolgimento dell’abilitazione nazionale sia a rischio: il regolamento ministeriale pubblicato nel 2011 sarebbe illegittimo, perché avrebbe dato alle commissioni un eccesso di discrezionalità nella valutazione dei candidati. Bruno ha pure mandato un esposto alla procura di Roma, accusando Prosperi di non aver partecipato a una delle riunioni in cui si definivano i giudizi: a leggere un programma accademico dell’Università di Macerata, risulta che il 29 novembre 2013 il sociologo abbia partecipato (almeno fino alle 13) a un convegno nelle Marche. Anche un altro candidato trombato, l’avvocato Giuseppe Palazzolo, ha mandato una denuncia ai pm (stavolta a Napoli) in cui chiede il sequestro della piattaforma elettronica usata dai membri della commissione. Già, alcuni candidati avrebbero voluto controllare se i loro giudici hanno davvero letto i loro titoli (mandati in formato elettronico) o abbiano promosso e bocciato alla cieca, senza nemmeno effettuare il download. Il ministero ha rigettato, però, tutte le richieste d’accesso ai tabulati. Nel 1898, in una cronaca del “Corriere della Sera”, si raccontava che il ministro della Pubblica istruzione del governo Pelloux, Guido Baccelli, “impaurito e seccato dagli scandali occorsi nelle commissioni chiamate a giudicare pe’ i concorrenti alle cattedre vacanti d’università, abbia in animo di abbandonare il sistema adottato quest’anno per l’elezione delle commissioni”. Cos’era successo? “Qualche concorrente” spiegava il cronista “non aveva trovato miglior mezzo per riuscire, di domandare la mano di sposa alla figliola di un commissario: il matrimonio si combinava per il dopo concorso; il fidanzato, manco a dirlo, riusciva primo, e festeggiava in un giorno medesimo la cattedra e la moglie”. Dopo centosedici anni e una quindicina di riforme, dopo gli scandali dell’ultimo ventennio (citiamo quelli che travolsero il concorso nazionale del 1993, le inchieste che hanno svelato le appartenenze militari alle cosiddette “scuole” e le tristi vicende dei concorsi locali, dove spesso e volentieri il candidato indigeno vince a mani basse), il legislatore sembra aver toppato anche stavolta. La legge 240, quella della riforma Gelmini, ha sì previsto dei parametri oggettivi che gli aspiranti avrebbero dovuto superare per passare l’esame (le cosiddette “mediane”), ma molti professori hanno deciso come sempre: di testa loro. In effetti gli studiosi della “Voce.info” hanno scoperto che per i concorrenti con un profilo scientifico più debole “la conoscenza di un membro della commissione ha migliorato significativamente le chance di successo”. A parità di curriculum, per esempio, in Politica economica “gli insider hanno avuto il 14 per cento di probabilità in più” di passare rispetto a coloro che non frequentano gli atenei, una percentuale che sale al 23 per cento in Scienza delle finanze. Polemiche a go-go anche nella macroarea di Archeologia, dove un gruppo di accademici (tra cui Salvatore Settis, Fausto Zevi ed Ermanno Arslan) hanno scritto una lettera in cui prima attaccano «lo strumento mostruoso delle mediane, ridicolo artifizio blibliometrico che rinuncia alla qualità e fa discendere i giudizi delle quantità», poi se la prendono con i colleghi della commissione, che avrebbero aiutato le scuole più forti «privilegiando alcuni candidati, non sempre di evidente alta qualità, e danneggiato altri, con scelte valutative a dir poco opinabili». «I talenti sono stati bocciati, i “peggiori” sono stati sistematicamente promossi, anche a Latino» ha attaccato l’ordinario perugino Loriano Zurli. Un meccanismo che non solo è amorale ma anche anti-economico, dal momento che il rilancio dell’università e della ricerca sono fondamentali - secondo tutti gli esperti - per la crescita della ricchezza nazionale. Se il professore di Biochimica Andrea Bellelli definisce «una farsa» il concorso del suo settore e ricorda che «uno dei cinque commissari sorteggiati pare non avesse le mediane», un gruppo di prof e ricercatori dell’associazione Roars (presieduta da Francesco Sylos Labini) ha sottolineato alcune scellerate scelte dell’Anvur che ha considerato “scientifiche” ben 12.865 riviste tra cui spiccano “Alta Padovana” del Comune di Vigonza, “Delitti di carta” specializzata nella giallistica, “L’annuario del liceo di Rovereto”, il mensile della parrocchia di San Domenico, “Cineforum” e “Stalle da latte”. Ma è capitato di peggio. A Progettazione architettonica i commissari hanno fatto letteralmente a pezzi alcuni candidati pubblicando online giudizi (leggibili da tutti) in bilico tra ironia e insulto. Il professor Giuseppe Ciorra, ordinario all’università di Camerino, bocciando una ricercatrice a Torino scrive, letteralmente, che «la candidata non è scema, ha dimestichezza con la scena internazionale e rivela curiosità in tutte le direzioni... Incoraggiabile ma non recuperabile, temo». Il collega Benedetto Todaro ha definito una collega associata di Napoli, Emma Buondonno, una «candidata sconcertante, che si impegna volenterosamente in lavori completamente privi del necessario acume critico». Ciorra (che arriva a liquidare un esaminando con un definitivo «sparisca, per favore»), sembra assai più gentile quando si tratta di valutare candidati che conosce di persona. Quando è costretto a bocciare la sua ex dottoranda Rita Giovanna Elmo spiega che lo fa «con dolore umano», mentre non si fa specie nel promuovere (il suo sarà l’unico “sì”) Anna Rita Emili, ricercatore in forza alla sua stessa università poi bocciata da tutti gli altri colleghi. La Emili si può consolare, è in ottima compagnia: la commissione ha fatto fuori i migliori progettisti italiani. Anche stavolta qualcuno si è lagnato con la Giannini: l’Associazione italiana di Architettura e critica «manifesta un totale dissenso contro qualsiasi atteggiamento sessista e maschilista della commissione d’esame volto a schernire le ricercatrici. Suggeriamo ai membri della commissione di mostrare anche più rispetto, in futuro, per la grammatica italiana». Il barone che sbaglia le congiunzioni, in effetti, è davvero troppo.

Ma quant'è bella la vita dei docenti universitari. In un pamphlet in libreria in questi giorni, Stefano Pivato traccia un ritratto tagliente e autocritico della tribù degli ordinari, associati e ricercatori, immutabile e soprattutto insondabile, scrive Maurizio Di Fazio su  “L’Espresso”. È alto il tasso di mortalità studentesca negli atenei italiani. La colpa viene di norma attribuita agli studenti stessi; e delle responsabilità didattiche dei docenti universitari nessuno dice niente. “Al limite della docenza” di Stefano Pivato, “piccola antropologia del professore universitario” (Donzelli Editore), ricalibra questo assunto. Ed è un ritratto-pamphlet divertente, tagliente e autocritico della tribù degli “ordinari, associati e ricercatori”, immutabile e soprattutto insondabile. L’autore, certi aspetti, atteggiamenti, tic identitari e collettivi, li conosce bene, dall’interno: insegna lui stesso, da quarant’anni, Storia contemporanea all’università. Ha ricoperto anche il ruolo di rettore. Entrò in ruolo subito dopo la “liberazione del ’68”. Misteriosa creatura stanziale, a differenza di quanto accade in America o nel resto d’Europa: addio clerici vagantes, “il docente, nella generalità dei casi, si laurea, cresce e progredisce in carriera nella stessa università”. Ma i nostri radar letterari non l’hanno mai intercettato: De Amicis narrava di un maestro elementare e Don Milani di insegnanti delle scuole medie. Idem al cinema: tranne “Morte di un matematico napoletano” di Mario Martone, non viene in mente altro. La stessa cronaca si ricorda dell’“homo academicus” nostrano solo quando c’è da rovistare dentro casi di parentopoli, concorsi truccati e “sex for 30” sul libretto. Eppure la prima Università occidentale è tricolore, quella di Bologna risale, infatti, al 1088; e subito dopo la Chiesa, l’Accademia è la più antica tra le istituzioni, “nel tempo ha perfezionato i propri meccanismi, chiusi e non contaminati col mondo esterno, fino a renderli perfetti. Anche nelle loro storture” scrive Pivato. Fuori dal tempo, statico ma adattivo, il barone o baronetto nazionale è il più anziano del Vecchio continente: anche adesso che la sua età pensionabile è stata anticipata a 70 anni, tra i lamenti dei 75enni e le invidie dei non ancora quarantenni che restano una frangia simbolica, il 12 per cento del totale. In “Al limite della docenza”, Stefano Pivato apre passando in rassegna i fondamentali “tipi da cattedra”. Come il prof. “Come sto io?”. “Solitamente, quando due persone si incontrano, si chiedono vicendevolmente Come stai? Una certa tipologia di docente, se ti incontra, senza chiederti nulla, ti dice “Come sto io?”. Segue elencazione dei saggi che ha scritto, dei convegni a cui ha partecipato, delle lodi che ha ricevuto. “L’Accademia è fatta così. Ancor prima che di riconoscimenti scientifici, si nutre di solleticamenti a uno smisurato ego”. L’egolatria, e la vanità, sarebbero le due pietre angolari della mentalità del docente. Insieme a un’eterna conflittualità tra simili: “Litigo, dunque sono”. “Litigare è una forma assoluta per certificare la propria presenza; e magari, giustificare la propria assenza”. Così i professori più attaccabrighe sono spesso i più assenteisti. E in pochi ambienti come quello accademico l’insinuazione maliziosa, la diceria, la diffamazione giocano un ruolo tanto importante. Proliferano, come cellule impazzite che si penserebbero radicate in ben altri strati della società, le lettere anonime; vedersi dare dello iettatore può pregiudicare una carriera già avviata. I docenti universitari si sentono tutti autori di bestseller, anche se “hanno pubblicato presso un anonimo stampatore” e si ingegnano in mille modi per costringere i propri studenti a comprarne qualche copia. Uno dei loro mantra più comuni, al ritorno da una lezione, è questo: “Era piena zeppa di studenti” . In verità, a volte, non c’era quasi nessuno. Il “tribalismo universitario” si è formato e consolidato nel corso dei secoli. Ecco allora il “Chiarissimo” (professore ordinario), il “Magnifico” (rettore), l’“Amplissimo” (preside di facoltà). Anche l’apparato iconografico non scherza, e non muta. La liturgia del potere non conosce strappi. Potere talvolta lungo una vita: ci sono stati rettori che hanno governato per decenni. Non appena possibile, gli Insegnanti Massimi sfoggiano toghe, ermellini e altri paramenti. E se c’è un qualcosa che li manda in visibilio, è la parola (sempre più in disuso) “concorso”. “Perché il concorso gratifica il vincitore ma, in misura non minore, anche chi lo fa vincere”. Il docente-tipo necessita di uno spazio sempre più agevole: anche se ha pochi studenti, vuole un’aula più grande e uno studio personale sconfinato. È singolare la sua concezione del tempo. Il semestre universitario dura circa tre mesi e mezzo, e l’ora quarantacinque minuti. E “talvolta, secondo un’antica consuetudine, se ha impegni di varia natura e deve chiudere in fretta”, reintroduce d’imperio la lectio brevis. Sui generis anche la sua settimana lavorativa, che copre la prima o la seconda parte, in corrispondenza delle ore di lezione:  “per chi svolge la lezione durante la prima parte, la settimana inizia il lunedì pomeriggio e termina il mercoledì mattina; per quanti svolgono lezione nella seconda parte, la settimana inizia il mercoledì pomeriggio e termina il venerdì mattina”. Bella la vita del professore universitario nella penisola, impiegato pubblico a se stante, “non esistono cartellini da timbrare e gli impegni di lavoro sono interpretati in maniera alquanto lasca”. Il suo obbligo è di 350 ore annue, cifra che comprende le lezioni, le attività collegiali e le commissioni d’esame e di laurea. Il carico di lezioni può oscillare invece tra le 60 e le 120 ore, soglia molto più bassa di quella di un qualsiasi suo omologo europeo: 192 ore in Francia, 240 in Gran Bretagna, da 248 a 279 in Germania, da 252 a 360 in Spagna. E le stravaganze non cessano qui: “alcuni docenti mettono in calendario la prima lezione settimanale alle 18 e la seconda alle 8 del mattino successivo, esaurendo così, in breve tempo, la loro permanenza settimanale in Facoltà”. Tanto i codici etici introdotti dalle singole università sono, più che altro, petizioni di principi: le sanzioni restano sulla carta, e i docenti peggiori e improduttivi al loro posto. Anche se questo significa un cospicuo danno d’immagine e un minore trasferimento di risorse all’ateneo interessato. Stefano Pivato racconta poi che ai professori universitari come lui non viene richiesto di essere abili nell’insegnamento. Come se conoscere equivalesse automaticamente a saper insegnare. L’esame di abilitazione nazionale se ne disinteressa; i metodi sono cristallizzati ad almeno un secolo fa. In tempi in cui tutto scorre vorticosamente, sarebbero consigliabili nuove strade, ma invece si ricorre ancora alla lezione ex cathedra, “che è rimasta la stessa, di fronte a un pubblico di studenti aumentato a dismisura dal punto di vista quantitativo e qualitativo”. Mille anni dopo la fondazione dell’Università bolognese, a quindici anni di distanza dalla “riforma-spezzatino Berlinguer”, e a un tiro di binocolo dalla babelica “riforma Gelmini”, per l’opinione pubblica esterna “il docente è misurato dalla validità dei suoi studi, dall’attenzione che ricevono i suoi libri e dal prestigio delle case editrici che li fanno uscire”. Per la tribù universitaria, invece un docente vale esclusivamente per la funzione che occupa all’interno dell’Accademia. Anche se ha pubblicato un solo libro in decenni di “ricerca e insegnamento”. Anche se è di destra. O di sinistra. “Per la sua strenua difesa del territorio, dell’identità e dello jus loci è assimilabile al tipo antropologico leghista”. O lepenista. Uscire dal guado e aprirsi al mondo, anche fisicamente. Più doveri e meno diritti acquisiti. Perché “prima di qualsiasi riforma, bisogna riformare se stessi”. E perché spetta a loro il compito di formare le classi dirigenti del futuro. È questa la proposta, docente, di Stefano Pivato. 

Università, paradossale guerra ai fuori corso. "Gli atenei finiranno per regalare gli esami". Il ministero, nell'erogare i fondi, adesso penalizza i centri con troppi studenti in ritardo con le materie. E a subire le peggiori decurtazioni sono le grandi università. Che, per correre ai ripari, hanno solo due strade: aumentare le tasse o promuovere con più facilità, scrive Roberta Carlini su “L’Espresso” Caccia grossa al fuoricorso. L’eterna lamentela sul numero eccessivo di studenti italiani che non si laureano “in tempo” è diventata un problema contabile serio. Da quando dalle stanze ministeriali è uscita la tabella che assegna i fondi pubblici agli atenei, mettendo in pratica la grande novità del “costo standard per studente in corso”. Che di fatto cancella dall’università italiana almeno 700.000 persone, perché fuori corso. Risultato: gli atenei con maggior numero di studenti che non si laureano nei tempi dovuti hanno un danno economico consistente, e crescente. E crescono i timori per due conseguenze perverse del nuovo meccanismo: da un lato, l’aumento a tappeto delle tasse per i fuori corso; dall’altro, la tentazione di abbassare l’asticella delle prove d’esame, in modo da accelerare il percorso verso la laurea. “Nella nostra università ci sono circa 20mila studenti fuori corso: è pensabile che non pesino per niente? A loro non dobbiamo dare servizi, offerte, insegnamenti?”. Il rettore di Pisa Massimo Mario Augello è stato uno dei primi a protestare contro le nuove regole. L’ateneo che lui guida è uno dei più penalizzati: “non è questione di virtuosi o no”, afferma, ricordando classifiche internazionali sulle università che vedono Pisa tra le prime italiane. Il problema è un altro: “il numero dei fuori corso è più alto nei grandi atenei, quelli con un bacino di utenza più ampio”. Se in percentuale, nella classifica delle università, abbiamo quote di fuori corso superiori al 40 per cento in molte piccole università soprattutto del Sud, sopra la media ci sono anche alcune grandi, dalla Sapienza di Roma all’università di Pisa, da Napoli a Palermo.

I dati per singolo ateneo si possono vedere nel grafico: il numero degli studenti in corso è quello risultante dalla tabella di ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario 2014, mentre il numero complessivo degli iscritti è da Anagrafe degli studenti. Tutti i dati si riferiscono all’anno accademico 2012/2013.

Atenei dai numeri imponenti, nei quali gli studenti messi fuori con il nuovo calcolo dei fondi sono migliaia e migliaia: alla Sapienza si “perdono”, ai fini delle entrate di bilancio, 42 mila iscritti, a Palermo 20 mila, alla Federico II di Napoli oltre 30 mila, alla Statale di Milano 18.000. In soldi, la differenza è dolorosa: per fare un esempio, la prima università d’Italia e d’Europa, la Sapienza, ha perso una decina di milioni di euro di fondi con il nuovo meccanismo. E siamo solo all’inizio: infatti se per quest’anno solo il 20 per cento del finanziamento è attribuito sulla base di questo calcolo, entro cinque anni si salirà al 100 per cento. Cioè, i fuori corso saranno solo un “peso morto” per gli atenei, un costo che c’è ma non conta nulla ai fini del finanziamento pubblico. “Il problema si può risolvere alla radice, con decreto del rettore: regaliamo ogni anno un esame a ogni studente, così molti di più si laureano in tempo”, ha detto provocatoriamente il rettore di Pisa. Ma non è solo una battuta. Anche il Cun – il Consiglio universitario nazionale – ha denunciato il rischio di “comportamenti non virtuosi per ridurre il numero degli studenti fuori corso”. Che vuol dire? Un occhio più benevolo nella valutazione degli esami? “Qui a Milano abbiamo circa 18 mila fuori corso: cerchiamo di ridurli, investendo su orientamento, diritto allo studio, tutoraggio, servizi – dice Giuseppe De Luca, prorettore alla didattica della Statale di Milano - Ma molti piccoli atenei non hanno un soldo per fare queste cose, potrebbero reagire semplicemente abbassando l’asticella degli esami”. Perché spesso un alto numero di fuori corso deriva dalla serietà e selettività delle lauree. O anche dal fatto che si tratta di studenti lavoratori. O addirittura “che hanno impiegato più tempo perché sono andati a fare degli Erasmus”, denuncia Alberto Campailla della rete Link degli studenti. “Tutti questi diventano fantasmi, non esistono. E però pagano sempre di più”, aggiunge Campailla. E’ questa l’altra possibile conseguenza “non virtuosa” del nuovo meccanismo. Infatti, dai tempi del governo Monti le università hanno meno vincoli nell’aumento delle tasse: se in generale i contributi chiesti agli studenti non possono salire oltre una certa quota del Ffo, per i fuori corso il tetto è saltato. Risultato: i soldi persi per “eccesso” di fuori corso si possono recuperare tassando il loro ritardo. Già in alcuni atenei questi pagano di più degli altri: alla Sapienza, dopo il terzo anno fuori corso si paga il 50 per cento in più; anche Palermo ha introdotto un aggravio per chi non si laurea in tempo, che era allo studio anche a Pisa ma è stato bloccato in extremis. “Lo abbiamo rifiutato, è un modo per fare cassa che non riteniamo giusto – dice il rettore Augello – Ma questo è uno degli effetti distorsivi delle nuove regole: tutte le università stanno guardando al serbatoio dei fuori corso per cercare risorse”. Chi è stato alle ultime riunioni dei rettori, dopo la stangata del “costo standard”, racconta che l’idea di aggravare la tassazione sui fuori corso è generalizzata. Giustificata da urgenze di cassa, e dal fatto che è una delle poche leve che gli atenei hanno; e dal vecchio stigma su quelli che l’allora sottosegretario Michel Martone (governo Monti) definì “gli sfigati”. Mentre cresce il numero di quanti lavorano e studiano, o restano indietro per altri motivi, spesso riconducibili proprio alla disorganizzazione delle università. “Il concetto di fuori corso è cambiato – dice Guido Fiegna, già direttore generale del Politecnico di Torino ed esperto dei numeri dell’università italiana – già si farebbe molta pulizia se si utilizzassero di più le iscrizioni a part time, per gli studenti lavoratori, per le quali però le università fanno resistenza, proprio per non perdere iscritti e fondi”. Non solo: “non si capisce perché nel costo standard si calcolano solo gli studenti iscritti ai corsi, e non chi sta facendo il dottorato di ricerca, come se questi non studiassero”.

Ha dichiarato di essere pronto a tornare in politica e di guardare con attenzione a Landini. Pensa si aprirà davvero un nuovo spazio politico a sinistra del Pd?

«Credo che il nostro Paese abbia bisogno che emerga una nuova soggettività politica progressista, popolare e di sinistra. Mi sento politicamente vicino a Landini e Rodotà, e sono pronto a dare il mio contributo per la costruzione di una coalizione sociale per l’equità, la lotta alla criminalità organizzata e ai reati dei colletti bianchi».

Helg, Montante e gli altri: le carriere antimafia finite tra accuse e sospetti, scrive Giuseppe Pipitone su “Il Fatto Quotidiano”. L'arresto del presidente della Camera di Commercio di Palermo, che denunciava le estorsioni ed è ora accusato di praticarle, riapre in Sicilia la polemica sui "professionisti dell'antimafia". Fava: "Troppe protezioni e impunità". Don Ciotti: "Solo un'etichetta". E l'impegno autentico per la legalità rischia di essere travolto. Da anni predicava la necessità di combattere il “pizzo” imposto da Cosa Nostra agli esercenti palermitani, si faceva promotore di iniziative antimafia e ingaggiava rumorose polemiche per sottolineare il coraggio di chi denunciava le estorsioni dei boss. Attività che avevano consentito a Roberto Helg, da quasi dieci anni presidente della Camera di Commercio di Palermo, di entrare di diritto nei ranghi del movimento antimafia: peccato che nel frattempo sia finito in manette per aver chiesto e intascato una tangente da centomila euro da un commerciante che chiedeva il rinnovo dell’affitto di alcuni locali dell’aeroporto del capoluogo.Scalo intitolato a Falcone e Borsellino, simboli della lotta a Cosa Nostra, citati a più riprese nelle iniziative presenziate da Helg. Abbandonato oggi persino dal suo legale, che giudica “incompatibile” questa difesa. Il motivo? L’avvocato Fabio Lanfranca ha scelto da anni di assistere le vittime di estorsione: lo stesso reato denunciato da Helg, ma di cui ora è accusato. Solo l’ultimo emblema di un pericoloso fenomeno, un cortocircuito paradossale che rischia di polverizzare l’intero fronte della lotta a Cosa Nostra: l’antimafia utilizzata come status, un carrierismo  colorato da slogan e iniziative contro la criminalità organizzata che punta solo ad occupare luoghi di potere. “Occorre chiedersi cosa sia diventato oggi il fronte antimafia in Italia e  come abbia prodotto e protetto troppe carriere e troppi spazi di impunità” è il commento del vice presidente della Commissione Antimafia Claudio Fava. Gli fa eco il senatore ex M5S Francesco Campanella che sottolinea come oggi “chi gestisce sacche di potere possa farlo ergendosi a paladino e professionista di un’antimafia di facciata”. Un concetto già descritto pochi mesi fa da don Luigi Ciotti: “L’antimafia – diceva il fondatore di Libera – è ormai una carta d’identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione. L’etichetta di antimafia oggi non aggiunge niente. Anzi”. E quell’ “anzi” lasciato sospeso richiama immediatamente all’allarme lanciato da Leonardo Sciascia dalle pagine del Corriere della Sera il 10 gennaio del 1987: nell’ormai celebre articolo sui professionisti dell’antimafia, lo scrittore di Racalmuto mise nel mirino gli esempi sbagliati (cioè la nomina di Borsellino a procuratore di Marsala) ma intuì prima di tutti, in tempi non ancora maturi, ciò che oggi è diventato un sistema diffuso. Parole profetiche diventate adesso più che mai attuali. Il primo caso della mafia che si fa antimafia va in scena a Villabate, nei primi anni duemila: l’associazione Addiopizzo era appena nata e Francesco Campanella, presidente del consiglio comunale della cittadina palermitana, ebbe l’idea di creare un osservatorio per la legalità, attribuendo persino un premio a Raoul Bova, interprete sul piccolo schermo del capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio, il carabiniere che arrestò Totò Riina. Peccato che Campanella fosse un mafioso (oggi è un collaboratore di giustizia), e che l’idea dell’Osservatorio fosse solo uno stratagemma per confondere le acque: la mafia che si fa antimafia, in quel caso con l’autorizzazione diretta di Bernardo Provenzano. E più cresceva la coscienza antimafia, con le associazioni antiracket e le denunce pubbliche che si moltiplicavano, più si diffondevano i casi in cui il paravento della legalità veniva utilizzato per fare affari e carriere. Pochi anni dopo l’escamotage di Campanella, all’imprenditore Pino Migliore era arrivato un consiglio: iscriversi ad un’associazione antiracket. Peccato che quell’indicazione provenisse dagli stessi estortori mafiosi del commerciante palermitano. In questo senso il caso di Helg è solo la sintesi estrema. Prima della mazzetta in tasca, prima dell’assegno ottenuto come garanzia dell’estorsione futura, Helg era rimasto alla guida dei commercianti palermitani, nonostante lui stesso non lo fosse più dal 2012, e cioè da quando la catena di negozi di famiglia aveva dichiarato fallimento. Ciò nonostante, l’etichetta di frontman dell’antimafia gli ha garantito la permanenza al vertice di Confcommercio. È così che il concetto di lotta a Cosa Nostra è diventato  passepartout per fare carriera. E poco importa se si tratti di una lotta di plastica, di cartapesta. Appena poche settimane fa era toccato ad un altro leader della lotta al racket messa in campo dagli imprenditori siciliani: Antonello Montante, presidente di Confindustria sull’Isola, delegato per la legalità dell’associazione di viale dell’Astronomia, membro (poi dimessosi) del direttivo dell’Agenzia per i Beni Confiscati. Da volto moderno dell’antimafia rampante Montante è finito trascinato addirittura in un’inchiesta per concorso esterno a Cosa Nostra: ad accusarlo non ci sono prove schiaccianti come per Helg, ma i verbali di ben cinque collaboratori di giustizia. Una storia che rimane ancora oggi a metà  tra il sospetto di un complotto politico giudiziario (in Sicilia si chiama “mascariamento”) e uno dei più grandi abbagli della storia antimafia recente. A garantire l’assoluta trasparenza di Montante era stato nel settembre del 2013 il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, intervenendo ad un dibattito a Chianciano Terme, proprio al fianco del presidente degli industriali isolani. “In Sicilia – aveva tuonato il magistrato – è in corso una campagna di delegittimazione della vera antimafia da parte di centri occulti che vogliono screditare chi fa antimafia con i fatti, come Confindustria, Fai e Addiopizzo”. Poi aveva aggiunto: “Questa campagna di delegittimazione, che è anche una strategia della tensione, potrebbe tradursi in attentati e azioni eclatanti”. Oggi Montante è indagato proprio a Caltanissetta, la procura di Lari, che se è rifugiato nel no comment. E se da Castelvetrano Giuseppe Cimarosa, cugino di secondo grado di Matteo Messina Denaro, annuncia la sua battaglia contro Cosa Nostra, ( e suo padre Lorenzo è considerato soltanto al momento un dichiarante), non ha ancora dato segni effettivi la presunta Rivoluzione di Rosario Crocetta, primo presidente di Sicilia dichiaratamente antimafioso, dopo che i suoi predecessori Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo sono finiti entrambi condannati per fatti di mafia. “La storia di Helg non ci riguarda, ma non possiamo tacere di fronte al fatto che in tanti, troppi, pensano che è venuto il momento di chiudere l’impegno antimafia, la denuncia della corruzione e che sia arrivato il tempo di una riappacificazione generale” tuona il governatore, che sembra fare dei precisi riferimenti che vanno oltre all’arresto di Helg. È noto come Crocetta abbia messo la lotta a Cosa Nostra e la battaglia per la legalità tra i primi punti del suo programma di governo: fino ad oggi non è stato sfiorato da nessuna indagine penale, ma dal Tar (sul caso Muos), fino alla Corte dei Conti ha ricevuto pesantissimi richiami a livello amministrativo. Come dire che la legalità non si annida solo nel condannare l’associazione criminale denominata Cosa Nostra. È il caso di Helg, nemico degli estortori mafiosi ed estortore freelance allo stesso tempo, secondo l’accusa. “Se un soggetto del genere parla di contrasto alla corruzione e poi viene arrestato per lo stesso reato il rischio vero è che si mette in discussione anche la battaglia oltre alle sue parole” dice oggi Raffaele Cantone, il magistrato campano che guida l’Anticorruzione. All’orizzonte dunque sembra spuntare il pericolo maggiore, e cioè che l’utilizzo spregiudicato del brand antimafia distrugga alla fine l’unico, vero concetto di opposizione a Cosa Nostra: quello che passa dalle scuole, dalle iniziative culturali, dalle denunce serie, che non fa affari e non fa carriere. Ma la cui credibilità è minata oggi dai professionisti dell’anti-antimafia: ovvero gli utilizzatori di slogan contro Cosa Nostra per fini privati, che alla fine depotenziano la vera lotta contro la piovra e le sue connivenze. Una perversa evoluzione dell’allarme lanciato da Sciascia che solo sull’Isola dei paradossi poteva vedere la luce. E d’altra parte la Sicilia rimane sempre una Regione dove, parafrasando Enrico Deaglio, chi si ferma alla quarta versione dei fatti è un superficiale.

"Stigmatizzo certa antimafia. Crocetta conosce il potere", scrive Roberto Puglisi su “Live Sicilia”. Il Pd, il governo, Cosa nostra, l'Europa. Intervista a Giovanni Fiandaca: "Essere contro la mafia significa fornire un sostegno acritico ai magistrati? L'intellettuale, per dirla con Norberto Bobbio, più che un dispensatore di certezze è un seminatore di dubbi".  “Rimane, peraltro, da chiedersi a questo punto quali concessioni lo Stato abbia in concreto finito col fare all'esito del tortuoso percorso trattativista, e quali effettivi vantaggi ne abbia tratto Cosa nostra. Proprio in un'ottica di risultato, è quello che rimane sfumato e che i pubblici ministeri non si sono sforzati di chiarire”. Giovanni Fiandaca, intellettuale, professore di diritto penale e docente a Palermo, candidato alle Europee per il Pd, ha sostanzialmente affermato che certa antimafia è nuda. E lo ha affermato da insospettabile uomo di centrosinistra, scrivendo tra l’altro alcuni densi saggi sulla trattativa Stato-mafia (da cui è tratto l'incipit) e su un processo dalla forte valenza simbolica. Con un tratto di penna ha demolito l'impalcatura dell'accusa, con una critica a tutto campo. Tanto è bastato per inscriverlo nella lista dei reietti. Fiandaca è andato oltre. Ha insistito. Ha tenuto conferenze sul tema. Qui spiega che cosa l'ha spinto ad affrontare anatemi e scongiuri, le usuali maledizioni destinate ai malcapitati che decidono di rompere un tabù. E' una spiegazione ragionata, più da studioso che da politico, che però contiene elementi appetibili per i titolisti di un quotidiano, perché sconfina, dall'accademia, nell'attualità. Il bersaglio è sempre quello: una certa idea dell'antimafia militante.

Professore, lei si mette a scrivere cose che riguardano il suo lavoro e viene attaccato da un settore ben delineato dell'opinione pubblica, diventando oggetto di editoriali ed esecrazioni. Perché?

“Perché taluni forse si sono sentiti traditi. Tuttavia io domando: cosa c'è di sconvolgente nel fatto che un professore di diritto critichi un processo e metta in ordine le sue osservazioni? Lo faccio per mestiere. O forse il mio mestiere dovrebbe essere quello di fornire un avallo fideistico a tutti i processi importanti? Sarebbe questa l'aspettativa?”.

Perché tanto livore contro di lei?

“Ho smontato il giocattolo. Critico il tipo di approccio di una specifica cultura antimafiosa, ne svelo gli impliciti presupposti di ordine culturale ed etico-politico, insomma decostruisco uno stile intellettuale. Essere contro la mafia significa fornire un sostegno acritico ai magistrati? L'intellettuale, per dirla con Norberto Bobbio, più che un dispensatore di certezze è un seminatore di dubbi; ciò ovviamente non gli impedisce di dare contributi costruttivi anche da un punto di vista tecnico”.

Era dai tempi del celebre articolo di Sciascia sui professionisti dell'antimafia che non si assisteva a una tale levata di scudi.

“Quello che scrivo, lo scrivo per contestare una visione dogmatica o bigotta dell’antimafia divenuta purtroppo negli ultimi anni una sorta di senso comune diffuso. C'è un ovvio riferimento a Sciascia, ai suoi avvertimenti. Mi pregio di definirmi sciasciano”.

Qual è la sua colpa massima?

“Io stigmatizzo un'antimafia irriflessiva, retorica, prevalentemente ritualistica e simbolica. Preciso subito, a scanso di equivoci: i simboli e i riti sono importanti. Testimoniano la condivisione di un insieme di valori, sono fattori di identità politica e culturale. Ma perché ciò sia vero è necessario che sussistano conseguenti comportamenti concreti. Quando si diffonde il sospetto – e questo sospetto è diffuso – che l’antimafia venga utilizzata come strumento di lotta politica o di potere, oppure diventi una scorciatoia per fare affari, allora la funzione simbolica viene di fatto contraddetta e si traduce in impostura, un tradimento di quanti hanno sacrificato la vita nella lotta alla mafia”.

Qual è il punto centrale della questione?

“Il vero problema oggi è come fare antimafia in modo intelligente ed efficace, aggiornando la cassetta degli attrezzi, affinando la tecnica di indagine, per mettere allo scoperto la forma più attuale e insidiosa del potere mafioso. Senza cercare di intentare, nello stesso tempo, processi globali alla politica e alla storia”.

Ci sono innumerevoli antimafie a disposizione sul mercato, l'una contro l'altra armata...

“Nessuno ha il diritto di stabilire una volta per tutte quale sia l'antimafia doc. Il pluralismo è una ricchezza. L'antimafia non deve costituire strumento di lotta e quindi di esclusione, perché in essa convergono valori – la liberazione dell'uomo dal potere violento, il rispetto della sua dignità e libertà – che rappresentano i prerequisiti etici dell'impegno politico. La mia concezione insiste sul fatto che tutti i possibili approcci all’antimafia dovrebbero essere non soltanto considerati legittimi in linea di principio, ma costituire la base di strategie, in concorrenza tra loro. In altri termini, i cittadini dovrebbero scegliere tra concrete politiche antimafia poste a confronto, e non in funzione del personale coefficiente di antimafiosità che il politico di turno attribuisce a se stesso più o meno arbitrariamente. Più fatti, meno annunci e meno recite mediatiche di militanza antimafia".

Qualche esempio, professore.

"Si discute molto di beni confiscati, di efficienze nella gestione delle aziende sequestrate e di Agenzia nazionale. Spesso, però, se ne discute male, e cioè a colpi di slogan, con toni scandalistici e non di rado con la coda di paglia, e cioè a difesa di interessi che con la lotta alla mafia hanno poco a che fare".

Entrando nel merito?

"Due questioni dirimenti: chi deve gestire i beni sequestrati fino a quando la confisca non passa in giudicato? Nel 2010 il Parlamento ha ritenuto di istituire l’Agenzia nazionale dei beni confiscati: a quattro anni di distanza nessuno può negare che è stato un fallimento. E io, insieme agli esperti, magistrati, prefetti e professori componenti della commissione ministeriale che ho presieduto, ritengo che bisogna correre ai ripari. L’Agenzia nazionale si occupi soltanto dei beni definitivamente confiscati per puntare a una rapidissima destinazione o vendita, ma lasci a magistrati, amministratori giudiziari e manager la gestione prima dell’acquisizione definitiva. So che il ministero dell’interno di Angelino Alfano è orientato a riaffermare la competenza dell’Agenzia anche nella gestione precedente alla confisca definitiva: significherebbe perpetuare diabolicamente nell’errore. In tali casi ha senso dividersi, discutere razionalmente la bontà delle soluzioni, senza polemiche sterili e velenose?".

La divisione è un vizio irrinunciabile.

"Le racconto un altro episodio che mi ha molto colpito, perché ha registrato un silenzio fragoroso della pur mitica Confindustria siciliana. Molti di noi ritengono, infatti, che oltre a sequestrare e confiscare le aziende irrimediabilmente compromesse da interessi mafiosi, sia necessario sviluppare una strategia nuova per intervenire con strumenti meno invasivi e più flessibili di sequestro e confisca, come il controllo giudiziario, prima che le mafie si impadroniscano delle imprese border line. Ebbene, il ministro Orlando pare che abbia accolto l’idea e stia per tradurlo in proposta di legge, da Confindustria non abbiamo ricevuto nessun segnale, nonostante più volte e pubblicamente interpellata".

Torniamo all'assunto: di concetti antimafiosi è disseminata la politica. L'antimafia, per esempio, è il biglietto da visita del governatore, Rosario Crocetta.

“Ribadisco che non condivido la tendenza perversa che è andata diffondendosi nella politica siciliana ad assumere il presunto tasso di antimafiosità personale come prevalente parametro di valutazione della capacità di governare. Per uscire dal generico, se ad esempio fosse vero che per Crocetta il numero di denunce presentate all'autorità giudiziaria rappresenti una ragione di preferenza per attribuire un incarico o una nomina d'assessore, rispetto al possesso di competenze specifiche, io non mi troverei affatto d'accordo”.

Mi pare che sia accertato. E che le scelte del presidente premino una diffusa capacità denunciante.

“E io non sono d'accordo, lo ripeto. Verosimilmente risponde a questa impostazione la nomina di Valeria Grasso alla guida della Foss. Una scelta criticabile e criticata con motivazioni che condivido pienamente”.

Qui siamo nel cuore del “crocettismo” se il termine le va bene.

“Dalla totalizzante visione antimafiocentrica del crocettismo deriva come conseguenza pressoché automatica che il massimo merito consista nell'assumere il ruolo di denunciante in servizio permanente effettivo e che la lotta alla mafia abbia come presupposto la rinuncia al primato della politica. D'altra parte, credo che, al di là di certe estremizzazioni o pose retoriche, neanche lo stesso Crocetta la pensi davvero così”.

E allora che fa? Simula?

“Crocetta conosce benissimo la logica del potere. Sa come va il mondo e in modo molto maggiore di quanto non voglia fare credere”.

Sta dicendo che l'antimafia del governatore è soltanto funzionale all'acquisizione e al mantenimento del potere?

(la risposta è un leggero sorriso)

Un suo saggio è dedicato a Loris D'Ambrosio, consigliere giuridico del presidente Napolitano, morto d'infarto dopo una martellante campagna giornalistica che lo chiamò in causa a proposito delle famose intercettazioni tra il presidente e Mancino.

“Lo conoscevo. Tra di noi era nato un rapporto di profonda stima. Era uno studioso competente, un grande uomo delle istituzioni”.

Possiamo considerarlo vittima di quella certa antimafia?

“Direi piuttosto così: tra le vittime indirette della mafia, ci sono purtroppo uomini sacrificati sull'altare di una micidiale interazione tra la macchina giudiziaria e il sistema mediatico”.

Dulcis in fundo, la belligerante dialettica tra il Pd siciliano e il presidente della Regione. Come la valuta?

“Mi preoccupa molto lo scenario di forti divisioni e contrapposizioni che si è creato. Ne risente la campagna per le Europee che viene strumentalizzata per le esigenze di due gruppi, tra chi vuole liberarsi a tutti i costi di Crocetta e chi a tutti i costi vuole stabilizzarne il potere”.

Possibile un'Antimafia del diritto? Scrive Fausto Raciti su “Live Sicilia”. L'intervento del segretario del Pd: "Il primo fatto che abbiamo sotto il naso, ma che nessuno vuole ammettere, è il fallimento del primato della società civile". Da quando è iniziato, il dibattito su cosa sia diventata l'antimafia siciliana è stato segnato da parole spesso oblique, allusive, incomprensibili. Non possono essere le indagini su Antonello Montante, né le inchieste della Commissione antimafia sull’antimafia medesima il tema della nostra discussione. I dossier, le insinuazioni, i sospetti rischiano di cancellare ciò che dovrebbe essere ovvio in uno stato di diritto: chi è indagato ha il diritto di difendersi ed essere considerato innocente fino all’ultimo grado di giudizio. Le stesse allusioni di Luigi Ciotti a nuove indagini lasciano sbigottiti. Per fare chiarezza è allora bene ripartire dalle premesse: non è dalle aule di tribunale che arriveranno le risposte su come ripensiamo l’antimafia, sui fallimenti della società civile e i compiti della politica. È molto più onesto porre il problema di cosa sia diventato questo campo di battaglia chiamato antimafia, come ha fatto Giovanni Fiandaca nel corso della difficile campagna elettorale delle elezioni europee, che non affidarsi alle parole di qualche pentito con l'obiettivo di allungare ombre senza affrontare il cuore del problema. Il primo fatto che abbiamo sotto il naso, ma che nessuno vuole ammettere, è il fallimento del primato della società civile e le storture che ci ha lasciato. L’antimafia, per come si è caratterizzata nella storia recente del nostro Paese, è il simbolo di una società civile che si è sostituita alla politica in nome di un marchio, della sua capacità di gestirlo e di una superiorità morale rivendicata nei confronti della rappresentanza democratica e finanche dello Stato. Un esempio -forse il più efficace tra i tanti possibili- è il protocollo aggiuntivo tra Confindustria nazionale e il Ministero dell’Interno di febbraio 2014 finalizzato all'accelerazione delle procedure per il rilascio della certificazione antimafia alle aziende che aderiscono all'associazione degli industriali. L’antimafia degli imprenditori che hanno scosso l’opinione pubblica e il potere siciliano si fa intermediazione, in sostituzione degli organi dello Stato. Come si può capire bene, è un problema di modello culturale, non di amicizie d’infanzia. Altro esempio è la battaglia che si sta consumando sulla gestione dei beni confiscati in cui, a modelli diversi, corrispondono distinti gruppi della grande famiglia -le liti in famiglia sono sempre le più feroci- antimafia. Nel frattempo il 90% delle aziende confiscate ha continuato a fallire regalando alla mafia uno dei migliori spot pubblicitari cui potesse ambire. A questa sostituzione della politica ha fatto sponda una parte della magistratura che ha trasformato l’antimafia in battaglia di parte, in tentativo di affermazione di una verità esclusiva e incontestabile: la candidatura di Antonio Ingroia alle elezioni politiche è stata, in ultima analisi, questo. La politica, per il suo verso, si è fatta volentieri utilizzare da un antimafia percepita come strumento di legittimazione per superare le proprie deficienze e non fare i conti con le proprie contraddizioni. Non ha, in definitiva, combattuto la propria battaglia. Esattamente come nel caso delle imprese nissene che hanno trovato in Confindustria il mediatore per ottenere i certificati antimafia, la politica si è messa in fila per ottenere indiscutibili certificati di moralità, cedendo sovranità. E’ passato il principio che migliore è la classe dirigente quanto più lontana è cresciuta dai meccanismi della rappresentanza democratica, dal consenso e dai partiti. E se fosse, allora, la politica che ha il compito di salvare l’antimafia da se stessa ritornando sulla scena? Tutto sommato, basterebbe ritornare alla finalità semplice, ma dirompente, dell'affermazione dello Stato di diritto e delle normali regole della concorrenza. L'antimafia si salva se è, e viene percepita, come strumento di liberazione, non di intermediazione né di lotta politica. Pena la perdita della propria credibilità. Il compito di chi governa è combattere l'anomalia mafiosa regalando normalità all'economia siciliana, non quello di rispondere attraverso la costruzione di un'altra anomalia. Il caso del presidente della Camera di Commercio di Palermo, colto in flagranza di reato mentre intasca una mazzetta da 100.000 euro, diventa illuminante quando scopriamo che le sue aziende erano fallite da tre anni. L'unico titolo di legittimazione per ricoprire quel ruolo gli veniva da un'esposizione pubblica come uomo dell'antiracket. Quello che in passato abbiamo chiamato "circo barnum dell’antimafia”, strumento possente ed efficace di carriere che non troverebbero altra giustificazione, e a cui non si sottrae la gestione delle camere di commercio in Sicilia, ha bisogno di essere riportato a normalità da una politica più consapevole e sicura di se. Oggi la palla passa alla nostra capacità di mettere in campo strumenti, alleanze sociali, riforme che ci consentano di recuperare l'autorevolezza e la forza necessarie ad affermare lo stato di diritto. Una delle missioni che il Partito democratico non può mancare è costruire una classe dirigente che non abbia bisogno di delegare la certificazione della propria moralità ad alcuno, che abbia la capacità di essere punto di riferimento per le forze sociali, spesso molecolari ma sane, che vogliono affermare il proprio diritto ad operare in Sicilia come farebbero in qualsiasi altra parte d'Europa. Ed è a questo che serve una nuova antimafia che non ambisca a sostituirsi allo Stato e alla politica ma, viceversa, che abbia al centro l'obiettivo dell'affermazione dello stato di diritto del principio di rappresentanza democratica. A ciascuno il proprio mestiere: chi nelle aule di tribunale, chi nelle istituzioni, chi nella società. Solo così di può rinnovare il movimento antimafia e restit