Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’INVASIONE BARBARICA SABAUDA

 

DEL MEZZOGIORNO

 

D’ITALIA

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

  

LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA

IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI

LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA

UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO

 

 

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

M COME MAFIA DEI TRADITORI.

I FALSARI DELLA STORIA. 4 NOVEMBRE DIMENTICATO.

IL CAOS ITALIANO.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

UNA COSTITUZIONE CATTO-COMUNISTA.

IL PAESE DELLE BANANE ED IL REFERENDUM DA PRESA PER IL CULO.

FRANCESCO SAVERIO NITTI, LE ORIGINI DEL DIVARIO NORD-SUD ED IL MILLANTATO CREDITO.

PARLIAMO DELLA QUESTIONE SETTENTRIONALE E DI QUELLA MERIDIONALE.

LADRI ED EVASORI. I PARASSITI D’ITALIA. QUELLO CHE NON SI DICE.

QUELLI CHE SON SECESSIONISTI...

QUELLI CHE SON INDIPENDENTISTI...

LA SECESSIONE IDEOLOGICA.

QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

CHI DICE TERRONE E’ SOLO UN COGLIONE.

IL SUD TARTASSATO.  

QUELLI CHE SON RAZZISTI…EVASORI E LADRI.

LA QUESTIONE MERIDIONALE.

LA QUESTIONE MERIDIONALE SECONDO EUGENIO BENNATO.

MIMMO CAVALLO E POVIA: I NUOVI BRIGANTI.

BRIGANTI, TERRORISTI E PARTIGIANI.

LA STORIA INEDITA DEL FIGLIO DI GARIBALDI: QUELLO CHE LE CASE EDITRICI DEL SUD NON SCRIVONO.

I GARIBALDI…

LO STATO MAFIOSO. LA MAFIA E’ LO STATO.

ITALIANI: POPOLO DIFETTATO.

BENVENUTI AL SUD.

I VERI RAZZISTI STANNO A SINISTRA, NON AL NORD ITALIA.

MEDIA E STATO CANAGLIA. COSI' NASCEVA UNA NAZIONE.

EVVIVA IL REVISIONISMO: ECCO TUTTE LE BUGIE SULL'UNITA' D'ITALIA.

TUTTA UN’ALTRA STORIA.

ITALIANI. FRATELLI COLTELLI.

ITALIA RAZZISTA ED ANTIMERIDIONALISTA.

IL MEZZOGIORNO D'ITALIA.

L’ITALIA MERIDIONALE DURANTE IL REGNO DI OTTONE II DI SASSONIA.

L'ITALIA MERIDIONALE E I NORMANNI (VIII-X sec.).

IL PRETESO FEUDALESIMO NELL'ITALIA MERIDIONALE.

L’INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

1861: UNITA' D'ITALIA O INVASIONE SABAUDA?

IL GENOCIDIO DEI CARNEFICI.

I MIGLIORI COMANDANTI DELLA STORIA...E GIUSEPPE GARIBALDI NON C'E'!!!

GARIBALDI E I MILLE? UN INVESTIMENTO.

GIUSEPPE GARIBALDI, MERCENARIO DEI DUE MONDI.

QUANDO GARIBALDI LADRO LEGITTIMO’ LA MAFIA E LA CAMORRA.

ANITA GARIBALDI. LA MENZOGNA DEL GRANDE AMORE.

IL PERCHE’ DEL SEPARATISMO.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA. 

SOLDI ED ANTICLERICALISMO.

FRATELLI D’ITALIA? MASSONI ITALIANI.

LA MASSONERIA ED IL RISORGIMENTO.

 

 

 

INTRODUZIONE.

8 settembre 1943: fu il grande giorno dei vigliacchi e degli eroi. 75 anni fa l’annuncio dell’armistizio e la fuga del re, scrive Lanfranco Caminiti l'8 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Mi chiedo talvolta dove sarei andato a finire l’8 settembre. Cosa avrei fatto? Ho così tanto rispetto per i partigiani, tutti, “azzurri”, azionisti e comunisti, che neppure riesco a ipotizzare se avrei preso la strada della montagna o della lotta clandestina, se avrei “resistito”. Forse avrei provato a tornare a casa o sarei rimasto dove mi trovavo, incerto, sbandato, imbucato o schierato magari per caso, improvvisamente orfano. Orfano di schieramenti. Orfano di Stato. Orfano di patria. Della Patria maiuscola e muscolare, di quella in divisa e berretto, di quella dove c’è chi comanda e chi ubbidisce, chi va al macello e chi prepara i piani per il macello. Quel giorno, Benedetto Croce nel suo diario scrisse: «Sono stato sveglio per alcune ore, tra le 2 e le 5, sempre fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo a questa parte costruito politicamente, economicamente e moralmente è distrutto, irrimediabilmente». Più o meno nelle stesse ore, Luigi Biraghi, classe 1914, tenente del 9° alpini, e che fu poi internato nei campi di concentramento tedeschi per non aver accettato di collaborare con i nazisti, scriveva nel suo diario: «Al mattino del 9 un sottufficiale e alcuni soldati tedeschi vengono all’accampamento e ci danno ordine di non uscire. Il Comandante del Battaglione non si oppone e ci invita ad attendere obbedendo. Più tardi il Colonnello Elefante ci ordina di deporre le armi. Obbediamo, ma poi, mentre siamo radunati in sede di Compagnia, non rendendoci conto della necessità di tale ordine, ci rechiamo al Comando di Battaglione per chiedere spiegazioni. La scena che costì ci si presenta agli occhi è quanto di più tragico e di più grottesco si possa immaginare. Giuseppe Elefante, in goffi abiti civili, pallido e tremante, tenta inutilmente di mettersi in testa un cappello basco per poi partire sulla motocicletta che lo attende e mettersi in salvo». Che due eserciti stranieri si siano combattuti su terre italiane portando strazi e lutti, mentre intanto ci si schierava di qua e di là, dividendosi per faglie che nessuna razionalità storica riesce a ricostruire – come poi forse accade sempre quando gli eventi precipitano in una guerra che diventa per forza di cose fratricida e perciò passionale – non è certo solo eredità dell’8 settembre. La guerra del Vespro, fra Angioini e Aragonesi, per dirne una, durò vent’anni, e sconvolse l’area del Mediterraneo tutto, oltre che i territori nostri. Mai però la frattura fra classi dirigenti – il cui unico obiettivo dopo l’armistizio era salvare la ghirba a qualunque costo – e popolo fu così evidente. Il popolo si divise, si frantumò, andò alla deriva, si arrese, lottò, salì in montagna, fu massacrato di terra, di cielo e di mare, reagì, si diede a ogni nefandezza, insomma visse e subì la guerra. Certo, non tutte le scelte furono uguali e non si possono sovrapporre o paragonare. I ceti dirigenti scapparono. Non era mai successo nelle innumerevoli guerre che si erano combattute sul nostro suolo: ogni ceto emergente si poneva alla testa d’una fazione contro un’altra; ogni principe, ogni barone, ogni prete, ogni chierico, radunava le sue forze, cercava alleanze e si lanciava contro il nemico, vero o supposto: si immolava, spesso, veniva martirizzato, spesso, o, altrettanto spesso, cambiava alleanze, e combatteva quella parte con cui prima aveva pattuito. Sempre esponendosi. L’otto settembre ci fu la fuga. La dismissione generale dei ceti dirigenti italiani. Della catena di comando, delle gerarchie, delle responsabilità, dei compiti istituzionali. Fu il presidente Ciampi – dopo le iniziative per i caduti di Cefalonia e altro – a spendersi tanto per stabilire l’immagine di un esercito che, nello sconquasso generale dopo l’annuncio dell’armistizio, mantenne o scoprì l’onore della Patria, salvandolo dalla vergogna. Un commendevole impegno. Allora, corroborato da un proliferare di trasmissioni televisive e pagine di quotidiani sulla stessa falsariga. Io non vorrei però che le buone intenzioni la scippassero a tutti, questa data, per consegnarla, trasfigurata e imbalsamata, “costituzionale”, alla Storia. Perché, è vero, andrebbe istituito, l’8 settembre, come festa nazionale. Ma a fianco di san Francesco e santa Caterina, san Gennaro e santa Chiara. Come queste, dovrebbe essere una data protettrice popolare, un sant’otto settembre, una ricorrenza in cui chiedere grazie e miracoli, portare a spalla una qualche “macchina”, appendere ex voto, fare pellegrinaggi e comitive. Non si scherza coi santi e in questo caso non si scherzerebbe neanche coi fanti. Perché l’8 settembre è la data dei chiunque, è la data di “quelli in basso” lasciati allo sbando e alla mercé degli eventi, mentre la “classe dirigente” fugge o decide di farsi proteggere da un qualche straniero. Così, all’inizio dell’estate, non appena gli Alleati cominciano a sbarcare e le bombe americane – che sono liberatrici, e non doveva essere facile capirlo lì per lì – cadono copiose il 19 luglio sul quartiere di san Lorenzo a Roma, devastandolo, sovrani e corte, governo, generali e burocrati “di rango” scappano portandosi dietro l’argenteria di famiglia o quanto hanno arraffato nel tempo e che riescono a stipare in fretta e furia tra i bagagli; mentre il lupo nazista, che non ha mai smesso di arrotare i denti, comincia a guardarci come il pranzo che ha ingrassato con lo sguardo e finalmente è da sbranare. Affonderà i denti, il 16 ottobre, nel ghetto. E poi ancora alle Fosse Ardeatine. E ovunque in Italia sarà l’orrore. Nel miserabile corteo di automobili che il 9 settembre portava i Savoia e la loro corte da Villa Ada verso Pescara non c’era neppure l’ambigua disperazione della fuga interrotta a Varennes di Luigi XVI e Maria Antonietta – l’evidenza del crollo d’un mondo millenario di certezze e un ultimo tentativo di preservarle, salvando la propria regale testa. Perché questo è in definitiva l’8 settembre: la vera metafora collettiva, il vero paradigma di questo paese, la vera festa nazionale, dove, quando c’è una emergenza, “in alto” ci si preoccupa del proprio culo e si arraffa e stipa in fretta e furia quanto si può e “in basso” si comincia a pregare e arrangiare senza sapere a che santo votarsi. Quando c’è una emergenza, una catastrofe, un fuggi fuggi. Ma in questo paese il fuggi fuggi, l’emergenza, la catastrofe è pane quotidiano. Ossessiva ricorrenza. Porta Pia, il Piave, Vittorio Veneto, quelle sono le date buone da mandare a memoria da ragazzini, quelle “patrie” dove aleggia una qualche Vittoria, una breccia da sfondare, una trincea tenuta sino allo spasimo, una linea nemica conquistata. Ma l’8 settembre, no, questa lasciatecela: quella è l’Italia della “fuga”, della rotta, del tutti a casa. La Caporetto della Politica, dello Stato, del Governo. Delle politiche, degli stati, dei governi. Un evento tanto italiano. Degli italiani “di rango”, però. Una tenue, e anche un po’ invereconda, giustificazione “storica” della fuga dei Savoia starebbe nella paura della ritorsione dei tedeschi verso la Real Casa dopo la dichiarazione dell’armistizio: salvando se stessi salvavano lo Stato, la possibilità dello Stato. Ma in realtà è agli italiani che sottrassero i loro corpi. E che i corpi degli italiani tutti diventassero carne da macello non li trattenne minimamente. Avessero preso sputi e pernacchie, i fuggiaschi, molte cose forse sarebbero cambiate, chissà. Tornarono, dopo il 25 aprile, quegli stessi che erano scappati e finirono alla testa delle istituzioni incertamente ricostruite (molti non si peritarono di chiedere gli stipendi arretrati). E anche tutto questo è tanto italiano. I costituzionalisti ci spiegano che la “sovranità” si fonda sui “due corpi del re”, uno è quello trasfigurato, sacrale, istituzionale, che incarna l’autorità e tiene insieme il popolo, e l’altro è quello carnale, reale, che si vede, pure da lontano ma che si sa presente. Quando muore, per preservarne la dignitas, si prepara un doppio cereo. Dev’essere una teoria universale, se Kurosawa ci ha fatto un film straordinario, Kagemusha, raccontando la storia del sosia d’un re che interpretò talmente bene la sostituzione di un corpo da convincersi di incarnare anche l’altro. Forse, i brigatisti che rapirono Moro dovevano pensarla così, ma si trovarono fra le mani il corpo d’un uomo ostinatamente umano, mentre il corpo dello Stato si ritrovava altrove e in fretta rinnegava pure quell’altro, dandogli del matto. I “corpi reali” sen fuggirono, senza lasciarci neppure un sosia. Senza dignitas. Noi non abbiamo mai avuto una patria, per secoli. Per secoli, abbiamo avuto monarchie territoriali, feudi e baronie, ducee e contee, ma mai una patria, mai una nazione. Almeno, non nel senso in cui la descrisse Ernest Renan, nella celebre conferenza, Che cos’è una nazione?, tenuta alla Sorbona l’ 11 marzo 1882: «La nazione è dunque una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni». Ve lo immaginate un plebiscito, nel 1882, da tenere da Pinerolo a Partinico, da Alghero a Santa Maria di Leuca sulla unità della nazione italiana appena costituita e ancora fragile? L’otto settembre finisce l’Italia costruita nel Risorgimento. Forse a quell’Italia – «tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo a questa parte costruito» – pensava Croce. Quell’Italia ancora fortemente improntata di intenzioni, volontà, visioni di ceti dirigenti, ma che era riuscita a intercettare secoli di desideri sociali. Il fascismo però – benché avesse voluto pretenziosamente richiamarsi a quella, intestandosi radici e filiazioni che nulla c’entravano – l’aveva già fatta a pezzi, l’Italia del Risorgimento, col suo impero del piffero, le sue leggi razziali, l’asservimento al tedesco. L’otto settembre in realtà chiude la parabola di Caporetto. Che era stato il primo segnale forte di un fallimento di classe dirigente – sarà solo un destino della Storia, che Badoglio fosse l’uomo di Caporetto e anche quello dell’8 settembre – e dello scollamento dei ceti popolari. A Caporetto furono i soldati a fuggire – stanchi dell’insipienza dei comandi, della follia dei loro ordini, dei massacri che continuavano senza senso. Solo le fucilazioni di massa dei carabinieri riporteranno l’ordine. Solo la violenza fascista riporterà l’ordine. L’otto settembre saranno “i comandi” a fuggire. Ma nessun carabiniere sparerà contro di loro.

 Nordisti e sudisti sempre colpa degli altri, risponde Aldo Cazzullo il 5 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera".

Caro Aldo, un ascoltatore di Prima Pagina si è chiesto perché l’Italia non è simile alla Germania sul versante economico. Per l’elevato debito pubblico, è stato risposto. A mio avviso anche per Garibaldi che ha riunito due Italie fondamentalmente diverse. Ce ne rendiamo conto adesso. Le nazioni tedesche sono due: Germania e Austria a motivo della loro origine storica ed economica, e non sentono il bisogno di fondersi. Senza Garibaldi avremmo ancora il regno storico delle Due Sicilie di stampo agricolo e turistico, quest’ultimo in costante ascesa, rimpianto da tanti meridionali. Dall’altra parte avremmo il Nord altamente industrializzato e con un Lombardo-veneto che gareggia con la ricca Baviera, anche in Italia avremmo la nostra Germania. Bruno Mardegan Bellagio (Co)

Caro Bruno, La sua lettera conferma una cosa che ho sempre pensato. La convinzione dei nordisti, secondo cui il Settentrione sarebbe come la Baviera se non fosse gravato dal peso del Sud, va di pari passo con quella dei sudisti, secondo cui il Mezzogiorno sarebbe ricco e felice se il Nord non l’avesse invaso, conquistato, colonizzato. Al di là del fondo di verità che può anche esserci dietro i rispettivi lamenti (una città come Napoli ha sicuramente perso peso politico, demografico ed economico con l’unificazione; il Nord sarebbe sicuramente ancora più ricco senza decenni di Cassa del Mezzogiorno e di assunzioni folli alla Regione Sicilia), le due visioni combaciano perfettamente in un punto: la colpa dei nostri mali non è nostra, ma di altri italiani. È una visione consolatoria, quindi popolare. Piace e va di moda, perché è una delle cose che molti italiani amano sentirsi dire. Ma è sbagliata e alla lunga controproducente: perché se i nostri problemi non dipendono da noi, allora non possiamo fare nulla per risolverli. Mi ostino invece a credere in un’Italia unita che esce dalla crisi tutta insieme. Ma — e su questo sono d’accordo con lei — visti i tempi è sempre più difficile.

Esistono gli Italiani? scrive FunnyKing il 20 luglio 2014 su "Rischio Calcolato". La domanda non è provocatoria. Ovvero, nell’espressione geografica comunemente conosciuta e chiamata “Italia”, non vi è dubbio che ufficialmente esista ed eserciti il monopolio della violenza un soggetto conosciuto sotto il nome di “Repubblica Italiana”. Ma gli italiani come popolo esistono davvero? E se esistono sono la maggioranza dei residenti all’interno dei limiti territoriali millantati dall’entità conosciuta come “Repubblica Italiana”. Dunque all’interno dell’entità “Repubblica Italiana” ovvero entro i suoi presunti confini vivono persone, uomini donne e bambini ed anno una lingua più o meno comune, una passione maggioritaria per il giuoco del calcio, una serie infinita di sfrenati campanilismi che si spingono da quelli regionali a quelli delle singole città, fino ai quartieri e alle singole vie (e non mi stupirei si arrivasse ai caseggiati). Essi, costretti dalla legge, chi più chi meno (e se ci riescono) pagano le tasse e sono dediti principalmente ad una singola vera passione nazionale: fare esclusivamente i propri interessi, o al massimo quelli della propria famiglia o clan. Il tratto squisitamente individualista dei residenti nell’entità “Repubblica Italiana” è tanto più evidente quanto più i singoli hanno successo, e si mimetizza in finto socialismo per coloro che per sfortuna o demerito non raggiungono il successo personale. Nel senso che questi ultimi trovano conveniente coalizzarsi (temporaneamente) per espropriare parte o tutto del “successo” ottenuto dai loro co-residenti più bravi o fortunati.

Si noti come in questa definizione ci finisca sia il Brambilla con la Fabbrichetta e il conto nel paradiso fiscale, come il tipico comunista/socialista fino a quando i soldi li mettono gli altri. Insomma tutte le sfumature di grigio da un estremo all’altro.

Ora. In una situazione come questa credo sia perfettamente inutile aspettarsi un sussulto nazionale, uno sforzo di miglioramento collettivo, un cambiamento tedesco (questa è la mia personalissima utopia, lo so bene). Solo una guerra persa e il completo disastro per tutti, ha fatto vivere per un brevissimo periodo qualcosa che potesse davvero essere definito Stato Italiano, quei pochi anni dell’immediato dopoguerra e la fase costituente. Poi più nulla, 60 anni di guerra fra singoli, clan, famiglie e consorterie varie. Però i residenti nell’espressione geografica comunemente chiamata “Italia” hanno anche un altro tratto comune, sono individualisti e geniali. E lo dimostrano in tutto il mondo, ovunque sono andati a mettere radici. E tanto più la nazione nella quale si sono stabiliti ha i tratti della “grande nazione” con un nocciolo culturale comune che la tiene insieme, buone leggi, stabilità e ordine essi prosperano. Proprio perchè si trovano nella situazione di potersi fare bene gli “affari propri”, senza che qualche loro simile stia al governo.

Avete fatto caso al fatto che in i residenti e i nativi dell’espressione geografica conosciuta sotto il nome di Italia a fianco di una miriade di fantastiche e geniali piccole aziende e imprese non sono quasi mai riusciti a creare un colosso multinazionale? Pensateci bene. Esistono davvero gli Italiani. Io vorrei che esistessero, ma il che presupporrebbe una coscienza comune e una responsabilità civile collettiva, e siccome quello che vorrei io o che vorreste voi è irrilevante di fronte alla realtà dei fatti, probabilmente meglio sarebbe polverizzare l’espressione geografica generalmente conosciuta sotto il nome di “Repubblica Italiana” o “Italia” in molte entità con leggi proprie e più confacenti ai Clan e alle Famiglie o agli individui che le popolano. Per inciso esisterebbe un valido esempio, e non a caso li si è formato il grandioso pensiero del filosofo più rappresentativo della cultura media e mediana dei residenti nell’espressione geografica chiamata Italia. Tale grandioso filosofo giustamente siede in parlamento e dovrebbe presto essere fatto Senatore a vita. Il suo unico e semplice enunciato, che definisce alla perfezione 60 milioni di persone è: Te lo dico da amico, fatti li cazzi tuoi (Antonio Razzi docet)

Gli italiani non esistono. Siamo un grande mix genetico. Tranne i Sardi. La distribuzione genetica in Italia per linea paterna. La penisola dal punto di vista genetico è divisa da una linea che separa più Est da Ovest che Nord da Sud. L’unica che fa storia a sé è la Sardegna, scrive Luigi Ripamonti il 3 maggio 2018 su "Il Corriere della Sera". Gli Italiani? Non esistono. «Si tratta solo di un’aggregazione di tipo geografico. Abbiamo identità genetiche differenti, legate a storie e provenienze diverse e non solo a quelle» spiega Davide Pettener, antropologo del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, che ha creato una banca di campioni di Dna per tracciare la storia genetica degli Italiani insieme a Donata Luiselli del Dipartimento di Beni Culturali di Ravenna e collaboratori, Lo studio rientra in un progetto mondiale finanziato dalla National Geographic Society.

Maschi e femmine. «Coinvolgendo i centri di donazione Avis abbiamo raccolto 3 mila campioni di sangue di italiani provenienti da tutte le regioni» racconta Pettener. «Di questi ne abbiamo per ora utilizzati circa 900. Ogni persona coinvolta doveva avere i 4 nonni provenienti dalla stessa provincia. I primi dati, pubblicati sulla rivista PlosOne, hanno riguardato i cosiddetti marcatori uniparentali: il cromosoma Y, trasmesso per via paterna e il Dna mitocondriale, per via materna». Risultato? «Si pensa in genere che la variabilità genetica in Italia segua un cambiamento graduale secondo un asse Nord-Sud— spiega l’esperto— Invece, dal punto di vista del cromosoma Y (linea paterna), emerge, a parte la Sardegna, un’Italia divisa secondo una linea più longitudinale, che separa una zona nord-occidentale da una sud-orientale. Ciò non si osserva però con il Dna mitocondriale (linea materna), che ha una distribuzione più omogenea, spiegabile con la maggiore mobilità femminile legata a pratiche matrimoniali che prevedevano lo spostamento della donna. Il quadro complessivo è frutto di spostamenti lungo due traiettorie diverse iniziati nel neolitico, con l’avvento delle tecnologie agricole e dell’allevamento, Nei periodi successivi è successo di tutto: Germani, Greci, Longobardi, Normanni, Svevi, Arabi sono passati lasciando i loro geni».

Malattie. La storia genetica degli Italiani, però, non è stata influenzata solo dalle migrazioni. Anche l’adattamento alle diverse pressioni selettive è stato determinante, influenzato la suscettibilità a malattie diverse. A sancirlo è un altro studio, pubblicato su Scientific Reports, coordinato dal gruppo di Antropologia Molecolare e Adattamento Umano del Dipartimento di Scienze Biologiche Geologiche e Ambientali (BiGeA) dell’Università di Bologna. «L’evoluzione delle popolazioni dell’Italia settentrionale è stata condizionata da un clima freddo, che ha reso necessaria una dieta molto calorica e grassa» spiega Marco Sazzini, ricercatore del BiGeA. «La selezione naturale ha favorito in queste popolazioni la diffusione di varianti genetiche in grado di modulare il metabolismo di trigliceridi e colesterolo e la sensibilità all’insulina, riducendo il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete. Clima diverso e contributo genetico di altre popolazioni mediterranee hanno fatto sì che gli abitanti dell’Italia centro-meridionale mantenessero più diffusamente varianti genetiche responsabili di una maggiore vulnerabilità a tali malattie». Oltre al clima e alla dieta un altro fattore che ha indirizzato gli adattamenti genetici degli Italiani, soprattutto in Sardegna e nell’Italia centro-meridionale sono le malattie infettive. In Sardegna, ad esempio, la malaria ha rappresentato una delle principali pressioni ambientali, mentre nel Sud la selezione naturale ha potenziato le risposte infiammatorie contro i batteri di tubercolosi e lebbra, le quali potrebbero però essere una delle cause evolutive alla base di una maggiore suscettibilità a patologie infiammatorie dell’intestino, come per esempio il morbo di Crohn.

Il caso della Sardegna. A proposito di Sardegna, un aspetto interessante di questi studi è quello relativo all’analisi delle popolazioni isolate. «I Sardi» sottolinea Pettener, «si differenziano da tutte le popolazioni italiane ed europee. Mentre la Sicilia è stata un hub per tutte le popolazioni mediterranee, la Sardegna conserva le più antiche tracce non avendo subito invasioni e si è differenziata da tutte le popolazioni europee al pari di Baschi e Lapponi. «Lo studio delle popolazioni isolate, come e più della Sardegna, per esempio come quella Arbëreshë (le popolazioni di lingua albanese stanziate in alcune zone del Sud), i Ladini, sparsi nelle valli delle Dolomiti, i Cimbri dell’Altopiano di Asiago o i Grichi e i Grecanici del Salento e della Calabria è interessante perché ci permette di vedere come eravamo, presumendo che ci siano stati pochi innesti nel tempo di Dna differente. Una vera macchina del tempo».

I cittadini italiani non esistono. Altro che Unità... La verità nei geni, scrive Venerdì, 10 gennaio 2014 Affari Italiani. Altro che Unità d'Italia. A leggere il dna degli italiani, sembra quasi che il Risorgimento non ci sia mai stato e che Garibaldi e i suoi Mille, girando per le campagne abbiamo fatto più un passeggiata che una conquista. Per non parlare poi del fenomeno immigrazione dal sud al nord d'inizio Novecento: nelle patrimonio dei cittadini tricolore, la massa che dal Meridione si è spostata nell'operoso nord non ha lasciato tracce. L'effetto che si scopre analizzando il dna degli italiani e che la diversità che c'è tra i sardi e le popolazioni delle Alpi è maggiore di quella che c'è tra portoghesi e ungherese, praticamente ortogonali nella geografia europea. Infine, ed è la “mazzata finale” per i teorici delle razze: difficile sostenere che esista un ceppo italico: a leggere le caratteristiche della nostra evoluzione, sembriamo uno dei Paesi in cui l'effetto straniero abbia maggiormente inciso. Insomma, un porto di mare per genti di tutte le razze. A rivelare che duecento anni di unioni e figli e un governo unico del Paese non hanno modificato granché il patrimonio individuale è uno studio coordinato dall'Università di Roma La Sapienza. Un team di ricercatori della Sapienza, coordinato dall’antropologo Giovanni Destro Bisol, in collaborazione con gruppi di ricerca delle Università di Bologna, Cagliari e Pisa, ha messo in luce che le popolazioni italiane sono estremamente eterogenee da un punto di vista genetico, tanto da poter paragonare la loro diversità a quella che si osserva tra gruppi che vivono agli angoli opposti dell’Europa. L'altra faccia del rovescio della medaglia dello studio è che almeno per quanto riguarda il patrimonio genetico siamo uno dei Paesi più ricchi d'Europa. Non aiuterà lo spread, ma almeno è un record positivo. Alla base di questa diversità c’è un motivo comune e cioè l’estrema estensione latitudinale dell’Italia. La varietà degli habitat che si trovano lungo la dorsale della nostra penisola favorisce la varietà di piante e animali ospitati nel nostro territorio. D’altro canto per le sue caratteristiche geografiche l’Italia sin da tempi antichissimi ha rappresentato un corridoio naturale per i flussi migratori provenienti sia dall’Europa centrale sia dal Mediterraneo: nel caso dell’uomo hanno contribuito alle diversità tra popolazioni anche le differenze culturali (in primis linguistiche), creando un ulteriore fattore di isolamento rispetto a quello geografico. In entrambi i casi, il risultato finale è la creazione di un “pattern” davvero unico in Europa. L’accento sull’importanza degli aspetti culturali non è casuale, ma deriva da quello che i ricercatori considerano un aspetto particolarmente originale del loro studio: avere incluso nell’indagine, oltre a popolazioni ampie e rappresentative di città o di grandi aree (ad esempio L’Aquila oppure Lazio), anche gruppi di antico insediamento come le “minoranze linguistiche” (Ladini, Cimbri, e Grecanici), portatrici di aspetti culturali e sociali peculiari nel panorama italiano. Sono proprio alcuni di questi gruppi, come nel caso delle comunità “paleogermanofone” e ladine delle Alpi oltre a gruppi della Sardegna, che contribuiscono in maniera determinante alla notevole diversità osservata in Italia. Un dato tra tutti: se si considerano ad esempio i caratteri trasmessi dalla madre ai figli di entrambi i sessi (e cioè il DNA mitocondriale), comparando la comunità germanofona di Sappada, nel Veneto settentrionale, con il suo gruppo vicinale del Cadore, o quella di Benetutti in Sardegna con la Sardegna settentrionale, l’insieme delle differenze genetiche calcolate è di 7-30 volte maggiore di quanto si osserva perfino tra coppie di popolazioni europee geograficamente 20 volte più distanti (come Portoghesi e Ungheresi oppure Spagnoli e Romeni). “I nostri dati - spiega Giovanni Destro Bisol che ha curato la ricerca – testimoniamo come fenomeni migratori e processi di isolamento che hanno coinvolto le minoranze linguistiche, per la maggior parte insediatesi nel nostro territorio prevalentemente tra il medioevo e il diciannovesimo secolo, abbiano lasciato testimonianza non solamente nei loro aspetti culturali (alloglossia, aspetti della tradizioni e del folklore,) ma anche nella loro struttura genetica”. “Questo studio ci lascia anche una riflessione che va aldilà della dimensione strettamente scientifica e investe l’attualità” conclude Destro Bisol “…sapere che l’Italia, indipendentemente dai flussi migratori recenti, è stata ed è tuttora terra di notevole diversità sia culturale che genetica, può aiutarci ad affrontare in maniera più serena un futuro pieno di occasioni di incontro con i portatori di nuove e diverse identità”.

Gli italiani non esistono, scrive l'11 aprile 2010 Eva Danese. Ho deciso di rendere nota la mia traduzione di un articolo svedese riguardante l’Italia, pubblicato poco prima delle nostre elezioni regionali. Perché ho deciso di sottoporlo alla vostra attenzione? Prima di tutto, perché può essere sempre interessante conoscere punti di vista esterni o alternativi su qualsiasi situazione, compresa quella italiana. Secondo, per stimolare in voi una riflessione e magari, perché no, per conoscere le vostre sensazioni a riguardo. Che ve ne pare? Buona lettura! 

“Gli italiani non esistono” di Kristina Kappelin, pubblicato il 27 marzo 2010 sul quotidiano svedese “Sydsvenskan”. Il treno da Salerno a Roma è ovviamente in ritardo. Quando finalmente entra in stazione è infinitamente lento. E’ partito da Palermo stamattina alle sette. Ora sono le quattro del pomeriggio. Praticamente è avanzato sui malridotti binari a una velocità media di 80 kilometri orari. Le cabine sono degradate e i sedili così sporchi che quasi si è restii sedersi. La situazione rispecchia il razzismo che ancora esiste in Italia. I ferrivecchi servono per i viaggi verso il sud, mentre i vagoni nuovi e belli si dirigono da Roma verso il nord. Ci sono voluti anni e anni per fare arrivare il treno rapido Eurostar a Napoli e a Bari. Eppure va ancora più lentamente nella tratta Milano-Torino. “L’Italia è fatta. Ora dobbiamo fare gli italiani”. Più o meno così scrisse il capo di stato Massimo d’Azeglio nel 1860. È ancora vero. Gli italiani si sentono patrioti solamente in occasione dei mondiali o delle olimpiadi. Altrimenti sono ancora prima di tutto siciliani, lombardi o veneziani. Si noti che gli sportivi italiani non gareggiano indossando i colori della bandiera italiana, ma l’azzurro, il “blu Savoia”, un tempo il colore della famiglia reale. Insomma, quanto sono uniti gli italiani? Il paese si prepara a celebrare i suoi primi 150 come nazione il prossimo anno. La dichiarazione di unità è datata 17 marzo 1861. Il conto alla rovescia è già cominciato. Uno dei siti prescelti per i festeggiamenti è Torino. La città fu la capitale durante i primi quattro anni. Divenne anche rapidamente il centro industriale del paese, più che altro grazie alla Fiat. Quando coloro che cercavano lavoro dal sud prendevano il treno verso il nord per trovarne impiego nelle fabbriche di automobili, si andavano a scontrare con il dramma degli italiani che non erano ancora “fatti”. Il lavoro lo ottenevano. La residenza andava male. “Stanze in affitto, ma non ai cani e ai meridionali” si vedeva scritto su molti cartelli. Torino è il capoluogo del Piemonte. Quando l’Italia nel fine settimana andrà al voto per le regionali, avrà fra i candidati Roberto Cota, del partito settentrionale “Lega Nord”. Il partito conduce una politica contro gli extracomunitari così come contro i meridionali e vuole fare dell’Italia uno stato federale. Il sogno è che il nord Italia diventi un piccolo regno a sé, con il fiume Po come confine meridionale. Cota ha buone probabilità di vincere. La Lega Nord potrebbe prendere il posto del partito di Berlusconi, il Popolo della Libertà, nelle regioni del nord. Gli italiani, fino ad oggi, non sono ancora stati “fatti”. Mentre il vecchio treno lentamente si avvicina a Roma, vedo il paesaggio campano, con le sue costruzioni abusive, e i mucchi di spazzatura fra i peschi in fiore. L’Italia del sud avrebbe avuto lo stesso problema di criminalità organizzata oggi se gli italiani fossero stati “fatti”, se tutto il paese si riconoscesse nella Costituzione, se la politica fosse considerata giusta e i politici onesti? La bandiera italiana sventola sulla stazione di Formia. È verde, bianca e rossa come il basilico, la mozzarella e il pomodoro. Una cosa sulla quale la maggior parte degli italiani vanno d’accordo. 

Guerra ai briganti, non alle mafie. Una politica scellerata e disastrosa. Enzo Ciconte ricostruisce le vicende della repressione spietata del banditismo in Italia (Laterza). Il 6 settembre l’autore dialoga con Gian Antonio Stella al Festivaletteratura, scrive Gian Antonio Stella il 5 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Uno scontro tra briganti e soldati in un dipinto realizzato dal francese Horace Vernet durante il suo soggiorno in Italia. «C’è un diffuso mercato delle teste. È abituale trovare in vari tribunali ambigui figuri che si aggirano con capienti ceste piene di teste tagliate e messe sotto sale perché si conservino meglio e più a lungo». Gela il sangue il racconto di Enzo Ciconte sui momenti più bui della guerra al brigantaggio. Quando, appunto, era in vigore in vari Stati italiani «la regola che, ucciso un bandito e portata la sua testa al podestà, si aveva diritto a scegliere tra una taglia proporzionata alla nomea della vittima e la cancellazione del bando a carico di un parente, di un amico o di un servitore». La testa di un bandito per la libertà di un altro. Ammesso che il decapitato fosse sul serio un brigante e non un poveretto messo a morte perché spiantato, come un certo Antonio Benaglio che il Consiglio dei Dieci veneziano ordinò ai rettori di Bergamo di arrestare «trattandosi di sogeto di conditione vile et consuetudinario nei delitti li soli inditii bastano per ordinarne la retentione». Fu spietata e disumana, per secoli, soprattutto nel Mezzogiorno ma non solo, la repressione dei «briganti», criminali o idealisti che fossero, di cui parlerà oggi lo storico calabrese presentando a Mantova il libro La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza). Basti ricordare che quasi tre secoli prima dell’eccidio degli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo, il peggior crimine compiuto dalle truppe italiane dopo l’Unità, Papa Sisto V era stato così duro nel «metter ordine» che, scrive la Treccani, «il noto avviso del 18 settembre 1585» ironizzava che «quell’anno erano state esposte più teste di banditi a ponte S. Angelo che meloni al mercato». «Per distruggere il brigantaggio abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi: ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato», ammonì Paquale Villari. Certo, non tutti furono ciechi. Il deputato milanese Giuseppe Ferrari, raggiunta faticosamente Pontelandolfo, denunciò in Parlamento già nel 1861: «Io vi proposi di fare un’inchiesta affinché una metà della nazione conoscesse appieno l’altra metà, e le due parti della Penisola si unissero fraternamente; mi rispondeste essere l’inchiesta inutile, i mali passeggeri…». Tutti sordi. E così, spiega Ciconte, «esiste un numero sterminato di libri o articoli che hanno descritto le efferatezze, la crudeltà, gli eccidi, le stragi, gli episodi di gratuita e selvaggia violenza dei briganti» e insieme, per citare Giuseppe Galasso, «pagine e pagine di romanzieri o di storici» che al contrario li descrivono «come eroi, uomini senza paura in grado di tenere testa ai potenti del tempo, giovani affascinanti con un grande sprezzo del pericolo», al punto che «le figure dei briganti e le loro gesta sembrano essere entrate nell’albo d’oro delle memorie locali». Ma «come si conciliano o si spiegano due letture così opposte e divergenti?» Risposta non facile. A volte i briganti furono davvero dei ribelli che via via combattevano le angherie spagnole, francesi, borboniche, savoiarde… Altre erano disperati oppressi dalla fame, altre ancora criminali calzati e vestiti o un impasto degli uni e degli altri. La grande mattanza si concentra però non sui vinti (torto o ragione che avessero), ma sulla belluina «ferocia di Stato» dei vari repressori. Che dichiaravano d’aver tutti lo stesso obiettivo: «Il Terrore. Seminare il Terrore».  Ed ecco le teste mozzate riposte in piccole gabbie di cui scrive Édouard Gachot parlando di «cinquecento gabbie esposte lungo la strada per Napoli». E l’ordine di Gioacchino Murat: «È una guerra di sterminio che voglio contro questi miserabili!» E l’invettiva del generale Manhès contro gli abitanti di Serra San Bruno: «Vivrete come i lupi delle vostre foreste. Voi donne, genererete figli che vi saranno aspidi!» E la lettera del generale Morozzo Della Rocca a Cavour: «Un po’ di metodo soldatesco è medicina salutare a codesto popolo». E certi messaggi da brivido: «La testa di Palma mi giunse ieri verso le sei e mezzo. È una figura piuttosto distinta e somigliante ad un fabbricante di birra inglese. La testa l’ho fatta mettere in un vaso di cristallo ripieno di spirito…». Solo le mafie, sostiene l‘autore de La grande mattanza, furono lasciate in pace: «Negli anni cruciali della costruzione dello Stato unitario c’è una guerra spietata ai briganti, ma la stessa durezza non è rivolta a fenomeni criminali e mafiosi noti e conosciuti in Campania, Sicilia e Calabria. Con i moderni agglomerati mafiosi lo Stato sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione…». Una scelta scellerata, «le cui conseguenze arrivano sino a noi».

La prima guerra civile italiana. Nel nuovo speciale di Storia in Rete (allegato al numero di giugno della rivista a euro 9,90) intitolato Savoia vs Borbone si mettono a confronto le posizioni di alcuni storici su un tema molto caldo: il Risorgimento, scrive Matteo Sacchi, Sabato 23/06/2018, su "Il Giornale". Nel nuovo speciale di Storia in Rete (allegato al numero di giugno della rivista a euro 9,90) intitolato Savoia vs Borbone si mettono a confronto le posizioni di alcuni storici su un tema molto caldo: il Risorgimento. Il volume contrappone le ragione dell’Unità d’Italia con quelle di chi sostiene che il Regno delle Due Sicilie ebbe solo a perdere dall’annessione alla Monarchia sabauda. Qui abbiamo sintetizzato, per quanto possibile, gli argomenti presentati dai due «schieramenti». La rivista presenta interventi e interviste tra gli altri di: Pino Aprile, Alessandro Barbero, Sergio Boschiero, Gennaro De Crescenzo, Gigi Di Fiore, Dario Marino, Emanuele Mastrangelo, Aldo A. Mola, Pierluigi Romeo di Colloredo. Il dibattito resta aperto.

Altro che briganti, fu una resistenza contro un'invasione. Quali sono gli argomenti più forti di coloro che sostengono che il Regno delle Due Sicilie con l'ingresso nel regno di Italia ebbe - economicamente, socialmente - solo da perderci? Lo speciale di Storia in rete intitolato Savoia vs Borbone ne fa una belle cernita, attingendo alle opere di molti degli autori più noti nell'aver cercato percorsi diversi da quelli della storiografia più battuta sul Risorgimento: da Gennaro De Crescenzo a Pino Aprile passando per Gigi di Fiore. Partiamo dall'economia. Per quanto la pubblicistica inglese, sin dalle lettere di William Ewart Gladstone del 1851, descriva il regno borbonico come un luogo arretratissimo, gli storici che rivalutano i Borbone pongono l'accento su quelli che secondo loro sono chiari segni di sviluppo del Regno. Il più noto è il primato ferroviario della Napoli-Portici, la prima strada ferrata della Penisola (lunga 7,5 chilometri) del 1839. Ma sono molte le industrie specializzate del Sud, spesso nate direttamente con patrocinio Reale, che sono state riscoperte negli ultimi anni: le Reali Officine di Mongiana (armi), una cantieristica sviluppata, il perfezionamento a livello altissimo delle tecniche di produzione delle ceramiche... Si pone anche molta attenzione ai dati statistici che - pur con l'affidabilità limitata dell'epoca - lasciano in più casi intendere come i livelli occupazionali del Sud erano più alti di quelli di alcune regioni del Nord; e anche l'apporto alimentare medio era maggiore. Tutti dati che, invece, precipiterebbero verso il basso dopo «l'occupazione» piemontese. Una occupazione che, secondo la maggior parte di questi autori, si sarebbe volta rapidamente in predazione di ricchezze. Secondo alcuni, come Pino Aprile (lo ha sostenuto nel suo saggio Carnefici, 2016), addirittura in un vero e proprio genocidio. I metodi utilizzati contro i «briganti» (etichetta che funzionava benissimo per delegittimare i sostenitori del passato regime) furono quanto mai brutali. Ed è questo uno di quei temi in cui la storiografia che potremmo definire «borbonica» è riuscita a mettere in piena luce episodi che, indubbiamente, furono molto violenti. Un esempio può essere il caso della distruzione dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni. Nei pressi dei due abitati un contingente di 40 bersaglieri e 4 carabinieri, nel giugno del 1861, venne aggredito da bande di legittimisti sostenute dagli abitanti locali. I soldati del Regno d'Italia vennero prima costretti alla resa e poi massacrati (si salvarono soltanto in due). La risposta del generale Cialdini a questo atto, inumano anche per i criteri del tempo, fu ancora più inumana. Ordinò di fare terra bruciata, distruggendo completamente le due località. Gli ordini prevedevano non venissero passati per le armi donne e bambini. Ma andò diversamente...Il livello di violenza dello scontro tra «briganti» e truppe regie fu altissimo. Come è chiaro che la tassazione elevata e la mancata eliminazione del latifondo colpirono duramente la popolazione meridionale. Secondo molti storici i quali rivalutano l'amministrazione borbonica, gli effetti furono così gravi da spiegare il calo demografico che, secondo la documentazione disponibile, sembrerebbe caratterizzare buona parte del territorio meridionale. Il genocidio di cui appunto parla Pino Aprile. A questo andrebbero sommate politiche chiaramente volte a favorire le industrie del Nord del Paese e a far gravare tutti i costi del conflitto sugli «sconfitti». Abbastanza, secondo alcuni, per attribuire il divario nord-sud non a una situazione preesistente ma proprio dalle scelte portate avanti da Casa Savoia e dai suoi ministri intenti a trattare il Sud alla stregua di una colonia, più che di un «pezzo» di una nazione unitaria.

La povertà meridionale era già lì, Savoia l'unico futuro. Alcuni dei dati presentati dalla storiografia che potremmo definire, semplificando un po', «pro borbonica» vengono accettati anche dagli storici che continuano ad attribuire un valore essenzialmente positivo al Risorgimento. A cambiare è semmai il modo in cui vengono valutati. Come si capisce bene leggendo gli interventi sullo speciale di Storia in rete di Aldo A. Mola o Pier Luigi Romeo di Colloredo. Partiamo proprio dalla Napoli-Portici su cui ritorna Romeo di Colloredo. Il primato è indubbio. Peccato che poi le ferrovie del Regno delle Due Sicilie abbiano continuato a crescere a ritmo lentissimo e prima dell'Unità sia stata realizzata solo un'altra novantina di chilometri di binari. Al Nord nel frattempo la crescita era diventata frenetica con centinaia di chilometri realizzati ogni anno. E il Regno d'Italia in seguito portò il ritmo della produzione ferroviaria a quasi 400 km l'anno nel primo decennio post unitario. Le industrie del Sud avrebbero poi prosperato soprattutto in regime protezionistico e quindi sarebbero state ontologicamente fragili. Questa fragilità di base, figlia di iniziative tutte fatte dall'alto, sarebbe stata la causa del loro deperimento, non la rapacità piemontese. Quanto alla felicità dei sudditi borbonici: spiegherebbe poco i 220 calabresi morti combattendo a fianco di Garibaldi e i moltissimi siciliani che scelsero subito di schierarsi con la spedizione dei Mille. Quanto al brigantaggio, si insiste sul fatto che esistesse ben prima dell'arrivo dei Savoia e che fosse il risultato dell'arretratezza economica di quei territori che erano tutt'altro che felici anche sotto i Borbone. Un esempio? Nel 1828 il Cilento si rivoltò. Il motivo? La tassazione troppo alta. Il risultato finale? Il villaggio di Bosco da cui era partita l'insurrezione venne distrutto e dato alle fiamme dalle truppe borboniche. Insomma una situazione pre-esistente che dopo l'unità ha preso semplicemente un'altra direzione. Aldo A. Mola insiste invece molto sul fatto che il Regno delle Due Sicilie non è stato travolto dai Savoia ma semplicemente era inevitabilmente destinato all'estinzione. L'Europa intera stava andando verso lo sviluppo di Stati nazionali. E i Borbone erano politicamente isolati e fragili. Sarebbe bastato Garibaldi da solo con i suoi 40mila volontari e la vittoria del Volturno (2 ottobre 1860) a determinare la fine del Regno delle Due Sicilie. Le cui classi dominanti aderirono molto rapidamente al nuovo Regno d'Italia, ottenendo un'ampia rappresentanza politica d parlamentare. E qui si entra nella parte più calda del dibattito, quella sul genocidio. Per la maggior parte degli storici accademici il crollo demografico del Sud è solo apparente e dipende in buona sostanza dal fatto che i rilevamenti demografici borbonici erano realizzati in modo sostanzialmente approssimativo. Non è possibile rintracciare, almeno secondo Emanuele Mastrangelo, che ribatte direttamente alle tesi di Pino Aprile, una qualunque volontà specifica del Governo italiano sabaudo di colpire la popolazione del Sud. Esiste la questione del brigantaggio certo, causò migliaia di vittime, ma niente di paragonabile ad altri casi europei coevi di insorgenza, come le guerre carliste in Spagna (1833-1840 e 1872-1876)). Ampio spazio è anche dato alla vicenda del forte di Fenestrelle dove vennero imprigionati (tra il 1860 e il 1870) i militari fedeli ai Borbone e che negli ultimi anni è stato spesso definito come un «lager». A partire da Alessandro Barbero, sono molti gli storici che hanno ridimensionato i termini della durezza carceraria a cui vennero sottoposti i prigionieri. La loro non fu certo una vacanza ma non risultano affatto le migliaia di morti (per alcuni 40mila), citate da alcune fonti, si ridurrebbero a circa 40 in cinque anni. Si sarebbe passati dall'oblio al mito senza tappe intermedie.

Lo Stato nemico dei briganti e amico dei mafiosi, scrive il 20 giugno 2018 su "La Repubblica" Enzo Ciconte, Storico. Perché il Regno d’Italia, nato a seguito dell’impresa di Garibaldi e dei suoi Mille, sin dall’inizio sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione con camorra e mafia – che altro non sono che gruppi di uomini che si organizzano e decidono di agire contro le leggi usando la violenza per ottenere potere e ricchezza – mentre invece combatte i briganti fino alla loro sconfitta finale? È una scelta precisa: lo Stato combatte i briganti fino alla loro distruzione mentre per il fenomeno mafioso imbocca la strada opposta della tolleranza e della convivenza i cui effetti si prolungheranno fino ai nostri giorni. La scelta è fatta per assecondare i desideri della grande proprietà terriera meridionale che non accetta di venire incontro alle richieste dei contadini di avere almeno uno spicchio di terra delle immense distese di terreni demaniali usurpati con l’inganno dai galantuomini. Queste erano le terre richieste, mentre non c’erano rivendicazioni su quelle dell’aristocrazia il cui possesso legittimo non era posto in discussione. Ma la grande paura avvinse gli uni e gli altri preoccupati del fatto che, intaccate le proprietà degli usurpatori, si finisse col prendere di mira anche le altre proprietà. La conseguenza fu che tutte le richieste contadine furono respinte. E ciò alimentò il grande brigantaggio sociale che spinse alla macchia gran parte dei contadini che avendo occupato le terre temevano di finire in prigione. Nel fenomeno del brigantaggio, oltre ai criminali, ci furono anche coloro che sognavano il ritorno al potere della dinastia dei Borbone. Ma il brigantaggio di marca borbonica e clericale è durato un paio d’anni; s’è spento ben presto nell’illusione di far risorgere due regni – quello dei Borbone e quello del papa – che non sarebbero più tornati. Persino il generale Govone, uno degli ufficiali più noti di quel periodo, ha colto la radice sociale del fenomeno scrivendo che il brigantaggio era “una vendetta sociale la quale talora si applica con qualche giustizia”. I proprietari si sentirono minacciati dai briganti e protetti dai militari mentre i mafiosi erano visti, dagli stessi proprietari, come persone con le quali si poteva trattare e raggiungere un accordo. La lotta al brigantaggio è affidata con ampia delega ai militari che mostrano la loro inadeguatezza ad affrontare un nemico che usa i metodi della guerriglia invece che quelli insegnati nelle accademie militari più prestigiose e moderne. La carica in terreno aperto era un sogno irrealizzabile e le bande brigantesche erano favorite perché conoscevano i posti, i boschi e gli anfratti delle montagne. Il potere affidato ai militari ha determinato nei fatti la supremazia sulle autorità civili, prefetti e magistratura compresa. Hanno origine ben presto conflitti tra apparati dello Stato che si manifestano nei primi anni del nuovo Regno e che prelude ad altri, più impegnativi, conflitti. Durante il primo decennio della destra storica si sospendono le garanzie costituzionali per ragioni d’ordine pubblico. Non tutti erano d’accordo, ci furono discussioni e fondati dubbi sulla legalità dei provvedimenti che non vengono bloccati perché riguardano il Mezzogiorno; circostanza, questa, che rese la prima sperimentazione, che è una soluzione di forza, accettabile, o quasi. Eppure, nonostante un dispiegamento impressionante di militari, gli stati d’assedio e l’adozione di leggi eccezionali come la legge Pica, cresce e si rafforza la convinzione nei vertici militari – con l’avallo tacito o esplicito dei ministri e di qualche presidente del Consiglio – che per sconfiggere i briganti ci sia bisogno del terrore e di oltrepassare la stretta legalità adottando misure non consentite dalle leggi ordinarie. Nasce da questa convinzione l’idea che occorra dare mano libera ai militari che fucilano un numero enorme di persone, molte delle quali catturate senza armi in mano, arrestano i parenti dei briganti senza consegnarli alla magistratura, oppure uccidono i briganti mentre sono portati da un luogo ad un altro. Ci sono, inoltre, stragi e incendi dei paesi da parte delle truppe. S’introduce nella cultura dei militari – gran parte dei quali sono i parlamentari del nuovo Regno d’Italia – l’idea che i predecessori francesi e borbonici avevano messo in pratica: bisogna dare l’esempio e terrorizzare le popolazioni, fare stragi, bruciare paesi o case, arrestare tutti i parenti dei briganti per il solo fatto di essere parenti. Emergono una concezione e una cultura che s’impadroniscono della concreta azione dei militari, i quali non trovano ostacoli nel governo se non quando non se ne può proprio fare a meno. Questa è la ragione che spiega il fatto che nessuno degli ufficiali superiori, responsabili di stragi, di assassinii, di violazioni della legalità verrà mai punito. I vertici militari e i vertici governativi copriranno sempre chi ha commesso le violazioni. Dunque, nella lotta ai cafoni meridionali emergono i tratti illiberali e la mentalità coloniale di gruppi dirigenti che si definiscono liberali e che nella pratica sconfessano questa loro appartenenza. Un fatto è certo: la lotta, anzi la guerra vera e propria, intrapresa dai poteri costituiti contro banditi e briganti ha riguardato quasi sempre le classi subalterne, infime come vengono definite in alcuni documenti, i contadini affamati e senza terra, i poveri e i poverissimi, i braccianti senza lavoro, i soggetti più deboli. Per queste ragioni ci furono più guerre oltre a quella militare: una guerra civile che ha contrapposto selvaggiamente italiani del Nord e italiani del Sud, una guerra fratricida, paese per paese, di meridionali contro altri meridionali, una guerra di classe tra proprietari e contadini senza terre. Il brigantaggio è stato un fenomeno sociale e di classe che fu trasformato in un problema criminale. È stato un errore tragico che ha segnato la stessa formazione delle classi dirigenti meridionali ed italiane. In quegli anni di sfiducia profonda e di disprezzo verso i meridionali, sentimenti che aveva una parte della classe dirigente nazionale, si inviarono nel Mezzogiorno, oltre ai quadri dell’esercito e dei carabinieri, anche prefetti, questori, magistrati, personale amministrativo d’origine settentrionale perché solo loro avrebbero potuto risolvere i problemi della realtà meridionale, peraltro del tutto sconosciuta ai nuovi arrivati. Ma fu un’illusione che si rivelò sbagliata e dannosa. Il libro: “La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio”, Laterza

Camilleri, Pirandello e Verga e il marciume dell’Unità d’Italia, scrive il 14 ottobre 2014 Francesco Pipitone su "Vesuvio On Line". “Quando fu fatta l’unità d’Italia noi in Sicilia avevamo 8000 telai, producevamo stoffa. Nel giro di due anni non avevamo più un telaio. Funzionavano solo quelli di Biella. E noi importavamo la stoffa. E ancora oggi è così”. Andrea Camilleri, scrittore siciliano famoso in principal modo per i romanzi aventi come protagonista il commissario Montalbano, da cui è stata prodotta una serie televisiva, pronunciò le parole sopra riportate in un’intervista concessa a Roberto Cotroneo nel 2008, che prendendo le mosse dalla situazione politica di allora, lo scontro tra l’appena nato Partito Democratico guidato da Veltroni e Silvio Berlusconi, ha toccato le corde della questione meridionale e dell’Unità d’Italia. Senza giri di parole Andrea Camilleri denunciò il fatto che il Mezzogiorno non è altro che una colonia destinata a soccombere sempre di più, poiché rende man mano di meno e non può essere utile alla gestione politica quale è dal 1860: “Io penso che nel 2008 l’operazione colonialista, iniziata subito dopo l’Unità d’Italia nei riguardi del Sud, sia arrivata al punto finale: questa colonia del Sud rendendo sempre di meno, sempre di più viene abbandonata a se stessa. E la colonia del Sud è come se non facesse parte dell’Italia, come qualche cosa di aggiunto all’Italia. Però se poi vado a vedere chi costituisce la mente direttiva delle industrie del nord, dell’informazione del nord, mi accorgo che sono dei meridionali. E allora mi sento in dovere di chiedere una quantificazione in denaro delle menti meridionali che promuovono il Nord. Voglio metterlo sul piatto della bilancia. Voglio vedere quanto può valere il cervello di un industriale meridionale che lavora e produce ricchezza al Nord”.

Cervelli del Nord che producono ricchezza al Sud non esistono per Camilleri, il quale ha anche la spiegazione di tale circostanza: “La spiegazione risale al 1860. Quando una rivoluzione contadina venne chiamata brigantaggio. Per cui uccisero 17 mila briganti che non esistono da nessuna parte del mondo. Ed erano invece contadini in rivolta, o ex militari borbonici. Tutto già da allora ha preso una piega diversa. Quando fu fatta l’Unità d’Italia noi in Sicilia avevamo 8000 telai, producevamo stoffa. Nel giro di due anni non avevamo più un telaio. Funzionavano solo quelli di Biella. E noi importavamo la stoffa. E ancora oggi è così”. Andrea Camilleri, il maggiore scrittore italiano in vita, parla insomma di colonia interna, di sfruttamento sistematico del Mezzogiorno sin dal momento dell’Unità, di falso Risorgimento che in realtà è stato una guerra di conquista, di storia nascosta. Col passare del tempo il Sud non poteva che diventare inutile, sfruttato ed inquinato, e allora bisogna trasferire le menti al Nord dopo averle opportunamente programmate affinché dimenticassero le proprie radici, una situazione cui non è esente da colpe la classe dirigente locale: “Nell’Ottocento, quando cominciò a sorgere la cosiddetta questione meridionale, c’erano parecchi deputati meridionali che si battevano per la questione meridionale. Oggi si battono per altro, non per la questione meridionale”. Che il neonato Stato Italiano fosse marcio lo avevano rilevato anche altri due grandissimi scrittori siciliani, Luigi Pirandello e Giovanni Verga, i quali, inizialmente entusiasti per quella doveva essere una nuova epoca dorata per la Sicilia cui fu promessa l’autonomia, divennero critici e rinnegarono nei fatti l’Unità d’Italia. Pirandello nacque nel 1867 in una famiglia che aveva partecipato attivamente ai moti risorgimentali, lottando al fianco dei Mille per la liberazione della Sicilia, ma egli manifestò le proprie aspre critiche soprattutto nel romanzo “I vecchi e i giovani”, dove sono a confronto la vecchia generazione, quella protagonista dell’Unità, e la nuova, quella che vive sulle proprie spalle i fatti del 1860. È un’opera il cui fulcro è l’eredità lasciata ai giovani, ma non i giovani del tempo, bensì quelli che sarebbero continuati a nascere nei decenni successivi. Donna Caterina, nel romanzo, afferma: “Qua c’è la fame, caro signore, nelle campagne e nelle zolfare; i latifondi, la tirannia feudale dei cosìddetti cappelli, le tasse comunali che succhiano l’ultimo sangue a gente che non ha neanche da comperarsi il pane”. Eccoli qui, ma non solo essi, gli ottomila telai di cui parla Andrea Camilleri. È quella che Pirandello chiama “bancarotta del patriottismo”, l’inganno e il fallimento del Risorgimento, l’amara consapevolezza che dietro i Mille vi era ben altro disegno, ben altri burattinai che della Sicilia e, del resto, di tutto il Mezzogiorno, non se ne curavano se non come territorio attraverso cui accrescere la propria posizione, il proprio potere, la propria ricchezza. La critica di Giovanni Verga si dispiega invece nel cosiddetto “Ideale dell’ostrica”, secondo il quale è impossibile migliorare la condizione nella quale si è nati, una sorta di cu nasci tunnu un po muriri quatratu, nonostante tutti gli sforzi che possano essere fatti: Mastro Gesualdo non diverrà mai Don Gesualdo, al massimo Mastro Don Gesualdo, e la famiglia di Padron ‘Ntoni, appena cercherà di ampliare la propria “attività” perderà la barca – migliorare non si può, si può solo fare peggio, dunque è meglio restare, come un’ostrica, attaccati al proprio scoglio. I lavori di Verga sono tutti incentrati sulla condizione delle classi più povere e disagiate, implacabilmente sfruttate e impossibilitate a raggiungere non solo il benessere, ma neanche una condizione leggermente migliore rispetto a quella di partenza. In maniera un po’ velata, certo, ma evidente a chi vuole andare oltre il racconto e contestualizzare l’opera di uno scrittore, capire le basi sulle quali è stata scritta, sono presenti la sfiducia e la delusione verso qualcosa che sembrava oro, ma era un’illusione, un miraggio, un inganno: era l’oro dei pazzi.

L’insabbiamento culturale della Questione Meridionale, scrive Franco Busalacchi il 30 novembre 2017 su "I Nuovi Vespri". E’ stato un lavoro scientifico: dai primi anni dell’unità fino al fascismo, dal dopo guerra ai giorni nostri, una strategia ben precisa ha occultato la vera natura degli eventi risorgimentali e tutto quello che ne è seguito. Ricostruiamo i passaggi principali con i contributi di Nicola Zitara, Carlo Coppola, Pino Aprile. 

Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l’unità d’Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di “regime” stese, dai primi anni dell’unità, un velo pietoso sulle vicende “risorgimentali” e sul loro reale evolversi. Tutte le forme d’influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borbone o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi. Si cercò di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II – il “Franceschiello” della vulgata – arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d’Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una “santa” e allevato dai preti, con ogni probabilità non aveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risultò, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitò scalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio. La memoria di Re Ferdinando II, padre di Francesco, fu infangata da accuse di brutalità e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone – interessatamente – d’essere stato – lui cattolicissimo – “la negazione di Dio”. Soprattutto si minimizzò l’entità della ribellione che infiammava tutto il l’ex Regno di Napoli, riducendolo a “volgare brigantaggio”, come si legge nei giornali dell’epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord in quanto la libertà di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre 1865); nasce così la leggenda risorgimentale della “cattiveria” dei Borbone contrapposta alla “bontà” dei piemontesi e dei Savoia che riempirà le pagine dei libri scolastici. Restano a chiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici del Regno d’Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, a mantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti così lontana dalla verità.)  Le ragioni per cui la verità sulle vicende risorgimentali non vengono alla luce sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D’Azeglio enunciò nel secolo scorso “Abbiamo fatto l’Italia, adesso bisogna fare gli Italiani”, e possono essere esemplificate nel seguente modo:

a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l’unità si ottenne, ammantando di leggende “l’eroico” operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall’esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realtà, dall’esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile – nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte – e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere “liberate” e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori. Per contro si diede della deposta monarchia borbone un’immagine traviata e distorta, e del ‘700 e ‘800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d’oppressione e miseria dal quale le genti del sud si emanciperanno, finalmente, con l’unità, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavitù dello “straniero”.

b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com’era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo “revisionista”, riconducendo anzi l’origine della nazione al periodo romano e saltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l’indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da un punto di vista storico insabbiò ancor di più la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell’impianto culturale del regime.

c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l’impianto di pubblica istruzione del periodo fascista. La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano, con la Repubblica di Salò, diviso in due l’Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicità della storia risorgimentale e alimentare così tesi separatiste.

La lettera della contessa Adelasia di Sicilia: è a Palermo il documento più antico d'Europa. Adelaide del Vasto, nota anche come Adelasia Incisa del Vasto fu la terza moglie di Ruggero I di Sicilia e la madre di Ruggero II: la missiva è una richiesta di protezione, scrive "Balarm" il 7 febbraio 2018. È datato 1109 il documento di straordinaria importanza che è conservato a Palermo: si tratta di una lettera scritta a mano dalla contessa Adelasia (o Adelaide) del Vasto degli Aleramici (1074-1118) moglie di Ruggero I, conte di Sicilia e di Calabria che ha fondato la dinastia normanna in Sicilia, e quindi madre di Ruggero II. Oltre a essere il documento cartaceo più antico di tutta l'Europa, la lettera è bilingue: è scritta in greco e arabo, e venne scritta per ordinare ai vicecomiti della terra di Castrogiovanni (oggi Enna) di proteggere il monastero di San Filippo di Demenna, sito nella valle di San Marco, che rientrava nel suo patrimonio personale. Adelasia usò la carta perché non si trattava di un documento solenne, per i quali veniva ancora usata la pergamena. I restauri hanno mostrato che la carta è di provenienza araba: all’analisi microscopica si nota come l'impasto sia composto da cellulosa di lino in fibre poco raffinate e frammentate. Una provenienza confermata dalla materia prima, dalla scarsa raffinazione, dall’assenza di filigrana e dalla grande quantità di amido di frumento ritrovata nella fibra. Questo "primo pezzo di carta" è detto anche Mandato di Adelasia ed è naturalmente malridotto, anche all'indomani del restauro messo in opera dal Centro di Restauro di Roma, oggi è comunque conservato all’Archivio di Palermo in via Maqueda. Il documento importantissimo è per la storia della Sicilia e testimonia i forti legami dell'isola con il mondo arabo anche dopo il cambio di egemonia, oltre al vissuto della contessa Adelaide del Vasto. Era figlia dell'aleramico Manfredi Del Vasto, fratello di Bonifacio del Vasto, marchese di Savona e della Liguria Occidentale, dopo la morte del marito divenne reggente del regno fino alla maggiore età del figlio Ruggero II (nel 1112). L'anno dopo sposò in seconde nozze Baldovino I di Gerusalemme e divenne Regina di Gerusalemme ma fu ripudiata per motivi politici nel 1117. Allora tornò in Sicilia e si ritirò nella cittadina di Patti, a Messina, dove morì il 16 aprile dell'anno seguente. Le sue spoglie sono sepolte nella cattedrale di Patti in un mausoleo rinascimentale. Ruggero I di Sicilia è citato spesso come il Gran Conte Ruggero, stabilì la propria corte a Mileto, in Calabria. Lì sposò la normanna Giuditta d’Évreux e insieme al fratello Roberto, pianificò la conquista della Sicilia, allora in mano ai musulmani.

NEGAZIONISMO. Scrive "Un Popolo Distrutto" il 10 gennaio 2018. Qualsiasi Stato tende a conservare le forme e gli uomini che esercitano il Potere e a resistere ai mutamenti della storia, controllando la memoria storica della società conservata negli archivi - soprattutto i più rilevanti: quelli delle classi dirigenti e quelli in cui il conflitto di classe interno e internazionale viene testimoniato. Inoltre, influenzando i cittadini attraverso una politica culturale che li standardizza allo status quo esistente, e che viene esercitata soprattutto nelle aule scolastiche e attraverso i mass media: manuali scolastici nella formazione culturale di massa e televisione. La storia degli archivi è legata alla storia del Paese e, pertanto, la chiusura di taluni fondi archivistici è strettamente connessa al mancato ricambio della classe politica in Italia e alla non partecipazione reale delle masse alla gestione pubblica: una democrazia bloccata, cioè una falsa democrazia. E' importante tutelare la memoria collettiva, ma strenue sono le resistenze, per una volontà di rimozione, che impedisce "… al materiale dimenticato di divenire cosciente, avendo a suo tempo provocato questo oblio così da espellere dalla coscienza le corrispondenti esperienze patogene", allo stesso modo nei comportamenti della collettività sono dannose per la coscienza storica.

"Quando l'oblio è politico … La memoria collettiva ha costituito un'importante posta in gioco nella lotta per il potere condotta dalle forze sociali" (Jacques Le Goff).

Già Gramsci, nei Quaderni dal carcere, rifletteva che le interpretazioni del Risorgimento delle classi dirigenti, erano legate a una serie di fatti. Tra questi era essenziale "non spiegare razionalmente il brigantaggio". Sui fondi documentari sul brigantaggio post-unitario ("fino al '70 - anche dopo - col nome di brigantaggio - scriveva Gramsci nel carcere di Turi - si intendeva quasi sempre il movimento caotico, tumultuario e punteggiato di ferocia, dei contadini per impadronirsi della terra"). Scrisse Luigi Settembrini: "L'ultima delusione, poi, ci è data dall’Ufficio storico del Corpo di Stato maggiore; il quale pure aveva destato nel pubblico italiano la speranza della storia. Invece è riuscito un maggiore inganno, perché le sue narrazioni, assumendo per documenti quanto nel tempo si è scritto di adulterato o di addirittura inventato, dimostrano che anche esso ha il fine di consolidare come storia il doppio uragano di glorificazioni al Nord e denigrazioni al Sud, doppio uragano che col pretesto politico non è che sfruttamento economico". Settembrini per le sue attività antiborboniche e liberali del '48 venne condannato a morte con la restaurazione borbonica, la pena venne poi commutata in ergastolo. Dopo l'occupazione militare del Regno delle Due Sicilie, insegnò all'Università di Napoli diventandone in seguito rettore. Durante la sua attività nell'ateneo napoletano, rammaricato per il disfacimento degli istituti e dei costumi napoletani a seguito dell'Unità d'Italia, agli studenti che si lamentarono di alcuni regolamenti e dell'iniquità nella distribuzione dei fondi scolastici, egli rispose: «Colpa di Ferdinando II!». Gli studenti stupiti gli chiesero le motivazioni ed egli replicò: «Se avesse fatto impiccare me e gli altri come me, non si sarebbe venuto a questo!». Nonostante sia stato negato ufficialmente, i documenti esistono e sono custoditi nell'Ufficio Storico dell'Esercito, ben 140 dossier ciascuno dei quali racchiude dalle 800 alle 1000 pagine numerate, con i dati rilevanti sulla repressione militare del brigantaggio; con rapporti spesso in codice tra governo centrale di Torino e luogotenenza di Napoli; con informazioni sulle zone militari, sui reggimenti, sugli scontri, sulle attività di spionaggio; con le statistiche dei militari uccisi; con numerosi rapporti sulle bande e sui singoli contadini-briganti. Nonostante siano passati più di 150 anni non si è ancora sciolto il segreto di stato e tutti i documenti non sono stati trasferiti all'archivio centrale dello Stato.

Impadronirsi della memoria e dell'oblio è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi, degli individui che hanno dominato e dominato le società storiche (Jacques Le Goff).

Un Paese nato dai Complotti. Scrive "Un Popolo Distrutto" l'8 gennaio 2018. Depistaggi, infiltrati, attentati, complotti, miti e leggende: l’Italia è una repubblica fondata sui servizi segreti. Servizi italiani o stranieri non importa. Da tempo immemore – ben prima che fosse una Repubblica. Il buon Camillo Benso Conte di Cavour faceva un uso spropositato di “black op” (“black, operation”, operazioni coperte), come le si chiamano oggi, per realizzare i propri scopi politici. Giovanni Fasanella, storico cronista dell’Unità a Torino e autore di una trentina di libri, ha ricostruito la vicenda di tale Curletti, capo dei servizi sabaudi preunitari, nel libro Italia Oscura. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, la storia che non c’è sui libri di storia. Citando documenti e memoriali ritrovati nell’archivio storico della Difesa ha ricostruito gli spostamento del Curletti che, a quanto pare, scorrazzava per borghi e città dell’Italia risorgimentale ad alimentare moti carbonari, spargere foglietti di propaganda, organizzare brogli nei plebisciti e alimentare bande di criminali per destabilizzare gli ordini costituiti. Un perfetto agente provocatore. Il ruolo del capo della polizia segreta di Cavour, tale Curletti, che ha alimentato moti carbonari, brogli elettorali, bande criminali per destabilizzare l’Italia pre-unitaria e creare voglia di Risorgimento. Lo scopo era chiaro. I mandanti occulti un po’ meno. C’erano interessi della Corona – scrive Fasanella. Non i Savoia, non solo, bensì sua Maestà d’Inghilterra. Che aveva tutto l’interesse a fare dell’Italia uno Stato unitario. Perché? Perché con l’apertura del canale di Suez (1871) serviva una “piattaforma” nel Mediterraneo per mantenere un ruolo egemone nel commercio internazionale. Serviva il meridione. Ed è così che corsi e ricorsi cominciano a dipanarsi: dove abitò Mazzini per lungo tempo? A Londra. Dove sbarcò Garibaldi in Sicilia? A Marsala, dove i britannici schieravano una flotta a largo delle coste e dove nutrivano interessi in due settori chiave dell’economia siciliana: vino e zolfo. Grazie a un paziente lavoro d’archivio e in virtù di una legislazione, quella britannica, che consente già di avere accesso ai documenti classificati confidential, secret, top secret conservati negli archivi di stato di Ken Gardens, nei pressi di Londra, è oggi possibile disporre di un quadro assai interessante (e intrigante) della strategia messa in campo dalla Gran Bretagna verso l’Italia fino alla fine degli anni ’70. Quella tra il Regno delle Due Sicilie, prima e l’italia dopo, contro la Gran Bretagna per il controllo del Mediterraneo e delle rotte petrolifere verso il Nord Africa e il Medio Oriente, fù una guerra segreta, perché combattuta con mezzi non convenzionali tra nazioni amiche e, per una lunga fase della loro storia, persino alleate. Invisibile e impercettibile, ma non meno dura delle altre». Una guerra non combattuta, quindi, con le armi tradizionali, ma con una intensa attività di intelligence e della diplomazia britannica con l’obiettivo di orientare e manipolare l’opinione pubblica italiana e condizionare i partiti di governo (e non solo) al fine di tutelare gli interessi strategici del Regno Unito. Un condizionamento così intenso da offuscare, in alcune fasi, addirittura l’arcinota influenza nelle vicende interne italiane degli stessi Stati Uniti. Nel secondo dopoguerra, hanno sempre riservato un’attenzione particolare per l’Italia in ragione della sua posizione strategica di confine con le propaggini dell’Impero sovietico e quindi della lotta al comunismo, per la Gran Bretagna le motivazioni dell’interesse per il nostro Paese sarebbero andate al di là delle pur importanti questioni di equilibri internazionali e avrebbero sconfinato nella difesa degli interessi nazionali, con particolare riguardo alle questioni dello sfruttamento del petrolio. «In molte parti del mondo – si legge in un rapporto del ministero dell’Energia britannico dell’agosto 1962 – la minaccia dell’Eni si sviluppa nell’infondere una sfiducia latente nei confronti delle compagnie petrolifere occidentali […] a scapito degli investimenti e degli scambi delle imprese britanniche». Per gli inglesi, l’Italia, paese uscito sconfitto nel 1945, non avrebbe avuto alcun titolo ad esercitare un’autonoma politica estera nel bacino del Mediterraneo e in Medio Oriente. Una prerogativa che gli inglesi rivendicavano per loro, come contropartita sia per la nascita di uno stato unitario che per la vittoria nella seconda guerra mondiale. Ciò portò ad una «guerra senza quartiere a quella parte della classe dirigente italiana cosiddetta “sovranista” – i De Gasperi, i Mattei e i Moro, solo per citarne alcuni esponenti – che mal sopportavano il ruolo del “protettorato” britannico che, in nome dell’interesse nazionale italiano, “disturbava” Londra proprio nelle aree più strategiche, a cominciare da quelle petrolifere in Iran, Iraq, Egitto e Libia». Dai documenti inglesi, emergerebbe, infatti, un interventismo nella politica italiana che si sarebbe spinto fino ad autorizzare black operations per intralciare sia i rapporti tra l’Italia e il mondo arabo sia l’ingresso dei comunisti nell’area di governo negli anni settanta. Francesco Cossiga, ministro dell’Interno all’epoca del caso Moro e poi Presidente della Repubblica, disse: «Io non mi meraviglierei […] se un giorno si scoprisse che anche spezzoni di paesi alleati […] avessero potuto avere interesse a mantenere alta la tensione in Italia […]. E quindi a tenere basso il profilo geopolitico del nostro Paese».

LO STRISCIANTE RAZZISMO ANTIMERIDIONALE. Scrive "Un Popolo Distrutto" il 22 gennaio 2018. Dopo il brigantaggio queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati, per le prigioni. [C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli]. Con i “discorsi biologico-razzisti” degli ultimi decenni dell’Ottocento nelle teorie dell’antropologia criminale di Cesare Lombroso e del suo allievo Alfredo Niceforo, si ammetteva una differenza tra i caratteri delle popolazioni italiane in “due razze”: una del Nord e una del Sud, gli “arii” e i “mediterranei”. La “decadenza” dell’Italia era causata da questa differenza razziale, dove la società meridionale non poteva che essere “atavica”, incline al delitto passionale, al brigantaggio, alla mafia, alla camorra, ovvero quelle tipiche forme di “delinquenza selvaggia e primitiva”. Invece il carattere antropologico faceva loro buon gioco per la spiegazione che i mediterranei erano profondamente individualisti, mentre nell’Italia settentrionale, il senso civico e il “sentimento di organizzazione sociale” della “razza degli arii” consentivano un radicamento socialista. Il rapporto tra enunciazioni e pratiche di potere riproduce una retorica paternalistica del Nord che per costruire un impero è convinta di essere la parte buona che protegge la parte debole, “cattiva”, (il sud), invadendola della propria idea di sviluppo e civiltà. La compenetrazione del sapere scientifico, infarcito di abbondanti stereotipi e luoghi comuni, con il potere suscita gli effetti desiderati: “La morale di base di una società arretrata da un’immagine scontata, pittoresca, che si fa beffa di un secolo di storia, riportando alla memoria le stampe dell’Illustrazione Italiana di fine Ottocento, dove le genti del Sud sono rappresentante come “lazzaroni” che mangiano con le mani la pasta e si dilettano al sole, adagiandosi nell’ozio. L’insieme di questi stereotipi vanno affiancati quelli ormai celebri: il Sud, terra della sporcizia delle clientele, dello sperpero, dell’indolenza e dell’imbroglio”. Dinanzi al riproporsi ridonante di luoghi comuni da una parte, e, dall’altra parte, la tendenza risentita che suscita la reazione oppure la difesa da qualsiasi accusa di razzismo, luogo per antonomasia dell’arretratezza, della diversità e dell’inferiorità rispetto al resto dell’Italia e dell’Europa. Un tenace catalogo che oscilla lungo l’intersezione tra una diversità antropologica e certe dirette conseguenze in termini economiche, sociali e politici. I meridionali sono passionali, indisciplinati, ribelli, individualisti e, dunque, inabili alla formazione di una cultura razionale, civica, ordinata. Di conseguenza, il contesto sociale ed economico è sottosviluppato a causa del clientelismo politico, delle relazioni gerarchiche e patriarcali, e delle varie forme di manifestazione del crimine organizzato. Con buona approssimazione, la descrizione del Mezzogiorno potrebbe essere qui terminata, ma invece diviene un buon cibo per inchieste giornalistiche, fiction, documentari televisivi e nel suo interno si inserisce il “dispositivo Saviano”: «a partire da una descrizione del territorio apparentemente accuratissima, pagina dopo pagina si fa descrizione morale di una popolazione preda inguaribile dei suoi incubi atavici, dunque lotta fra Bene e Male, ove il male è tanto assoluto da non potere postulare che un intervento radicale, ossia portato alle radici antropologiche della questione: un intervento dello stato-chirurgo sul cancro-popolazione» (Petrillo 2011). Così la realtà romanzata fa buon gioco di stereotipi, corroborandosi in un atto di fede: a ben vedere, non è assai diverso da quanto in precedenza letto. Sebbene non manchi letteratura che faccia giustizia di questi cliché antimeridionali, la ragione per cui siano ancor oggi in circolazione più prepotentemente di quanto non si voglia credere s’annida forse in quel “senso comune” sorretto dalle verità delle rappresentazioni, da immagini cristallizzate nel tempo e, semmai, corroborato persino da ricerche scientifiche. L’orientalismo aiuta sicuramente a costruire un’immagine dominante del Mezzogiorno italiano al contempo come paradiso turistico e inferno sociale, ma «la soggezione simbolica passa anche e soprattutto attraverso la sua definizione come luogo dell’arretratezza e del sottosviluppo, come forma incompiuta di nord» il Nord europeo a percepirsi nella sua compiutezza di civiltà superiore, dall’altro, e, a definire il Sud stesso come una sua copia imperfetta ovvero come una porzione della civiltà occidentale che non segue il ritmo del suo cuore pulsante, collocato lontano dalle rive mediterranee. Il Sud è un Nord “esterno” e “senza”, senza storia, senza progresso, senza la luce della ragione, senza futuro, insomma senza tutte quelle conquiste del Nord moderno. «L’idea di Sud come di non Nord, di un Sud pensato da altri, non più soggetto di pensiero, ma brutta copia di un’altra latitudine, è un processo facilmente percepibile all’interno del territorio italiano». D’altro canto, nella storia d’Italia il pregiudizio o il razzismo antimeridionali sono stati sempre adoperati per soddisfare istanze economiche ma anche politiche e ideologiche. A questo punto anche la stessa “questione meridionale” è il prodotto della “surdeterminazione” di differenti istanze. Infatti, in alcuni temi della quistione meridionale, proprio Gramsci segnala come «l’ideologia diffusa in forma capillare dai protagonisti della borghesia nelle masse del Settentrione» rappresenti “il Mezzogiorno” dentro il refrain di «palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia», perché «i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari» (Gramsci, 1930). Esemplare è l’esercizio gramsciano di decostruzione e dell’unificazione italiana e della “questione meridionale”. In quel pregiudizio, o meglio, in quel razzismo antimeridionale, solidificatosi in “senso comune”, Gramsci intravede il riflesso delle istanze economiche e delle istanze ideologiche, in un rispecchiamento “surdeterminato”. In questa sovrapposizione, il pregiudizio in termini di inferiorità biologica, vale a dire di naturalizzazione ed essenzializzazione, non fa che consolidarsi nelle forme del razzismo. Intrecciato alla vicenda storica del nazionalismo, il razzismo è però qualcosa che eccede il nazionalismo. A tutt’oggi non c’è alcuna difesa d’ufficio verso una causa meridionalistica, quanto piuttosto l’indagine di cosa si nasconda dietro questo archivio di rappresentazioni corroborate da studi pluridecorati quando non prodotti di inchieste o scoop di noti giornalisti.

L'UNITA' IL PECCATO ORIGINALE. Scrive "Un Popolo Distrutto" il 30 gennaio 2018. L’intera storia di questo Paese andrebbe riscritta per smascherare il sistematico ricorso alla coercizione armata degli apparati dello Stato per perpetuare il potere della “borghesia compra dora” (una classe media indigena alleata con gli investitori stranieri, multinazionali, banchieri e gli interessi militari) asservita al grande capitale cosmopolita e del suo partito: la massoneria. Le origini di molti mali dell’Italia di oggi risiedono nelle circostanze con cui l’unità nazionale fu raggiunta, cioè una spietata guerra di conquista e di saccheggio scatenata dal Piemonte contro i floridi stati preunitari. Gli obbiettivi di Cavour erano quelli di garantire alla nascente industria del Nord i capitali per il suo sviluppo e un mercato per i suoi prodotti. Quindi si deve parlare di una vera e propria guerra coloniale: dove la potenza imperialista interviene direttamente per garantire la sicurezza degli investimenti e lo sfruttamento del territorio. Con l'emancipazione nazionale il grande capitale arruola tra gli indigeni il personale di cui ha bisogno: tecnici, amministratori, forze di polizia. Poi in modo più sfumato, la potenza imperialista continua a condizionare la colonia attraverso i programmi di assistenza economica, militare e culturale, ma ricorrendo anche alla corruzione, all’intimidazione, al colpo di stato e all’intervento militare diretto. Il tutto nell’interesse del grande capitale, che nel frattempo è diventato cosmopolita. In italia il Regno del Piemonte si sostituì, all’Austria come potenza coloniale e l’unità segnò il punto di transizione dall’epoca coloniale al neocolonialismo. Di fatto termina una dominazione straniera e sorge uno Stato unitario e formalmente indipendente sul piano politico, ma pur sempre aggiogato al carro del grande capitale. Fu la grande finanza ebraica a spingere i governi europei a intraprendere le iniziative coloniali dell’Ottocento. Ciò accadde perché il grande capitale non trovava più sufficientemente remunerativi gli investimenti nelle loro nazioni d’origine. Il caso italiano non fa eccezione: furono i Rothschild di Parigi e i loro agenti a Parigi, Londra e Ginevra a finanziare le guerre d’indipendenza, la costruzione di cantieri navali, ferrovie e fabbriche di armi, l’allestimento di una moderna flotta. Re Vittorio Emanuele II e Cavour contrassero con la finanza ebraica debiti di tali proporzioni da rendere necessario il saccheggio sistematico del resto della Penisola. Questo fu il meccanismo criminale che portò all’unificazione della Penisola. L’Italia è sempre stata una terra ricca grazie ai suoi porti, alla sua collocazione geografica, alla fertilità delle campagne, all’ingegnosità dei suoi abitanti: c’era tanto da predare in Italia. La resistenza delle strutture tribali alle strutture del capitalismo avanzato provocano un fenomeno di reazione, che è possibile osservare nella storia di ogni Paese toccato dal colonialismo. Questa situazione si trova anche nel Mezzogiorno italiano e prende il nome di brigantaggio. Con l’affermazione di una classe sociale, detta borghesia compradora, da non confondere con la borghesia produttiva che fa impresa o la piccola borghesia cittadina dedita al commercio spiccio, né quella rurale dei piccoli proprietari terrieri. Ma l’agente del grande capitale nei Paesi in via di sviluppo: è la classe sociale degli amministratori, degli ufficiali dell’esercito, degli impiegati di banche straniere e multinazionali, dei liberi professionisti, la cui unica ragione è la difesa degli investimenti stranieri sul territorio minacciati dalle rivendicazioni sociali del popolo oppresso. I suoi membri traggono una rendita di posizione, che si esprime nelle forme del potere personale, del prestigio e della ricchezza. La borghesia compradora comparve in Italia alla vigilia dell’unità col preciso compito di saccheggiare il Paese per sé e per i propri padroni: i potenti banchieri israeliti di Parigi, Londra e Ginevra guidati dai Rothschild. Furono costoro, che finanziarono le guerre d’indipendenza e il processo di modernizzazione del Paese. Considerati gli interessi che essi difendono, non sorprende che governi di diverso colore politico si alternino tra loro senza che nulla cambi. (“Tutto cambia perché nulla cambi”. Tomasi di Lampedusa). Il sacco d’Italia iniziò accentrando in un’unica mano la leva della fiscalità a partire dal 1861 e fu condotto per mezzo di un esercito di amministratori corrotti e soldati. Così, servendosi della borghesia compradora selezionata e arruolata dalla massoneria, il grande capitale instaurava le sue strutture economiche nella Penisola. Il risultato fu un’ondata di miseria quale non se ne ricordava da secoli: fu a quel punto che milioni di compatrioti iniziarono a emigrare in America con le famose valige di cartone. (Oggi il fenomeno si ripete: sono giovani diplomati e laureati che partono in cerca di opportunità di lavoro che in Italia mancano, piccoli imprenditori che chiudono le loro fabbrichette in Italia per delocalizzare le produzioni, pensionati che fuggono in Portogallo, in Romania o in Tunisia per poter vivere dignitosamente gli ultimi anni della loro vita con quel poco di pensione che si ritrovano). Tutto questo accade perché esiste una casta che nulla produce, ma depreda, dilapida e si vende le ricchezze che dovrebbe amministrare in nome del popolo sovrano. Dal 1861 i vari governi che governavano il Paese imposero al Sud la pesante tassazione che già gravava sul Nord, aggiunsero nuovi balzelli, come l’odiosa tassa sul macinato, confiscò i palazzi e le tenute fondiarie della Chiesa, che i soliti faccendieri si accaparrarono a prezzi stracciati. Tutto ciò serviva ad alimentare la corruzione, la speculazione e il clientelismo mentre prestiti sempre crescenti venivano richiesti sui mercati alimentando la spirale del debito pubblico. Fu così l’Italia si configurò, fin dall’inizio, la “cleptocrazia” cioè il governo basato sul malaffare.

Ma la vera grande protagonista dell’unità d’Italia fu la massoneria: il Grande Oriente d’Italia sorse ufficialmente come estensione della Loggia Ausonia, fondata nel 1859 a Torino con la benedizione di Cavour. Vi entrarono in massa personaggi che occupavano posizioni sociali di rilievo ed erano incredibilmente ardenti patrioti. Fu quindi la massoneria a selezionare la borghesia compradora in Italia, che sostituì gli amministratori e gli sbirri austriaci e assorbì al proprio interno quelli borbonici. In una continuità, assicurata dalla massoneria, nella trasmissione del potere da una generazione all’altra, attraverso i meccanismi ben noti del nepotismo, della raccomandazione e della corruzione. È l’Ordine che garantisce l’impunità della casta al potere, controllando contemporaneamente il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, mettendo in relazione il magistrato col il malavitoso, il politico corrotto col faccendiere corruttore, l’élite italiane e con quelle straniere. Tutto ciò si palesa chiaramente nella storia di Adriano Lemmi, il “banchiere del Risorgimento”, Gran Maestro della Massoneria negli anni tra il 1885 e il 1896. Egli fu il punto di congiunzione tra il mondo dell’alta finanza e la borghesia compradora italiana. Lemmi fu l’eminenza grigia dietro il primo ministro Francesco Crispi, un “33” del Rito Scozzese. Fu Lemmi a creare una Loggia supersegreta, la Loggia di Propaganda, per nascondere l’affiliazione massonica dei personaggi più autorevoli e influenti del tempo: banchieri e uomini politici. (Quando il Venerabile Licio Gelli assurse a eminenza grigia della Prima Repubblica, non fece altro che ricopiare i metodi di Lemmi creando la Loggia Propaganda 2). Come ogni borghesia compradora, anche quella italiana è corrotta, inefficiente e arrogante. Il primo scandalo dell’Italia unita fu quello delle Ferrovie meridionali, nel quale Lemmi figura come l’organizzatore di un giro di mazzette che coinvolse faccendieri, uomini politici e avvocati. Nel 1893 il governo Giolitti cadde a causa dello scandalo della Banca romana, una truffa colossale di cui Lemmi era il regista. Pure negli odierni scandali bancari si può leggere, dietro alle collusioni tra politica e finanza, la lunga mano della massoneria. Poco più di un secolo dopo, la storia si è ripetuta con lo scandalo della metropolitana di Milano, per il quale il Presidente del Consiglio Bettino Craxi e altri furono condannati per corruzione. Possiamo aggiungere che Craxi e Martelli, nel 1981, avevano letteralmente comprato il Partito Socialista con i soldi messi a disposizione dalla P2 secondo le dichiarazioni dell’on. Cicchitto. La super-loggia di Gelli fu coinvolta anche nello scandalo del crack del banco Ambrosiano, al quale va collegata l’uccisione del banchiere massone Roberto Calvi. Questi fenomeni crimininali si ripetono periodicamente nella storia italiana proprio a causa del peccato originale della genesi dell’Italia unita: un’operazione colonialista condotta in nome del grande capitale, nel quale la massoneria ha giocato un ruolo decisivo.

BUONI E CATTIVI. Scrive "Un Popolo Distrutto" il 31 ottobre 2017. Per decenni in Italia si divisero i protagonisti della storia in buoni e cattivi: i buoni erano chiaramente i padri fondatori dell’Italia del Risorgimento, come la Casa Savoia, Cavour, Mazzini e Garibaldi, mentre i cattivi erano i Borbone, i briganti i meridionali e persino il papa Pio IX. La storia era dogmatica e indiscutibile! Un tempo era vietato o disdicevole, politicamente e moralmente scorretto parlare male di Garibaldi. Diffamare l'Eroe dei due mondi equivaleva ad un’offesa alla Patria. Finalmente oggi la patina moralista si stà sgretolando man mano che la verità storica la stà erodendo, anche di fronte ad un’unità mai realmente fatta, e i cadaveri della storia del Risorgimento saranno richiamati di nuovo in vita e passati in rassegna. Dopo decenni di diffusione quasi clandestina di scritti illegali, poiché censurati in quanto ostili al regime storiografico e culturale, con la fine degli anni '90 il compatto muro di silenzio che ha custodito la leggenda metropolitana del Risorgimento nazionale ha iniziato a vacillare, a creparsi, a crollare rovinosamente”. Oggi sappiamo che esiste un’altra storia che va contro corrente, che prima la casa Savoia, e più tardi il fascismo hanno represso. Il Dogma del “mai parlare male di Garibaldi” ha avuto come conseguenza che alla libera ricerca storiografica si sono legate le mani e che la verità fosse nascosta. L’Italia soffre sino ad oggi della natura della sua unità: La Questione Meridionale, il contrasto tra Polentoni e Terroni ed il leghismo sono i sintomi di questa sofferenza. Fino a quando l’Italia indosserà questi tessuti nella tunica della sua storia nazionale, per tante disfunzioni non ci sarà rimedio e per tanti conflitti non ci sarà soluzione. Della storia risorgimentale è stato tramandato soprattutto il mito, mentre non sono state raccontate tante vicende, per il semplice fatto che non si voleva macchiare l'immagine edulcorata del processo di unificazione nazionale portato avanti dai liberali e dai massoni. La storiografia del Risorgimento non fa eccezione alla regola che nella storia di numerosi stati nazionali la verità spesso è sacrificata. E questo vale soprattutto per il Regno delle due Sicilie, che è stato rappresentato a tinte molte fosche e orrende, per giustificare e glorificare il processo dell'unificazione. Il Regno delle due Sicilie fu sancito con la peggior condanna: la Damnatio memoriae, e il nucleus della condanna della memoria la subì Ferdinando II. Analogamente alla prassi presso gli antichi Romani, ogni suo ricordo fu condannato, il lutto fu proibito, armi e stemmi furono distrutti, la sua “casa” fu devastata e per motivi di prevenzione l’infamia perpetua fu estesa a tutti i suoi discendenti. Per questa ragione oggigiorno si trovano solo ancora scarse tracce del Regno delle due Sicilie. Nel linguaggio colloquiale abbiamo “l’esercito di franceschiello” e l’aggettivo “borbonico” che hanno un valore apertamente peggiorativo. L’aggettivo borbonico facilmente cade quando qualcosa deve essere descritto come arretrato, sottosviluppato o corrotto. Intanto il patrimonio culturale dell’Italia spesso è indicato con gli attributi Farnese, Gonzaga, Sforzesco, D´Este ecc., borbonico nel migliore dei casi si usa per descrivere le carceri. Mai durante una visita – per esempio - alla reggia di Caserta cadrebbe la parola “borbonica”. Mentre i re italiani Vittorio Emanuele II e Umberto I sono entrati nella storia con i sopranomi “Re Galantuomo” e “Re Buono”, mentre Ferdinando II è tuttora conosciuto come “Re Bomba“, perché fece bombardare Messina. Mentre in quasi ogni cittadina quanto piccola che sia si può passeggiare in una Via Garibaldi oppure in una Via Cavour addirittura magari trovare una statua di Garibaldi in piazza; esistono solo due comuni nel Sud, a Battipaglia ed a Scafati con un monumento a Ferdinando II. Se si osservano con sguardo critico le nicchie nella facciata esterna del Palazzo Reale a Napoli, nella quale si possono ammirare otto figure rappresentanti i sovrani delle dinastie ascese al trono di Napoli, si può facilmente capire per conto di chi è stata fatta quella disposizione. Tra Murat e Vittorio Emanuele II, per la volontà di chi l’ha ordinato, cioè la casa Savoia, non c’è un sovrano borbonico come per esempio Ferdinando II. Lungo i confini del Regno delle due Sicilie e quello Pontificio spesso si trovano testimoni in pietra dei due regni caduti, si tratta di 686 pietre di confine, che dividevano questi due stati preunificatori sulla penisola italiana. Il successo della “spedizione dei mille” fu il frutto di una preparazione lunga e meticolosa, alla quale i principali artefici furono gli inglesi. La domanda che ci facciamo è: Quali erano le motivazioni della Gran-Bretagna per la caduta del Regno delle due Sicilie? Certamente non era una rarità che le instabilità fossero provocate con delle manipolazioni, infatti secondo Osterhammel gli Inglesi erano “maestri” di tali manipolazioni. Ricorrendo ad un arsenale di strategie di destabilizzazioni, i territori furono preparati ad un ‘take–over imperiale‘. La forma dell’intervento, con presa di possesso, mira ad un’annessione o ad un’occupazione a lungo termine di una comunità collettiva straniera, è spesso preceduta dalla rottura di una coalizione vincente, che economicamente assicurava l’interesse della sicurezza e dell’economia, più che del colonialismo formale. Nel caso del “reluctant imperialists” britannico durante l’epoca del libero scambio (all’incirca dal 1820 al 1870) a causa del diffuso anti-annessionismo e dell’anti-interventismo c’era la necessità di offuscare le vere ragioni dell’intervento attraverso legittimi accertamenti. Sia l’ambizione di potere inglese che quella francese si collocavano con un inchino elegante davanti allo spirito filantropico di quell’epoca. Il crudo egoismo appariva spesso sotto forma di bisogno umanitario che nascondeva le vere ragioni di un intervento. Le giustificazioni preferite erano le provocazioni simboliche. L’offesa inflitta attraverso un colpo con la maniglia di un ventaglio con le piume da parte di Dey Hussein d’Algeria il 29.04.1827, al console francese, già offeso precedentemente, diede l’impulso necessario alla conquista dell’Algeria da parte della Francia. Ma quali motivi si nascondevano dietro il favoreggiamento britannico all’annessione piemontese del Regno delle due Sicilie? Una giustificazione spesso utilizzata in questo contesto è la tutela della vita dei cittadini e delle loro proprietà come anche l’autorizzazione a svolgere un’attività economica. Questa salvaguardia è garantita indirettamente da governi amici sul posto. Questo tipo d’intervento serve a rimuovere tutte le autorità statali, per instaurare e quindi sorreggere i regimi dei collaboratori. “…Il cosiddetto Risorgimento italiano “non fu che un episodio dell’imperialismo inglese” (Socci, in Nicoletta 2001). Il 1 Marzo 1848 Lord Palmerston fece chiaramente capire, che per lui le amicizie e le ostilità nella politica internazionale non dipendevano da principi ma dall’utilità che avrebbero per la Gran-Bretagna. L’idea chiave della politica britannica non era orientata verso parametri filantropici e morali, ma all’espansione ed al rinforzamento del proprio potere (cfr.Campolieti 2001: 29). L’Italia, la Grecia, il regno Ottomano e la costa nordafricana erano l’obiettivo della politica estera e la British Navy spesso diede supporto agli sforzi diplomatici (cfr.Thomson 1989: 52). La sicurezza delle rotte di commercio e il benessere dei cittadini britannici erano gli obiettivi principali. Nella House of Commons invece quasi quotidianamente si fece riferimento all’importanza del commercio con l’India e la sicurezza per le rotte marine attraverso il mediterraneo orientale. Il significato politico delle isole mediterranee Malta e Sicilia aumentano in questo contesto: la doppia nota della politica estera britannica, fatta da interesse commerciale e necessità militare che, come si verificò, avrebbe contribuito alla caduta del Regno delle due Sicilie. Ma il maggior vantaggio della rivalorizzazione del mediterraneo lo ebbe il sud con la tempestiva apertura del Canale di Suez (cfr.Mariano 1991: 163). Il Canale di Suez, tragitto di collegamento per l’India, ottenne un significato strategico rilevante. La Gran Bretagna aveva un doppio interesse per il Canale di Suez. Prevalentemente quest’interesse era dovuto a motivi economici, perché il commercio britannico rappresentava l’82% del traffico marittimo nel canale (cfr. Bierschenk 1977: 4). In più esisteva anche un interesse politico, poiché il canale era la principale linea di congiunzione con l’India, Ceylon, la strada di Singapore e British-Burma, dove sotto il dominio britannico vivevano circa 250.000 persone. In più serviva anche come collegamento con la Cina, dove l’84% del commercio estero era controllato dalla Gran Bretagna. Anche se le due grandi nazioni Francia e Gran Bretagna erano d’accordo sul fatto di impedire qualunque espansione russa, in realtà erano in parte ostili tra di loro. L’ambizione politica di Napoleone III minacciò gli interessi inglesi. Quando i Francesi costruirono, prima degli Inglesi, la prima nave da guerra in acciaio, la Gloire, l’Inghilterra intensificò i suoi sforzi per non rimanere indietro. Sotto il comando dell’ammiraglio Lalande, la politica marittima francese divenne una minaccia per l’Inghilterra. Aceto nella sua opera “De la Sicile et des rapports avec l´Angleterre” dichiara che la Sicilia é il punto più strategico di tutto il Mediterraneo. Inoltre evidenzia che l’antagonismo anglo-francese per l’isola. Dopo l’apertura del canale di Suez, la Turchia aveva una posizione molto vantaggiosa sul commercio verso l’oriente. Per questa ragione l’Inghilterra si dichiarò sostenitrice della Turchia. Il Meridione Italiano cosi diventò una base logistica estremamente importante per far fronte alla Russia. L’Inghilterra nel Mediterraneo oltre ai porti, messi a sua disposizione da forze minori, possedeva anche le basi di Gibilterra, Malta e le Isole Ioniche (cfr. Mariano 1991: 165). Nel Mediterraneo occidentale l’Inghilterra era regredita e così il centro strategico ebbe più rilevanza (cfr.Mariano 1991: 165). Nel 1860 il punto nevralgico fu la Sicilia, la cui posizione centrale la fece diventare chiave di tutto il Mediterraneo. Attorno alla Sicilia s’incontrano il bacino orientale e quello occidentale del Mediterraneo e il proprietario di quest’isola controlla sia lo stretto ed anche il canale. Quanto importante fosse l’interesse dell’Inghilterra per la Sicilia, lo dimostra la quantità di vice consolati britannici sull’isola. Oltre al console Godwin in Sicilia c’erano altri undici vice-consoli. A causa del valore enormemente strategico dell’Isola, l’Inghilterra diede il suo sostegno per l’unificazione italiana. Mariano constata, che gli Inglesi in realtà nella fase decisiva dell’unificazione italiana non hanno seguito principi etici, ma hanno agito strettamente in maniera antifrancese. Quanto il governo di sua maestà rispettasse “l’indipendenza” degli Italiani, lo dimostrano le vicende della Sardegna. Londra temeva, che il governo Italiano offrisse la Sardegna al papa in cambio dello stato pontificio. Giacché il papa intratteneva ottimi rapporti con la Francia, l’Inghilterra si oppose con tutta la sua forza contro questo progetto. Lord Palmerston reagì bruscamente a questo piano: “L´Inghilterra si opporrebbe strenuamente ad una simile estensione dell’´influenza francese in questo mare”. L’enorme significato strategico dell’isola mediterranea si riesce a spiegare con riferimento alla “querelle” per la proprietà dell’isola vulcanica u´bummuluni, come si chiama nel dialetto siciliano dei pescatori. La nomenclatura dell’isola non è per niente facile perché ben tre poteri hanno fatto appello ai lori diritti e questo ha influito sulla adozione di un nome. L’isola viene anche descritta come ‘isola dei setti nomi ‘: Sciaccia, Nertita, Corrao, Hotham, Julie, Graham e Ferdinandea. Il 2 luglio nel 1831 a Sacco del Corallo, a circa metà distanza tra Sciacca e Pantelleria, avvenne un’enorme esplosione subacquea. Dopo l’esplosione emerse un’isola alta 63 metri, lunga 4,5 chilometri e larga un chilometro. La posizione dell’isola risvegliò subito il desiderio di possederla, avendo un alto valore strategico come base militare navale. Da Malta fu inviata sull’isola la corvetta Rapid sotto il comando di Charles Henry Swinburne. In nome di sua maestà l’isola fu presa in possesso dall’impero britannico. Humprey Senhouse sbarcò con sette marinai sull’isola avvolta da vapori di zolfo ed issò sulla sommità più alta l’Union Jack: l’isola fu battezzata Graham. Ferdinando II intese questo atto come offesa e violazione del diritto internazionale. L’isola si trovava chiaramente in acque territoriali borboniche, perché faceva parte geograficamente e geomorfologicamente delle isole Pantelleria, Lampedusa e delle altre isole del Regno. Il 17 agosto Ferdinando II emanò un decreto, nel quale prendeva possesso dell’isola in nome del Regno delle due Sicilie. L’isola fu chiamata Ferdinandea, dato che l’arrivo in Sicilia del re Ferdinando II avvenne nel momento dell’evento geologico. La corvetta Etna fu inviata con a bordo cartografi, per inserire l’isola sulla pianta marittima borbonica. Poco dopo sbarcarono sull’isola i due francesi Constant Prevost (geologo) e Eduard Joinville (pittore) che, in riferimento al “mese di nascita” la battezzarono a loro volta Giulia / Julie. Le impressioni che ebbe dell’isola il pittore Antoine Eduard Joinville si possono ammirare al Louvre (L´ile de Julia). Inghilterra, Francia ed il Regno delle due Sicilie si contesero duramente la proprietà dell’isola. Le richieste territoriali fecero diventare sempre più probabile un imminente casus belli. In questi scontri diventò evidente, che Ferdinando II difendesse energicamente la sua sovranità da ogni affronto (cfr. Selvaggi 1996: 17). Mentre il conflitto era lontano da una soluzione, Nettuno eliminò l’oggetto di dissidio, e l’isola sprofondò di nuovo in mare. “La sua sparizione era però giunta quasi come una benedizione, perché di colpo placò ogni rivendicazione di sovranità, eliminando un formidabile potenziale casus belli tra Stati che si guardavano già in cagnesco. La situazione ridicola trae la sua comicità dal fatto che a causa di uno scoglio senza valore scoppiò quasi la guerra tra Inghilterra, Francia e Regno delle due Sicilie. Dall’accaduto per un semplice ammasso di rocce si può capire il valore della Sicilia. Se uno scoglio grezzo, avvolto da fumarole di zolfo e nebbia giallastra quasi sarebbe diventato causa di una guerra, le vicende di seguito descritte per un’isola alquanto importante dal punto di vista commerciale e strategico non creano stupore.

LA MASSONERIA SFRUTTO' LA MAFIA PER SABOTARE LE DUE SICILIE. Scrive "Un Popolo Distrutto" l'1 gennaio 2018. Spaghetti, pizza e mafia, ma siamo sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti impiegati per dipingere il sud Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra le regioni europee più retrograde». Ma la verità è più complessa, ed ha un’origine non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Dal 1861 il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. La risposta è spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea». Rileggendo la storia a ritroso, il binomio atlantico-mafia compare già al momento dello sbarco angloamericano in Sicilia del 1943: «E’ il mafioso Lucky Luciano a facilitare la conquista dell’isola, e papaveri di Cosa Nostra presenziano anche all’armistizio di Cassibile, che sancisce la fine delle ostilità tra l’Italia e gli Alleati». Quasi un secolo prima ci fu lo sbarco di Garibaldi a Marsala, nel 1860, con i “picciotti” impegnati a dare «un contributo determinante alla spedizione di Mille, benedetta e protetta da Londra». Ma cosa sono, davvero, la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta? Perché affiorano in tutti i passaggi della storia italiana a fianco di Londra e Washington? E perché sono sovente associate ad un’altra organizzazione segreta di matrice anglosassone, la massoneria? Generalmente non se parla, nei film e nei prodotti televisivi sulla mafia, e nemmeno tra le migliaia di pagine stampate. Sulla mafia, campano non soltanto i malavitosi, ma anche i “professionisti dell’antimafia” che pullulano nei tribunali, pennivendoli del calibro di Roberto Saviano ed il variegato mondo di intellettuali e soloni che ruota attorno alla “lotta alla mafia”. Nessuno di loro, però, ha «intuito la vera natura del crimine organizzato». Ci arrivò Falcone, quando osservò che la mafia «presenta forti analogie con le Triadi cinesi, la malavita turca e la Yakuza giapponese». Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono «società segrete paramassoniche dedite al crimine, vere e proprie “sette” che rispondono alle logge inglesi ed americane, sin dalla loro origine agli inizi dell’800». Una verità nota agli “addetti ai lavori”, cioè i vertici della mafia, i politici, il Grande Oriente d’Italia, la Cia e l'Mi6. Una realtà spesso intuita e talvolta accennata da onesti magistrati e seri studiosi, anche se nessuno ha finora prodotto uno studio organico sul tema. Ma perché le mafie si sviluppano nelle regioni meridionali quasi contemporaneamente, tra gli anni ‘10 e ‘30 dell’Ottocento? Le solite risposte di comodo sono: l’arretratezza del Meridione, il retaggio della dominazione spagnola, la presenza del latifondo, le mentalità della popolazione, la diffusione di miseria e povertà. Ma sono risposte fuorvianti, visto che «il reddito pro-capite del Regno delle Due Sicilie era paragonabile a quello del resto d’Italia», e la povertà era «simile a quella di alcune zone del Piemonte e del Veneto, che non produssero crimine organizzato», inoltre, la dominazione spagnola aveva interessato pure la “civilissima” Lombardia e, per contro, «altre regioni meridionali persino più povere (come il Molise e la Basilicata) non conobbero le mafie, che germogliarono nelle due ricche capitali come Palermo e Napoli». Bisogna partire dagli anni a cavallo tra ‘700 e ‘800, quando il mondo è in fiamme per la guerra tra Francia rivoluzionaria e le altre monarchie europee: «La Rivoluzione Francese, in cui Londra ha giocato un ruolo determinante è sfruttata dagli inglesi per liquidare la Francia come grande potenza marittima, estendere i propri domini in India e rafforzare l’egemonia su un’area chiave del mondo: il Mar Mediterraneo, da unire in prospettiva al Mar Rosso ed all’Oceano Indiano con il canale di Suez». Il Regno di Napoli, di fronte all’avanzata delle truppe rivoluzionarie francesi, è costretto ad aprire i propri porti alla flotta inglese, «senza sapere che, così facendo, firma la sua condanna a morte: gli inglesi sbarcano infatti con l’obiettivo di rimanerci anche dopo la guerra, installandosi così nello strategico Sud Italia che presidia il Mar Mediterraneo». Per un certo periodo, gli inglesi diventano addirittura padroni del Regno: quando infatti il francese Gioacchino Murat si insedia a Napoli, il re Ferdinando IV si rifugia in Sicilia protetto dagli inglesi e Lord William Bentinck governa l’isola come un dittatore de facto. Sotto l’ombra del potere inglese, «arriviamo così alle origini di Cosa Nostra». Un grande esperto di mafia come Michele Pantaleone ricorda che nel Meridione il brigantaggio assunse una funzione “sociale” solo dopo il 1812, quando il potere feudale venne eliminato: Pantaleone scrive che lo «spirito di mafiosità» sorse in concomitanza con la formazione delle famigerate “compagnie d’armi”, create dalla baronia siciliana nel 1813 a difesa dei diritti feudali. Lo “spirito di mafiosità”, dunque, prende forma tra il 1812 e il 1850: «Il suo epicentro è nel palermitano e di qui si irradia verso la Sicilia orientale». Il 1812, anno citato in tutti i testi di storia sulla mafia, è quello in cui il “dittatore” Lord William Bentinck impone al re, esule a Palermo, l’adozione di una Costituzione sulla falsariga di quella inglese, di comune accordo con i baroni siciliani: «Gli stessi baroni che creano quelle “compagnie d’armi”», antesignane della futura mafia. «Strane davvero queste “compagnie”, “consorterie” o “sette” che iniziano a pullulare dopo il 1812: presentano singolari analogie con la massoneria speculativa che gli inglesi innestano ovunque arrivino: segretezza, statuti, rituali d’iniziazione, mutua assistenza, diversi gradi di affiliazione, livelli sconosciuti agli altri aderenti». E poi, le nuove “compagnie” accampano anche «la pretesa di non essere volgari criminali, ma “un’aristocrazia del delitto riconosciuta, accarezzata ed onorata”, proprio come i massoni si definiscono gli “aristocratici dello spirito” in contrapposizione all’antica nobiltà di sangue. “Mafia” nei rioni di Palermo significa “bello, baldanzoso ed orgoglioso”». La Restaurazione reinsedia Ferdinando IV, ora Ferdinando I delle Due Sicilie, sul trono di Napoli. Il sovrano, nel 1816, si affretta a revocare la Costituzione scritta dagli inglesi, «considerata come un’insidiosa minaccia alle sue prerogative». Ma è tardi: «I germi inoculati dagli inglesi, le misteriose sette criminali che dalla periferia di Napoli e Palermo si irradiano verso i palazzi di baroni e notabili, e crescono. Corrodono il Regno delle Due Sicilie dall’interno, emergendo come un vero Stato nello Stato: trascorreranno poco meno di 50 anni prima che contribuiscano in maniera determinante allo sfaldamento del Regno borbonico». È tra il 1820 ed il 1830 che lo scrittore Marc Monnier (1829-1885) situa la comparsa a Napoli di una misteriosa setta paramassonica, la “bella società riformata”, dedita ad attività illecite: «E’ la futura camorra, che nel 1842 scrive il primo statuto definendo i vari gradi di affiliazione sulla falsa riga della libera muratoria, da “giovanotto onorato” a “camorrista”, passando per “picciotto di sgarro” e così via». Quasi contemporaneamente, al di là dello Stretto di Messina, la mafia è già ad uno stadio avanzato, perché nel 1828 il procuratore di Girgenti scrive dell’esistenza di un’organizzazione di oltre 100 membri di diverso rango, «riuniti in fermo giuramento di non rilevare mai menoma circostanza delle operazioni». Idem per la ‘ndrangheta in Calabria. Nel 1848, Londra incendia l’Europa usando come cinghia di trasmissione la solita massoneria: è la “Primavera dei popoli”, cui seguiranno tante altre primavere di complotti, da quella di Praga del 1968 a quella araba del 2011. Nel Mediterraneo gli inglesi si adoperano per staccare la Sicilia, avamposto strategico per ogni operazione militare e politica in quel quadrante, dal Regno Borbonico: i “baroni”, gli stessi che comandano le malfamate “compagnie d’armi”, insorgono contro Ferdinando II, proclamando decaduta la corona borbonica e affidandosi alla corona d’Inghilterra, disposta a difendere l’indipendenza dell’isola. Il contesto internazionale non è però favorevole alla secessione e Ferdinando II reprime manu militari l’insurrezione, guadagnandosi l’appellativo di “re bomba”, dipinto dalla stampa anglosassone come un despota sanguinario e illiberale. «Le carceri, che già allora sono il principale centro di propagazione delle mafie, si riempiono di patrioti-liberali e picciotti, uniti dal comune retroterra massonico: si saldano così legami che saranno presto utili». Geopolitica, ancora: i rapporti tra Napoli e Londra sono ai minimi storici anche per la contesa sullo zolfo siciliano, sicché Ferdinando II si avvicina alla Russia, allora acerrima rivale degli inglesi: sono gli anni del Grande Gioco, in cui Londra e San Pietroburgo si sfidano in Eurasia per l’egemonia mondiale. Quando nel 1853 scoppia la guerra di Crimea, il Regno delle Due Sicilie rimane rigorosamente neutrale: nega addirittura alle navi inglesi e francesi dirette verso Sebastopoli di attraccare nei propri porti per rifornirsi. Il primo ministro inglese, Lord Palmerston, non ha dubbi: il Regno Borbonico, nonostante la grande distanza geografica, è diventato un vassallo della Russia. Chi partecipa alla “Guerra d’Oriente” è invece il Regno di Sardegna, consentendo così al primo ministro, Camillo Benso, conte di Cavour, di acquisire un ruolo da protagonista nell’ormai imminente riassetto dell’Italia: «La storiografia certifica che Cavour, da buon reapolitiker qual è, non ha in mente “l’unità” della Penisola, bensì “l’unificazione” doganale, economica e militare di tre regni autonomi. Il Regno sabaudo allargato a tutto il Nord Italia, lo Stato pontificio ed il Regno borbonico: la soluzione, seppur caldeggiata da francesi e russi, è però osteggiata dagli inglesi, decisi a cancellare il potere temporale della Chiesa Cattolica e a sostituire gli infidi Borbone con i più sicuri Savoia, tradizionali alleati dell’Inghilterra sin dal Settecento». È “l’inglese” Giuseppe Garibaldi, eroe dei due mondi celebrato dalla stampa angloamericana nonché 33esimo grado della massoneria, a sbarcare nel maggio del 1860 a Marsala, feudo inglese per la produzione di vino, protetto dalle due cannoniere inglesi Argus e Intrepid. «La reazione della marina militare borbonica è nulla, perché la massoneria ha ormai assunto il controllo delle forze armate e dei vertici dello Stato. Le strade e le grandi città sono invece passate sotto il controllo del crimine organizzato: “i picciotti”, che agiscono sempre in sintonia con i “baroni”, danno un aiuto determinante all’avanzata dei Mille». E così il Regno delle Due Sicilie, svuotato da uno Stato parallelo che è cresciuto dentro lo Stato di facciata, si sfalda rapidamente: Reggio Calabria non oppone alcuna resistenza, mentre Napoli precipita nel caos, lasciando che il vuoto di potere sia colmato dalla camorra, lieta di accogliere Garibaldi e le sue truppe. Nasce così il Regno d’Italia, che ancora oggi paga il prezzo del suo peccato originale. Uno Stato strutturalmente debole, nato senza possedere il monopolio della violenza, costretto a convivere con due gemelli siamesi, le mafie e la massoneria, meri strumenti in mano a chi ha davvero orchestrato l’Italia unita: l’impero britannico. Londra, non è certo animata da nobili sentimenti: ha defenestrato i russofili Borbone per sostituirli con i fedeli Savoia, ha creato a Sud delle Alpi una media potenza da opporre alla Francia (si veda la Triplice Alleanza), ha partorito uno Stato sufficientemente robusto da reggersi in piedi, ma abbastanza debole da non insidiare la sua egemonia sul Mar Mediterraneo. Le mafie che hanno corroso il Regno delle Due Sicilie sono lasciate in eredità allo Stato unitario: è un’eredità avvelenata, finalizzata a compiere una perdurante opera di destabilizzazione nel Meridione, cosicché non possa mai sfruttare il suo enorme potenziale geopolitico di avamposto verso Suez, il Levante ed il Nord Africa. Ma le mafie come strumento di destabilizzazione non sono una peculiarità del Sud Italia. 

Non c’è alcun dubbio che l’Italia “liberale” fondata nel 1861 sia terreno fertile per il crimine organizzato: mafia, camorra e ‘ndrangheta «si sviluppano nelle rispettive regioni come Stati paralleli a quello unitario, prosperando più che ai tempi del Regno delle Due Sicilie». La massoneria e le mafie, benedette da Londra, sono i motori dell’Italia liberale, un edificio che sembra spesso vicino al crollo: la mafia contribuisce a mantenere l’Italia in un perenne stato di fibrillazione, guidando ad esempio la rivolta del “sette e mezzo” che paralizza la Sicilia nel 1866. Il fenomeno mafioso è contenuto finché la destra storica, quella di Cavour, resta al potere. Ma poi esplode con l’avvento nel 1876 della sinistra storica: «Sotto la presidenza del Consiglio di massoni come Agostino Depretis e Francesco Crispi, è inaugurato il “Vice-Regno della mafia” che dal 1880 circa si estende fino al 1920». Lo Stato liberale abdica a favore del baronato. E l’intera Sicilia, formalmente governata da Roma, è in realtà un feudo anglo-mafioso: cosi Londra non ha bisogno di staccare l’isola del governo centrale come ai tempi di Ferdinando II, perché esercita il controllo de facto con la setta criminal-paramassonica, la stessa organizzazione che negli Stati Uniti assume nomi evocativi come “Mano Nera” o “Anonimi Assassini”: «Quando nel 1909 il commissario della polizia di New York, Joseph Petrosino, sbarca a Palermo per indagare sui legami tra mafia americana e siciliana, i picciotti non si fanno scrupoli a sparargli in testa». Nessuno deve disturbare i rapporti tra mafia e politica: il trasformismo parlamentare dell’epoca giolittiana è terreno fertile per la malavita, determinante per l’elezione degli onorevoli espressi dalle popolose regioni meridionali. Un cambiamento, si registra solo dopo la marcia su Roma del 1922, con l’irruzione sulla scena di Benito Mussolini, una vecchia conoscenza di Londra sin dalla Prima Guerra Mondiale e dalla campagna interventista del “Popolo d’Italia”, ed è vero che conquista la presidenza del Consiglio con l’appoggio determinante degli inglesi e della massoneria di piazza del Gesù, ma il duce del fascismo si emancipa in fretta e «l’omicidio Matteotti del 1924 può infatti essere considerato il primo tentativo inglese di rovesciarlo e ha certamente un certo peso sulla decisione del 1925 di abolire la libera muratoria (sebbene numerosi massoni, primo fra tutti Dino Grandi, restino al governo)». Fedele alla massima “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, Mussolini non può ovviamente accettare la convivenza con istituzioni parallele al governo, come la mafia. Nell’ottobre 1925 Cesare Mori è nominato prefetto di Palermo e, in poco meno di quattro anni, infligge un duro colpo a Cosa Nostra, avvalendosi dei poteri eccezionali affidatigli da Mussolini: nel 1927 il tribunale di Termini Imerese condanna oltre 140 mafiosi a durissime pene. Chi, ovviamente, stigmatizza la condotta del governo italiano è l’Inghilterra. Dezzani cita l’ambasciatore Ronald Graham, che scrive al premier Chamberlain: «Il signor Mori ha certamente restaurato l’ordine. Ha eliminato numerosi mafiosi e ras ed anche numerosi innocenti con mezzi molto dubbi, comprese prove fabbricate dalla polizia e processi di massa». Quindi mafie e massoneria, sorelle inseparabili, piombano “nel sonno”, in attesa di essere risvegliate al momento opportuno: proprio come ai tempi delle guerre napoleoniche, sbarcheranno in Sicilia con gli inglesi, accompagnati questa volta anche dalle forze armate statunitensi». È il 1943 e la mafia non solo facilita lo conquista dell’isola attraverso Lucky Luciano, ma addirittura «presenzia alla firma dell’armistizio di Cassibile nella persona di Vito Guarrasi, lontano parente di Enrico Cuccia (la cui famiglia è originaria del palermitano)». Finché il continente è occupato dai tedeschi, gli angloamericani coltivano la ricorrente idea di separare la Sicilia dal resto dell’Italia: è il momento d’oro del separatismo e del bandito Giuliano, destinato a scemare man mano che le truppe alleate risalgono la penisola. Perché infatti accontentarsi della Sicilia se, come ai tempi d’oro dell’Italia liberale, è possibile costruire dietro lo Stato di facciata un secondo Stato, retto dalle mafie a dalla massoneria? Inizia così la lunga stagione dei “misteri italiani” dove mafia, camorra e ‘ndrangheta figureranno a fianco di servizi segreti “deviati” e logge massoniche in decine di omicidi ed attentati: dal disastro aereo di Enrico Mattei alle bombe del 1993, dal sequestro Moro al rapimento dell’assessore Ciro Cirillo». Inutile stupirsi: «Il fenomeno rientra nella norma, perché sin dalle origini nella prima metà dell’800 le mafie non erano altro che società segrete paramassoniche, dedite al crimine e obbedienti alle logge inglesi e americane. Un pentito, Giovanni Gullà, ha rivelato agli inquirenti i meccanismi di “Mamma Santissima”, la nuova ‘ndrangheta, che contribuirà in maniera decisiva alla strategia della tensione: «La “Santa” si spiega nella logica della “setta segreta”: si è inteso creare una struttura di potere sconosciuta agli altri per ottenere maggiori benefici, la “Santa”, come setta segreta, è l’esatto corrispondente della massoneria coperta rispetto a quella ufficiale». Certo, l’appartenente alla ‘ndrangheta non può essere massone, ma questo vale solo per la ‘ndrangheta “minore” e la massoneria pubblica. La “Santa” invece «rappresenta una struttura segreta dentro la stessa ‘ndrangheta. E quindi, se il fine mutualistico può essere soddisfatto con l’ingresso di massoni nella struttura e viceversa, nessun ostacolo può essere frapposto. La “Santa” è dunque l’élite della ‘ndrangheta, «costituita negli anni ‘70 nel nome di tre personaggi storici, tutti risalenti al Risorgimento, tutti massoni, tutti ottime conoscenze di Londra: Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Giuseppe La Marmora». Dalla “pax britannica” dell’ordine liberale alla “pax americana” dal 1945 a oggi. Nel biennio 1992-1993, che decretò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, la tesi dominante sul quel cruciale periodo della storia italiana: «Alla base delle stragi in Sicilia e “sul continente”, non ci fu il braccio di ferro tra malavita e Stato sul 41 bis, ma un più ampio ed ambizioso progetto con cui “menti raffinate” vollero ridisegnare la mappa economica e politica dell’Italia, inserendola nella più vasta cornice del Nuovo Ordine Mondiale». L’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima? Va collegato alla cruciale elezione del presidente della Repubblica di quell’anno. Gli omicidi di Falcone e Borsellino, sono analoghi ammonimenti lanciati al Parlamento, ma allo stesso tempo anche un avvertimento alla giustizia italiana affinché si fermi al livello “insulare” le indagini, senza approfondire i legami tra Cosa Nostra ed i servizi segreti della Nato. E le bombe del 1993 sono un “lubrificante” per consentire agli anglofili del Britannia di smantellare a prezzi di saldo l’Iri e l’industria pubblica. Quindi la mafia è lo strumento dell’oligarchia atlantica per perseguire obiettivi addirittura in contrasto con gli interessi di Cosa Nostra: è infatti assodato che la stagione stragista debilitò gravemente Cosa Nostra, “spremuta” nella strategia della tensione del 1992-1993 fino quasi a svuotarla. E non è certo un’eccezione l’impiego del crimine organizzato da parte degli angloamericani, già nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Per esempio sul caso Moro, a partire dal sequestro, il 16 marzo 1978 è appurato che la ‘ndrangheta abbia partecipato al commando che rapì il presidente della Dc, reo di turbare gli assetti internazionali con la sua apertura al Pci. Non solo, il capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, dichiarò che avrebbe potuto salvare Moro, se i servizi segreti non si fossero opposti. Prima ancora, la strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, l’ecatombe che inaugura la strategia della tensione perpetrata dalla destra eversiva di Franco Freda, in stretto contatto con la ‘ndrangheta. Senza dimenticare l’omicidio di Enrico Mattei, nel 1962 dov'è Cosa Nostra a sabotare, all’aeroporto di Catania Fontanarossa, il velivolo su cui trovò la morte il presidente dell’Eni, scomodo alle Sette Sorelle». Ma oggi il sistema internazionale è entrato in una crisi irreversibile, schiacciato dalla crisi del capitalismo anglosassone e dall’emergere di nuove potenze. Si avvicina quindi il tempo del riscatto e bisogna sfruttare il declino dell’egemonia angloamericana per liquidare le società segrete paramassoniche che da due secoli corrodono il Meridione e l’Italia, impedendo di sfruttarne l’enorme potenziale come ponte naturale tra Europa e Asia.

IL "BUROCRATICO" SACCHEGGIO. Scrive Un Popolo Distrutto" il 6 febbraio 2018.  Quando si unisce un paese o si fa una guerra di liberazione, ai “liberatori” non dovrebbe essere consentito il diritto di saccheggio, anche perché si invase il Regno per liberarlo dalla tirannide e non si dichiarò guerra ai Borbone che tanti sacrifici avevano fatto per mantenere una fiscalità bassa che non opprimesse la popolazione. Ma il biondo eroe don Peppe Garibaldi, famoso eroe anche nell’oltremare del Sud America, dove grazie alle lettere di “corsa” assalta e depreda, per far bottino, le navi brasiliane e spagnole. Garibaldi, nella sua breve sosta a Marsala, incontrandosi poi con il Sindaco ed i decurioni della città non perderà tempo a pretendere che gli consegnassero il denaro contenuto nelle ‘casse’ comunali. E così con spirito corsaro appena entra a Palermo per prima cosa si fa consegnare dal banco 2.178.818 lire dei 5 milioni di ducati che erano custoditi. Ma con l’onestà che lo distingueva, lasciò un pezzo di carta, una ricevuta, con scritta la promessa che il nuovo stato avrebbe restituito tutto e rimesso i conti in ordine. Quel foglietto restò negli archivi dell’istituto: prima in quello contabile e poi in quello storico. ( Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Edizioni Piemme ). E pensare che “…nel 1859, al Banco di Sicilia dovettero chiamare gli operai per rinforzare il pavimento che, nonostante la blindatura, non bastava per sostenere il tesoro conservato in cassaforte. Lingotti a tonnellate!… Ad alleggerirla, in quel maggio del 1860 e a risolvere i problemi e i pericoli del sovrappeso della cassaforte ci pensò, alla sua maniera, Garibaldi, rapinando i palermitani e i siciliani dei loro risparmi. Garibaldi nella sua gita in Sicilia perfettamente organizzata in ogni suo dettaglio sbarcherà a Marsala, scortato dalla marina borbonica dal comandante Acton che solo dopo un tranquillo sbarco tra le navi di sua maestà britannica che si trovavano lì per puro caso, si deciderà ad usare il cannone, ma si trattò di un uso bonario quasi di festa! A Marsala troverà ad attenderlo il console inglese Collins e qualche rappresentante della stessa colonia inglese presente in quella città, ma la popolazione restò ostile ed avversa alla sua venuta. Altro che accoglienze trionfali con bandiere e mortaretti che falsamente riportano i testi della storiografia ufficiale e scolastica, gli unici botti li sparò il traditore borbonico Guglielmo Acton (che sarà ricompensato col grado di contrammiraglio e poi ministro della marina del Regno d’Italia). Ad agosto sempre a Palermo “…correvano i tempi di piglia piglia. Dai beni dei Liguorini e Gesuiti volsero ducati diciottomila alla pubblica istruzione. Ordinarono una sovrimposta del due per cento sui valori di tutti i beni del clero, da pagarsi in tre rate. Da tutte le parti del mondo erano venuti sussidi e obbligazioni per la santa causa della rivoluzione; fatta questa vincitrice, non si tenne conto di quei denari,; e si obbligò il tesoro siciliano a pagar milioni per arme, cannoni, munizioni, vestiari, cavalli, spie, e altri compensamenti, e anche 700.000 ducati prezzo dei quattro decrepiti legni a vapore sicchè il Garibaldi e il Crispi si rivalsero di ogni minimo quattrino speso, e intascarono quanto era stato offerto dai rivoluzionari del mondo. Né sazi di tanto, il dittatore in ottobre comandò allo scrivano di razione così:” Rimborserà il tesoriere generale d’un milione e quattrocentomiladucati, per estinguere cambiali all’estero, senza darne conto, ponendo l’esito al capitolo delle spese comuni nello stato discusso. E vi era la firma di Domenico Peranni allora ministro delle Finanze. Il denaro se lo presero; i conti li sapevano il Garibaldi, il Crispi, il Peranni, e un Michele Minneci; questi due beneficiatissimi di Ferdinando II, allora predicatori acerrimi della tirannia dei Borboni. (Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie, Edizioni Brenner). E così con la risalita del Regno fu sistematicamente depredato tutto quello che si poteva, il 6 settembre 1860, cioè il giorno prima dell’arrivo del filibustiere a Napoli, le risorse pubbliche ammontavano a 29.749.256 franchi. I Borbone avevano lasciato intatto il tesoro del Regno, tesoro che fu subito predato dal pirata dei Due Mondi. Pietro Calà Ulloa, ministro in esilio di Francesco II, in una lettera indirizzata al politico britannico Disraeli, descrisse il fatto come un “prodigio di dilapidazione e di corruzione… si cominciò con l’impadronirsi delle residenze reali, delle loro mobiglie, della loro argenteria, degli oggetti d’arte e di lusso , senza redigerne alcun inventario…”. Giacinto De Sivo di quel triste periodo storico ci ha lasciato questa traccia:”…il settembre fu sequenza di iniquità, empietà e misfatti. Plebe irta d’arme, popolo indignato, Nazionali scherani, garibaldini atei e vandali, scellerati potenti; rapine, contrabbandi, mancanza di commercio, caro di vettovaglie; erario dilapidato, non percepiti i dazi, nessuna giustizia, nessuna sicurezza di vita e di roba; ospedali carichi di feriti, case cariche d’alloggi; teatri, piazze, chiese, fatti luogo di spettacoli turpi, accozzamenti di mali preti, di donne, di camorristi, e chiedere soccorsi per feriti e martiri, tutte estorsioni. Nelle province turbolenze, paure e rabbie. Chi a predare, a carcerare, a uccidere; chi a pagare, fuggire, a fingersi liberale. La stampa tutta faziosa, spaventata da tante fazioni opposte, accusava i ministri, il Bertani e i suoi latrocinii; e finiva gridando tribunali statarii e forche…” (Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie, Edizioni Brenner). Non appena terminata la visita al santuario di Piedigrotta, Garibaldi, attorniato da una schiera di delinquenti, diede inizio al il saccheggio di Napoli e della Chiesa. Per cominciare, camorristi e prostitute furono gratificati con grosse somme di denaro; indi, senza indugio, si diede a cancellare l’assetto istituzionale del Sud. I decreti cominciarono a sortire nuovi privilegi a scapito della proprietà privata, demaniale, e della Chiesa. Ai gattopardi si stavano sostituendo le iene fameliche. Al buonsenso si stava sostituendo il malcostume; alla morale il disordine e la rapina. Cominciarono a piovere come grandine i decreti di confisca dei pegni, depositati nei Monti di Pietà, e dei depositi bancari. Il ladrone, da pirata con esperienza decennale nel saccheggio del del Sud-America per conto della massoneria, cominciò quello del Banco di Napoli dalle cui casse estorse ben 80 milioni di ducati. Poi mise mano ai beni della Casa Reale, a quelli dei Maggiorati Reali e dell’Ordine Costantiniano fino ad allora amministrati dal Presidente dei Ministri. Fu anche abolito l’Ordine dei Gesuiti con tutte le diramazioni e dipendenze. I beni mobili ed immobili dell’ordine furono dichiarati nazionali, cioè piemontesi. Furono confiscati 30 milioni di franchi di rendite in cedole sopra il debito pubblico (gli attuali BOT e CCT ) che gli ex consiglieri del Re si affrettarono a rivelare quali beni personali dei membri della famiglia Reale. (La Civiltà Cattolica, Serie IV, Vol. VIII, anno 1860, pag 360). …Il Piemonte, con la sua rete di funzionari, portaborse e burocrati onnivori, lasciò il Meridione conquistato, avvilito, depresso e spogliato di ogni avere. Con la scusa dell’Unità d’Italia rubarono tutto…” Questi ladri affamati ed assetati, ebbero persino il coraggio di predare 67.059.000 ducati, della dote ereditaria di Maria Cristina di Savoia, madre di Francesco II. Tali ruberie furono denominate Reintegrazioni legittime in quanto, secondo i nuovi padroni di Napoli, i Borbone quei soldi li avevano rubati. Il ministro Conforti aveva assegnato tutti i soldi, rubati alla Casa Reale, al Garibaldi, mammasantissima del momento ed anche degli anni successivi, il quale da buon corsaro non li aveva disdegnati; a tale sconceria si opposero gli agenti di cambio, per cui l’intera somma al momento fu gioco forza assegnata all’erario. Si assegnarono 6000 franchi al giorno per le spese della tavola del bandito dittatore nizzardo, somma che i suoi pro-dittatori dilapidavano allegramente. Contro quelle ruberie protestò Francesco II attraverso il Ministro degli Esteri Casella e proclamò “…di aver unito la sua causa a quella del popolo, e di non aver curato di porre in salvo le sue sostanze, perché avrebbe sdegnato di salvare per esso una tavola in mezzo al naufragio della Patria”. (Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie, Vol.II, Edizioni Brenner, Cosenza, 1984, pag. 211). “Ma anche l’onesto generale Enrico Cialdini, entrato trionfante in Napoli alla testa di ottomila bersaglieri, il 12 ottobre (la capitale era stata ormai declassata a capoluogo di provincia) preso alloggio nella profanata Reggia di Napoli, “quell’eroe immacolato non fottette tutti i candelabri d’argento che vi trovò? Li fuse, il grand’uomo… ne fece un po’ di lingotti e via… Li spedì a Torino, cacchio, a casa sua!…” (Angelo Manna, Briganti furono loro quei vili assassini dei fratelli d’Italia, Sun Books, Roma, 1997, pag 143). Ma si mormorava che anche Silvio Spaventa, direttore di polizia di Garibaldi, aveva fatto liquefare 600 paia di candelieri d’argento preziosissimi. Sparirono altresì tanti dipinti di valore, orologi di pregio, impagabili oggetti d’argento e la notevole armeria del Re, fra cui la famosa spada che Francesco I, Re di Francia, aveva impugnato a Pavia nella battaglia contro le truppe di Carlo V. “…Con le rendite private confiscate a casa Borbone vennero pagati i migliori: il luogotenente Farini Luigi Carlo(quello dell’Affrica e dei beduini che erano rose e fiori al nostro confronto…) si assegnò, bontà sua, uno stipendio di 11mila ducati al mese; tremila al mese si beccarono i tre generali garibaldesi promossi generali dell’esercito italiano: Turr, Medici e Cosenz, l’amico del cuore di Carlo Pisacane che gli involò Enrichetta de Lorenzo, e fu per quelle amichevoli corna che il cornutone pensò di andarsi a suicidare nella disperata spedizione di Sapri…” ( Angelo Manna, Briganti furono loro quei vili assassini dei fratelli d’Italia, ibidem, pag 144). Ma come mai questo falso eroe, questo falso rivoluzionario, questo falso biondo, questo falso capellone, questo vero assassino, questo vero pirata, questo falso socialista, questo vero massone e mercenario, ha fucilato solo contadini ed operai, mai un latifondista. Ha saccheggiato chiese, conventi, casse dei comuni e quelle della banche. Era o no un fervente repubblicano e patriota? No, Garibaldi non era niente, era solo un mercenario al servizio del sistema liberal-massonico. Infatti, anni dopo, quando Londra gli tributò il dovuto riconoscimento di servo e lacchè, Disraeli, che sapeva tutto, rifiutò di stringergli la mano, lo considerava un bieco pirata. Il Garibaldi, spacciato dagli oleografi risorgimentali eroe dei due mondi, colui che della giustizia umana aveva fatto la sua bandiera, non è mai andato a confiscare i beni di Cavour che erano tanti, e quelli dell’aristocrazia piemontese. Ed i liberali napoletani? Tutti ad applaudire le ruberie dello straniero venuto dal Nord. Questi sono stati i nostri liberatori a cui gli hanno intitolato piazze e scuole in tutta Italia.

Così, con questi atti di pirateria e con il saccheggio e la spoliazione sistematica del Sud iniziò la predatoria spedizione dei Mille tanta cara e tanto celebrata dalle menzogne dei nostri storiografi e dai nostri risorgimentalisti.

Garibaldi e il saccheggio del Regio Banco di Sicilia. 31 Maggio 1860: il giorno funesto del saccheggio del Banco di Sicilia, scrive Ignazio Coppola su "Inuovivespri.it" il 31 maggio 2017. Storia & Controstoria. Il primo della storia. Dell’enorme tesoro in lingotti d’oro che allora il Banco di Sicilia conteneva e che fu saccheggiato da Garibaldi ne è testimonianza il fatto che poco meno di un anno prima (nel 1859) era stato eseguito il rafforzamento della pavimentazione del Banco stesso resa pericolante dall’enorme peso della traboccante cassaforte in cui appunto erano contenute ingenti somme di denaro e enormi quantità di lingotti d’oro…Il 27 maggio del 1860 data l’inizio della scientifica spoliazione e della rapina delle ricchezze e dei beni delle genti del Sud e dei siciliani Con l’entrata di Garibaldi a Palermo ha infatti inizio il saccheggio della tesoreria del Regio Banco di Sicilia . Del resto che cosa ci si poteva aspettare da un predone che in sud america era uso, grazie alle lettere di “corsa” assaltare e depredare, per far bottino, le navi imperiali brasiliane e spagnole. Dell’enorme tesoro in lingotti d’oro che allora il Banco di Sicilia conteneva e che fu saccheggiato da Garibaldi ne è testimonianza il fatto che poco meno di un anno prima (nel 1859) i dirigenti del banco siciliano avevano commissionato ad alcune imprese edili il rafforzamento della pavimentazione del Banco stesso resa pericolante dall’enorme peso della traboccante cassaforte in cui appunto erano contenute ingenti somme di denaro e enormi quantità di lingotti d’oro.  Ad alleggerirla in quel maggio del 1860 e a risolvere i problemi e i pericoli del sovrappeso della cassaforte ci pensò, alla sua maniera, Garibaldi rapinando il contenuto della cassaforte e depredando i palermitani e i siciliani dei loro risparmi. Il tutto avvenne in occasione dell’incredibile e inspiegabile ingresso di Garibaldi in una Palermo presidiata da 24000 borboni e dopo la farsa della battaglia di Calatafimi, dove grazie al tradimento e alla corruzione (il prezzo del tradimento ammontò allora a 14000 ducati) del generale Landi ,3000 borboni batterono in ritirata di fronte a circa 1000 garibaldini male in arnese e nella quasi totalità inesperti all’ uso delle armi. In quell’occasione, proprio quando i borboni in numero nettamente superiore e attestati in una posizione più che favorevole, si accingevano a sconfiggere facilmente i garibaldini, il generale  Landi , che già aveva intascato una fede di credito di 14000 ducati, un somma enorme per quei tempi equivalenti a 430 milioni di vecchie lire e 224mile euro dei nostri giorni, diede ordine al proprio trombettiere, di suonare il segnale della ritirata, lasciando sbigottiti ed esterrefatti gli stessi garibaldini che, a quel punto, non credevano ai propri occhi. Come non credevano ai propri occhi gli stessi soldati borbonici che con rabbia e sdegno, loro malgrado, furono costretti a ubbidire. Scriverà poi Cesare Abba nelle suo libro “Da Quarto al Volturno”: “E quando pensavamo di avere perso improvvisamente ci accorgemmo di avere vinto e meravigliati dal campo stemmo a guardare la lunga colonna ritirarsi a Calatafimi”. E ancora, uno dei Mille, Francesco Grandi nel suo diario così riportava: “Ci meravigliammo non credendo ai nostri occhi e alle nostre orecchie, da come si erano messe le cose, quando ci accorgemmo che il segnale di abbandonare la contesa non era lanciato dalla nostra tromba ma da quella borbonica.” Più chiaro di così. Tanto potè a Calatafimi il tradimento e la corruzione del generale Landi come possiamo rilevare da quanto riportato nei loro diari degli stessi garibaldini increduli testimoni dell’ “inglorioso” evento.  Ma “l’intelligenza con il nemico” di Landi nella battaglia di Calatafimi non fu certo pari a quella del generale Lanza a Palermo. Questi lo superò di gran lunga, nel modo come all’alba del 27 maggio agevolò l’entrata di Garibaldi a Palermo da  porta Termini, lasciandola deliberatamente sguarnita e non prendendo alcun provvedimento malgrado alcuni suoi ufficiali lo sollecitassero a fare uscire le truppe( che contavano ben 24000 uomini) acquartierate al palazzo reale per contrastare i circa 3000 garibaldini ( ai Mille si erano nel frattempo aggiunte alcune bande di picciotti molte delle quali condotte da noti mafiosi dell’epoca) che si accingevano a entrare in città. Lanza lasciò deliberatamente il grosso delle truppe inoperose e poca resistenza poterono fare le 260 reclute che erano rimaste a presidio di porta Termini da cui, travolta questa scarsa resistenza, i garibaldini dilagarono in città rimanendone nei giorni successivi assoluti padroni poiché Lanza si ostinava a tenere inspiegabilmente (era evidente il tradimento e la connivenza con il nemico) le sue truppe acquartierate e inoperose nei pressi del Palazzo Reale. Nei giorni seguenti, fedele a un copione già stabilito e concordato, chiede per il giorno 29 maggio all’ammiraglio inglese Mundy, che si trovava con la sua nave ammiraglia Hannibal nella rada di Palermo la mediazione per la firma di un armistizio che verrà accordato e che si protrarrà sino al 3 giugno. Nelle more dell’armistizio, per accordare ulteriori 3 giorni di proroga Garibaldi, pretenderà la consegna di tutto il denaro del Regio Banco delle Due Sicilie. E come è facilmente arguibile, da copione già scritto, il Lanza acconsentirà facendo per questo nascere il legittimo sospetto, alla luce degli avvenimenti di quei giorni caratterizzati da tradimenti e corruzioni, che, nella divisione della torta del saccheggio del Banco, una fetta non indifferente andasse alla fine nelle capienti tasche del generale borbonico.  Del resto, di qualche giorno a Calatafimi sulla falsariga della corruzione e del tradimento, lo aveva preceduto per cifre più modeste il generale Landi. La cronaca di quei giorni e della consegna di quanto contenuto e saccheggiato dal Banco delle Due Sicile” e bene e dettagliatamente riportata nel libro di Lucio Zinna “il Caso Nievo” (che come si sa fu il vice intendente di finanza della spedizione dei Mille). Zinna fa una puntuale e interessante ricostruzione del caso Nievo e della sua misteriosa morte avvenuta nel marzo del 1861, nell’affondamento del Piroscafo Ercule  a punta Campanella nei pressi di Napoli mentre stava portando a Torino  la rendicontazione della gestione amministrativa e finanziaria dell’impresa dei Mille comprendente anche,  si presume, la vicenda riguardante la “consegna” del denaro del Banco delle Due Sicile preteso da Garibaldi all’atto dell’armistizio. Ma sfortunatamente tutto andò a fondo nel naufragio dell’Ercole e ogni notizia al riguardo si perse con la misteriosa morte di Nievo. Lucio Zinna nel suo interessante libro, così puntigliosamente e minuziosamente, ricostruisce  la cronaca del ” prelievo” fatto da Garibaldi a danno dei palermitani e dei siciliani al Banco delle Due Sicilie: “ Il primo giugno Francesco Crispi e Domenico Peranni ( ultimo tesoriere di nomina borbonica, ben presto e per breve tempo Ministro delle Finanze della dittatura garibaldina)  ricevettero nel palazzo delle finanze, dallo stesso generale Lanza e in presenza di funzionari, la somme che vi erano custodite. Complessivamente 5 milioni 444ducati e 30 grani. E poiché nella monetazione siciliana-spiega Zinna nella sua puntuale ricostruzione – un ducato, equivalente a dieci tarì, corrispondeva al cambio in lire italiane di 4,20, la somma complessiva ammontava a 22 milioni 864mila 801 ducati e 26 centesimi pari a 166 miliardi 962 milioni 738 mila 984 lire che tradotti in euro fa 86 milioni 229 058 e 44 centesimi.  Un importo complessivo costituito dai depositi dei privati tranne 112 mila 286 ducati di pertinenza erariale. Una somma enorme equivalente a quasi metà delle spese sostenute nella guerra franco piemontese del 1859 contro l’Austria. E fu così che privati cittadini palermitani e siciliani si videro così spogliare di tutti i loro risparmi ai quali Garibaldi rilasciò una improbabile ricevuta con su scritto “Per spese di guerra” con l’impegno che il nuovo stato avrebbe restituito il prestito. Il foglietto contenente la ricevuta restò negli archivi a futura memoria. Il dovuto non fu mai restituito ma distribuito ai garibaldini, alla copertura delle spese delle guerre sabaude e al ripianamento del debito pubblico dello stato più indebitato d’Europa che era allora il Piemonte per le enormi spese di guerra sostenute. I siciliani e i palermitani aspettano ancora di essere risarciti di queste rapine anche per questo la magica parola Risorgimento vorrà ancora oggi, per loro significare, con i dovuti interessi, Risarcimento.  Di questo prelievo indebito e forzato è difficile, trattandosi di un vero e proprio atto di saccheggio e di pirateria dei depositi bancari dei siciliani, trovarne traccia nelle cronache e nei libri del tempo. Ne fa cenno nel suo libro-diario “La Flotta inglese e i mille” l’ammiraglio sir Rodney Mundy, inviato, con la sua flotta, dal governo del suo paese, a scortare e proteggere Garibaldi, che così debitamente riporta l’avvenimento: 1° giugno – Riferendosi alle clausole della convenzione firmata dal generale Lanza e dal sig. Crispi, segretario di stato del governo provvisorio, la Finanza e la Zecca reale passava agli insorti. Nelle casse furono trovate un milione e duecentomila sterline in denaro contante” (Corrispondente, in sterline, all’ingente somma così bene e minuziosamente descritta da Lucio Zinna). Per non fare torto ai siciliani e ai palermitani, appena giunto a Napoli, Garibaldi non si fece parimenti scrupolo di depredare e usare lo stesso trattamento e gli stessi metodi di rapina alla capitale del Regno delle Due Sicilie. Il palazzo reale fu spogliato e depredato di tutto e così come avvenne a Palermo fu saccheggiato l’oro della Tesoreria dello Stato e tutti i depositi del Banco di Napoli requisiti e dichiarati beni nazionali. Con un decreto del 23 ottobre, ben 6 milioni di ducati equivalenti a 118 miliardi delle vecchie lire e a 90 milioni degli attuali euro provenienti da questi saccheggi furono poi divisi tra gli occupanti e i loro sodali. Furono pure requisiti il patrimonio e i beni personali di Francesco II di cui indebitamente si impossessò Vittorio Emanuele II. Più avanti il re di Sardegna si offrirà di restituirli al legittimo proprietario se questi avesse acconsentito a rinunciare al suo diritto al trono delle Due Sicilie. “La dignità non si compra” fu la lapidaria risposta del deposto ultimo re della dinastia borbonica in Italia, definita “la negazione di Dio”, al re “galantuomo” che lo aveva depredato di tutto. E dire che di recente il ballerino cantante principe Emanuele Filiberto di Savoia e suo padre Vittorio Emanuele, degni discendenti del re “galantuomo”, con la regale faccia tosta che li contraddistingue, rientrati dall’esilio pretendevano un cospicuo risarcimento per svariati milioni di euro per i danni subiti, a loro dire, dallo stato italiano. Avrebbero fatto bene i due ridicoli e patetici rampolli discendenti di casa Savoia a rileggere la Storia di quei tempi e rivisitare i massacri le rapine, le spoliazioni e i saccheggi perpetrati indebitamente dai loro avi a danno delle popolazioni meridionali e per questo, esse e non i Savoia, legittimamente destinatarie di risarcimenti mai bastevoli a compensare gli incommensurabili e inestimabili danni subiti. Ma torniamo al generale Ferdinando Lanza. Dopo avere consentito a Garibaldi di depredare, nelle more dell’armistizio del 30 maggio, il Banco di Sicilia in cui si presume abbia avuto la sua parte di “bottino”, giusto il tempo di consentire saccheggio, firmerà appena sette giorni dopo (il 6 giugno) una disonorevole e umiliante capitolazione. Ben 30 mila borboni bene armati e in pieno assetto di combattimento (ai 24000 uomini accampati, che Lanza teneva inoperosi nel piano di palazzo reale, se ne erano nel frattempo aggiunti   6000 agli ordini di Bosco e Won Mekel rientrati a Palermo dopo il vano inseguimento alla colonna del garibaldino Orsini) si arrenderanno a poco più di 3000 tra picciotti e garibaldini male in arnese e scarsamente armati. Una incredibile e assurda capitolazione che non trova alcuna elementare spiegazione in nessun manuale di strategia militare, se non giustificata dalla corruzione e dal tradimento dei generali Landi a Calatafimi e Lanza a Palermo. Scrive, a proposito di questa inconcepibile resa, ancora Cesare Abba: “Gli abbiamo visti partire. Sfilarono dinanzi a noi alla marina per imbarcarsi, una colonna che non finiva mai, fanti, cavalli, carri. A noi pare un sogno, ma non a loro”. Era un sogno. I garibaldini ancora una volta, come a Calatami, non credevano ai propri occhi: avevano guadagnato una battaglia che, considerata l’enorme disparità in campo a loro sfavorevole mai pensavano di poter vincere. Un sogno per i garibaldini, un incubo per i soldati duosiciliani cui li aveva precipitati il tradimento e la corruzione dei propri generali. Rientrato a Napoli, Ferdinando Lanza finirà davanti alla Corte Marziale per alto tradimento. Non ci sarà il tempo di condannarlo per il precipitare degli eventi dovuti alla fuga da Napoli di Francesco II.  Il generale Lanza potrà così godersi il frutto delle proprie malefatte. Della sua “intelligenza con il nemico” negli avvenimenti di Palermo del giugno del 60 ne è riprova quanto avvenne poco meno di tre mesi dopo a Napoli. Il 7 settembre Lanza si recherà a palazzo d’Angri a rendere omaggio a Garibaldi e a complimentarsi per le sue “vittorie” e ricordargli che a queste vittorie lui aveva dato il suo determinante e peculiare contributo. Altrettanto bene non finirà invece al generale Landi. Vi ricordate delle fede di credito di 14mila ducati quale prezzo della sua arrendevolezza a Calatafimi? Ebbene nel marzo del 1861 quando si presenterà presso la sede del banco di Napoli per esigere il prezzo del “malaffare”, dai funzionari del banco si sentirà dire che quella fede di credito era taroccata. Il suo valore non era di 14mila ducati ma bensì di 14 ducati a cui erano stati aggiunti truffaldinamente tre zeri. Ai dirigenti, che gli aprivano sconsolatamente le braccia, confesserà con rabbia di averla avuta personalmente da Garibaldi. Corrotto e truffato dunque, Landi, precedentemente degradato e posto in pensione, morirà per il dispiacere poco tempo dopo. Saccheggi, spoliazioni, tradimenti corruzioni, truffe da Garibaldi ai Savoia questi gli ingredienti che caratterizzarono la conquista del Sud e portarono a una mal metabolizzata “Unità d’Italia”. Oggi, a distanza di 150 anni da quegli avvenimenti, nulla è cambiato. Con queste premesse del resto cos’altro potevano pretendere gli italiani e le popolazioni meridionali che di questa mala Unità ne pagarono e ne continuano a pagare le drammatiche e costose conseguenze.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva. Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

AI MIEI TEMPI...AI MIEI TEMPI...

1. “La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, se ne infischia dell’autorità e non ha nessun rispetto per gli anziani. I ragazzi d’oggi sono tiranni. Non si alzano in piedi quando un anziano entra in un ambiente, rispondono male ai loro genitori...” 

2. “Non ho più speranza alcuna per l’avvenire del nostro Paese, se la gioventù d’oggi prenderà domani il comando, perché è una gioventù senza ritegno e pericolosa”.

3. “Il nostro mondo ha raggiunto uno stadio critico. I ragazzi non ascoltano più i loro genitori. La fine del mondo non può essere lontana”.

4. “Questa gioventù è guasta fino in fondo al cuore. Non sarà mai come quella di una volta. Quella di oggi non sarà capace di conservare la nostra cultura...” 

5. “Oggi i ragazzi amano troppo i propri comodi. Mancano di educazione, disprezzano l'autorità, i figli sono diventati tiranni anziché essere servizievoli. Contraddicono i genitori, schiamazzano, si comportano da maleducati con i loro maestri. Oggi il padre teme i figli. I figli si credono uguali al padre e non hanno né rispetto né stima per i genitori. Ciò che essi vogliono è essere liberi. Il professore ha paura degli allievi, gli allievi insultano i professori; i giovani esigono immediatamente il posto degli anziani; gli anziani, per non apparire retrogradi o dispotici, acconsentono a tale cedimento e, a corona di tutto, in nome della libertà e dell'uguaglianza, si reclama la libertà dei sessi”.

6. «In questi ultimi tempi, il mondo si è degenerato al di là di ogni immaginazione. La corruzione e la confusione sono diventate cose comuni. I figli non obbediscono più ai genitori e ormai non può che essere imminente la fine del mondo».

Di chi sono queste frasi? Di qualche scrittore contemporaneo? Di genitori o professori amareggiati d'oggi? No! Sentite!

La prima citazione è di Socrate, filosofo greco, che visse dal 469 al 399 prima di Cristo.

La seconda citazione è del poeta greco Esidio, vissuto 720 anni prima di Cristo. 

La terza citazione è di un sacerdote egiziano che viveva 2000 anni prima di Cristo. 

La quarta è stata scoperta recentemente in una cava di argilla tra le rovine di Babilonia, ed avrebbe più di 3000 anni.

Quanto alla quinta, è tolta dal libro VIII de "La Repubblica" di Platone, vissuto dal 428 al 347 prima di Cristo. 

La sesta è una tavoletta assira del 2.800.

Conclusione? Tutto quello che si dice o si scrive, è già stato detto o scritto.

PARLAR MALE DELL'ITALIA? LA GODURIA DEGLI ITALIANI.

"Quando me la prendo con i gufi, non dico che non si può parlare male del governo, ma che non si può parlare male dell’Italia. Se all’esterno raccontiamo che siamo un insieme di difficoltà come facciamo ad attrarre investimenti?". Lo ha detto a Palermo il premier Matteo Renzi a Palermo il 16 novembre 2016.

Parlare male dell’Italia è il nostro sport nazionale? Risponde Luciano Fontana il 13 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. "Caro direttore, si leggono sovente nella posta grandi elogi del sistema di comportamento e altro, solo all’estero, il peggio solo a noi ma non è così. Una signora russa che viene per lavori a casa mia l’altro giorno mi ha detto: «Grazie Italia, grazie Italia. In questi anni ho potuto curare e guarire mio figlio!». Ha ultimato inoltre l’acquisto di un appartamentino nel suo Paese. Insomma: «Italiani, brava gente». Valeria Forti, Milano".

Cara signora Forti. Parlare male dell’Italia è lo sport nazionale più diffuso, nella politica, nelle professioni, nella vita quotidiana. Il motto americano «Right or wrong, it’s my country» («giusto o sbagliato è il mio Paese») non ha mai avuto fortuna nella nostra discussione pubblica e privata. Ritrovare un po’ d’orgoglio di quello che siamo e di quello che siamo riusciti a fare dal dopoguerra in poi non sarebbe male. Il nostro sistema sanitario, lodato dalla signora russa, offre cure a tutti ed è certamente migliore, per tanti aspetti, di quelli di altri Paesi. Provate a chiedere a chi, non essendo ricco, ha dovuto rivolgersi a un ospedale americano. Così come possiamo essere orgogliosi non solo di quello che ci rende unici al mondo (paesaggio, arte, cultura, borghi storici) ma anche dei primati che abbiamo saputo conquistare nella moda, nel design, nella cucina, nella manifattura. Qui però dobbiamo fermarci e guardare all’altra faccia della medaglia. Il sistema sanitario italiano, spesso molto efficiente soprattutto al centro-nord, è lo stesso che a Nola lascia i pazienti sul pavimento, e offre quotidiani esempi di inefficienza, sprechi e corruzione. Ogni sondaggio sul Paese più desiderato al mondo dai turisti mette l’Italia al primo posto: perché allora non siamo mai primi negli arrivi e nei soggiorni, perché consideriamo gli stranieri solo persone a cui spillare il massimo dei soldi? Per non parlare di quanto poco ci occupiamo della tutela dell’ambiente e del territorio, di quanto sia bassa la competitività del nostro sistema economico e alte invece la corruzione e le complicazioni burocratiche, di come abbiamo aperto una voragine nei conti pubblici. Insomma abbiamo molti motivi per non essere contenti del nostro Paese. Non dobbiamo offenderci se qualcuno ce li ricorda. Ma oggi può essere uno di quei giorni in cui l’Italia «giusta o sbagliata» è il nostro Paese. E dunque ringraziare la signora russa che ci ricorda gli aspetti positivi.

Perché solo gli italiani (che vivono in Italia) possono parlar male dell'Italia? Scrive Daria Simeone, Mamma italiana a Londra, il 9/08/2015 15:27 su "Huffingtonpost.it". Una mia amica del cuore qualche tempo fa sosteneva che i rosiconi sono la peggiore specie. Seguita dai permalosi. Io le confessavo di essere molto permalosa e un po' rosicona. Per fortuna mi vuole bene e resterà mia amica. Dal basso della mia permalosità capisco i tanti italiani che diventano permalosi - e un po' rosiconi - quando ci toccano la "Madreh Patriah". L'ultima volta è capitato ieri sera. Ero su la Rambla del Poblenou a Barcellona in compagnia di amici e mendicanti. Una processione niente male, alcuni chiedevano 50 centesimi e portavano delle scarpe da ginnastica migliori delle mie. Comunque, siamo finiti a parlare di senzatetto. Notavo quanti ce ne fossero a Barcellona, ma anche a Roma e Milano. "Ah beh a Londra non ce ne sono perché con quel tempo di merda morirebbero di reumatismi" mi ha risposto prontamente un compatriota, prima ancora che tirassi in ballo la città in cui vivo. Così come i cani randagi che secondo un mio collega italiano non esistono in Inghilterra perché finiscono tritati nel Christmas pudding. Oppure quando si parla dei negozi che, dove sono nata io, non fanno orario continuato "perché da noi tra le 13 e le 17 fa caldo, se esci per andare in un negozio ti dissolvi al sole come un lemonissimo". E d'inverno? "Beh perché gli inglesi pensano solo a fare soldi, noi vogliamo pranzare tutti assieme come una vera famiglia che ha un tavolo su cui mangiare, mica come quei disadattati inglesi che mangiano sui divani". E la Svezia che ha i latte papas che possono prendersi un congedo di paternità proprio come le madri? "E vabbé, tanto poi si suicidano tutti da quelle parti". Un'altra cosa tipica è: "E comunque che palle questi expat che parlano male dell'Italia come se avessero trovato la terra promessa: bravi, restatevene pure lì". Oppure: "Qui si cerca di mettere l'Italia in cattiva luce per screditare Renzi". Italiani permalosi (come me), una cosa: Ma chi se ne importa di screditare Renzi. Anzi due: non è che il congedo di paternità, in Inghilterra o in Svezia, l'ho ottenuto io dopo estenuanti lotte e proteste in piazza. Non è un mio merito di cui mi posso vantare. E'un esempio, un buon esempio, a cui non farebbe male guardare. Ciò non toglie che ci sono cose del Regno Unito che mi hanno indignato, a parte il tempaccio intendo. Come il potere quasi mafioso degli agenti immobiliari, la regolamentazione del mercato del lavoro così liberale da essere spesso crudele. Su tante cose potremmo vantarci di essere migliori, ma non faremmo altro che il "gallo 'ncoppa 'a munnezza", tradotto: non possiamo usare le debolezze altrui per distrarre l'attenzione dalle nostre. Gli expat, poi, non è che smettono di essere italiani solo perché vivono altrove. Non sono alieni, non appartengono ad un'altra categoria umana. Non vi raccontano i fatti loro per screditare Renzi o l'Italia. L'Italia sono anche loro. E soprattutto, statene pur certi, quando c'è da difendere l'Italia dagli "attacchi dello Straniero" sono i primi a farlo.

a) perché solo gli italiani hanno il diritto di parlare male dell'Italia, non ci allarghiamo.

b) perché sono permalosi, proprio uguali uguali a voi.

c) perché per molti di loro la terra promessa è ancora l'Italia.

Degli italiani all’estero e di quelli in Italia, scrive Patrizia La Daga il 13 giugno 2016 su "Leultime20.it". Chi segue Leultime20.it da tempo sa bene che la sottoscritta risiede in Spagna, a Barcellona, ormai da molti anni. La condizione di espatriata, oltre alla passione per i libri e la cultura, ha fatto sì che nel 2012 nascesse questo sito, un modo per riavvicinarmi al mio Paese natale e alla sua lingua, nella quale tanto amo scrivere. Il mio vivere in terra straniera non è stato soltanto fonte di ispirazione di molti post, bensì mi ha aiutato ad avere una visione più ampia sul nostro Paese e in particolare sugli italiani. Un popolo che troppo spesso, purtroppo, appare pronto ad applaudire le mediocrità altrui e a rinnegare le eccellenze proprie. Questa scarsa autostima collettiva si accentua quando si parla degli italiani che vivono in Italia. La differenza tra gli italiani che risiedono in Patria e quelli all’estero, infatti, è spesso enorme e me ne sono resa conto soprattutto in questi ultimi mesi, grazie a un progetto dedicato ai connazionali nel mondo, che molti di voi forse già conoscono: il portale ItalianiOvunque.com Per sviluppare i contenuti del nuovo magazine online ho avuto modo di confrontarmi con centinaia di persone, sia attraverso interviste e colloqui individuali, che mediante conversazioni sui numerosi gruppi di Facebook e altri canali sociali riservati agli italiani all’estero. In tutti questi incontri ho potuto constatare che, a eccezione di una piccola percentuale di “delusi e incazzati” (passatemi il termine poiché “arrabbiati” non dava l’idea), chi vive lontano dall’Italia la ama di più e ne apprezza in misura maggiore la bellezza e la cultura. Facile, dirà qualcuno, chi non vive in Italia non è costretto a subire le innumerevoli mancanze che affliggono il nostro Paese. Malasanità, corruzione, amministrazioni cittadine inefficienti e chi ne ha più ne metta…Sì, è vero, gli italiani all’estero non vivono le situazioni di disagio dei concittadini in Patria, ma ne vivono altre, spesso molto più simili di quel che si crede e aggravate dall’essere stranieri. Perché l’erba del vicino poche volte è davvero più verde. La corruzione affligge la classe politica di mezzo mondo, le liste d’attesa per una visita medica sono lunghe in numerosi paesi stranieri, il sistema scolastico non è migliore per definizione all’estero, le città difficilmente raggiungono la bellezza di quelle italiane e il clima di alcune nazioni deprime persino i nativi. Gli italiani all’estero quando tornano in Italia trovano un paese pieno di problemi, è vero, ma sanno anche apprezzarne il valore. Cosa che molti residenti in Patria finiscono per dimenticare. Il cibo non è un dettaglio indifferente quando si parla di qualità della vita. E vi garantisco che per la maggior parte degli italiani all’estero avere a disposizione un supermercato italiano è un sogno ricorrente, ma non l’unico. Lo stile di vita, le abitudini, i libri, i film, la possibilità di partecipare agli eventi (culturali, musicali etc.) sono tutti aspetti che creano nostalgia tra gli espatriati. Perché gli italiani all’estero sono cittadini del mondo, non amano muri e confini, ma uno spazio nel cuore per la terra natale lo conservano sempre. Mi è anche capitato di confrontarmi con persone ostili, che invece di cercare di “fare comunità” per condividere il meglio di quello che il Paese può offrire, hanno deciso di distanziarsene quanto più possibile. Una scelta che fatico a comprendere, ma che rispetto, naturalmente. In genere, tuttavia, quando si presenta agli italiani all’estero un progetto che consente loro di raccontare le proprie esperienze, di ottenere informazioni, di accedere ai prodotti del proprio Paese e di creare una comunità, l’accoglienza è entusiasta. La cultura italiana, si tratti di quella legata al cibo e al made in Italy, ma anche alla storia, alla letteratura e all’arte, è un collante che dovrebbe unire tutti gli italiani nel mondo, ovunque essi risiedano. Perché non è giustificabile che spesso ci amino più gli stranieri di quanto sappiamo fare noi. Concludo questo post chiedendo un piacere a tutti voi lettori: se avete notizia di belle storie di italiani in Patria o all’estero, fatemele conoscere. Perché quella parte d’Italia che funziona, insieme agli italiani che la fanno funzionare o che le rendono onore all’estero, non meritano di restare nell’ombra.

L'ITALIA DEI CAMPANILI.

Giordano Bruno Guerri: l’Italia è una repubblica fondata sulla rimozione. Fratelli d'Italia non lo saremo mai, perché l'identità italiana è fondata sui conflitti di campanile. Ma per capire la storia non bisogna rimuovere i periodi considerati negativi, scrive Bruno Giurato il 28 Maggio 2016 su "L’Inkiesta”. L'identità storica e politica dell'Italia è fondata su due elementi base: la baruffa e la rimozione. 

La baruffa, perché la faziosità, il fare la guerra o le pernacchie (o meglio: la guerra e le pernacchie insieme) al vicino è una costante italiana che troviamo praticamente ovunque e da sempre. Un'occhiata allo splendido volume di Giancarlo Schizzerotto, Sberleffi di Campanile, da poco uscito per Olschki potrà confortare in questo giudizio: dai palii "di scherno" nella Toscana del Trecento, alle squadracce col manganello e l'olio di ricino, fino ai servizi completi dei partigiani post 45, comprensivi di rasatura e stupro alle repubblichine.

La rimozione perché, con altrettale regolarità, ogni nuova stagione politica è stata costruita sulla damnatio memoriae di quella precedente. Gli esempi di un'identità storica costruita sull'oblio forzato di quello che c'è stato prima sono anche questi moltissimi. Una perfetta -e perfino ovvia e noiosa nell'aderire a un modello- applicazione del concetto freudiano di "rimozione". La politica, la pubblicistica, la storiografia italiana sono spesso costruite su un fondo di appartenenza ideologica e identitaria che è l'esatto contrario della critica. E anche del pensiero.

Ma naturalmente ci sono delle eccezioni. Una di queste è Giordano Bruno Guerri. Individualista, libertario, vicino, da sempre e "de core", alle posizioni dei Radicali, ha ottenuto fama e successo come storico con la sua biografia del Giuseppe Bottai, il "ministro della cultura" del fascismo. Ora è il presidente della fondazione del Vittoriale con risultati, in termini di marketing culturale oltre che di valore scientifico, notevoli. L'argomento del nostro Dossier è l'occasione per fare due chiacchiere con lui sull'ineliminabile faziosità italiana.

In Russia, nella parata annuale sulla Piazza Rossa sfilano insieme le bandiere dello Zar, quelle dei Partito Comunista, quelle della Russia attuale. In Italia ogni stagione successiva si attua sulla rimozione della precedente.

«E invece sono sempre stato uno studioso di periodi storici "bui". Essendo bui bisogna illuminarli. Ma battute a parte in Italia c'è sempre la damnatio memoriae del passato, dai Guelfi e Ghibellini a mille divisioni, fino ai campanili e allo sport. Ma per capire l'origine di queste contrapposizioni in ogni aspetto dello scibile umano dobbiamo risalire alle divisioni delle città comunali: un confine ogni dieci chilometri».

Un sistema di potere labirintico.

«L'Imperatore, il Re, quando non tutti e due. E poi il Papa, i feudatari. Il cittadino doveva soggiacere a un sacco di poteri in contrasto. Tutto questo ha provocato la nostra divisione su tutto».

Quindi in Italia finiamo per non conoscere la storia, perché ne rimuoviamo una parte, oscurandola, ad ogni cambio di epoca?

«Esattamente. Abbiamo un milione di esempi».

Ecco, un esempio?

«Il brigantaggio meridionale. Per un secolo e mezzo ci hanno raccontato il Risorgimento come una passeggiata trionfale, e il brigantaggio come una serie di episodi di criminalità pura. E invece il brigantaggio, bisognerà dirlo, è stato una forma di resistenza a un invasore».

I Borboni non erano il male assoluto, quindi?

«Certamente avevano delle forme di governo piuttosto arcaiche. Ma avevano anche non poche forme di tollarenza e di viver civile. Erano lo stato che non faceva guerre. Avevano una grande flotta mercantile, delle industrie e una buona riserva di danaro, che venne saccheggiata dall'Italia del Nord: lo stato unitario certamente depredò il Sud, che venne risarcito dopo decenni e decenni. Ma vorrei farle un caso più recente».

Quale?

«Naturalmente il fascismo. Che si è cominciato a studiare dopo decenni, con Renzo De Felice, e anche con i miei lavori, solo nel 1976. Con il libro di De Felice sul consenso si è cominciato ad ammettere che gli italiani erano in buona parte fascisti. E con il mio libro su Bottai si cominciò ad ammettere che esisteva una cultura fascista. Adesso, quarant'anni dopo, al museo di Salò, ho ritenuto opportuno far allestire una mostra sul culto del Duce. Un fenomeno che conosciamo».

E l'hanno contestata

«Hanno detto che è una mostra che rinfocolerà le nostalgie, ci sono state contestazioni molto dure».

Un paradosso: non è che l'antifascismo (in forme patinate, vintage, strumentali) è più in voga adesso di trent'anni fa?

«Non ho questa sensazione. Quella dei contestatori di una mostra su Mussolini mi sembra solo una battaglia di retroguardia. Quando facemmo la grande mostra sugli anni 30 a Milano, che fece vedere come nel periodo fascista ci fosse stata una grande architettura successe l'Ira di Dio. Ora qui invece sembra più una polemica sociale: Salò non vuole essere associata all'ultima fase del fascismo».

Quindi nemmeno il fascismo è stato un male assoluto?

«Il male assoluto non esiste. Il male assoluto sarebbe il demonio: un concetto religioso che non prendo nemmeno in considerazione. Che in un regime durato vent'anni siano state fatte delle cose nessuno lo può negare».

Anche Togliatti arruolò alcuni degli intellettuali del fascismo nel partito comunista. Ma non ci sono solo i Borboni e il Fascismo. Oggi, si parva licet, lo schema delle fazioni è sempre in moto. Renzi contro antirenziani; Berlusconi contro antiberlusconiani; Mani pulite contro ex-socialisti.

«Mi sembra evidente, lo leggiamo tutti i giorni. Basta guardare i toni della battaglia nel Pd, o nella lotta a destra tra berlusconiani e antibelusconiani. I popoli hanno un carattere».

Qual è la ricaduta della nostra genetica faziosità sugli intellettuali italiani? Non è che per non finire nella fossa degli impresentabili, gli intellò di casa nostra finiscono per apparire sempre più conformisti e corrivi alle idee comuni?

«Anche, ma c'è un altro elemento: il prototipo dell'intellettuale italiano è il Cortigiano. I poeti e i pittori e i filosofi stavano a casa del Principe, a produrre cultura sì, ma per il Principe. Badando bene a non disturbarlo. E' un marchio che si paga nei secoli a venire».

E poi?

«E poi il popolo italiano non è un popolo di rivoluzionari. Non abbiamo mai fatto rivoluzioni. E gli intellettuali non guidano il popolo, ne sono solo un'espressione, ma raffinata. Quindi gli intellettuali "scomodi" da noi sono davvero pochissimi».

Il Paese dei campanili così legato alle tradizioni: "Noi prima di tutto italiani". Nell’indagine realizzata da Demos, Veneto e Lombardia sono lontani da Barcellona: i venti d’autonomia spirano sempre più deboli, scrive Ilvo Diamanti il 25 settembre 2017 su "La Repubblica". L'Identità territoriale, in Italia, appare, fin dai tempi dell'Unità, attraversata da tensioni profonde. I referendum sull'autonomia, che si svolgeranno in Lombardia e nel Veneto, fra meno di un mese, sono destinati ad acuire le divisioni. Tanto più perché il clima del confronto fra centro e periferia, fra Stato e Regioni, si è surriscaldato, dopo l'intervento del governo contro la legge veneta che prevede l'esposizione del gonfalone di San Marco negli edifici pubblici. Un provvedimento che rischia di accendere una campagna elettorale fin qui piuttosto spenta. Evocando, con qualche forzatura, l'esempio catalano. L'Italia è storicamente segnata dalla distinzione, per alcuni versi una "frattura", fra Nord e Sud. E, quindi, dalla "questione meridionale", affiancata e sfidata, negli ultimi decenni, da una "questione settentrionale", polemica non solo verso il Mezzogiorno, ma, anzitutto, contro lo Stato. L'Italia, peraltro, ha sempre presentato un'identità frammentata da particolarismi. Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica nella seconda metà degli anni Novanta, una fase particolarmente accesa da conflitti territoriali, era solito dire che "l'Italia è un Paese di paesi. E di città. Unito dalle sue differenze." In altri termini, dal suo pluralismo di tradizioni, culture, paesaggi. Un "Paese di paesi". Mi sembra una definizione efficace e di lunga durata dell'Italia. Evoca, infatti, un profilo che si ripropone ancora oggi, quando si indaga sulle diverse e principali appartenenze territoriali dei cittadini. Lo dimostrano i dati di un sondaggio di Demos (per Intesa Sanpaolo), condotto nelle scorse settimane. Dal quale emerge un sentimento di appartenenza territoriale composito e frastagliato. I contesti nei quali si riconoscono gli italiani, infatti, sono diversi. Anzitutto, l'Italia, indicata come primo riferimento dal 23% del campione. Quasi 1 italiano su 4. Ma ciò significa che gli altri 3 guardano altrove. In particolare: alla loro città (quasi 2 su 10). Quindi, alla loro Regione (12%). Poi alla "macro- area". Nord, Centro e Sud, insieme, raccolgono quasi il 20% delle preferenze "territoriali". Ci sono, infine, molte persone che si orientano oltre i confini nazionali e locali. L'8% si definisce, anzitutto, europeo. Mentre il 18% si rivolge in primo luogo "al mondo". Esprime, dunque, uno spirito apertamente "cosmopolita".

Nell'insieme, dunque, circa metà delle persone intervistate si richiama anzitutto all'ambito "locale". Gli italiani. Si dicono milanesi, napoletani, siciliani, veneti, piemontesi. Bolognesi, toscani. Romani. Marchigiani. Ma anche: del Nord oppure meridionali. Nel Mezzogiorno, in particolare, il sentimento "meridionalista" scavalca il 22%. Tuttavia, se consideriamo anche la seconda indicazione, cioè l'altra identità territoriale possibile per i cittadini, l'Italia si ripropone con forza, su livelli molto elevati. E ciò sottolinea una tendenza anch'essa di "lunga durata", del nostro "Paese di paesi". Ne ho scritto altre volte, in passato, visto il mio vizio di osservare il territorio, come chiave di lettura degli orientamenti politici, ma anche sociali. Noi siamo un popolo di "e italiani". Oppure, reciprocamente, di "italiani e". Detto in altri termini: siamo milanesi, napoletani, siciliani, veneti, piemontesi. Bolognesi, toscani. Cuneesi e vicentini. Romani. Marchigiani. Meridionali, settentrionali. "E" italiani. Ma anche viceversa. Italiani "e"... romani, napoletani, emiliani. E via dicendo. Le diverse identità territoriali, dunque, non appaiono in contrasto con quella nazionale. Ma ne costituiscono, semmai, il complemento. La conferma giunge se osserviamo questi orientamenti in controluce. Attraverso il contesto territoriale ritenuto "più lontano". Il distacco dall'Italia, infatti, continua ad apparire limitato. Espresso da una quota di persone inferiore al 10% (il 7%, per la precisione). Nonostante i localismi e le pulsioni indipendentiste - anche se non più apertamente secessioniste - che agitano il Paese. L'ambito che ha visto crescere maggiormente il distacco dei cittadini, negli ultimi 10 anni, è, invece, l'Europa. Com'era prevedibile. Dunque, siamo e restiamo un "Paese di paesi". Di città e di regioni. Un Paese dall'identità incompiuta e, quindi, "debole". Ma, per questo, dotato di "resistenza". In grado di superare le sfide che vengono dall'esterno. Dalla globalizzazione. Dal cammino incerto dell'Europa. Dalle presunte "invasioni". Perché il perimetro delle nostre appartenenze è aperto e flessibile. Capace, per questo, meglio di altri, di adattarsi ai cambiamenti e alle tensioni che giungono anche dall'interno.

Così, i referendum che si svolgeranno nel Lombardo-Veneto vanno ricondotti al significato reale che assumono presso i cittadini. Esprimono, cioè, una domanda di autonomia, non di distacco. (Il quesito referendario, d'altronde, parla di autonomia, non di indipendenza). Ma riflettono anche la ricerca di consenso politico e personale, da parte dei partiti e dei governatori - leghisti - che guidano le Regioni. (Come suggerisce un sondaggio dell'Osservatorio Nordest di Demos, di prossima pubblicazione sul Gazzettino). Così, a mio avviso, ha ragione Massimo Cacciari quando recrimina contro coloro (il governo regionale del Veneto) che hanno approvato la legge sull'esposizione della bandiera con il "Leone di San Marco". Ma anche contro chi l'ha "impugnata" (il governo nazionale). Perché: "queste cose non fanno che alimentare le pulsioni di quelli che andranno a votare al referendum". In altri termini: questa polemica rischia di amplificare la campagna elettorale in vista del referendum autonomista. Con l'effetto - imprevisto e non voluto dal governo nazionale - di mobilitare i cittadini. Fino ad oggi piuttosto distratti, intorno a questa scadenza. Peraltro, anche l'iniziativa del governo regionale del Veneto potrebbe avere effetti imprevisti, dai promotori. Perché la bandiera "venetista" issata non "al posto di", ma "accanto a" quella italiana potrebbe essere concepita come una conferma ai dati presentati in questa Mappa. Che non prevedono l'alternativa: veneti O italiani. Ma, al contrario, l'integrazione reciproca: veneti E italiani. Guidati da Luca Zaia: il governatore di una Regione italiana. Perché il Lombardo-Veneto non è la Catalogna.

È ora di dirselo: l'Italia dei comuni, dei campanili (e del partito dei sindaci) è un disastro. Gli enti locali in dissesto aumentano in modo esponenziale anno dopo anno. Non si contano più i Comuni sciolti per mafia. Così l'Italia "provinciale" arranca, e i sindaci possono (o sanno) fare poco o niente per migliorare le cose, scrive Flavia Perina il 4 Aprile 2017 su “L’Inkiesta”. L’Italia dei sindaci, l’Italia dei Comuni, dei campanili, l’Italia “local” che funziona bene in contrapposizione all’Italia “glocal” che arranca, l’Italia che ci piace esaltare per luogo comune, quella del mitizzato “territorio” che sarebbe poi l’insieme di forze politiche, economiche, sociali che fanno rete per gestire le città: sicuri che sia vera? Viene da chiederselo dopo il litigio tra Chiara Appendino e Maria Elena Boschi sui fondi Imu e Ici da restituire a Torino, che ha rivelato nervi tesi da entrambe le parti ma soprattutto un colossale deficit della Città della Mole, solitamente considerata feudo di efficienza nordica. Senza quei soldi, dice la sindaca Cinque Stelle, Torino dovrà tagliare i fondi a scuole paritarie, cultura, turismo, oltreché le agevolazioni alle famiglie a basso reddito sulla tassa rifiuti. Magari esagera. E però se una città come Torino sta messa così, figuriamoci il resto, figuriamoci dove la rinomata eccellenza sabauda non ci sta. Sono 146 gli enti locali in pre-dissesto, 84 quelli in dissesto vero e proprio (praticamente falliti). Nell’elenco c’è persino Taormina, la “Perla dello Jonio” scelta da Matteo Renzi per il G7 del prossimo maggio. L’escalation negli ultimi anni è esponenziale. Nel 2009 c’erano solo due Comuni in bancarotta, e facevano notizia: oggi si è così abituati che le classifiche non vanno nemmeno più sui giornali malgrado le imponenti conseguenze per i cittadini. A Casal di Principe, per citare un esempio al top, restano inevase 700 domande di assegni familiari per mancanza di assistenti sociali che le esaminino, le scuole non hanno ottenuto il certificato di agibilità sanitaria e più di metà dei 20mila cittadini non usufruisce dell’acqua corrente. Fosse solo questione di soldi, si potrebbe dire: è la crisi. Ma tra il 2011 e il 2012 sono aumentati del 380 per cento anche gli scioglimenti di comuni per infiltrazioni mafiose, e un altro balzo del 220 per cento si è registrato l’anno successivo. Sono 146 gli enti locali in pre-dissesto, 84 quelli in dissesto vero e proprio (praticamente falliti). Nell’elenco c’è persino Taormina, la “Perla dello Jonio” scelta da Matteo Renzi per il G7 del prossimo maggio. L’escalation negli ultimi anni è esponenziale. Nel 2009 c’erano solo due Comuni in bancarotta, e facevano notizia: oggi si è così abituati che le classifiche non vanno nemmeno più sui giornali. Il “partito dei sindaci”, nonostante ciò, è il solo partito italiano a cui non siano state fatte le bucce. Questa categoria gode di simpatie sconosciute al resto della politica, un po' perché eletta direttamente dal popolo, un po’ perché talmente abile nel gioco dello scaricabarile – la colpa è sempre di qualcun altro – da aver resistito assai bene all’offensiva contro le caste che ha messo in ginocchio le classi dirigenti nazionali. Con le sue ordinanze creative – dal divieto di rovistaggio alle multe per il pallone ai giardinetti, dalle sanzioni ai burqa a quelle per chi dorme sulle panchine – alimenta l’immagine di saggio e severo pater familias, e grazie al contenzioso col governo può giustificare ogni inefficienza con l’avarizia delle autorità centrali. Il combinato disposto delle due cose, paternalismo e ossessione contabile, ha trasformato l'arte di costruire città in amministrazione di condominio e il risultato è un'«Italia dei Comuni» assai malmessa, immobile, anche anagraficamente vecchia - nei piccoli centri l'indice di vecchiaia è quasi cento punti sopra la media nazionale, 226 contro 144 – che ha abbandonato ogni ambizione e progetto oltre la routine della sopravvivenza. Non sarà da questo tipo di territorio che potranno arrivare energie per il Paese, e dovremmo tutti mettere un punto all'astratta esaltazione della dimensione “local”, rovinosa anche sotto altri profili: basta vedere la vicenda delle banche popolari, con i loro traffici di paese, e i costi che sta comportando per tutti i contribuenti (oltrechè per i loro clienti). Piccolo non è bello. O almeno, è bello se fai parte del “giro” dei feudatari del villaggio, pessimo per tutti gli altri che infatti fuggono nelle grandi città, nazionali ed estere, in cerca di fortuna. Piccolo non è necessariamente virtuoso. Piccolo oggi è diverso dal passato, piccolo è spesso povero, spaventato, prigioniero dei clan. E un soffio metropolitano ed europeo è l'unica speranza per questa Italia piccola, che scivola nell'indigenza senza che nessuno se ne accorga, privata anno dopo anno dei servizi più banali, dai trasporti pubblici all'acqua potabile, soffocata dalla piccineria di chi la amministra.

Sul water o in piazza, l’Italia dei campanili che ripudia i “cugini”. Da Pisa-Livorno a Modena-Reggio, le unioni “impossibili”, scrive l'01/11/2012 Pierangelo Sapegno su “La Stampa”. Può darsi che l’Italia dei campanili trovi persino difficile farsi rappresentare da Roberto Cenni, il sindaco di Prato che ha parlato ai giornalisti seduto sul water, tutto così elegante, in giacca e cravatta, il panciotto e il ciuffo brizzolato che scivola sulla fronte come un riporto, se non fosse per quella toilette con lo sciacquone da tirare. Però, nel mare di ricorsi e di insulti piovuti sul taglio delle Province, non c’è solo il radicalismo di un’identità quasi paesana, ma anche - addirittura - qualche antica rivalità storica. Prendete Modena e Reggio Emilia, o Pisa e Livorno, costrette da ieri a stare insieme, sotto lo stesso tetto, come in una buona famiglia. I livornesi quando parlano con uno di Pisa, glielo dicono in faccia, «Deh, ma te ne rendi conto? Tu sei di Pisa». E il proverbio, di quelle parti, dice che «è meglio un morto in casa, che un pisano sull’uscio», perché, nella leggenda popolare, i pisani erano gli esattori delle tasse. In realtà, la Storia racconta che Livorno viene inventata dai Medici per dare il colpo di grazia alla grande Repubblica marinara in crisi. Prima era solo una galera. All’improvviso, Firenze costruisce il porto e lo riempie di gente raccattata da tutti gli angoli, per togliere così l’ultimo respiro alla sua rivale. La missione riesce, ed è da allora che le due città, distanti l’una dall’altra neanche un tiro di schioppo, si odiano così cordialmente. Pure Modena e Reggio Emilia stanno vicine vicine: 30 km d’autostrada a malapena. Però sono lontanissime fra loro, essendo Modena un ducato degli Este, città universitaria, molto raffinata e quasi snob, con le sue imprese eccellenti e il suo nobile passato, al contrario di Reggio Emilia, non a caso la provincia di Peppone e don Camillo, città fortemente terrigna e contadina, dove nella piazza grande del Municipio si portavano ancora le mucche fino a qualche tempo fa. Erano tutt’e due insieme sotto gli Este, ma Modena era la capitale. Solo che anche questa lontananza finisce per scadere nel ridicolo assieme al suo campanilismo più becero, con gli Ultràs del Modena che arrivano perfino a disegnare una coreografia allo stadio tutta in gialloblu, per bocciare l’unione con la vicina nemica, come recitava l’enorme striscione appeso sugli spalti: «Modena è provincia ed è solo gialloblu». Certo, non sono gli unici che protestano, e lì vicino a loro, per sfuggire questo comune destino, Piacenza ha pensato persino di organizzare un referendum per togliersi dall’Emilia: meglio in Lombardia che assieme a Parma. E invece, da ieri, è finita proprio sotto il mantello di Maria Luigia.  Dall’altra parte non è che avrebbe avuto vita tanto diversa: la via era quella di stare con Mantova, Cremona e Lodi, che già protestano e urlano di loro. Niente in confronto a Monza, Varese e zone limitrofe. Lì sono finiti tutti sotto Como, a parte Monza, anche perché Como non la voleva (Leonardo Carioni, Lega Nord: «Noi non abbiamo niente a che fare con Monza, come logistica, territorio e identità. È impensabile una cosa del genere»). Risultato: Monza è stata accorpata a Milano e per questo ora protesta. Dario Allevi, pdl, presidente di Monza e Brianza dice che è «indecente. Non capisco per quale motivo sia stata prevista una deroga solo per Sondrio e Mantova. È arrivato il momento di alzare i toni». A Varese li hanno levati così in alto da appellarsi persino a Mario Monti «in quanto varesino come noi», come ha fatto Lara Comi, europarlamentare pdl.

Naturalmente, il governo è andato avanti per la sua strada, e forse non solo a Palazzo Chigi, perché se chiedi alla gente, a quanti sta davvero a cuore questa dispersione di Province come ai politici? Sta di fatto che la partita non si è chiusa certo qui. Non c’è Provincia che non abbia annunciato il suo bel ricorso al Tar, come Dario Galli, leghista, presidente di Varese, o alla Corte Costituzionale, come ha deciso la regione del Molise, dopo che le hanno accorpato Isernia e Campobasso. Il presidente Michele Iorio ne ha promessi addirittura due, a scanso di equivoci. Melius abundare. «Aspettiamo la risposta il 6 novembre», ha detto, mentre Rosario De Matteis, dalla sua roccaforte di Campobasso, tuonava che «il governo Monti è come l’Armata Brancaleone: ormai non sanno più che fare». Poco importa che molte di queste Province ritornino in fondo nel loro alveo, come Lecco che in fondo era già con Como, o Biella che era con Vercelli, e Rimini con Forlì, e tante altre così, da Vibo Valentia a Verbania. Il campanile e i suoi interessi sono più forti di tutto. Treviso, ad esempio, aveva i giorni contati, bocciata com’era dalla legge, essendo troppo piccola con i suoi 23 mila chilometri quadrati appena. L’hanno messa con Padova, e Rovigo con Verona. Però, è insorta lo stesso.  

Fra le storie diverse («che c’entra Siena con Grosseto?», si lamentano a piazza del Campo) e odi fraterni, il linguaggio molte volte è trasversale, dalla Basilicata alle Alpi, come se i nostri campanili almeno in questo avessero trovato una cosa in comune. Purtroppo, non è un bel linguaggio, tipo quello che usa il presidente della Provincia di Avellino, Cosimo Sibilia, per differenziare - si dice così - «la peculiarità delle due aree». È che l’Italia dei campanili sembra proprio aver trovato nel politichese e negli slogan degli ultrà il suo minimo comune denominatore. Sibilia è arrabbiatissimo perché Avellino è finita nel calderone della nuova grande provincia «Ave-Sannio», con capitale Benevento. Se non deve dilungarsi sulle peculiarità, è molto più diretto: e allora «è un provvedimento devastante» (uno), «hanno umiliato e mortificato il nostro territorio» (due), e «siamo ai limiti del colpo di Stato» (e tre!). Naturalmente, a questo punto, anche lui andrà al Tar. Alla fine, Roberto Cenni, il sindaco offeso di Prato, è davvero la rappresentazione, un po’ ridicola, del nostro campanilismo a oltranza. E i toni giusti sono quelli di Cristiano Vignali, «politologo e storico teatino», che ha lasciato ai posteri questa cronaca: «Migliaia di giovani lunedì mattina hanno sfilato in corteo tra ali di folla osannanti per riconsegnare la città in mano ai teatini e salvare la provincia di Chieti». Purtroppo, Chieti è stata cancellata. E abbiamo chiesto: ci hanno detto che erano qualche decina. Facciamo trenta?  

L’Italia dei 100 campanili… e nessuno Stato, scrive il 27 novembre 2016 Pino Marchionna. E “Fatta l’Italia, ora facciamo gli italiani”. Mai come in questi giorni la celebre frase di Camillo Benso Conte di Cavour ben si attaglia alla situazione paradossale che stiamo vivendo. Ad oltre centocinquant’anni dall’unità d’Italia, siamo ancora “la terra dei cento campanili”, a causa di quell’approccio politico che spesso trasforma le differenze in divisioni e mette gli uni contro gli altri, attraverso rivendicazioni territoriali, giurisdizionali, culturali ed economiche proprie del campanilismo. Da sempre gli italiani si sono dimostrati legati al proprio campanile, per il ruolo simbolico di identificazione che svolge, a tutela del proprio linguaggio, delle proprie tradizioni, della propria storia. E come ricordava lo storico Fernand Braudel “la ricchezza della realtà italiana è anche il segno della sua “insigne debolezza”, giacché la pluralità di tradizioni, di culture e linguaggi, ha sempre costituito un elemento di volubilità rispetto a quel “cemento” sociale che ha caratterizzato la storia di altre grandi nazioni europee”. Questo tratto distintivo della nostra millenaria ed insufficiente storia nazionale è riapparso – come un fiume carsico, che improvvisamente risbuca in superficie – con il ricorso della Regione Veneto alla Corte Costituzionale avverso la Legge Delega 124/2015, meglio nota come Legge Madia. Non sono certo nelle condizioni tecniche di commentare la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionali gli articoli 11, 17, 18 e 19 della Legge Delega. Sottolineo soltanto come la motivazione dell’illegittimità sia incardinata sull’insufficienza del semplice parere della Conferenza Unificata Stato-Regioni al posto della necessaria e previa intesa. Nel momento storico in cui la globalizzazione genera interdipendenze e commistioni inedite, soprattutto in seguito al fenomeno dei flussi migratori dai paesi più poveri del mondo, in una Italia che dovrebbe cogliere e valorizzare la sfida della pluralità culturale, modernizzando la propria struttura istituzionale, torniamo al punto di partenza: ognuno pensa a sé stesso, guardando sempre e comunque al proprio campanile. Questa è la nuova frontiera delle minoranze rilevanti, i cosiddetti “veto players”, che da partiti caratterizzati da una forte ideologia autonomistica si sono trasformati in grumi di potere finalizzati alla difesa di interessi locali che si sovrappongono a quelli più generali del Paese, anzi spesso li superano, in sfregio alla collettività nazionale.

Catalogna, ma anche Lombardia e Veneto. La prova dei referendum per l’indipendenza, scrive il 23 settembre 2017 "Quasi Mezzogiorno". Da una parte la capitale spagnola, Madrid, dall’altra la ribelle Barcellona che invoca più spazio per la Catalogna. Una vecchia storia fatta di voglia di indipendenza e senso di rivalsa, una guerra che si sta consumando oggi a colpi di sentenze e richiamo alle urne. Madrid ha detto no al referendum per l’indipendenza invocando la giustizia e per due volte la Corte Costituzionale è intervenuta, prima bocciando la convocazione alle urne, e quindi la legge che rendeva possibile il voto, e poi sospendendo la legge di “rottura” dalla Spagna adottata la settimana scorsa dal parlamento di Barcellona, che entrerebbe in vigore se al referendum dovesse vincere il Sì. Tentativi falliti, si passa alla forza: a dieci giorni dal voto gli agenti della Guardia Civil hanno arrestato Josep Maria Jové, braccio destro del vice presidente catalano, insieme ad altre 13 persone tra funzionari ed esponenti del governo regionale. I principali organizzatori del referendum non riconosciuto da Madrid finiscono nei guai per aver sfidato il governo centrale. Non ci sta il governo catalano, non ci sta il popolo, sceso in piazza per protestare, non ci sta neanche il Barca, il club-bandiera della Catalogna che esprime la sua condanna per qualsiasi azione contro il diritto di decidere. Venti di guerra civile soffiano in piazza e nei palazzi del potere con il duro scontro tra il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, che invoca “la tutela dei diritti di tutti gli spagnoli”, e il dirigente della sinistra repubblicana catalana Gabriel Rufian che gli ha intimato di togliere “le sue sporche mani dalla Catalogna”. Attacco alla democrazia sono le tre parole più usate da chiunque commenti quello che è successo il 20 settembre a Barcellona (agli arresti si aggiungono una ventina di perquisizioni e milioni di schede elettorali sequestrate) e in Italia già si pensa al 22 ottobre, quando ci sarà il referendum – questo del tutto costituzionale – con il quale Lombardia e Veneto chiedono di entrare nel “club” delle Regioni autonome.

Crimea, Scozia e Catalogna, tutti i perché delle secessioni in atto, scrive Stefano Cingolani il 24/03/2014. E' impressionante come oggi, mentre a Ovest si diffonde l’euroscetticismo, a Oriente, là dove il limes è ancor oggi confuso e mobile, si minacci una guerra per entrare nell’Unione...Con le armi o con le urne, ormai da tempo è tutto un correre a ridisegnare le mappe, un gioco di separazioni più o meno consensuali, una corsa alla secessione: la Scozia e la Catalogna, i paesi Baschi e la Corsica, le Fiandre o la Sicilia (passando per la Sardegna), il Veneto e il Tirolo. Per non parlare dei Balcani dove la Bosnia, grande come il Lombardo-Veneto, è divisa in tre. Il Kosovo, il Montenegro, la Macedonia, anzi le due Macedonie, in lite tra loro anche sul nome (la Grecia sostiene che solo la sua ha il diritto di chiamarsi come la patria di Alessandro). E poi la Slovacchia che ha tranciato un solco con la Repubblica ceca, la Moldova piccolo cuscinetto tra Ucraina e Romania. E via via divorziando. Insomma, non c’è solo la Crimea, siamo di fronte alla “balcanizzazione dell’Europa”, secondo Lord Robertson ex segretario generale della Nato, laburista scozzese che si rivolge ai suoi compatrioti per invitarli a pensarci due volte prima di chiudere il vallo di Adriano. Ma attenti, c’è secessione e secessione, ci ammonisce Bernard-Henri Levy, l’ormai appassito nouveau philosophe che si è fatto immortalare sulle barricate di Kiev: “Non si può paragonare Kosovo e Crimea”, sentenzia BHL tra le piume della sua vanità. Un vero truismo, direbbero i vecchi filosofi. E poi c’è sempre un distinguo, esiste sempre un’eccezione. Prendete il Kurdistan, mica può essere paragonato ai paesi sotto il tallone di zar Putin? Certo che no, infatti non esiste. I curdi sono schiacciati da almeno tre talloni: quello siriano, quello iracheno e quello turco e anche gli stivali sono diversi, la Turchia se non altro fa parte della Nato. Princìpi puri e principio di realtà, del resto, si sono sempre scontrati da che mondo è mondo. La separazione democratica è diversa da quella imposta con il ferro e il fuoco, è ovvio. Eppure l’adesione alla Germania, l’Anschluss, venne approvato dagli austriaci (seppure sotto una qualche minaccia dell’esercito hitleriano). Dunque, non basta il voto, bisogna che sia libero, consapevole, trasparente e non come le urne di vetro usate in Crimea dal gran burlador di Mosca. Ma dividersi non è affatto facile, per i popoli e gli stati ancor meno che per le famiglie; anzi spesso non funziona proprio e si finisce per cercare un protettore, un grande amico, magari un imperatore benevolente pronto ad accogliere nelle sue braccia amorevoli la pecorella smarrita. E non vale solo per i nuovi staterelli dell’est europeo o del Caucaso, ma anche per entità con ben altro pedigree. Come ad esempio la Scozia.

Qual è la linea di demarcazione? Etnica? Linguistica? C’è di mezzo il mito, la storia, l’economia, la politica? Di tutto un po’, ma certo nelle Highlands il mito ha una importanza altrettanto grande che sulle montagne della Serbia. Gli scozzesi hanno combattuto per secoli gli inglesi. Morta Elisabetta I, fin dal 1603 con Giacomo VI Stuart hanno piazzato un loro re in Inghilterra aprendo la strada all’ Unione. L’autonomia è sempre rimasta viva, l’indipendenza è rifiorita con i nazionalismi ottocenteschi e di nuovo nell’ultima parte del secolo scorso. E tuttavia, una divisione etnica è difficile da digerire tanto profondo è il metissage nelle isole britanniche. William Wallace, l’eroe popolare, è riemerso agli onori con la cultura pop. Braveheart, il film di Mel Gibson, coglie il nuovo spirito del tempo, anche se trasforma il figlio di un latifondista che conosceva il latino e il francese in una sorta di capo di sanculotti in tartan. Persino il gruppo metal rock Iron Maiden ne fa l’eroe delle sue canzoni come The Clansman. La trasfigurazione conta più della realtà. Prendete il kilt.

William Wallace non indossava il gonnellino come lo conosciamo oggi. Ma, quando deponeva l’armatura di cavaliere la classica tunica medievale. Persino il plaid a scacchi e colori dei clan, il breacan, con il quale si cingevano i fianchi passandolo attraverso una spalla, è una moda introdotta solo due secoli dopo nel corso del ‘500. Quanto all’indumento a pieghe con tutti i suoi orpelli, diventato emblema di ogni “cultura e società celtica, irlandese, gallese, galiziana, è un’invenzione inglese e ha solo un flebile legame con il folklore o con indumenti degli antichi celti più o meno ricostruiti dagli archeologi. Proprio così. Nasce nei primi decenni del ‘700 grazie a tal Thomas Rawlison che si era rifugiato nelle Highlands anche per sfuggire alla chiesa d’Inghilterra che non amava le sette calviniste (tanto che furono costrette a emigrare in America). Altro che tradizione, è una operazione commerciale, del tutto capitalistica, al pari di Braveheart. Adesso li vediamo sventolare ovunque, in guerra e in pace, da settembre probabilmente copriranno gli scranni del parlamento scozzese. E’ stato il romanticismo a trasfigurare tutto, anche il kilt, ed è il nazionalismo che l’ha mistificato, rendendolo un simbolo importante quanto la croce di Sant’Andrea. E’ accaduto lo stesso a tantissime leggende che formano la cosiddetta cultura etnica e che con l’etné non hanno nulla a che vedere. Trasformare un plaid in kilt è molto più facile che scegliere una nuova moneta. Infatti, i primi intoppi per il progetto di Salmond sono insorti proprio sulla sterlina. Un’idea, infatti, è quella di continuare ad usare la valuta inglese. “E già, e chi garantisce per il vostro debito”, ha subito replicato Mark Carney, il canadese che guida la Banca d’Inghilterra. Bisognerebbe introdurre dei meccanismi simili a quell’ambaradan che la Bce ha creato per i paesi che partecipano all’euro. Ma attenzione: la moneta unica continentale nasce con una debolezza di fondo, perché è priva di una politica fiscale comune. Dunque la Scozia potrebbe sì distaccarsi, ma dovrebbe lasciare a Londra quanto meno il controllo ferro sulle tasse e le spese, cioè sui due attributi fondamentali della sovranità di uno stato. Gli scozzesi fanno leva sulle riserve petrolifere nel Mare del Nord, molte delle quali sono al largo delle loro coste. Già, ma quanto al largo? E poi oggi sono gestite dalle grandi compagnie inglesi come la Bp e la Shell. Che cosa vuol fare Salmond, appropriarsene? Nazionalizzarle come Chavez in Venezuela? Ci provi pure sghignazzano i boss delle multinazionali. Dunque, la Scozia può essere indipendente, ma non sovrana. E qui comincia una discussione, anzi una trattativa durissima perché gli inglesi cercheranno di far valere il loro potere monetario contro la secessione.

“Ah sì? Allora noi adottiamo l’euro”, replicano gli indipendentisti. Fermi tutti. Il problema del debito si pone lo stesso. E in questo caso Londra avrebbe l’ultima parola. Non solo. All’idea di una Scozia indipendente che viene accolta a braccia aperte a Bruxelles, comincia a rumoreggiare Madrid. Indiscrezioni su un veto spagnolo sono circolate nelle capitali europee al punto che il governo di Mariano Rajoy ha dovuto smentirle ufficialmente. Una cosa è certa: la Scozia è il vessillo che sventolano in piazza anche i catalani i quali mai come questa volta chiedono non solo ancor più autonomia e poteri, ma di separarsi dai castigliani. Una catastrofe per il resto della Spagna perché a Barcellona e nella sua regione è concentrata la maggiore ricchezza. Ma anche per la portata davvero storica di una frattura che metterebbe fine a cinquecento anni di unità.

A differenza dalla Scozia, la Catalogna non avrebbe problemi di carattere monetario, visto che fa già parte della zona euro. L’integrazione piena in una struttura sovranazionale, infatti, favorisce il distacco dagli stati nazionali, anzi lo rende non solo fattibile, ma addirittura legittimo. E’ quel che sosteneva in Italia Gianfranco Miglio quando agli esordi della Lega Nord progettava le macroregioni e dialogava con i bavaresi della CSU, affascinati lì per lì dall’idea, o con gli svizzeri del Canton Ticino. E oggi Luca Zaia, tardo epigono proclama: “Il Veneto come la Catalogna, sono in ballo 21 miliardi di euro” (calcola le tasse che non andrebbero versate a Roma non quello che gli altri contribuenti italiani versano al Veneto). Il movimento Plebiscito.eu vuole la secessione e la regione guidata dalla Lega ha in discussione un progetto di legge per un referendum. Ma c’è anche chi chiede, con un sondaggio on line su affaititaliani.it, se la Sicilia deve seguire l’esempio della Crimea. Già, per andare dove? Verso gli Stati Uniti come sognava Finocchiaro Aprile nel 1943 quando sbarcavano i marines? A Barcellona si voterà il 9 novembre, dunque dopo la Scozia che farà da battistrada e influenzerà necessariamente le altre iniziative indipendentiste. E il paradosso dei paradossi vuole che proprio questa Europa dei tecnocrati odiata dalle “estreme” e disprezzata da Beppe Grillo, questo super-stato burocratico, lontano dai popoli come dice anche Matteo Renzi, potrà consentire proprio ai popoli di esprimersi liberamente senza paura di restare appesi al nulla o di finire nelle fauci di un lupo siberiano o di un leone dell’Atlante. Perché il mosaico di stati europei è in gran parte una costruzione artificiosa.

Scrive Tony Judt in “Dopoguerra” che dopo il primo conflitto mondiale, con il disfacimento degli Imperi centrali e quello ottomano, vennero cambiati i confini, dopo la seconda guerra mondiale vennero spostati interi popoli, costruendo stati su base “etnica”. I singoli paesi nel 1939 erano ancora multiculturali e multireligiosi, nonostante i regimi fascisti, nel 1949 non più. Sono pressoché scomparsi gli ebrei, ma non solo: in Polonia i polacchi erano il 68% della popolazione oggi sono oltre il 90, la stessa Italia diventa più omogenea, mentre nei Balcani e nei territori occupati dall’Armata rossa, avviene un rimescolamento all’insegna di vere e proprie deportazioni. L’Europa degli alleati vincitori, dunque, anche in occidente nasce alimentando il pregiudizio, una grave colpa che attraversa i decenni come un fiume carsico e riesplode prepotente con la fine della guerra fredda. Le guerre di Jugoslavia lo dimostrano. Gli Stati Uniti erano “distratti” da Saddam Hussein e l’Unione europea era ossessionata dalla “questione tedesca”, così la Germania che impose il riconoscimento unilaterale della Slovenia e della Croazia, considerati paesi satelliti, proprio mentre era impegnata a digerire il boccone degli Ossie. E cominciarono sette anni di stragi e flagelli le cui ferite non sono ancora rimarginate.

Il pregiudizio etnico è lo stesso che oggi opera come un verme nella pancia degli ucraini e dei russi, così simili da tutti i punti di vista e così lontani. Dove possono andare da soli questi staterelli che dovremmo chiamare da operetta se sul palcoscenico d’Europa non si recitasse un dramma? Non sono autosufficienti né sul piano economico né su quello militare. Quindi cercano un padrino. Il patronage può essere rude e opprimente come quello russo o morbido e avvolgente come quello europeo. Ma esiste un modello ideale al quale riferirsi? E’ impressionante come oggi, mentre a ovest si diffonde l’euroscetticismo, a oriente, là dove il limes è ancor oggi confuso e mobile, si minacci una guerra per entrare nell’Unione, la versione moderna e benevolente del Sacro romano impero. Non è, dunque, una mera bizzarria da studioso, è emerso in questo mondo non più piatto, ma diviso in placche tettoniche, un desiderio di separarsi e riaggregarsi in modo diverso all’interno di entità nuove che meglio rispondano (o almeno così si pensa) ai bisogni di questa era. E che mettano in qualche modo rimedio agli errori dei vincitori, quelli compiuti nel 1945, ma anche quelli del 1989 e degli anni successivi all’implosione dell’Unione sovietica. E’ il messaggio che arriva dalla Crimea e dalla Scozia (o dalla Catalogna), luoghi opposti gli uni agli altri anche sulla mappa geografica, ma luoghi dell’ira per il passato, dello scontento per il presente e (forse) della speranza per il futuro.

Non solo Crimea, ecco le Regioni europee che puntano all’indipendenza. Citando il Kosovo, dopo la vittoria schiacciante dei sì al referendum in cui si chiedeva agli abitanti della Penisola di voler far parte della Russia, Putin ha lanciato l’assist perfetto ai movimenti separatisti di mezza Europa: dalla Catalogna alla Scozia (che va al voto il 18 settembre), fino all’Irlanda del Nord, passando per le Fiandre. Anche in Italia c'è chi vorrebbe fare del Veneto una Repubblica a sé stante, scrive Silvia Ragusa il 23 marzo 2014 su "Il Fatto Quotidiano".

Il popolo di Crimea, secondo il presidente russo Vladimir Putin, si è comportato in base alla “regola dell’autodeterminazione dei popoli”. Lo ha detto nel suo discorso al Parlamento di Mosca, il giorno dopo aver firmato il decreto che riconosce l’indipendenza della penisola ucraina. Non è cosa nuova. L’altro precedente, continuava Putin davanti a una platea entusiasta, si è avuto quando “l’Occidente ha riconosciuto legittimo il distacco del Kosovo dalla Serbia, dicendo che non c’era bisogno di alcun permesso dal potere centrale”. Il leader russo ha accusato gli Usa di usare la “legge del più forte” e di aver ignorato le risoluzioni dell’Onu. Nel 2008, infatti, Pristina dichiarò unilateralmente la sua secessione dalla Serbia con una risoluzione votata dal suo parlamento provvisorio: esattamente come oggi la Crimea si sente russa, ai tempi il Kosovo – prevalentemente albanese - voleva la separazione dalla Serbia. Non servì alcuna consultazione popolare, il voto dei deputati fu risolutivo.

Il Kosovo quindi non è la Crimea. Se oggi Putin porta come esempio la crisi dei Balcani per sottolineare l’ipocrisia della comunità internazionale, dovrebbe ricordarsi di quando, insieme alla Cina, si oppose fermamente alla secessione del Kosovo appoggiando i tentativi serbi di non concedere alcuna sovranità a Pristina, a differenza di Europa e Stati Uniti che riconobbero immediatamente la sua autonomia. Tuttavia, facendo leva sul principio di autodeterminazione dei popoli, Putin ha lanciato l’assist perfetto ai movimenti separatisti di mezza Europa: dal meridione catalano al settentrione scozzese, passando per l’Irlanda, le Fiandre giù fino all’Italia. Così, proprio pochi mesi dopo le elezioni europee del prossimo maggio, l’Europa si troverà a dover gestire le spinte separatiste di alcune sue zone strategiche. 

Catalogna, la Crimea spagnola. “L’ultimo trucco di Mas: portare la gente in strada come in Ucraina”. Il titolo in prima pagina è del quotidiano spagnolo La Razón. I mass media di Madrid hanno guardato al referendum in Crimea con apprensione. Esiste infatti un “parallelismo” tra il voto in Crimea e il referendum del prossimo 9 novembre sull’autonomia catalana. Almeno secondo il ministro degli Esteri spagnolo, José Manuel García-Margallo. Gli articoli della Costituzione ucraina “sono uguali alle leggi della Costituzione spagnola”. Insomma per García-Margallo il parallelismo tra Catalogna è Crimea è “assoluto”. Artu Mas, presidente della Catalogna, non si è scomposto: ha allontanato i parallelismi e ha garantito che i catalani sono come il biblico David che riuscirà a vincere Golia con “astuzia, determinazione e volontà”. Poi però Mas ha spiegato di non scartare “una dichiarazione unilaterale d’indipendenza”, se quella che lui stesso chiama “via britannica” – l’accordo tra inglesi e scozzesi per un referendum simile – sarà ancora ostacolata da Madrid.

Se ce la fa Barcellona, ce la fa anche Venezia. “Vuoi tu che il Veneto diventi una Repubblica federale indipendente e sovrana?”. La domanda è semplice e diretta, valida fino al 21 marzo. In soli tre giorni ha già raccolto 1 milione e 300mila voti: il referendum per l’indipendenza del Veneto, promosso da Plebiscito.eu, ha superato le più rosee aspettative degli organizzatori. Tant’è che i riflettori della stampa mondiale, non solo italiana, si sono accesi su Gianluca Busato, che ha così commentato i risultati: “L’obiettivo di due milioni di veneti che votano il referendum di indipendenza del Veneto è raggiungibile”. Il governatore Luca Zaia ha preso come fonte d’ispirazione quello che accade in Catalogna: “Dobbiamo capire se sull’indipendenza riescono ad aprirci un varco. La loro deadline è il 9 novembre 2014. Se l’indipendenza la ottiene Barcellona, seguendo il loro metodo potrebbe ottenerla anche Venezia”.

Scozia libera, sotto la regina Elisabetta. A nord del vallo di Adriano è già tutto deciso. Il leader dello Scottish national party, Alex Salmond, ha trovato l’accordo con il premier britannico David Cameron riguardo l’indipendenza della Scozia: il 18 settembre 2014 verrà indetto un referendum per la secessione dal Regno Unito. Gli scozzesi andranno al voto per rispondere a un’unica domanda: “La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?”. I sondaggi dicono che perderanno. Ma da Edimburgo potrebbero arrivare delle sorprese. Secondo il progetto di Salmond, la Scozia diverrebbe nei fatti una nazione autonoma ma parte del Commonwealth, con governo indipendente sotto l’egida della regina Elisabetta. Il partito nazionalista sostiene che le risorse di petrolio nel mare del Nord, l’industria locale agricola, la pesca e il whisky consentono a una Scozia indipendente di essere prospera in termini economici. Altri partiti di Edimburgo e il governo britannico invece pensano che la secessione sia svantaggiosa per entrambi i Paesi.

Referendum anche in Irlanda del Nord. Il movimento indipendentista irlandese, il Sinn Fein, vuole realizzare un referendum per decidere se continuare a far parte del Regno Unito o unirsi al resto dell’isola. Il numero due del partito, Martin McGuinness, ritiene che il Nord sia pronto per un referendum nel 2016, proprio in coincidenza con il centenario della rivolta di Pasqua, la sanguinosa ribellione che ha portato alla guerra d’indipendenza contro l’Inghilterra.

Guerra tra Fiandre e Sud francofono. Anche in Belgio si respira aria di scissione. La trasformazione delle Fiandre in uno stato indipendente e sovrano è l’obiettivo della Nieuw vlaamse alliantie (Nuova alleanza fiamminga), il partito che ha trionfato alle ultime elezioni del 2010, dopo la crisi del governo, accanto agli indipendentisti fiamminghi di destra del Vlaams Belang, fautori della separazione dai valloni. Motivazione etno-culturale ed economica, perché spesso le regioni più ricche spingono per sganciarsi dal resto del Paese. Secondo i sondaggi però solo il 30 per cento degli abitanti delle Fiandre vorrebbe una piena indipendenza.

Lo stadio di Verona grida “scimmia” a ogni giocatore del Napoli annunciato dallo speaker, scrive il 20 agosto 2017 "Il Napolista". Con l’avvento di Tavecchio il calcio italiano ha deciso di arrendersi al razzismo, e questi sono i risultati. Una multa di 15mila euro potrà mai invertire il trend? Lo “storico” striscione dei veronesi all'indirizzo dei tifosi del Napoli: “Benvenuti in Italia”.

L’annacquamento voluto da Tavecchio. Il calcio italiano si è ufficialmente arreso al razzismo e alla cosiddetta discriminazione territoriale con l’avvento del presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio. L’annacquamento delle norme fu al primo posto del suo programma politico e venne votato praticamente da tutti presidenti di Serie A (compreso De Laurentiis). La correzione Tavecchio pose fine alla breve stagione della chiusura dei settori e degli stadi italiani per razzismo. Stagione che venne ferocemente contestata da tanti media, Sky Sport in testa, che derubricarono i cori discriminatori al rango di sfottò.

Una pratica diffusa al Bentegodi, non solo col Napoli. E così oggi negli stadi italiani è possibile ascoltare quel che è avvenuto ieri sera a Verona, con lo stadio intero che accompagnava col grido “scimmia” ogni calciatore del Napoli annunciato dallo speaker. Un’usanza, se così la vogliamo chiamare, che al Bentegodi accompagna più squadre avversarie, non soltanto il Napoli. Ma in questo caso non vale il detto: mal comune mezzo gaudio. Una pratica indecente, da sottosviluppo culturale. La società scaligera se la caverà – come da legge – con una multa che sarà più o meno di 15mila euro. La domande adesso è: davvero il calcio italiano pensa di risolvere il problema – sempre che si ponga l’obiettivo di risolverlo – con multe di 15mila euro?

Indipendenza veneta, una provocazione da non sottovalutare, scrive Ettore Bonalberti il 2/03/2014. Sono stati 2 milioni 360mila 235 voti, pari al 73% del corpo elettorale regionale i voti espressi. I sì sono stati 2 milioni 102mila 969, pari all’89%, i no 257.276 (10,9%). Almeno questi sono i dati comunicati dagli organizzatori. Come promesso, Gianluca Busatto ha proceduto a proclamare di fronte a qualche migliaio di persone “l’indipendenza del Veneto”, con queste parole: “quando la testimonianza della storia viene convocata dal tribunale del presente come retaggio e forte voce di libertà e modello di serenità e giustizia. Quando un popolo invoca il diritto di autodeterminazione come diritto naturale e fondamentale dell’individuo e che da questi si estende alla famiglia, alla comunità e alla nazione.” La consultazione referendaria e la proclamazione di ieri sera, Costituzione alla mano, non hanno, ovviamente, alcun valore formale, men che meno istituzionale. L’art. 5 della Carta sancisce che “la Repubblica italiana è una e indivisibile”. Una proposta di referendum per il Veneto indipendente esiste, tuttavia, anche in Consiglio regionale Veneto, ferma in prima commissione, dopo che già un comitato di giuristi aveva spiegato che la “via legale” alla separazione dall’Italia non esiste. I leghisti in consiglio stanno sollecitandone la più rapida approvazione che, la consultazione on line appena conclusa, ovviamente, concorre a velocizzare. Sebbene ci si trovi di fronte a un’evidente provocazione, abilmente sfruttata dagli improvvisati nuovi leader secessionisti, sarebbe assai grave non coglierne tutta la portata politica. Al di là della veridicità reale delle cifre annunciate, trattasi di una dimostrazione di malessere che sembra riprendere, in maniera assai più ampia e generalizzata, la vecchia partita avviata agli inizi degli anni’80 da Franco Rocchetta, presente in Piazza dei Signori a Treviso e Achille Tramarin, fondatori della primigenia Liga Veneta. Come “libera manifestazione del pensiero” nulla da eccepire, guai se, però, ne sottovalutassimo il suo significato e le conseguenze politiche di tale pronunciamento. Ogni anno, come ha ricordato il governatore Zaia, il Veneto consegna a Roma 21 miliardi di tasse che non rientrano e basta leggere il bell’articolo del prof. Ulderico Bernardi, espressione autorevole dell’idea autonomistica sturziana e popolare dei veneti, sul Gazzettino di ieri, per comprendere che il più grave errore sarebbe quello di mettere la testa sotto la sabbia e non dare risposte politiche e istituzionali alla rabbia dei veneti.

Alla vigilia delle elezioni europee solo una ripresa delle grandi culture politiche, tra cui quella popolare resta la più genuinamente legata all’idea di un’Europa diversa dall’attuale, ispirata ai valori comunitari propri dei padri fondatori: Adenauer, De Gasperi e Schuman, può offrire qualche risposta positiva alle attese che anche questo referendum virtuale esprime.

La secessione dovremo farla noi meridionali, scrive Giovanni Valentini il 9 Aprile 2014 su “La Gazzetta del Mezzogiorno". Il vento della secessione che spira dal Veneto non è solo il vento del separatismo e dell’egoismo sociale che anima il ricco Nord-Est contro il resto dell’Italia, e in particolare contro il nostro povero Sud. Fin qui, si potrebbe anche interpretare come una rivendicazione più o meno legittima di autonomia e indipendenza, in difesa degli interessi locali. E magari come una reazione ai tanti vizi, presunti o reali, attribuiti ai meridionali: l’assenteismo, l’assistenzialismo, il clientelismo, la corruzione, l’evasione fiscale, la criminalità organizzata e chi più ne ha più ne metta. Ma in realtà questa corrente secessionista rappresenta qualche cosa di più e di peggio. È il risultato di una rozza predicazione leghista che ha già arrecato molti danni al Paese e soprattutto al Mezzogiorno. Un effetto e una conseguenza di quella propaganda politica che, nel segno di un malinteso federalismo, ha prodotto nel 2001 la modifica del Titolo V della Costituzione, di cui oggi s’invoca a gran voce la riforma: un federalismo malinteso perché, da Carlo Cattaneo in poi, il vero federalismo serve a unire e non a dividere. Quella, come si ricorderà, fu una precisa responsabilità del centrosinistra. Un misfatto compiuto nel tentativo maldestro e illusorio di inseguire la Lega sul piano elettorale. E perciò, ora tocca proprio al centrosinistra riparare i danni, promuovendo finalmente la riforma annunciata dal governo Renzi. Attraverso l’improvvida modifica di quattro articoli della Costituzione (114, 117, 118 e 119), vennero diversamente ripartire le competenze fra Stato e Regioni, assegnando a queste ultime poteri esclusivi in settori nevralgici come la sanità, l’ambiente e i trasporti. Con l’articolo 119, in particolare, si attribuì agli enti locali autonomia finanziaria di entrata e di spesa. È così che il federalismo fiscale è diventato uno strumento che minaccia ormai di scardinare l’assetto e i conti dello Stato. Nell’ultimo decennio, secondo le stime della CGIA di Mestre, le Regioni italiane hanno speso 89 miliardi di euro in più, di cui oltre la metà sono stati assorbiti dalla sanità (49,1). A fronte di un aumento dell’inflazione pari al 23,9%, la spesa pubblica è cresciuta addirittura del 74,6. E nel 2010, ultimo dato disponibile riferito ai bilanci di previsione, le uscite regionali hanno superato complessivamente i 208 miliardi. In questa abnorme dilatazione, rientrano anche le spese incontrollate che hanno suscitato e continuano a suscitare scandali: dalle “mutande verdi” del Piemonte ai viaggi all’estero, dai fuoristrada “di servizio” ai pranzi o alle cene di lavoro del Lazio e della Calabria. Di quale federalismo, dunque, stiamo parlando? E di quale secessione? Qui occorre, semmai, accentrare di nuovo competenze e funzioni sia per organizzare meglio la politica nazionale, dal governo del territorio alla sanità, dall’energia e ai trasporti; sia per ridurre drasticamente le spese. È proprio questo l’obiettivo strategico a cui punta la riforma del Titolo V, proposta da Renzi. Sono le regioni meridionali, piuttosto, che hanno pagato finora il prezzo più alto di questa degenerazione federalista e che dovrebbero invocare una secessione riparatrice. Negli ultimi dieci anni, infatti, il divario Nord-Sud s’è ulteriormente aggravato, com’è stato documentato nei giorni scorsi in un seminario della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. E questo è accaduto in particolare a danno del welfare e delle prestazioni sanitarie, penalizzando ancora una volta la popolazione meridionale. Da qui, senza rinnegare il modello federalista, deriva la richiesta - da una parte - di garantire “livelli essenziali delle prestazioni” (Lep) uguali su tutto il territorio nazionale e - dall’altra - di riconoscere priorità al Mezzogiorno nell’utilizzo del Fondo per le politiche perequative: soprattutto in materia di istruzione, assistenza sociale, sanità, ma anche nella difesa dell’ambiente, come nella gestione dei rifiuti e delle acque. Se le Regioni più ricche possono permettersi tassazioni maggiori per assicurare un livello superiore di servizi, buon per loro. Ma questo non deve andare a discapito dei cittadini meridionali, sottoposti tuttora a un regime fiscale più alto a fronte di un livello di servizi erogati nettamente inferiore. In forza dell’unità nazionale sancita dalla Costituzione, lo Stato non può accettare né referendum secessionisti né questo separatismo strisciante che di fatto continua ad allargare il “gap” fra il Sud e il Centro-Nord. Anche se il nuovo presidente del Consiglio non ha neppure menzionato il Mezzogiorno nel suo discorso di presentazione alle Camere, e anzi ha abolito il ministero della Coesione territoriale che aveva prodotto risultati rilevanti sotto la gestione di Fabrizio Barca, ora la riforma del Titolo V è l’occasione propizia per rafforzare i poteri di riequilibrio dello Stato nelle aree più arretrate, in nome di un federalismo più equo e solidale. Oggi resta più attuale che mai l’assunto che il Paese o riparte dal Sud o non riparte.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD. Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche “il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna, dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile»: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le “scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo?». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la “liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era “la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati “belli” del Nord e quelli “brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente “disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati “belli” del Nord restano del Nord; quelli “brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale», parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la “Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama “New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già “meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce “isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce “Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce “Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è “rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

L’egoismo sociale della Catalogna, scrive il 20 settembre 2017 Barbara Di su "Il Giornale". Quanto sta avvenendo in Catalogna in vista del referendum per l’indipendenza è molto significativo per comprendere il funzionamento dell’egoismo sociale e le conseguenze della violazione del suo principio base. Se i governanti di tutti i livelli di potere coinvolti, dai catalani, agli spagnoli fino agli europei, imparassero ad apprezzare gli egoismi umani ed il loro indispensabile contributo all’evoluzione ed al benessere di ogni società, comprenderebbero finalmente quali meccanismi governano ogni sfera sociale da che esiste l’umanità e riuscirebbero meglio a gestire una situazione che rischia di essere ogni giorno più esplosiva. L’egoismo sociale, infatti, è il prodotto più geniale e nobile dell’istinto di sopravvivenza umano e di tutti gli egoismi, più o meno evoluti, che da questo discendono. Si tratta della consapevolezza degli esseri umani della necessità di interagire e collaborare con gli altri membri di una società al fine di soddisfare al meglio gli egoismi di tutti, attraverso la collaborazione, la suddivisione dei compiti e lo scambio tra egoismi. Uno scambio continuo in cui ogni parte rinuncia ad un proprio egoismo (risorse, tempo, energie, denaro, appagamento autonomo dei bisogni) cedendolo alla controparte per appagare i suoi bisogni ed ottenerne in cambio l’appagamento di un egoismo, diverso o ritenuto di grado superiore nella sua scala di priorità.

È questo l’unico motivo per cui ci si riunisce in una sfera sociale, ossia ogni insieme, più o meno ampio e complesso, di individui riuniti al fine di soddisfare i propri egoismi. È da questo egoismo che nascono le relazioni sociali, che io immagino come un continuo movimento dei singoli all’interno di ogni sfera sociale, a partire dalla famiglia, che, nelle varie situazioni si muove ed agisce per appagare i bisogni di uno, di alcuni, di tutti contemporaneamente, a seconda di quale sfera egocentrica si trovi in un dato momento al centro comandi. Ciò che caratterizza la specie umana è, poi, proprio la capacità incredibile di espansione delle sfere; il singolo ha trovato modo di ampliare i propri desideri e obiettivi, inventandosene in continuazione di ulteriori, grazie alla creazione di sfere sempre più grandi in cui riunirsi ad altri e muoversi tutti insieme per l’appagamento dei bisogni dei membri. Ci si aiuta l’un l’altro, si suddividono i compiti, ciascuno dà il proprio contributo e così ognuno può ottenere ciò che da solo non avrebbe mai raggiunto. Più sono complicati da raggiungere gli obiettivi, più sono necessari diversi contributi coordinati tra loro, più la sfera si allarga, includendo innumerevoli sfere egocentriche che lavorano insieme per soddisfare i desideri comuni, così come dei singoli. Si formano così le associazioni di persone, con gli scopi e le dimensioni più diverse, a loro volta inserite in altre associazioni più grandi, sfere formate da altre sfere, fino ad includere l’intera umanità. In ambito pubblico, inoltre, le sfere sociali sono la struttura portante con cui i membri delle comunità locali soddisfano i bisogni più vari; sono sfere incluse in altre sempre più grandi, a seconda della complessità degli obiettivi che ci si prefigge e del territorio in cui coabitano tutti i pallini egocentrici coinvolti, in un modo o nell’altro, dalle decisioni pubbliche. E non è ancora finita, perché anche gli Stati fanno parte di sfere sociali più ampie, federazioni, unioni continentali, o anche solo collaborazioni, tramite accordi internazionali, commerciali o politici che siano, fino a giungere alle organizzazioni internazionali che possono abbracciare la quasi totalità degli Stati, proprio quando gli egoismi comuni perseguiti perdono la dimensione locale ed abbracciano l’intera umanità. È proprio analizzando tutte queste sfere sociali dal punto di vista egoistico che emerge sia la genialità dell’essere umano, sia la necessità di trovare il modo per coordinarle e farle funzionare al meglio, senza che si sovrappongano in modo inefficiente. In una parola: sussidiarietà. In tanti, infatti, fin troppo spesso, vorrebbero occuparsi di questioni che non gli competono, condizionare scelte che non li riguardano o che coinvolgono gli interessi di altri soggetti, pretendendo di escluderli da ogni decisione, arrogandosi il diritto di scegliere al posto dei diretti interessati. Posto che i singoli hanno creato una sfera sociale proprio per perseguire i loro egoismi particolari, sono solo i creatori ed i membri di quella sfera a poter decidere cosa sia meglio per sé, come farla muovere ed operare, se ingrandirla, se includere od escludere altri soggetti, quali regole di comportamento tenere, come punire o escludere chi non le rispetta, come difendersi dagli attacchi esterni. Ritengo allora che ogni sfera sociale dovrebbe avere competenza solo sugli egoismi delle sfere egocentriche, delle persone che racchiude, solo di quelle e solo di tutte; non di più, perché sarebbe un’imposizione inammissibile nei confronti di chi non ne fa parte; non di meno, perché sarebbe una prevaricazione della maggioranza sulla minoranza. Certo, le sfere spesso si sovrappongono, possono avere confini labili e variabili, ma se si pone attenzione agli obiettivi egoistici perseguiti da ogni sfera sociale in via diretta ed immediata, se se ne comprende lo scopo egoistico istituzionale, si possono individuare i diretti interessati e lasciare solo a loro il potere decisionale. Ecco, in estrema sintesi, questo non è altro che federalismo, o meglio ancora sussidiarietà. Se la applichiamo a qualsiasi attività umana svolta in forma aggregata, a qualsiasi servizio pubblico o interesse privato, vediamo come la logica egoistica degli interessi coinvolti possa essere la chiave di volta per trovare il migliore equilibrio tra le sfere sociali e, soprattutto, per la loro organizzazione. Così come è inefficiente che lo Stato centrale si occupi della perdita delle condutture dell’asilo di Pozzallo, altrettanto illogico che il sindaco di Pozzallo possa imporre le sue scelte su una centrale elettrica, anche se si dovesse trovare nel suo territorio. Se mi guardo intorno, soprattutto in Italia e ancor di più in Europa, vedo invece che si procede alla rinfusa, per passi avanti e indietro, a destra o sinistra, nella suddivisione delle competenze, più attenta ad una logica di mantenimento del potere che di efficienza. E ritengo sia proprio questo il morbo generatore della pesante burocrazia che soffoca, anziché aiutarla, l’attività dei cittadini che, invece, sono riuniti in una società per avere un vantaggio dall’unione e non certo un fardello che ne ostacola lo sviluppo. È, allora, ritornando al fondamento dell’egoismo sociale che si può tentare di mettere ordine in questo caos, che poi è pure il terreno di coltura prediletto della corruzione. Partendo dagli egoismi dei membri di ogni sfera sociale si può avviare un meccanismo di sussidiarietà che parta da un principio molto semplice: tutti coloro che hanno un interesse diretto decidono come far muovere la sfera sociale, tutti gli altri devono stare fuori dal centro comandi. Sì, ma mi si dirà, spesso certe decisioni o attività di una sfera sociale possono avere conseguenze dirette sugli interessi di persone esterne. È un’eccezione che però contiene già la soluzione: se tocca interessi diretti di altri, vuole dire che quella sfera più piccola, in quella determinata situazione, si trova all’interno di una sfera sociale più grande, dove coesistono anche gli altri interessati. Sarà, quindi, il centro comandi di questa sfera più ampia ad avere la competenza per quelle decisioni a cui la sfera più piccola dovrà adeguarsi, e via via così fin dove può espandersi l’inclusione di ogni sfera sociale in un’altra e poi in un’altra ancora. Ora, se questa è la base di ogni società, ecco che il caso della Catalogna evidenzia come il desiderio di indipendenza sia una richiesta di maggiore sussidiarietà che, a quanto pare, la Spagna non ha saputo gestire nel modo più corretto, andando ad occuparsi di questioni che dovevano rimanere gestite dal centro comandi catalano. Ciò ha comportato il pericolo maggiore in cui rischia di incorrere ogni società: la violazione del principio base dell’egoismo sociale. Perché una società possa, infatti, dirsi positiva da un punto di vista egoistico, in ogni scambio ed in ogni sfera sociale, il risultato, l’appagamento degli egoismi, ottenuto dal singolo deve essere superiore a quello che avrebbe ottenuto impiegando le proprie risorse per se stesso; in caso contrario, o si ha uno sfruttamento ingiustificato delle risorse altrui oppure la società è in perdita e non ha nessuna ragione di esistere, meglio scioglierla. Ecco quello che stanno chiedendo i catalani: sciogliere un vincolo sociale in cui si sentono sfruttati e da cui non ritengono di trarre benefici maggiori delle rinunce a cui sono sottoposti. E si tratta, peraltro, della stessa richiesta di tutti i movimenti indipendentisti, o sovranisti come si usa dire ora, che si stanno ribellando ad un’Europa che non riconoscono come utile ai loro bisogni. È proprio l’Unione Europea la prima, d’altronde, a violare il principio base dell’egoismo sociale, sia non contribuendo ad accrescere il benessere dei cittadini europei in misura superiore ai sacrifici imposti, sia soprattutto ad ingerirsi nel centro comandi degli Stati membri imponendo regole che non le competono. Nel momento in cui i burocrati europei hanno cominciato a perdere di vista quali siano gli unici interessi diretti su cui possono avere competenza, a distruggere lo spirito di sussidiarietà su cui era nata la Comunità Europea, ad ingerirsi nelle decisioni che dovevano rimanere di stretta competenza delle sfere sociali statali, ecco che hanno creato i presupposti perché fossero gli stessi cittadini europei a voler disgregare una sfera sociale che non soddisfaceva i loro egoismi né aumentava il loro benessere come avrebbe potuto e dovuto.

Ecco perché in fondo, il referendum catalano non è che l’inevitabile conseguenza del centralismo sia spagnolo che europeo. Per questo considero un controsenso che i catalani pensino di distaccarsi dalla Spagna, ma rimanere in Europa, così come la Scozia dopo la Brexit. Ma si tratta di un controsenso facilmente spiegabile se si pensa alle modalità con cui opera l’UE nei confronti degli Stati membri, imponendo loro misure che hanno ricadute sui cittadini dei singoli Paesi, ma di cui non si assumono la responsabilità diretta, scaricandola sui governanti locali. In altre parole, l’UE prende saldamente il controllo del centro comandi imponendo la rotta, ma lascia il volante radiocomandato in mano ai governanti locali, che non hanno la forza politica di opporsi alle loro decisioni, ma se ne prendono le colpe. Ed ecco che da qui nascono le spinte indipendentiste di Stati e staterelli che si illudono di poter riprendere finalmente il proprio centro comandi, salvo poi un domani ritrovarsi con gli stessi vincoli europei che ne impediscono lo sviluppo e il benessere. Il punto non è, infatti, chi abbia torto o ragione, ma proprio la mancanza di una chiara assunzione di responsabilità da parte di chi effettivamente gestisce il centro comandi. Devono essere i governanti statali ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte nazionali e risponderne ai propri cittadini elettori, così come i governanti europei devono rispondere a tutti i cittadini europei delle scelte che riguardano tutto il continente, ma questo è possibile solo quando la suddivisione dei centri comandi e delle sfere sociali è ben delineata e risponde agli effettivi egoismi direttamente coinvolti. In caso contrario, se non ci preoccupa del principale difetto europeo, suddividendo in modo coerente le competenze tra tutte le sfere sociali con un effettivo equilibrio che solo la sussidiarietà può dare, il risultato inevitabile non può che essere la disgregazione sia degli Stati membri sia della stessa Unione Europea. È solo l’inizio di una morte annunciata.

L'ITALIA DEL PREGIUDIZIO E DEL PRECONCETTO.

Valeria e i pregiudizi su Napoli: «Mi sentivo come Bisio in Benvenuti al Sud». Valeria Genova, 31 anni, da Treviso in Campania per seguire il marito. «Mia nonna mi ha salutata dicendo: stai attenta ai proiettili volanti. Pensavo che fosse il Far West, ora piango a lasciarla», scrivono Michela Nicolussi Moro ed Elena Tebano l'8 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". «Vedi Napoli e poi muori» scriveva Goethe nelle lettere del suo Viaggio in Italia, 1787, citando il detto locale: è così bella che se l’hai vista non hai bisogno di vedere altro. Valeria Genova, trentaduenne di Treviso, l’aveva preso un po’ troppo alla lettera: «Quando nel 2015 ho saputo che avrei dovuto seguire mio marito a Napoli mi sono messa a piangere — racconta —. Avevo paura. Dico solo che mia nonna mi ha salutata con queste parole: “Stai attenta ai proiettili volanti”». Adesso per lei è venuto il momento di lasciare il capoluogo campano e ha scritto un addio su Facebook così pieno d’amore per la città da essere diventato virale, con oltre 34 mila like e più di 14 mila condivisioni in meno di una settimana. Tanto che i tifosi del Napoli l’hanno invitata in curva a vedere l’amichevole di oggi allo stadio San Paolo. Ha promesso che ci andrà, se possibile anche con la figlia di due anni, sicuramente con il marito. Lui è pilota dell’aereonautica e, dopo un periodo in Inghilterra e un altro in Veneto, era stato trasferito a Pozzuoli.

I preconcetti (sbagliati). Valeria però di Napoli conosceva solo il sentito dire. «Benvenuti al Sud non è un’esagerazione, è proprio realtà; io mi sentivo come Bisio, sfigata nel dover andare a vivere in una città piena di problemi, come se fossi in mezzo al Far West», ha scritto nel post. Preconcetti, ammette a ragion veduta: «Sono passati due anni in cui ho vissuto Napoli in tutte le sue sfaccettature e non posso sentirmi più scema per tutti i pregiudizi che avevo su di lei — confessa —. Posso affermare con assoluta certezza e convinzione che Napoli è casa mia». E ancora: «In Napoli mi sono tuffata e adesso non vorrei più uscirne, vorrei stare per sempre tra le sue braccia, cullata dalle tante cose che la rendono speciale. Sì il clima, sì il mare, sì il cibo... ma è molto di più! Napoli è cultura, è ricchezza e povertà, è un groviglio di storie e racconti, è poesia e musica, è allegria e caparbietà, è capacità di vivere appieno la vita, è amore e consapevolezza».

L’accoglienza meridionale. A cambiare le cose è stata l’accoglienza del quartiere di Posillipo prima, poi della città intera: «Non conoscevo nessuno, non avevo né amici né parenti. Ma dopo tre giorni — racconta — la mamma di un bambino che era al nido con mia figlia mi ha iscritta in un gruppo WhatsApp con altre mamme e ha organizzato una piccola festicciola. Sono diventate le mie grandi amiche. La gente del Sud ha una propensione verso l’altro, un affetto, un comportamento accogliente e accudente che al Nord ci scordiamo». Infine è arrivata la scoperta della cultura che affonda le radici nella storia partenopea: «L’anima di Napoli è il teatro —spiega —. Per me, abituata a vedere quelli al Nord che faticano a riempire la sala, assistere al San Carlo sempre pieno è stata una grande emozione». Questa settimana Valeria traslocherà a Roma, la nuova destinazione del marito. «Farò l’ambasciatrice di Napoli» ha promesso. Porterà con se orizzonti un po’ più ampi e le parole di Alessandro Siani in Benvenuti al Sud: «Quando un forestiero viene al Sud piange due volte, quando arriva e quando parte».

Un Popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Per essere omologati nell'esercitare una professione bisogna essere abilitati. Gli abilitati conformati disconosceranno sempre la loro abilitazione truccata mirata alla coglionaggine certificata. Chi non è come il coglione comune è additato come un anormale, senza che di questi si conoscano pregi e virtù. Su di esso la scure del preconcetto e del pregiudizio.

Il pregiudizio è un giudizio anticipato basato su supposizioni o su informazioni incomplete.

Il preconcetto, invece, è un giudizio che non deriva da un esperienza diretta ma solo a detta di altri. 

Da Treccani:

pregiudìzio, (ant. pregiudìcio) s. m. [dal lat. praeiudicium, comp. di prae- «pre-» e iudicium «giudizio»].

1. Nel diritto romano, azione giuridica precedente al giudizio, e tale da influire talvolta sulle decisioni del giudice competente. 

2. a. Idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore (è sinon., in questo sign., di preconcetto): avere pregiudizî nei riguardi di qualcuno, su qualcosa; essere pieno di pregiudizî; giudicare senza (o con l’animo sgombro da) pregiudizî; molti continuano ad avere dei p. sulle capacità professionali delle donne; i suoi p. erano il risultato di un’educazione all’antica; pregiudizî di casta; p. morali, razziali, religiosi, sociali, politici; uno di quei settentrionali con la testa piena di pregiudizi, che appena scendono dalla nave-traghetto cominciano a veder mafia ovunque (Sciascia). 

2. b. Convinzione, credenza superstiziosa o comunque errata, senza fondamento: combattere contro vecchi p. popolari; è un vecchio p. che rompere uno specchio porti sfortuna. 

3. a. Il danno che può derivare agli interessi di una persona da un atto che pregiudichi, cioè comprometta l’esecuzione di una eventuale decisione favorevole del giudice competente; spec. in frasi del tipo: senza p. dei miei diritti; senza p. di terzi; in p. di, con riferimento ad azione giudiziaria, civile o penale, proposta a carico di qualcuno. b. Per estens., fuori del linguaggio giuridico, danno in genere: essere di p. (o di grave p.) per la salute, per la reputazione; recare p., danneggiare; bel modo quell’onesto curato ha saputo trovare per buttar via danari, con non mediocre pregiudizio d’un suo chierichetto, che deve essere un dì suo erede perché gli è nipote (Baretti).

preconcètto, agg. e s. m. [comp. di pre- e del lat. conceptus (part. pass. di concipĕre «concepire»), per traduz. del fr. préconçu].

1. agg. Propriam., concepito prima; si dice soprattutto di idee o giudizî formulati in modo irrazionale, sulla base di prevenzioni, di convinzioni ideologiche, di sentimenti istintivi, spesso per partito preso e senza una esperienza personale: opinioni p.; antipatia, avversione, ostilità p.; una presa di posizione preconcetta. 

2. s. m. Convincimento, idea, opinione privi di giustificazioni razionali o non suffragati da conoscenze ed esperienze dirette: il tuo ragionamento parte da un p. erroneo; bisogna giudicare senza preconcetti; talvolta usato in luogo di pregiudizio, che con questo sign. è termine più com.: essere pieno di preconcetti; avere p. borghesi; una persona che non sa liberarsi dei suoi p.; la moderatezza delle mie parole mandava all’aria tutti i suoi p., le sue misure abituali (C. Levi).

PRECONCETTI E DISCRIMINAZIONE. Scrive Roberto Quaglia: "Caro Maurizio Costanzo Show, si ha un bel dire che avere dei preconcetti è male, ma, appunto, si ha un bel dire e basta e anzi, in tal dire - se vogliamo andare in fondo alla questione - v'è anche assai poco di bello. L'essere umano vive infatti grazie ad una visione del mondo costituita per lo più da preconcetti. La nozione stessa che avere dei preconcetti sia un fatto negativo, è essa stessa un preconcetto. Ma cos'è un preconcetto?

Dal dizionario Gabrielli: "PRECONCETTO: Che è concepito nell'animo prima di essere stato conosciuto, considerato, sperimentato, in modo da creare pregiudizio, da vietare un giudizio sereno della realtà." Come si vede, il preconcetto non è il pregiudizio, ma è di esso invece eventualmente la causa. Si noti come anche nel dizionario Gabrielli si accenni al significato negativo del termine (...vietare un giudizio sereno...). Il dizionario Gabrielli, definendo il preconcetto, è vittima esso stesso di un preconcetto, dal che consegue, in virtù della definizione che esso stesso attribuisce alla parola "preconcetto", che il redattore del dizionario ha definito tale concetto senza averlo prima conosciuto, considerato, sperimentato, in altre parole compreso, riportandone invece il significato popolarmente più diffuso, in altre parole il preconcetto. Pensare che in Australia vivano i canguri è un preconcetto, per ogni persona che non sia mai stata in Australia. Anche l'idea che l'Australia esista è un preconcetto, per chi non ci sia mai stato. Chi ci garantisce che l'esistenza dell'Australia non sia soltanto una leggenda infondata? E' opinione diffusa che l'Australia esista, ma finché uno non ci va, quella sua opinione è un preconcetto. Non c'è nulla di male in questi preconcetti. In realtà non c'è nulla di male nei preconcetti in generale. Il 99% delle nostre cognizioni sono in realtà preconcetti. Anche il concetto che Marilyn Monroe sia sessualmente appetibile è un preconcetto. In realtà è morta, sepolta e decomposta e quindi tutt'altro che sessualmente riutilizzabile. Anche il concetto che fosse sessualmente appetibile quando era viva è un preconcetto. Abbiamo giusto visto qualche sua truccatissima immagine bidimensionale in movimento, senza neanche udirne la voce (doppiata). Per quello che ne sappiamo noi puzzava, ed il suo alito poteva evocare l'impressione di un distillato di calzini marci. Per quello che ne sappiamo tutte le sue foto e tutti i fotogrammi di tutti i suoi film sono abilmente ritoccati per farcela sembrare arrapante. Non l'abbiamo conosciuta e sperimentata, questa è la verità, ogni opinione che abbiamo di ciò che lei fosse è un preconcetto. Se uno proprio non sa cosa fare, può sedersi ad una scrivania o altrove ed elencare su un foglio di carta tutti i propri preconcetti che gli vengono in mente, cioè tutte le cose che ritiene di sapere pur non avendo mai avuto occasione di verificarle, sperimentarle, farne esperienza in prima persona. Non ho idea a che cosa possa servire fare ciò, ma se a qualcuno viene davvero voglia di farlo, lui/lei saprà cosa gli/le servirà. Se allora i preconcetti non sono niente di male, cosa serve sapere cosa sono? E perché ne stiamo parlando? Be', tanto per iniziare per restituire la dignità perduta al concetto di preconcetto, incolpevole vittima di se stesso, cioè di un preconcetto. E tiriamo adesso in ballo un altro vocabolo vittima di un atroce preconcetto: "Discriminazione"! Ci hanno insegnato che discriminare è male. Ci si dice solidali con le cosiddette "vittime della discriminazione". Si parla nei telegiornali di "gravi fatti di discriminazione". La parola "discriminazione" è spesso associata a "intolleranza", come se significassero qualcosa di simile.

Il dizionario Gabrielli dice: "DISCRIMINAZIONE: L'atto e l'effetto del discriminare, distinzione, differenza." E ancora: "DISCRIMINARE: Far differenza o distinguere tra persone e cose; differenziare, distinguere." Nulla di negativo è contenuto in tal vocabolo. Che la discriminazione sia qualcosa di negativo in sé, è un preconcetto. Chiunque ritenga che "discriminare" sia male, ha adottato tale preconcetto, dal che consegue, in virtù della definizione del Gabrielli di "preconcetto", che tal persona non ha mai conosciuto, considerato, sperimentato, il reale significato della parola "discriminare". E discriminare, cioè distinguere, riconoscere differenze, è invece essenziale nella vita di chiunque. Ed è importante imparare a discriminare coscientemente, lucidamente, soprattutto riguardo ai preconcetti, cioè quella gran massa di convinzioni che non sono frutto dell'esperienza, della propria sperimentazione, di una conoscenza approfondita, delle necessarie verifiche. Bisogna prendere coscienza dei propri preconcetti e tra essi discriminare, separando i preconcetti utili da quelli dannosi, quelli sensati da quelli dissennati. E' utile e sensato avere il preconcetto che l'Australia esista, anche se non ci si è mai stati, perché a questo modo si può eventualmente prendere in considerazione l'opportunità di andarci in vacanza. E' dannoso e dissennato avere il preconcetto che i negri sono una razza inferiore, perché ci si crea dei nemici che nemici altrimenti non sarebbero, e si incentiva e legittima nel contempo altri individui a sviluppare lo stesso preconcetto nei nostri confronti. In sintesi, la via della saggezza e quella di imparare a discriminare tra i propri preconcetti, e non in base ai propri preconcetti. Tutto questo polpettone intendeva introdurre qualche divagazione circa il diffuso preconcetto della morte. Ne parleremo, caro Maurizio Costanzo Show, nella prossima lettera. Roberto Quaglia".

Stereotipi e pregiudizi. Alla base di atteggiamenti non basati sull'esperienza diretta vi sono spesso stereotipi e pregiudizi, scrive “Sapere.it”.

Per la psicologia sociale uno stereotipo corrisponde a una credenza o a un insieme di credenze in base a cui un gruppo di individui attribuisce determinate caratteristiche a un altro gruppo di persone.

Gli stereotipi. Gli stereotipi assomigliano molto dunque a degli schemi mentali e quando per valutare o prevedere il comportamento di una persona ricorriamo a degli stereotipi, questo tipo di ragionamento ricorda molto quanto detto a proposito delle euristiche: utilizzando uno stereotipo per valutare una persona noi non facciamo altro che utilizzare come scorciatoia mentale l'ipotesi che chi rientra in una determinata categoria avrà probabilmente le caratteristiche proprie di quella categoria. D'altra parte uno stereotipo non si basa su una conoscenza di tipo scientifico, ma piuttosto rispecchia una valutazione che spesso si rivela rigida e non corretta dell'altro, in quanto attraverso gli stereotipi si tende in genere ad attribuire in maniera indistinta determinate caratteristiche a un'intera categoria di persone, trascurando cioè tutte le possibili differenze che potrebbero invece essere rilevate tra i diversi componenti di tale categoria. Occorre tuttavia ricordare, sulla base di quanto detto poco sopra sulla somiglianza tra stereotipi e modelli mentali, che non necessariamente tutti gli stereotipi sono negativi: ad esempio, lo stereotipo che gli anziani hanno i capelli bianchi non ha una connotazione negativa, e se utilizzato tenendo conto che possono anche esistere eccezioni (vivendolo dunque non come “tutti gli anziani hanno i capelli bianchi” ma “molti anziani hanno i capelli bianchi”), può anche rivelarsi un'utile strategia cognitiva. In effetti se considerati come delle generalizzazioni che possono rivelarsi approssimative, gli stereotipi dimostrano di potersi rivelare, così come gli schemi mentali, delle valide strategie mentali. Può essere utile riflettere sul come e sul perché tendiamo a creare degli stereotipi, anche se spesso essi si rivelano nient'altro che concezioni errate. In parte molti dei nostri stereotipi sono mutuati culturalmente (come quelli legati alla differenza uomini/donne, oppure relativamente al carattere o ai difetti di certe popolazioni), e ci spingeranno ad etichettare certi atteggiamenti in maniera diversa a seconda dell'attore coinvolto per rimanere coerenti con lo stereotipo di base. Ad esempio, se condividiamo lo stereotipo che le donne siano meno brave degli uomini nell'impiegare il computer, interpreteremo come mancanza di competenza un errore che causa l'arresto del sistema operativo da parte di un'amica o di una collega, mentre vedremo come una distrazione lo stesso errore commesso da un amico o un collega. Al contrario vedremo come eccezioni che confermano la regola, una donna particolarmente a suo agio con questioni informatiche o un uomo che non è in grado di utilizzare un computer, senza rischiare così di dover mettere in forse lo stereotipo di riferimento. Gli studi sulla memoria hanno anche dimostrato come tendiamo a ricordare meglio e con più precisione episodi che confermano le nostre credenze e a dimenticare o sfumare quelli che le contraddicono; inoltre, dal punto di vista cognitivo, le persone tendono a dare un peso maggiore alle prove che confermano le proprie ipotesi piuttosto che a quelle che le contraddicono.

I pregiudizi. Similare alla connotazione più negativa di uno stereotipo, in psicologia un pregiudizio è un'opinione preconcetta concepita non per conoscenza precisa e diretta del fatto o della persona, ma sulla base di voci e opinioni comuni. Il significato di pregiudizio è cambiato nel tempo: si è passati dal significato di giudizio precedente a quello di giudizio prematuro e infine di giudizio immotivato, di idea positiva o negativa degli altri senza una ragione sufficiente (il pregiudizio è in tal senso generalmente negativo). Bisogna anche distinguere il concetto errato dal pregiudizio: un pensiero infatti diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze. Un pregiudizio può essere considerato un atteggiamento e come tale può essere trasmesso socialmente, e ogni società avrà dei pregiudizi più o meno condivisi da tutti i suoi componenti. Inoltre – riflessione valida anche nel caso degli stereotipi – tendiamo a formare i nostri pregiudizi soprattutto relativamente a persone appartenenti a un gruppo diverso dal nostro, di cui necessariamente avremo una conoscenza meno approfondita, e di cui saremo quindi meno in grado di vedere differenziazioni interne. Le ricerche sociologiche hanno anche posto in evidenza come le persone inserite, anche arbitrariamente, in un gruppo tendono ad accentuare le differenze che portano ad una distinzione del gruppo di appartenenza rispetto agli altri, e a cercare quindi di favorire il proprio gruppo. Spesso il nutrire pregiudizi relativamente a determinate categorie di persone porta, come evidenziato parlando degli atteggiamenti, a modificare il nostro comportamento sulla base delle nostre credenze, con la conseguenza di creare condizioni tali per cui ipotesi formulate sulla base di pregiudizi si verificano (profezie che si autoavverano). Naturalmente questi comportamenti porteranno poi al rafforzamento degli stereotipi stessi. Ad esempio, se per un qualche motivo Amilcare si è convinto che i toscani sono persone estremamente litigiose, incontrando il cugino livornese di Matilde assumerà probabilmente un atteggiamento più provocatorio, intendendo difendersi dagli “inevitabili” attacchi che si aspetta. Ma questo suo atteggiamento sarà visto come ostile e ingiustificato dal cugino toscano che a sua volta si metterà sulla difensiva nei confronti di Amilcare, che lo percepirà come litigioso, rafforzando di conseguenza il suo pregiudizio. È possibile eliminare i pregiudizi? Non si tratta di un'impresa facile, in quanto i pregiudizi, come abbiamo visto, sono determinati da una serie di concause che hanno le loro radici nel sociale e possono quindi vantare una forte influenza sugli individui. Favorire contatti tra gruppi diversi, migliorare la conoscenza delle persone che per qualche motivo vengono percepite come “diverse” può servire a ridurre i pregiudizi, ma naturalmente occorre che le persone siano effettivamente disposte a rivedere le proprie convinzioni.

Lombroso e quella paura dell’individuo anormale. Dalle sentenze al senso comune il senso della pericolosità è rimasto come incistato nei cervelli di ciascuno di noi. Situato all’incrocio tra il sapere medico e il sapere giudiziario, scrive Pier Aldo Rovatti il 16 dicembre 2016 su "L'Espresso". L'idea di pericolosità che una cultura neoilluminista avrebbe dovuto disinnescare e lasciarsi alle spalle, continua invece a tenere il campo e a produrre effetti inquietanti. La nozione di individuo pericoloso, quell’individuo che potremmo incontrare giù all’angolo della strada, sembra profondamente radicata nelle nostre menti, quasi non avessimo a disposizione alcuno strumento per contrastarla davvero o solo per snidarla: è molto difficile trovare qualcuno completamente immune, anche se molti pretendono di esserlo. È un pregiudizio? Non saprei battezzarlo: di sicuro agisce prima di ogni valutazione e contro ogni buon proposito. Michel Foucault ci ha raccontato, in alcuni suoi scritti degli anni Settanta, come nasce nella modernità questa nozione che in definitiva coincide con l’idea di anormale. L’individuo pericoloso viene descritto dalla psichiatria di allora come un tipo di folle capace di esplosioni imprevedibili e incontrollate, una follia monomaniaca, come la si chiamava, tanto più sorprendente quanto meno incanalabile in un profilo individuale di vita. Famosa è rimasta, grazie allo stesso Foucault, la vicenda del giovane contadino francese Pierre Rivière che d’improvviso stermina buona parte della propria famiglia e poi scappa nei boschi. Non aveva dato fin lì particolari segni di squilibrio (sarà lui stesso a fornirne qualche traccia in una “memoria” di sorprendente lucidità scritta in prigione dopo la cattura), il che metterà a lungo in scacco la giustizia del tempo e gli stessi psichiatri, tra cui il notissimo Esquirol. Infatti, ci si comincia allora a chiedere come trattare una pericolosità che si situa all’incrocio tra il sapere medico e il sapere giudiziario. Ancora oggi, quando sono passati quasi due secoli e la questione è stata studiata in lungo e in largo, restano parecchie ombre. Da noi, nonostante la chiusura dei manicomi (la “rivoluzione” condotta da Franco Basaglia prima a Gorizia e poi a Trieste, con il suo esito in una legge nazionale, la “180”, decisamente pionieristica), la soppressione dei cosiddetti Ospedali psichiatrici giudiziari è cronaca recentissima, ma le ombre potranno comunque essere completamente diradate solo nel momento in cui dal Codice penale scomparirà ogni riferimento all’individuo pericoloso (“pericoloso a sé e agli altri”), un individuo come tale criminogeno. Per ora simile norma, nonostante tutto, sussiste nella sua evidente vaghezza e nella sua impressionante lontananza dal mondo reale e dagli sviluppi effettivi della nozione stessa di individuo pericoloso. Dopo le teorie della “degenerazione” e dopo gli studi di Cesare Lombroso, per fare solo due esempi, la pericolosità individuale appare adesso inscindibilmente collegata al calcolo dei rischi che una società deve prevedere e prevenire. Le teorie della “degenerazione” hanno cercato di rispondere allo scacco di una pericolosità immotivata con l’ipotesi di tare ereditarie (oggi diremmo, leggibili nel Dna di una persona), e non c’è bisogno di ricordare le nefandezze di massa perpetrate dai regimi autoritari del secolo scorso (ma non solo lì) per liberarsi dai soggetti “deboli”, con pratiche che vanno dalla sterilizzazione alla soppressione fisica dei malati mentali. Roba vecchia? Ma quanto di tale ipotesi degenerativa è rimasto vivo nell’opinione comune (e anche nelle perizie psichiatriche)? Quanto a Lombroso e alla sua geniale fisiognomica dell’individuo anormale, con annesse immagini dei tratti della mostruosità umana e delinquenziale, è arduo convincersi che questa “cultura” sia ormai scomparsa dalla scena. Al contrario, si ha l’impressione che essa sia rimasta come incistata nei cervelli di ciascuno di noi. Per negarlo, dovremmo riuscire a dire a noi stessi che il nostro giudizio è totalmente immune dalla immediata valutazione delle fattezze di chi ci capita di incontrare e dunque dalla pretesa di capire al volo se si tratta di qualcuno di cui fidarsi o da evitare. Non c’è neppure bisogno di sottolineare che questo istantaneo identikit di pericolosità può portarci in fretta ad atteggiamenti di tipo razzistico che mai accetteremmo consapevolmente di attribuire a noi stessi. Insomma, la cartina di tornasole della pericolosità non è certo caduta in disuso e, siccome continuiamo tranquillamente e acriticamente ad adoperarla, dovremmo fermarci un momento a pensare se l’attuale cultura possa effettivamente chiamarsi neoilluministica, a partire proprio da un’analisi autocritica dei modi con cui esprimiamo nel concreto le nostre inclinazioni soggettive. Riusciamo a dribblare il problema spostando lo sguardo sui rischi sociali? Mi spiego. Esiste da alcuni decenni una pratica culturale che ci invita a distogliere l’attenzione dai singoli individui ritenuti pericolosi per concentrarci piuttosto sui cosiddetti studi attuariali, cioè sul calcolo dei probabili rischi cui sarebbe esposto un contesto sociale, per esempio quelli connessi al terrorismo. Si tratta di un duplice spostamento, dal singolo individuo pericoloso a un collettivo di individui o a una “popolazione” di soggetti produttori di rischio sociale, e, secondariamente, da un’indagine sulla storia pregressa degli individui a una prospezione rivolta al futuro e alla probabilità del danno sociale. In questo modo non sarebbe solo in gioco la psichiatria con i suoi folli muti e impenetrabili, e neppure avrebbero voce autorevole gli psicoanalisti, i quali hanno sempre tentato con i loro strumenti di penetrare dentro l’enigma della soggettività per dare parole a quanto dell’individuo si oppone con il suo silenzio a fornire una rappresentazione di se stesso. Quella che, invece, viene costruita è l’idea di una società pericolosa di per sé e quindi produttrice di rischi anonimi e diffusi da tradursi in probabilità. Arrivo così alla domanda decisiva: che ne è attualmente della pericolosità? A me pare che la partita, così impostata, risulti in buona parte truccata. Si vorrebbe cancellare l’idea dell’individuo pericoloso e con essa l’idea stessa di pericolosità, ma si ottiene il risultato opposto di diffondere ovunque il timore del pericolo e al tempo stesso di astenersi da un’indagine critica che scoperchi quanto di ideologico viene conservato nello stigma dell’“individuo pericoloso”. L’altra faccia della ponderazione dei rischi sociali potrebbe rivelarsi quella di un vero e proprio terrorismo psicologico. Il soggetto pericoloso può annidarsi dovunque e in chiunque: può essere chi vive dietro la porta accanto, ma anche chi vive assieme a te, potresti perfino essere tu stesso. La sentenza “pericoloso a sé e agli altri” non solo non viene ancora cancellata da codici ormai antiquati e retrogradi, al contrario sembra potersi applicare in un modo generalizzato e generico, ben al di là dei casi attribuibili a follia individuale. Pericolosi possiamo diventare tutti, basta rientrare per qualche aspetto nel dispositivo della paura sociale. Cosa significa, infine, pericolosità? Tutto, ma anche niente, poiché l’idea stessa di pericolosità ci sta sfuggendo di mano e sono diventati pressoché inservibili quegli strumenti, che pure avevamo, utili per criticare e smontare il pregiudizio della pericolosità.

Intolleranti e discriminati: sono gli italiani secondo l’Istat (e le donne sono quelle che stanno peggio), scrive il 19 luglio 2017 Alessandra Arachi su "Il Corriere della Sera". Sono numeri che vanno letti e riletti per poter credere fino in fondo che siano veri. Li ha prodotti l’Istat realizzando un’indagine sulle discriminazioni, le intolleranze e le violenze in Italia. La prima scoperta? Sono 11 milioni e 300 mila gli italiani che dichiarano di aver subito discriminazioni, ovvero un cittadino su quattro di un’età compresa tra i 18 e i 74 anni. Ma la prima scoperta non è certo la peggiore. L’Istat ha indagato le sensibilità degli italiani rispetto agli omosessuali: è venuto fuori che nel 2017 un italiano su quattro associa l’omosessualità a una malattia. Ed entrando nel mondo del lavoro, poi, si è scoperchiato il vaso di Pandora: più di una donna su due (il 51,8%) nell’arco della vita ha subito ricatti o molestie sessuali sul lavoro, in numero assoluto 10 milioni 485 mila donne in età compresa tra i 14 e i 65 anni. L’indagine dell’Istat è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare sull’intolleranza, voluta dalla presidente Laura Boldrini, che verrà presentata giovedì mattina a Montecitorio. È piena di numeri che ti saltano addosso, e che spaziano dal certificare quell’orribile violenza che porta ai femminicidi (una donna su tre fra i 16 e i 70 ha subito violenza fisica, in due casi su tre dal proprio partner), ad una violenza sottile e quotidiana che si chiama pregiudizio o, semplicemente, stereotipo. Un’altra cifra, per capire? Siamo sempre nel 2017 e, purtroppo sempre in Italia, il 34,4% dei cittadini (più di uno su tre) ha voluto rispondere all’Istat che una madre che lavora non può stabilire un buon rapporto con i propri figli. C’è poi un atteggiamento evidente, soprattutto in questi giorni caldi per gli sbarchi sui nostri mari, però l’Istat lo certifica: sono sei italiani su dieci che si mostrano diffidenti verso gli stranieri. Ma la verità è che la diffidenza persiste anche nei confronti degli omosessuali: un cittadino su cinque ritiene poco o per niente accettabile avere un collega, un superiore o, addirittura un amico omosessuale.

Se il comune di Arco ora chiede la certificazione di antifascismo. Ad Arco, in provincia di Trento, il comune chiede alle associazioni di volontariato di sottoscrivere una dichiarazione di riconoscimento dei "valori antifascisti", indispensabile per ottenere contributi pubblici e uso degli spazi comunali. Ma c'è chi protesta: "Iniziativa assurda", scrive Roberto Vivaldelli, Giovedì 20/07/2017, su "Il Giornale". Non solo Boldrini e Fiano, l'antifascismo militante è materia di dibattito anche nelle piccole realtà locali. Il consiglio comunale di Arco, quarta città del Trentino, ha recentemente approvato una mozione in cui chiede a tutte le associazioni del territorio che fanno domanda di utilizzo di spazi pubblici e richiesta di contributo, di firmare una dichiarazione esplicita di riconoscimento dei “valori antifascisti”. L'amministrazione comunale, sorretta dal centro-sinistra autonomista, ha approvato un documento che presto si tradurrà in un modulo obbligatorio che tutte le associazioni dovranno sottoscrivere se vorranno beneficiare degli spazi comunali e del patrocinio. Facendo riferimento alla legge Scelba del 1952 e alla Legge Mancino del 2005, la recente delibera impone come requisito necessario per l'assegnazione di spazi e contributi pubblici "il non aver subito condanne, anche con sentenza non definitiva, per i reati delle leggi sopracitate” oltre a "prevedere, nei moduli di richiesta di utilizzo di spazi pubblici da presentare al momento della richiesta di autorizzazione, una dichiarazione esplicita di riconoscimento dei valori antifascisti espressi dalla Costituzione italiana". La delibera, in realtà, va oltre e impone alle istituzioni di controllare e visionare l'operato delle associazioni sui social network e su internet, istituendo un “meccanismo di intervento impeditivo per quanto riguarda l'assegnazione di contributi, patrocini o altre forme di supporto e sostegno ad associazioni che, pur avendo sottoscritto la suddetta dichiarazione, presentino richiami all'ideologia fascista, alla sua simbologia, alla discriminazione etnica, religiosa, linguista o sessuale, verificati a livello statutario, sui siti internet e sui social network, o nell'attività pregressa". Il comune, oltre a far sottoscrivere la dichiarazione a tutte le associazioni - siano esse di volontariato, sportive o altro - dovrà dunque tenere d'occhio i social e monitorare i contenuti dei singoli post, stabilendo se essi siano più o meno "discriminatori" ed eventualmente non concedere i contributi o gli spazi pubblici secondo questa valutazione. Per i proponenti, “l'antifascismo è la radice ideale e culturale da cui nasce la Repubblica italiana e la sua costituzione democratica, la quale rappresenta il metodo democratico contro ogni forma di totalitarismo”. L'obiettivo, non troppo velato, è quello di limitare in zona l'attività di Casapound, Forza Nuova e delle varie onlus e associazioni che gravitano attorno a quel mondo. Nella tranquilla città trentina, situata nel sud del Trentino a pochi chilometri dal Lago di Garda, non tutti però hanno appoggiato quest'iniziativa del consiglio comunale, bollandola come "illiberale" e "liberticida". C'è chi, come il signor Mario Matteotti, per tanti anni consigliere comunale del vecchio PCI e ora organizzatore di importanti manifestazioni cittadine come il carnevale - che non la politica hanno ben poco a che vedere - ha deciso di “ribellarsi” e di non sottoscrivere alcuna dichiarazione di antifascismo. E se il comune non farà un passo indietro, è pronto a rinunciare al volontariato, dopo tanti anni. “Parlo a nome di un gruppo di 50 persone e volontari - ci racconta - Per noi la costituzione è sacra e l'abbiamo sempre rispettata. Alcuni di noi sono stati persino consiglieri comunali e hanno militato in partiti di sinistra. Ma questo provvedimento è assurdo e fuori tempo massimo. Non firmeremo alcun modulo. Noi riteniamo che tutti, nel loro piccolo e nella loro quotidianità, abbiano sempre rispettato la costituzione". Per Matteotti si tratta di una questione di principio: "La mia storia personale parla chiaro, non accetto che mi si chieda di firmare una dichiarazione del genere e men che meno accetto che ci sia qualcuno che giudichi il mio essere o meno contro il fascismo”. Una presa posizione che ha scatenato il dibattito nella città trentina e in tutta la provincia, con alcune associazioni pronte a seguire l'esempio del signor Matteotti. Difficile che il comune faccia un passo indietro o riveda la sua posizione.

Esempi di pregiudizi e malafede, intriso di razzismo è quanto scrive il pochissimo letto Libero Quotidiano, che però fa il paio con quanto pubblicano le redazioni di giornalisti ignoranti e o politicizzati di stampa e tv, specialmente di Mediaset, intenti a denigrare territori e popolazioni che neanche conoscono. Fake news di organi di stampa ufficiali e riconosciuti come attendibili (sic), che influenzano milioni di coglioni.

Sono come gli Unni ed il loro re Attila, dopo di loro non cresce più l'erba (ossia la reputazione).

Soldi al Sud, rapinato il Nord. Da gennaio saranno ricalibrati gli stanziamenti regionali: il governo toglierà 40 euro a ogni settentrionale e a ogni abitante del Centro per dare 74 euro in più a ogni meridionale. Alla faccia di chi ha votato il referendum per l’autonomia, scrive Fausto Carioti il 24 novembre 2017 Libero. Più soldi pubblici agli abitanti delle regioni meridionali: 74 euro per ognuno di loro. Quota annuale, s’intende. E, per converso, 40 euro in meno per ogni residente al Nord e al Centro. È la ricetta del governo Gentiloni per il Mezzogiorno, destinata ad allargare l’ampio “residuo fiscale”, cioè la differenza tra quanto ogni italiano riceve dallo Stato e quanto versa ad esso. Un saldo già oggi negativo per gran parte dei settentrionali e decisamente positivo, invece, per i contribuenti del Sud. Non è un semplice progetto, i provvedimenti necessari sono stati tutti approvati: si parte il primo gennaio 2018. (...)(...) Anche se nessun membro del governo e della maggioranza ha pubblicizzato la cosa a nord della Campania, il criterio con cui Roma spalma sul territorio nazionale gli “stanziamenti ordinari in conto capitale” - in parole povere gli investimenti pubblici - sta infatti per mutare. Lo prevede il decreto legge 243 dello scorso anno, intitolato “Interventi urgenti per la coesione sociale e territoriale con particolare riferimento al Mezzogiorno”. Molto particolare. All’articolo “7 bis”, esso stabilisce che il volume annuale degli investimenti “nel territorio composto dalle regioni Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna” debba essere “proporzionale alla popolazione di riferimento”. Un diverso modo di calcolo che avrà conseguenze importanti. Le motivazioni della politica, come sempre in questi casi, sono nobili e si chiamano “maggiore equità”, “esigenza di colmare il divario” e così via. Ideali che però, alla fine, si traducono in moneta sonante. Fino ad adesso non si sapeva quanto sarebbe stato tolto agli uni e dato in più agli altri. È stato Giuseppe Pisauro, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, a svelarlo in un’audizione tenuta due giorni fa in Commissione, a Montecitorio. L’economista (Pisauro è ordinario di Scienza delle finanze alla Sapienza) si è presentato ai deputati con una lunga relazione, all’interno della quale è contenuto un calcolo particolare fatto dai suoi uffici. «Un esercizio ipotetico», l’ha chiamato, una simulazione: cosa sarebbe successo nel periodo 2000-2016 se fosse già stato in vigore il nuovo sistema? «L’incremento complessivo di risorse di cui avrebbe beneficiato il Mezzogiorno», ha detto il presidente dell’Upb, «e il corrispondente decremento che avrebbe subito il Centro-Nord, mantenendo lo stesso livello complessivo della spesa ordinaria e la stessa distribuzione delle risorse aggiuntive, ammonterebbe in media a circa 1,5 miliardi annui». In termini pro capite, ha proseguito, «il Mezzogiorno avrebbe percepito maggiori risorse ordinarie pari, in media annua, a 74 euro, a fronte di minori risorse ordinarie per il Centro-Nord pari a 40 euro pro capite». Questa, dunque, è la novità - brutta per alcuni, bella per altri - che attende gli abitanti delle regioni italiane a partire dal prossimo anno. Un intervento che cambierà i diversi residui fiscali. Nel triennio 2013-2015, secondo i conteggi fatti dalla Banca d’Italia, gli abitanti del CentroNord hanno subìto un saldo negativo pari a 2.589 euro. Con grandi scarti tra quelle stesse regioni: è andata peggio ai lombardi, ognuno dei quali ci ha rimesso 5.422 euro, quindi agli abitanti dell’Emilia Romagna (-3.412), ai laziali (-3.359 euro) e ai veneti (-2.036). Ma ci sono state pure eccezioni vistose, riguardanti le solite regioni a statuto speciale, abituate a ricevere più di quanto versino. Gli abitanti del Mezzogiorno e delle Isole, invece, hanno tutti tratto guadagno dal rapporto fiscale con lo Stato centrale, in media per 3.152 euro. Più degli altri i calabresi, il cui risultato pro-capite è stato positivo per 5.519 euro. Seguono i sardi, con un attivo pari a 4.549 euro, i lucani (+4.412 euro), i molisani (+3.774) e quindi i residenti nelle altre regioni. La regola di distribuzione che entrerà in vigore tra poche settimane ridurrà ulteriormente quello che lo Stato restituisce al Nord e al Centro, a beneficio dei meridionali. È il motivo per cui l’esecutivo, già da tempo, ha iniziato a farsi bello dinanzi a costoro. Ad aprile il pd Claudio De Vincenti, ministro per la Coesione territoriale e il Mezzogiorno, annunciava al Mattino, il quotidiano di Napoli, che la nuova normativa è una vera svolta, «una misura assolutamente coerente con la scelta del governo di mettere il Sud in cima alla sua agenda». Due mesi fa, all’Economia del Mezzogiorno, lo stesso De Vincenti ha detto che quella operata da Gentiloni è «un’inversione di tendenza» dopo «gli anni di governi di destra con la presenza della Lega, nei quali la spesa in conto capitale complessiva è risultata paradossalmente più alta in termine pro capite al Centro-Nord rispetto al Sud». Né lui né nessun altro ministro si è sognato però di menzionare la stessa riforma agli elettori settentrionali.

Già Gilberto Oneto scriveva sullo stesso Libero il 29 dicembre 2010 "LA RAPINA AL SUD STRAPAGATA DAL NORD". Il Regno delle Due Sicilie è stato aggredito prima da una banda di irregolari organizzati e protetti da due Stati stranieri (il Regno di Sardegna e la Gran Bretagna) e poi dall’esercito sardo senza una regolare e motivata dichiarazione di guerra, e senza alcuna delle procedure che distinguono il comportamento delle comunità civili da consorzi di predoni e tagliagole. Si sono in seguito addotte le scuse più improbabili: che l’unificazione fosse volontà della stragrande maggioranza della popolazione e che il regime borbonico fosse «la negazione di Dio in Terra» che martoriava i propri disgraziati sudditi. Come è stato dimostrato dagli avvenimenti successivi al 1860, nessuna di tali condizioni era vera. L’unità era negli auspici solo di una minuscola conventicola di intellettuali e di cospiratori, e i Borbone non erano quella iattura che era stata dipinta. Ma, se anche Francesco II fosse stato un tiranno sanguinario, anche se i suoi sudditi fossero stati sottoposti alle più feroci vessazioni, non sarebbero state buone ragioni per aggredire e annientare uno Stato sovrano, riconosciuto e antico. Il comportamento sardo (e inglese) non può essere giustificato: non occorre neppure inventare o esagerare pregi del governo borbonico per condannare una aggressione che è riprovevole in sé e che lo sarebbe anche se avesse portato alle popolazioni meridionali ricchezze e felicità. 

Forza di occupazione. Che il Meridione non abbia invece ricevuto dall’unità tutti quei vantaggi che in molti si aspettavano e che lo Stato italiano vi abbia per molto tempo esercitato la parte del vessatore più che del liberatore è cosa nota. È sicuramente vero che il nuovo regime si è comportato nel Sud come una forza di occupazione più che di unificazione, ma è altrettanto vero che non è stato molto più tenero in tutte le altre regioni “liberate”. Qui se ne sono percepiti gli effetti con più dolore perché si partiva da condizioni iniziali molto diverse: la tassazione borbonica era mitissima, la leva assai più breve (addirittura sconosciuta in Sicilia), le riserve auree più cospicue che altrove, il percorso industriale appena iniziato e la struttura produttiva assai fragile. Ciò nonostante, presi dalla foga e da un insopprimibile vittimismo, taluni meridionalisti sulla scia delle esagerazioni di Francesco Saverio Nitti si spingono a sostenere che il Regno delle Due Sicilie fosse addirittura una delle prime potenze industriali d’Europa (c’è chi lo colloca senza esitazione addirittura al terzo posto dopo Francia e Gran Bretagna!), che i suoi opifici fossero in procinto di inondare i mercati internazionali e le sue navi di intasare tutti i porti. Si confondono auspici fantasiosi con una realtà che era assai meno rosea. A fronte di alcuni punti di eccellenza, il Regno era arretrato, senza vie di comunicazione, senza istituti di credito, senza un tessuto sociale attrezzato, senza un ceto imprenditoriale attivo, con livelli di istruzione assai bassi e una classe dirigente poco propensa al rischio e vocata alla rendita parassitaria. È vero anche che i primi decenni di unità hanno visto lo Stato italiano fare investimenti soprattutto al Nord, ma questo è spiegabile e ragionevole:

1) si trattava in larga parte di progetti infrastrutturali già progettati o addirittura incominciati dai più attivi governi settentrionali;

2) occorreva aiutare l’industria settentrionale che si trovava in situazione più competitiva rispetto al resto d’Europa sia per condizioni proprie che per facilità di collegamenti;

3) gran parte delle spese erano militari (fino al 40% degli investimenti pubblici) e per ovvie ragioni concentrate al Nord. In ogni caso era in Padania che lo Stato riscuoteva larga parte delle tasse. Quindi, dopo la rapina iniziale perpetrata dal governo provvisorio garibaldino e dai primi anni di quello sabaudo si è trattato della scelta di investire dove era più conveniente, di spendere i soldi dove erano raccolti. 

Giochi con le cifre. Certo meridionalismo “militante” contemporaneo gioca con le cifre confrontando quanto sarebbe stato sottratto con quello che è stato investito. Qualcuno si è spinto a quantificare in moneta attuale la rapina subita dal Mezzogiorno all’atto dell’unità, quasi sempre omettendo di considerare che una buona parte è stata dissipata al Sud dal governo garibaldino, che parte è andata ai nuovi potentati locali e che anche il Meridione ha dovuto contribuire per quanto di sua competenza (la popolazione meridionale era più della metà di quella totale) alla spesa complessiva del nuovo Stato. Naturalmente si evita di raffrontare quelle cifre con quelle tolte alle comunità padane allora e soprattutto oggi. 

A rimettere un po’ di ordine sui balletti dei numeri e sulle descrizioni un po’ troppo rosee dell’economia e della società meridionale pre-unitaria arriva adesso un bel libro di Romano Bracalini (Brandelli d’Italia) pubblicato da Rubbettino, uno straordinario editore calabrese. Vi si chiarisce come l’unità sia stata un affare per certi ceti economici e per la classe politica, ma una catastrofe per le prospettive settentrionali, trascinate sempre più lontano dall’Europa, e per quelle del Meridione, drogato da un flusso di denaro male utilizzato e in larga parte finito ad alimentare parassitismo e malavita. L’unità insomma ha fatto del bene solo alla conventicola di furbacchioni che l’ha inventata. Il libro riconduce alla verità storica e riporta alle sue giuste dimensioni un fenomeno che viene capziosamente gonfiato da certa pubblicistica meridionalista basata sul “risarcimentismo”, costruito sul principio del «ci hanno voluto e adesso ci mantengano». Si perde l’occasione di effettuare un esame sereno degli avvenimenti, mettendo così in difficoltà sia i meridionalisti veri sia ogni seria prospettiva di riscatto del Sud. In ogni caso come si è visto la manipolazione dei numeri risulta ininfluente sui giudizi di merito sulla vicenda risorgimentale e sulla “liberazione” del Meridione. Vale per chi sostiene che il Sud sia stato occupato per succhiarne le ricchezze e anche per chi al contrario giustifica l’annessione con lo stato di miseria e di arretratezza cui porre rimedio. 

Il “risarcimentismo”. Niente giustifica l’aggressione. Nessun popolo può essere annesso senza il suo consenso, né per essere rapinato né per essere redento. Questo basta per esprimere giudizi senza il bisogno di sciorinare cifre vere o inventate, che umiliano le aspirazioni autonomiste meridionali sotto un “risarcimentismo” di comodo finalizzato a perpetrare il trasferimento di risorse dalla Padania. Soprattutto non ha senso come fa qualche meridionalista dell’ultima ora colpevolizzare i popoli padani che di “quel” Risorgimento sono stati vittime come tutti gli altri, ma che, a differenza degli altri, continuano a pagarne il conto anche 150 anni dopo. 

Vittorio Feltri: "Calabria e Meridione, il problema non è l'indole dei terroni. Ma..." Scrive il 12 Novembre 2017 Vittorio Feltri su "Libero Quotidiano". I dati sono dati e non si discutono. A Bergamo, Brescia e Verona la disoccupazione non c’è, come ha scritto Paola Tommasi ieri su Libero. Queste città e queste province sono sgobbone e non lo scopriamo oggi, è un fatto straordinario che ha ragioni storiche. Parlo di Bergamo dove sono nato. Conosco la mia gente scorbutica e infaticabile. La quale è diventata così sotto la Serenissima. I carpentieri che hanno rifinito Venezia erano miei conterranei. Lavoravano per il Doge e vivevano a Padova (dove la vita costava meno), patria della commedia dell’arte. Arlecchino è nativo della Valbrembana, e Brighella era un suo conterraneo. Da quel tempo a oggi è passata molta acqua sotto i ponti del Serio e del Brembo, due fiumi che hanno propiziato le fortune orobiche. Dove c’è acqua corrente c’è energia, dove c’è energia si è sviluppata l’industria. A Bergamo il maggior contributo alla produttività fu portato dagli svizzeri dai quali imparammo il tessile. Due nomi per tutti: Legler e Honegger. Famiglie che oltre all’opero-sità ci hanno insegnato a stare al mondo. I bergamaschi hanno assimilato così la cultura del lavoro i cui frutti sono stati e sono copiosi. Costoro hanno grandi meriti e non li posso negare. Ma aggiungo che sono stati fortunati ad avere certi maestri. Oggi la mia città e la mia provincia sono fiori, borghi lindi e servizi eccellenti, montagne e colline ospitali e opulente. Non si diventa ricchi per caso. Mai conosciuto un ricco cretino o lazzarone. Ma attenzione. È l’ambiente che fa gli uomini e non viceversa. Sono le infrastrutture il propellente dell’economia. Esemplifico. La prima autostrada italiana è stata la Torino-Milano-Bergamo-Brescia che non fu realizzata per consentire alle auto di correre, bensì per far decollare gli affari. Gli orobici hanno sconfitto la miseria perché sono tignosi e duri quali rocce, ma non solo per questo: la sorte li ha aiutati. Sono diventati ciò che sono in quanto agevolati da varie circostanze favorevoli, non ultima la vicinanza a Milano, fucina inesauribile di iniziative imprenditoriali. Non la tiro per le lunghe. Paragonare le Orobie all’Aspromonte è un servizio stupido. La Calabria somiglia al Medioriente, meglio, alla Grecia. L’unità d’Italia le ha regalato il brigantaggio cui si sono dedicati poveracci piegati alla leva obbligatoria che ha ammaccato l’agricoltura locale. Lo Stato unitario non ha spinto lo sviluppo della regione, non ha dato strade e ferrovie, nessuna infrastruttura indispensabile per lo sviluppo. A Reggio sono arrivati soldi a pioggia, finiti nelle tasche dei boss, ma neanche un progetto. Il popolo o campa di espedienti o non campa. Chi ignora questa realtà non può capire il disagio ionico, lo giudica superficialmente e lo attribuisce a questioni antropologiche mentre, ripeto, è il tessuto sociale che influisce sui caratteri individuali. Insomma il problema non è l’indole dei terroni, bensì la condizione a cui essi sono stati condannati da una politica affidata a personaggi acefali, incapaci di gestire il presente e di immaginare il futuro. Segnalo che a Milano e dintorni risiedono 300 mila calabresi perfettamente integrati e indistinguibili dagli indigeni. Perché? L’ambiente li ha raddrizzati e resi idonei ai costumi nostrani. Il resto è chiacchiera che alimenta soltanto stupidi pregiudizi. Vittorio Feltri

Non si può discutere con certa gente. Sono convinti delle loro opinioni e non le cambieranno mai, giusto per dare ragione a quel detto: solo gli stupidi non cambiano opinione.

Il Sole 24 Ore: votate pure, intanto lo Stato non esiste più. (Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017). In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso. Bisognerebbe domandare agli italiani: a voi è mai stato detto che non siamo più «uno Stato sovrano indipendente»? Vi è mai stata chiesta una chiara autorizzazione a disfarsi della nostra sovranità? Vi sono mai state spiegate le conseguenze? Ci rendiamo conto che siamo praticamente sudditi della “Grande Germania” chiamata Unione Europea? Per la verità alcune voci inascoltate lo hanno gridato ai quattro venti, ma sono state fulminate sui giornali con continue accuse di sovranismo, di populismo e di nazionalismo. Oggi, in questa Italia, un Enrico Mattei verrebbe considerato un pericolo sovranista e nazionalista. Perché costruì l’Eni avendo come bussola il nostro interesse nazionale. Nel 2017 gli sarebbe impossibile. Il giornale della Confindustria ieri c’informava del «radicale cambiamento» che si è verificato ovvero che «lo Stato nazionale non esiste più in Europa» (sic!). Ripeto: non sono parole di Salvini o della Meloni, ma degli stessi europeisti. È la realtà dei fatti. Certo, in teoria è ancora in vigore l’articolo 1 della Costituzione secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” italiano. Ma nella realtà non è più così. Lo abbiamo visto nel 2011 quando è stato rovesciato l’ultimo governo scelto dagli italiani e lo vediamo continuamente con la sottomissione alla Ue. Quelli del centrosinistra sono stati così zelanti da andare perfino oltre ciò che l’Europa (o meglio: la Germania) chiedeva, attribuendo alle norme europee valore costituzionale. Giulio Tremonti in una intervista a “Libero” ha spiegato che «la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001» ha introdotto «non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitario non solo i trattati, ma anche i regolamenti e le direttive europee». È un’idea così geniale che ovviamente gli altri Stati d’Europa si sono ben guardati dal farsela venire. I volenterosi governanti italiani sono i soli ad averla escogitata. Così siamo obbligati a recepire tutto, bail-in compreso e non importa se contraddice l’articolo 47 della nostra Costituzione sulla tutela del risparmio. Ovviamente la decisiva perdita di sovranità c’ è stata anzitutto quando abbiamo rinunciato alla nostra moneta, errore che paghiamo salatamente. Eppure eravamo stati avvertiti anche da premi Nobel per l’economia, come Paul Krugman, che nel 1999, sul “New York Times”, scriveva: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica». Ecco la vera questione: non siamo più uno Stato sovrano e indipendente, non abbiamo più una moneta e ci vengono imposte delle politiche e delle norme che fanno l’interesse nazionale altrui, non il nostro. Ci hanno ridotto a un “fake Stato”. Una colonia. La classe politica che ci ha portato a questo punto, e che adesso fischietta distrattamente facendo finta che esista ancora uno Stato italiano sovrano e indipendente, deve rendere ragione di questa follia, alla luce dei risultati devastanti di questi anni. Se le elezioni non affrontano questo problema saranno soltanto un altro modo per prendere in giro un popolo che è stato impoverito, ingannato, tradito ed espropriato perfino della sua sovranità.

(Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017).

Il Sole24ore smentisce ItaliaOggi: Trieste nella top10 per qualità della vita. Dal 70esimo al sesto posto: una differenza enorme tra le due classifiche. Per Il Sole24ore il capoluogo giuliano è tra le migliori città d'Italia: anche qui però male in termini di sicurezza e criminalità, scrive Emanuele Esposito il 27 novembre 2017 su "Trieste Prima". Una differenza enorme, una classifica la pone al 70esimo posto, l'altra in sesta posizione. Questo il divario tra le classifiche della qualità della vita relative alle 110 province italiane pubblicate da ItaliaOggi e Il Sole 24 ore. Se ieri avevamo dato la notizia infausta della settantesima piazza, oggi il bicchiere è decisamente mezzo pieno. Infatti il quotidiano economico vede anche un miglioramento, dal 10° al 6° posto in classifica del capoluogo giuliano, prima provincia dell'ottimo Friuli Venezia Giulia (Gorizia 9, Udine 10 e Pordenone 13). 

Le classifiche delle università? Sono “fake news”, scrive la Redazione ROARS il 10 giugno 2017. Le classifiche delle università? «Dal punto di vista delle scienze sociali sono spazzatura». A dichiararlo nel 2013 era stata Simon Marginson, intervistata da The Australian a proposito della classifica QS. La stessa classifica che il Corriere non esita a indicare come “la più importante a livello internazionale”, forse per compiacere il Rettore del Politecnico di Milano che primeggia tra gli atenei italiani. Un primato che non deriva da particolari meriti ma da un cambio delle regole, favorevole agli atenei tecnici, operato da QS nel 2015. Risultato? La Nanyang Technological University di Singapore, da 39-esima nel 2014 era salita fino al 13-esimo posto, sorpassando Yale, John Hopkins and Cornell. Su quell’onda, il Politecnico di Milano, 229-esimo nella classifica 2014, risalì magicamente al 189-esimo posto, mentre perdevano oltre 100 posizioni Pisa, Tor Vergata, Federico II di Napoli, Cattolica di Milano, Genova, Perugia e Bicocca. Clamoroso il caso di Siena che dal 2014 al 2015 si trovò ad arretrare di ben 220 (duecentoventi) posizioni in un anno. Il suo rettore Angelo Riccaboni, giusto un anno prima, aveva assicurato che «il ranking QS, redatto da Quacquarelli Symonds, è tra i più autorevoli al mondo». Più saggio il Rettore di Roma Tor Vergata: «È impossibile in ogni classifica anche sportive perdere centinaia di posizioni in pochi mesi se non cambiano gli indicatori». Una grande verità che viene troppo spesso rimossa quando si guadagna qualche manciata di posizioni e fa più comodo attribuirsene il merito. Oltre che per la volatilità dei criteri, la classifica QS è stata messa in discussione per il peso sproporzionato (50% del punteggio totale) che assegna a sondaggi reputazionali la cui aleatorietà e manipolabilità sono da sempre oggetto di discussione. Basta consultare Wikipedia per scoprire che furono proprio queste debolezze metodologiche ad indurre Times Higher Education a divorziare da QS (fino al 2009 esisteva un ranking THE-QS): The rankings of the world’s top universities that my magazine has been publishing for the past six years, and which have attracted enormous global attention, are not good enough. In fact, the surveys of reputation, which made up 40 percent of scores and which Times Higher Education until recently defended, had serious weaknesses. And it’s clear that our research measures favored the sciences over the humanities. Phil Baty (THE World University Rankings Editor): Ranking confession, Inside Higher Ed.

A titolo di cronaca, va detto che, nonostante i buoni propositi, nemmeno la classifica di THE ha mai brillato per scientificità. Basti pensare all’exploit di Alessandria di Egitto, collocata da THE davanti a Stanford e Harvard nella classifica 2010 dell’impatto citazionale. QS è anche nota per le spregiudicate pratiche commerciali: la vendita di consulenze alle università valutate e il suo “infamous star system”, che permette di pagare per veder comparire “stelle di qualità” accanto al nome dell’ateneo. “Valutazioni a pagamento per le università più piccole” (Ratings at a Price for Smaller Universities) aveva intitolato il New York Times. Inutile dire che non pochi atenei italiani pagano i servizi di QS. Se speravano che questo li aiutasse a salire nelle classifiche, il tonfo del 2015 dimostra che hanno fatto male i loro conti. Insomma, in termini di scientificità e imparzialità, le classifiche degli atenei godono di una reputazione immeritata.  Poco male, penserà qualcuno: tra le tante “fake news” in circolazione le classifiche degli atenei non sono probabilmente tra le più dannose. In realtà, grazie alla loro pervasività mediatica contribuiscono a plasmare le agende dei governi perché ricacciano sullo sfondo tutti quegli obiettivi che non vengono contabilizzati nei ranking. Sono queste le considerazioni che Stephen Curry, Professore di Structural Biology all’Imperial College, London, ha riportato nell’articolo “University rankings are fake news. How do we fix them?” che ripubblichiamo di seguito per i nostri lettori.

Cari amici di Belluno, complimenti. Ma avete mai visto il cielo di Reggio? Scrive Mimmo Gangemi il 29 Novembre 2017 su "Il Dubbio". La classifica de Il Sole 24 Ore fa emergere un quadro incompleto e non si accorge che la vita è anche altro. Brava, Belluno, prima nella classifica di qualità della vita redatta da Il sole 24 ore. Ma in quale angolo del Nord si trova Belluno? No, non è snobismo né sarcasmo. È semplice ignoranza mia, compatite. La cerco su Google. È nell’alto Veneto. Sul Piave, che certo oggi mormora compiaciuto. Un colpo d’occhio notevole, il panorama, con le Dolomiti innevate a ridosso. Però mi porta brividi di freddo, da invogliarmi al cappotto in questa bella giornata con un rigurgito di tarda estate. E noi di Reggio? Scorro, scorro, scorro. E dov’è finita Reggio? Eccola, finalmente. Terzultima, modestia a parte. Volete mettere? Terzultima non è lo stesso che ultima o penultima. Gli facciamo un mazzo tanto a Caserta e a Taranto, mi dico mentre chiudo a cerchio pollici e indici e li allargo in fuori. Beh, noi meridionali usiamo così, le parole e i pensieri ci vengono meglio se li soccorriamo con i gesti. Da Reggio risalgo in su. Mi si smuove dolorosa la cervicale nello scorrere la classifica fino a Belluno. Alle alte quote, tutte città del Nord. Milano ottava, dopo essere stata seconda nella precedente competizione. Qui, torco il muso. Ottava, Milano? Dove l’umidità infracidisce le ossa, dove si respira nebbia, e monossido di carbonio e particelle microscopiche che s’infilano nei polmoni provocando tumori e malattie respiratorie, dove sono più i giorni che sembra di camminare per le vie di Pechino, la Pechino del carnevale della morte, tutti in giro con le mascherine per spuntare giorni in più al loro Dio? Guardo fuori. Al solito, giornata chiara e luminosa, con l’occhio che riesce a spaziare lontano. C’è il sole. E il cielo azzurro, il mare che ne assume le tinte. All’ultimo orizzonte acquoso, Stromboli tira una boccata di fumo, più a Sud le sue sorelle intralciano di terra le acque, l’imboccatura dello Stretto confonde il continente con la Sicilia che s’allarga scodinzolando in due direzioni, più a Sud ancora l’Etna tradisce, perché in cima è imbiancato come la foto di Belluno che oggi ci porgono i quotidiani. Meglio restare in maglione, la temperatura è gradevole. Sì, manco la giacca. Il cappotto, no di sicuro. Al più, l’impermeabile, ma per fare scena e presenza. Bastano però il clima e la natura benevola per compensare classifiche di civiltà che ci vedono buon ultime? No. Decisamente no. Poi, non ne abbiamo merito. Ce li ha regalati il Padreterno. E noi ci abbiamo messo tanto di nostro per guastarli. Sì, però… Però mi spunta l’idea che ci sia una stretta correlazione tra la latitudine e un’efficienza in grado di determinare migliori qualità della vita, che il clima sia inversamente proporzionale agli indici che spingono in alto il Nord e giù giù il Sud, quasi una questione di fisica. Magari la mia è solo una forzatura per assolvere, con nulla di attendibile. Poi mi sovviene L’Aquila. Per la durezza del clima è seconda in Italia solo a Belluno, si sverna come dentro una ghiacciaia. E, benché città del Sud, è piazzata abbastanza su nella graduatoria, al 63° posto, precede parecchie città del Nord e moltissime del Centro. Sembrerebbe avallare la mia ipotesi, che, peraltro, è in armonia con tutti i Sud del mondo, sempre ad arrancare i passi, non si trova un Sud dove gli indici del buon vivere esaminati siano migliori che al Nord, tranne nelle due Coree, ma lì è colpa della testa malata dei dittatori che si sono succeduti in quella del Nord. Insomma, il Padreterno avrebbe inteso pareggiare i conti, ha dato e ha tolto. Loro li ha voluti perfettini, efficienti, frettolosi, composti, ossequiosi delle regole, e freddi da frigorifero, carattere compreso. Noi invece allegri e chiassosi, esuberanti ed esagerati, goderecci, chiacchieroni, disordinati, lagnosi, vantalori dei fasti di un passato che non c’è più, e che, comunque, non può soccorrere il presente, e marchiati da tanti difetti che abbattono gli standard di civiltà. Che possiamo farci? Siamo più in basso, meno civili? Se sì, pazienza. Intanto, quaggiù ci rimaniamo, senza nessuna intenzione di un inverno là, ma proprio nessuna nessuna. Viva l’inciviltà, se la si misura con i canoni de Il sole 24 ore. Poi, il nordico Piemonte ci ha voluti nazione – Italia lo eravamo già, essa era qui dove il continente si consegna al mare nostrum. Ci avessero lasciati nel Regno delle Due Sicilie, non incideremmo nelle loro classifiche, non entreremmo a guastarle. Oh, non sono filo borbonico, evviva l’Italia. Dico solo che noi questi siamo, che ci hanno voluti, ci hanno presi con la forza e adesso ci devono usare il garbo di tenerci con tutte le scorze, le bucce, la rogna e quant’altro. E ci hanno voluti eccome. Persino i Bellunesi. Ne scovo otto tra i Mille scesi alla conquista. To’, guarda caso, l’otto per mille, devoluto non alla chiesa ma al Sud che non lo aveva chiesto. Torno serio. E ribatto a Il Sole che è una classifica da nordista, stilata sui canoni che più hanno peso e sostanza per uno di su. Chiaro che vincono le giacche blu se per il confronto vengono adottati i loro standard e i loro modelli e li si spaccia per dati inconfutabili su cui misurare il resto della nazione e la febbre del Sud. E infatti si limita ad analizzare la ricchezza e i consumi, il lavoro e l’innovazione, l’ambiente e i servizi, la demografia e la società, la giustizia e la sicurezza, la cultura e il tempo libero. Il risultato sarebbe ben diverso se avessero pesato altri parametri importanti – forse più incidenti a costruire un benessere interiore che a sua volta si traduce in qualità di vita – di quelli che è complicato trasformare in numeri, perché attengono l’anima, il cuore, la fantasia, i valori umani, i rapporti tra le persone, e se a essi avessero abbinato le condizioni esterne, anche climatiche, di paesaggio, di inquinamento. Non si può insomma stilare un rendiconto dei buoni e dei cattivi utilizzando criteri di parte improntati sulla rigida matematica. E non si può ignorare che, più a Nord si sale, più cresce il disagio dello spirito – ne sono esempio i paesi scandinavi, i più civili e nello stesso tempo quelli con la maggiore incidenza di suicidi. Boccio, quindi, la classifica de Il sole 24 ore. Fa emergere un quadro incompleto, falsato. Non s’accorge che la vita è anche altro. E, nel complimentarmi con gli amici bellunesi, puntualizzo: con tutto il rispetto, non me ne vogliate se ho certezza che non cambierei i miei giorni qui con quelli vostri lì.

"Attenti al Sud", un libro sulla cultura del pregiudizio. Mimmo Gangemi e Giuseppe Sottile a Ragusa per Panorama d'Italia, contro le leggi e le storpiature della realtà che accumunano oggi mafia e meridione, scrive Antonio Carnevale il 26 novembre 2017 su Panorama. Un’analisi anti-retorica, accettando il rischio di sfidare la dittatura del politicamente corretto. È stata questa la nota che ha dominato la presentazione del libro “Attenti al sud” (Piemme) durante la tappa a Ragusa del tour “Panorama d’Italia”. Mafia, ‘ndrangheta, cultura del pregiudizio, magistrati che fanno carriera grazie a casi gonfiati, ma anche cittadini comuni che si sentono stretti tra due fuochi: il cancro della criminalità organizzata da una parte e una sconfortante sfiducia nella giustizia dall’altra. Sono stati questi i temi finiti sotto la lente d’ingrandimento durante la serata. Argomenti spesso liquidati con semplici slogan ideologici o (peggio) trattati con il conformismo di un’imperante ipocrisia “buonista”. Invece no: non sul palco del piccolo e delizioso teatro Donnafugata di Ragusa, dove il direttore di Panorama Giorgio Mulè ha introdotto due ospiti più che titolati ad analizzare quei temi: Mimmo Gangemi, scrittore calabrese, che nel volume “Attenti al sud” firma un densissimo testo (al fianco di quelli dei suoi illustri colleghi Pino Aprile, Maurizio de Giovanni e Raffaele Nigro); e Giuseppe Sottile, siciliano, giornalista di lungo corso, che dalla cronaca giudiziaria a “L’Ora” di Palermo e poi al “Giornale di Sicilia” è passato negli anni a occuparsi sempre più spesso della sua regione e di antimafia, come testimoniano ancora le bellissime pagine che firma su Il Foglio, giornale di cui è stato condirettore e del quale è responsabile dell’edizione del sabato.

Il pregiudizio. “Il pregiudizio sul sud impera”, ha detto Gangemi. “Certo, non è sostenibile che la Calabria sia un’oasi di pace. Nelle aree più segnate dall’oppressione malavitosa si sono perpetrati crimini orrendi, con la ’ndrangheta che è testa, mani e piedi dentro i traffici peggiori: prima i sequestri, dopo la droga, le armi, le scorie tossiche, quelle radioattive. A delinquere è tuttavia una sparuta minoranza, seppure capace di un pieno controllo del territorio. L’Italia è stata però indotta a pensarla molto peggio”. “Il pregiudizio è in continua evoluzione”, sottolinea l’autore. “Lo è sin dai tempi in cui Giorgio Bocca spargeva falsità sulla Calabria nel suo L’Inferno. Profondo sud, male oscuro, del 1992, e lo è ancora oggi, con le molte inesattezze che danno vita a una narrazione falsata della realtà criminale”. Un esempio? “Gli elementi organici alla ‘ndrangheta nelle zone più calde della provincia reggina sono stimati dalla Dia in una percentuale pari al 2,7 della popolazione; ma questa cifra perde magicamente la virgola e si trasforma poi in 27 per cento: dieci volte tanto, così fu asserito nel 2012 e nel 2013 durante l’inaugurazione degli anni giudiziari a Reggio”. Non si tratta di casi isolati, afferma Gangemi: “Troppo spesso le accuse di ‘ndrangheta si sgonfiano nei processi. Non sempre gli errori giudiziari sono fatti in malafede. Ma domina una mano pesante. E si sa, ingigantire il mostro serve anche a far cresce le stellette e le carriere”. 

Nuove leggi per la nuova mafia. È d’accordo Sottile: “Non c’è più bisogno di scomodare Leonardo Sciascia e i suoi ‘professionisti dell’anti-mafia’ per osservare che la gestione dell’emergenza, nata molti anni fa, è diventata una prassi anche oggi, ad emergenza finita” commenta. “Non è finita la mafia” puntualizza. “Ma la vecchia legislazione di emergenza si applica oggi a una mafia che si è trasformata, e le conseguenze sono nefaste”. Spiega il giornalista: “Quell’emergenza era nata quando la mafia faceva le stragi. Oggi non solo non ci sono più le stragi, ma nemmeno sono in circolazione i capi di quella vecchia mafia, ormai murati dentro il 41 bis, il carcere duro, lo stesso che ha scontato Riina per 24 anni, fino alla morte. Oggi c’è una nuova mafia, diversa, che continua a dissanguare il territorio, ed è giusto e sacrosanto combatterla. Ma è doveroso dire che contro la vecchia mafia stragista lo Stato ha vinto. E bisogna dunque denunciare che la cultura dell’emergenza, ormai sproporzionata, ha prodotto la cultura del sospetto e del pregiudizio, quella cultura malsana, cioè, per cui basta un “odore di fritto”, ovvero l’ombra di un “forse”, perché si possa avviare il sequestro preventivo dei beni, fino a un processo che nel migliore dei casi ci metterà 15 anni per arrivare alla verità, rovinando nel frattempo il malcapitato imprenditore, non importa se innocente”. 

Il diritto alla paura. In poche parole, “la cultura dell’emergenza ha portato a stravolgere lo Stato di diritto”: su questo sono d’accordo Gangemi e Sottile, che con diversi esempi denunciano anche gli interessi nati attorno al fenomeno dei beni sequestrati: “50 miliardi di patrimonio totale, un tritacarne dove il fallimento s’incontra puntualmente prima che si concluda l’iter giudiziario”. Si fanno nomi e cognomi di chi è incappato nella trappola di una giustizia sbagliata. E si affaccia pure il tema inedito di un “diritto alla paura” dei cittadini, i quali “da soli non sanno più fidarsi di uno Stato che sembra perseguitarli anziché proteggerli”, come denuncia Gangemi. “Oggi la contrapposizione tra mafia e antimafia è diventata un tema di lotta politica” chiosa infine Sottile. “Ci sono professionisti seri che combattono la criminalità organizzata, e che svolgono un lavoro egregio” sottolinea. “Ma non si può negare che si sia formata una categoria di persone che proprio con l’anti-mafia ha accresciuto negli anni soprattutto il proprio potere personale, in termini sia di carriera professionale sia di capacità di manipolazione politica”. Un effetto collaterale di tutte queste storture è allora quella “Cultura del pregiudizio” che dà il titolo al testo di Mimmo Gangemi in “Attenti al sud”. 

Le storpiature della realtà. “Durante la presentazione di un mio libro al nord” esemplifica lo scrittore “una ragazza ebbe a spendere parole di commiserazione per la vita grama che condurremmo quaggiù, costretti a sporgere uno spicchio di testa prima di svoltare l’angolo di una traversa, per essere certi che non provengano pallottole in senso contrario. Rimase sconcertata e dubbiosa vedendo che ci ridevo su: le incrinavo certezze. Quell’osservazione e altre meno fantasiose, ma altrettanto esagerate, danno il senso delle storpiature della verità e della condanna gravata addosso alla Calabria e al meridione in generale. Sono storpiature talvolta fatte ad arte, talvolta per ignoranza, talvolta per convenienza. Talvolta, forse, perché giova all’animo umano trovare altrove nefandezze da cui trarre conforto per quelle di casa propria”. Nel racconto del Mezzogiorno, insomma, si confondono troppo spesso i confini tra il bene e il male, tra mafia e antimafia, tra verità e menzogne, tra lotta alla criminalità e strumentalizzazioni politiche o carrieristiche. Stare “Attenti al sud” significa allora anche questo: puntare un faro sulle tante ombre e cercare di portarvi una nuova luce. Anche a costo di sfidare la dittatura, imperante, del politicamente corretto.

Attenti al Sud di Pino Aprile, Maurizio De Giovanni, Mimmo Gangemi e Raffaele Nigro, pubblicato ad Ottobre 2017. Descrizione. Nel verbosissimo e infinito fiume di parole scritto e detto per raccontare il meridione d'Italia, luci e ombre non sono (quasi) mai nella stessa scena. Da una parte si mettono in evidenza criminalità, sprechi, lentezze, degrado, dall'altra si inalberano una difesa esaltata e a oltranza e un folclore al limite della caricatura. Una contrapposizione che non serve a fare chiarezza. Quello che occorre, invece, è guardare i chiari e gli scuri insieme nella stessa foto. Questo fanno le quattro autorevoli voci che compongono questo libro. Quattro intellettuali "terroni" raccontano il Sud senza sconti, senza piagnistei, senza sensi di inferiorità né di superiorità, tra la "fuganza" di chi proprio non ce la fa a restare e la "restanza" di chi invece ha deciso di tenere duro e rivitalizzare la propria terra. E le ragioni per entrambe le scelte non mancano. Il risultato è una riflessione illuminante, una messa in guardia sul valore del nostro Sud. State attenti, dicono gli autori, significa sia preoccupatevi per il Sud, sia badate a voi perché potrebbe stupirvi ed esplodervi in mano. In ogni caso, stare attenti al Sud vuol dire stare attenti all'Italia intera.

Attenti al sud è un libro che per la prima volta analizza veramente il meridione per quello che è. Pino Aprile, Maurizio De Giovanni e Raffaele Nigro decidono invece di raccontare il sud Italia per quello che è, con le sue ombre e le sue luci, con la sua meravigliosa tradizione e bellezza e con le sue profonde nefandezze. Il problema però è proprio questo: di solito il Sud viene estremizzato e stereotipato in un senso o nell’altro, nel bene e nel male. C’è chi lo racconta per la lentezza, tutti gli sprechi, la mafia, il malaffare politico e c’è invece chi dice che il Sud è meglio e che non c’è niente di meglio al mondo del cibo, della gente, della cultura di quei luoghi. La verità invece per Aprile, De Giovanni e Nigro sta nel mezzo, nel riuscire a valutare tutti gli aspetti e tutte le sfaccettature di questo Sud che è poi lo specchio dell’Italia tutta pur rappresentandone solo una fetta. Senza mai quindi caricaturare, per gli autori bisogna stare attenti a questo Sud perché potrebbe sfuggire di mano o potrebbe esploderci in mano, tra chi ci resta nel suo paese e chi ha deciso di andare via e lo guarda con gli occhi della nostalgia, dell’amore e dell’odio di chi ti ha respinto. Attenti al sud è un saggio da leggere con attenzione per capire questo nostro Paese che è ancora possibile salvare.

Attenti al sud di Pino Aprile e Mimmo Gangemi: l’orgoglio di riscoprire il nostro territorio, scrive "TropeaFestival". Un dialogo vivace, brioso e al tempo stesso veritiero e a tratti amaro quello svoltosi questo pomeriggio al Festival Leggere&Scrivere tra Pino Aprile e Mimmo Gangemi, autori con Raffaele Nigro e Maurizio De Giovanni di Attenti al Sud (Piemme 2017). Gli scrittori Aprile e Gangemi, intervistati da Enrico De Girolamo, discutono, in chiave ironica e attuale, di un territorio caratterizzato da enorme bellezza e potenzialità ma tuttora spesso vittima di un giornalismo, come sottolinea Gangemi, e di un’opinione pubblica che ne rimandano “un’immagine distorta, ingenerosa e che fa male”. Il contributo di Aprile parte da Matera, città che è insieme “radice e sintesi di tutto quello che è sud, Mediterraneo, civiltà agricola”. Capitale della cultura 2019 eppure ancora oggi isolata e, come gran parte del meridione, non valorizzata a sufficienza, in primo luogo dai suoi stessi abitanti. Chi vive al sud in genere sembra riporre poco orgoglio nelle proprie bellezze e potenzialità: “non dite che abitate in un trullo” si usava dire in passato, e molti dei nostri tesori sono diventati tali solo dopo che turisti inglesi, francesi, tedeschi hanno preso a riscoprirli. Nonostante un certo pessimismo legato al fatto di vedere ancora i giovani andare via, è fondamentale riscoprire e ricordare le nostre ricchezze, la nostra cultura, tutto quel che qui è nato (per fare un esempio, archeologia e sismologia sono discipline nate nel meridione d’Italia ed esportate nel resto del mondo). Il messaggio più forte consiste proprio in questo: bisogna ricordare che l’idea di genocidio corrisponde a una serie di azioni volte a cancellare l’identità di un popolo. È necessario invece reagire, imparando dai vinti e dal passato e riappropriandosi con orgoglio della propria identità.

Attenti al Sud - Libro a cura di Antonio Carnevale, con una postfazione di Giorgio Mulé di Mimmo Gangemi, Raffaele Nigro, Pino Aprile, Maurizio De Giovanni. Descrizione. Quattro famosi scrittori "terroni" riflettono sul Sud dell'Italia. Un'analisi appassionata del Meridione - e in filigrana dell'Italia - più illuminante di mille rapporti ufficiali. O solo ombre o solo luci, così di solito è rappresentato il meridione nel dibattito nazionale. Da una parte criminalità, sprechi, lentezze, dall'altra difesa a oltranza, esaltazione e folclore al limite della caricatura. Invece occorre guardare i chiari e gli scuri insieme nella stessa foto. Questo fanno le quattro voci che compongono questo libro: raccontano il Sud senza sconti, senza piagnistei, senza sensi di inferiorità né di superiorità, tra la fuganza di chi proprio non ce la fa a restare e la restanza di chi invece ha deciso di tenere duro e rivitalizzare la propria terra. E le ragioni per entrambe le scelte non mancano. Il risultato è una riflessione illuminante, una messa in guardia sul valore del nostro Sud. State attenti, dicono gli autori, significa sia preoccupatevi per il Sud, sia badate a voi perché potrebbe stupirvi ed esplodervi in mano. In ogni caso, stare attenti al Sud vuol dire stare attenti all'Italia intera.

«Mentre il Nord sta dissanguando il Paese, per tenere in piedi le cattedrali di una religione perduta, ovvero quella industriale, il Sud, con una scarpa e una ciabatta (come dicono a Roma), sta reinventando il mondo.» Pino Aprile

«Abbiamo il dramma della bellezza. Perché questa bellezza ci accusa. Costantemente. La nostra è una fuga dalla bellezza. Ma la bellezza ci insegue.» Maurizio De Giovanni

Attenti al Sud di Aprile, de Giovanni, Gangemi e Nigro da oggi in libreria, scrive Maria Franco il 10 Ottobre 2017 su "Zoom Sud". Nel giugno del 2015 Panorama d’Italia, il tour organizzato dal settimanale diretto Da Giorgio Mulé, si accese, a Matera, di un dibattito tra «quattro moschettieri letterari del Sud». Gli interventi di Pino Aprile (pugliese); Maurizio de Giovanni (campano), Mimmo Gangemi (calabrese) e Raffaele Nigro (lucano), sono ora al centro di Attenti al Sud, che Piemme manda in libreria il 10 ottobre. Tra la restanza, esaltata da Pino Aprile, convinto che «al Sud le nuove generazioni, recuperando il valore della differenza, e traendo da questo valore il proprio orgoglio e la propria forza, e in moltissimi casi facendone anche la propria economia, partecipano a quel movimento mondiale che sta ribaltando i cascami di una vecchia civiltà» e la fuganza temuta da Raffaele Nigro, che legge «nei volti dei nostri ragazzi una voglia, una frenesia di fuga» che «dà spago ai filosofi dell’abbandono.», Maurizio de Giovanni inserisce un nuovo termine: militanza. «Militanza nel riconoscimento di un’identità e nell’orgoglio di questa identità. – dice il padre del Commissario Ricciardi e dei Bastardi di Pizzofalcone – Chiunque si trovi con un microfono in mano e con una telecamera puntata addosso, dovrebbe ricordarsi chi è. E dirlo. Con pregi e difetti. Io non sarei così deciso nello scorporare il buono e il cattivo in maniera radicale. Perché il buono diventa poco credibile quando viene scremato di tutto il cattivo. Questa ambivalenza dobbiamo sempre ricordarla, nel definire la nostra rotondità. Noi abbiamo una sfera di cose, ma dobbiamo fare in modo che questa sfera ruoti opportunamente, che stia costantemente in movimento e che mostri tutte le sue facce. Questa è la militanza: che il meridionale sappia di essere meridionale e se lo ricordi sempre; e che si assuma la responsabilità della propria identità, nel bene e nel male. Perché nel bene non avremmo né vergogna né paura della bellezza. E nel male fronteggeremmo il problema sapendo, finalmente, combatterlo.» Se la situazione del Sud può essere vista in chiaroscuro, quella della Calabria «una terra che arranca e zoppica» pende fortemente, secondo Gangemi, verso il secondo aggettivo: «Curioso, “attenti al Sud” mi suona “attenti ai calabresi”, in tempi in cui gravano pesanti il pregiudizio e la condanna sulla Calabria, talmente alla gogna che chi la vive si muove a disagio, sulla difensiva, da colpevole, comunque. Si fa di tutto per convincerci, e in parte è avvenuto, che siamo i peggiori; che, se non ci fossimo noi, l’Italia sarebbe ben altra cosa. Vero che la Calabria ha tanti demeriti, la ’ndrangheta su tutti, e che le classifiche di civiltà la bollano buona ultima. La censura va però molto oltre le colpe reali. E si tacciono i valori che qui resistono e altrove sono in via di estinzione o già estinti: il senso della famiglia, il calore umano, la solidarietà e l’accoglienza di cui è efficace testimonianza l’apertura generosa agli sventurati che giungono dalla quarta sponda d’Italia di mussoliniana memoria.» «Certo, non è sostenibile che la Calabria sia un’oasi di pace. – afferma l’autore de La signora di Ellis Island – Nelle aree più segnate dall’oppressione malavitosa si sono perpetrati crimini orrendi, con la ’ndrangheta che è testa, mani e piedi dentro i traffici peggiori: prima i sequestri, dopo la droga, le armi, le scorie tossiche, quelle radioattive. A delinquere è tuttavia una sparuta minoranza, seppure capace di un pieno controllo del territorio e di costringere il resto della popolazione a una sorta di libertà condizionata, libera finché non impatta in un interesse anche minimo di quelle poche bestie feroci, libera finché non progredisce in un benessere che accende gli appetiti.» «La condanna è generalizzata, – osserva Gangemi – senza ragionare che la stragrande maggioranza è composta da persone perbene al più con il difetto umano di avere paura e con nessuna intenzione di trasformarsi in eroi coperti di gloria ma con i gigli sul tumulo al cimitero venuti su a furia di lacrime. O che vivono una confusione tale da non sapere più in quale parte della barricata riconoscersi e fidare. Questo pure per le antiche ferite inferte dallo stato – e non rimarginate del tutto – che fin dall’Unità s’è macchiato di soprusi e di colpe che a lungo hanno messo la museruola all’idea di una patria comune.» I calabresi finiscono con lo scontare la ‘ndrangheta, male enorme «metastasi del cancro» che fu l’onorata società, due volte, «nel subirla e nell’essere trattati alla stessa stregua dei malavitosi, come se tutti, in diverse misure, ne siano parte. O tre volte, se si aggiunge la colpa, addossata di recente, di averla esportata. Sul punto, dissento e propendo per la tesi di Federico Varese, criminologo con cattedra a Oxford, di altra fattura rispetto ai fastidiosi esperti con cui i mass media asfissiano e ammalano di morbosità la nazione.» «La ’ndrangheta è una bestia feroce da annegare sotto gli sputi del disprezzo. – ripete Gangemi – E io sto con la Giustizia, la bella e formosa signora con la bilancia nella destra, la spada nella sinistra e una benda agli occhi. Però... Però, quella signora mi sussurra in un orecchio che…» bisogna fare molte correzioni anche nel campo che si proclama anti -‘ndrangheta: «I calabresi vogliono essere dalla parte della Giustizia, di quella che però non incuta timore, che rassicuri piuttosto, si mostri amica, vicina, pronta a soccorrere, di quella che riconosca il diritto di avere paura.» «’Ndrangheta e malaffare – e quanto non funziona a dovere sul fronte opposto – bisogna raccontarli. – scrive Gangemi – Tacerli non aiuta a uscirne. Tacerli è ipocrisia, è amor di patria mal riposto. Raccontarli significa mettersi davanti a uno specchio che non inganna e riconoscere le brutture che appesantiscono l’aria, appestano la vita. Prendere coscienza dei problemi è il primo passo da cui ripartire per ricostruirsi migliori.» E per evitare che si avveri un timore che “ingrigisce i pensieri”, ovvero che «l’attuale condizione di sconfitti – sconfitti continua ad apparirmi una resa provvisoria, da cui ci si può risollevare – sia destinata a trasformarsi in una condizione di vinti da cui non si emerge.»

Quattro scrittori "Attenti al Sud". Pino Aprile, Mimmo Gangemi, Maurizio De Giovanni e Raffaele Nigro protagonisti di un incontro sul mezzogiorno, scrive il 20 giugno 2015 Antonio Carnevale, giornalista di Panorama. Matera è una formidabile metafora del sud. Sarà capitale della cultura europea nel 2019, ma provate a raggiungerla: è difficile in auto, faticoso in treno, impossibile in aereo. Matera città aperta e città chiusa, dunque. È aperta sul mondo, con le eccellenze che gli stranieri stanno finalmente scoprendo. Ed è però staccata dal resto dell’Italia, così come tutto il meridione è rimasto storicamente. Per questo, nella tappa a Matera del tour di Panorama d’Italia, abbiamo organizzato l’evento “Attenti al sud”, una tavola rotonda per riportare l’attenzione su luci e ombre del nostro mezzogiorno. Pino Aprile, Mimmo Gangemi, Maurizio De Giovanni e Raffaele Nigro: sono stati loro ad animare l’incontro, quattro testimoni d’eccezione, scrittori e conoscitori di un territorio sempre più raccontato eppure non abbastanza conosciuto nelle sue ferite e potenzialità. “Tutto il mondo è Matera” ha detto Pino Aprile, giornalista di lungo corso e scrittore (suo il best seller Terroni), grande conoscitore della Puglia, sua terra, come di tutto il sud d’Italia. “Matera era considerata la vergogna d’Italia, come disse De Gasperi, per un motivo preciso: era colpevole della sua distanza dalle città industriali” ha detto. “In un passato recente dovevamo vergognarci della nostra povertà. Ma col tempo abbiamo scoperto che in quella povertà c’era una ricchezza, la ricchezza della diversità. Oggi, con Internet, quella diversità e quella bellezza si possono mettere a frutto. La nostra vergogna è diventata il nostro orgoglio. Le nuove generazioni hanno imparato che da lì può nascere una nuova economia”.  Maurizio De Giovanni, scrittore napoletano, ha messo l’accento sulle potenzialità del suo territorio. Giallista di successo, inventore delle fortunate serie del commissario Ricciardi (è in uscita fine giugno il nuovo Anime di Vetro) nonché dei Bastardi di Pizzofalcone (presto una fiction per la Rai), De Giovanni mette Napoli in tutti i suoi libri. E pensando alla sua città, ha descritto il florilegio di recentissimi successi culturali che si sono imposti da Napoli al resto del mondo nell’ambito dell’editoria, del teatro e del cinema. De Giovanni ha dimostrato che “solo il recupero di un’identità culturale, attraverso le voci degli artisti, delle università e delle istituzioni, potrà portare una nuova vita, anche economica, a tutto il territorio”. Ma ha anche messo in guardia da un pericolo, un problema d’identità della città di Napoli come di tutto il meridione. “Noi sappiamo di essere il sud?” si è domandato. “Troppo spesso il meridione acquisisce l’identità che gli è attribuita dagli sguardi esterni, e colpevolmente si sottrae alla grande responsabilità di amministrare la propria bellezza”. Di Calabria ha parlato invece Mimmo Gangemi, nato a Santa Cristina d’Aspromonte, ingegnere, scrittore di numerosi romanzi come Il giudice Meschino, per citare uno dei suoi gialli, o Un acre odore di aglio, per dire invece di uno dei suoi titoli più intensi. “La Calabria è la meno raccontata delle regioni italiane” ha detto. E ha mostrato come i media propongano un’idea stereotipata e pigra di questa terra. “In Calabria c’è sì la ‘ndrangheta, ma gli uomini dei clan sono soltanto i tasselli di una realtà più complessa, di una compagine sociale e umana che compone un mosaico sfaccettato e tuttavia trascurato dall’attenzione nazionale. Penso a certi errori giudiziari di cui non si dà conto sui giornali, o a certe notizie che ingigantiscono i fatti, o ancora ai pregiudizi difficili da smantellare”. Gangemi ha rappresentato un quadro inedito della Calabria quando ha mostrato come i calabresi siano ormai stretti fra due fuochi: “minacciati dal cancro della criminalità e, allo stesso tempo, ammalati di una sconfortante e crescente sfiducia nei confronti della giustizia”. Sul modo di trasmettere l’immagine del sud, e di un certo dilagante “savianesimo”, ha parlato infine Raffaele Nigro, giornalista e scrittore, lucano di nascita e pugliese d’adozione. Autore del romanzo I fuochi del Basento (premio supercampiello nel 1987 e best seller da un milione di copie), Nigro ha scritto oltre cento libri dove il sud e la Lucania hanno sempre un posto privilegiato, sia quando si tratta di romanzi (Il custode del museo delle cere fra i suoi più recenti) sia quando si racconta di brigantaggio, banditismo o di poesia. Nell’incontro di Matera, ha tratteggiato un affascinante ritratto della Puglia come “luogo di saggistica” in relazione alla Lucania intesa come “luogo di poesia”. E ha mostrato come la questione meridionale sia oggi soprattutto legata a una questione di immagine culturale, letteraria e mediatica. I quattro scrittori di “Attenti al sud” hanno insomma offerto la prospettiva di un meridione suscettibile d’infiniti sguardi inediti. E hanno dimostrato come tutto il sud possa ambire allo stesso destino della città dei Sassi, ovvero alla sorte di un territorio che per lungo tempo è stato trascurato e incompreso, ma che grazie agli sforzi degli intellettuali (Pasolini, per dirne uno) è stato riportato all’attenzione dell’Italia e del mondo. Quattro le parole d'ordine con cui si è chiuso l'incontro: "bellezza, racconto, responsabilità e consapevolezza", estrema sintesi di una via maestra per il riscatto del sud, che si tenga lontano però da "vittimismo" e "retorica".

I mille volti del Sud Italia per Maurizio De Giovanni. Lo scrittore a Caserta per Panorama d'Italia presenta il libro "Attenti al sud", una girandola di riflessioni sul Meridione bistrattato, scrive il 9 novembre 2017 Antonio Carnevale su Panorama.  Maurizio de Giovanni a Caserta. Nona tappa del tour Panorama d’Italia. L’occasione è la presentazione di “Attenti al sud”, il volume edito da Piemme che raccoglie il suo contributo al fianco di quelli di suoi illustri colleghi scrittori: Pino Aprile, Mimmo Gangemi, Raffaele Nigro. Tutti profondi conoscitori del Mezzogiorno d’Italia, ovvero un territorio sempre più raccontato, eppure non abbastanza conosciuto nelle sue ferite e potenzialità. “Attenti al sud è un titolo che contiene diversi significati” ha esordito lo scrittore napoletano. “Significa: state attenti ai problemi del sud, e vuol dire anche state attenti perché il sud potrebbe scoppiarvi in mano, mostrando i suoi aspetti virtuosi e inediti. C’è però un terzo senso, ancora più importante, ed è un invito a stare “attenti al sud” nel senso letterale, a prestare cioè più attenzione a questa terra, con tutte le sue luci e con tutte le sue ombre”. Ha colpito dritto al cuore, de Giovanni. “Attenti al sud”, infatti, non ha l’ambizione di essere una raccolta si saggi su un aspetto particolare del Meridione, bensì vuole essere una girandola di riflessioni, anche centrifughe, capaci però di comporre un affresco quanto più vario e sfaccettato dei mille vizi e delle mille virtù di una parte d’Italia sempre più bistrattata, rimossa, sconosciuta, patologicamente proposta nel prisma “dello stereotipo tra clientele e degrado, oppure, all’opposto, tra nostalgia e folklore”. “Io non sarei così deciso nello scorporare il buono dal cattivo” ha spiegato de Giovanni. “Perché il buono diventa poco credibile quando è scremato da ciò che invece non funziona”.

L'identità del Sud. La chiacchierata prosegue tra chiari e scuri. Con al centro un tema fondamentale della questione meridionale: il modo (fuorviante) in cui il sud viene rappresentato. “Che tipo di narrazione stiamo consegnando al resto del paese?” si domanda lo scrittore. “Temo che il nostro sia innanzitutto un problema di identità” spiega. “Mi domando se noi meridionali, in fondo, siamo consapevoli di essere sud. Me lo domando perché mi accorgo che l’identità ce l’abbiamo, ma è vista con gli occhi degli altri. È raccontata per esempio da quegli editorialisti che magari a Napoli non vivono più da 30 anni ma ancora scrivono articoli dal titolo “Povera la mia Napoli”, “Che fine ha fatto la mia Napoli”. L’identità ce la facciamo creare artificialmente, ci è affibbiata da chi pontifica da fuori ma non frequenta il territorio. E dall’interno, noi, un’identità, invece, non riusciamo a trovarla”. 

Contro la politica disfattista. Ecco allora la denuncia contro quei politici che definiscono un “cancro politico-sociale” quel territorio che per 50 chilometri quadrati insiste su Napoli, Caserta e Salerno e che però al suo interno contiene importanti poli industriali e culturali. “Soltanto un idiota può pensare di giudicare una terra da un solo punto di vista”. Strali contro la cultura del pregiudizio. “Napoli vista da Posillipo non è certo la stessa che si vede da Portici”. Mentre è chiara la consapevolezza di una regione in cui la camorra non è l’origine dei mali, bensì “un effetto di quel sistema antico e malato che tiene isolato un territorio dalle tante ricchezze”. 

La bellezza chiusa ai cittadini. Non mancano le ombre di cui denunciarsi responsabili. Un vero “dramma” è quello della “bellezza” puntualizza lo scrittore. “Questa immensa bellezza che abbiamo intorno ci accusa costantemente” denuncia. “Abbiamo l’80 per cento delle chiese chiuse, perché non c’è personale che le tenga in piedi e che vi consenta l’entrata. Quando i napoletani passano davanti, girano la faccia, abbassano la testa, perché quella chiesa chiusa è per loro un’accusa. Quella bellezza sta lì a ribadire ciò che potevamo avere e che invece non abbiamo”. Di chi è la colpa? “Solo nostra” ammette. “Ma in questa costante fuga, quella stessa bellezza ci insegue” prosegue. “Non possiamo liberarci di lei così facilmente. Doverci fare carico di questa bellezza, dover portare la sua croce è allora la nostra maledizione. Perché solo quando capiremo che a questa condanna si deve fare fronte, quando impareremo che dobbiamo guardare in faccia le nostre capacità, soltanto allora potremo cambiare finalmente rotta”. Si snocciolano numeri. Dati oggettivi di un’arretratezza che ha origine nelle scelte della politica di ieri e di oggi. Si continua per luci e ombre. “Le contraddizioni abbondano” dice lo scrittore. “Tuttavia non dobbiamo rinunciare a testimoniare con forza l’enorme presenza culturale in ogni ambito della creatività” insiste. “I pregiudizi saranno presto smontati” confida ottimista. E le “tante eccellenze del territorio non potranno rimanere nascoste ancora per molto: esploderanno ben presto, grazie anche ai social network, un nuovo potente alleato nella lotta contro il discredito”. È un invito ai politici, alla capacità comunicativa degli amministratori locali? “No, a tutti i cittadini” sottolinea de Giovanni. “Dobbiamo essere tutti militanti”. Ma che cosa significa nel concreto?  “Che il meridionale sappia di essere meridionale e se lo ricordi sempre; e che si assuma la responsabilità della propria identità, nel bene e nel male. Perché nel bene non avremmo né vergogna né paura della bellezza. E nel male fronteggeremmo il problema sapendo, finalmente, combatterlo”. Luci e ombre da guardare sempre nello stesso quadro, insomma. Il modo migliore per stare davvero Attenti al sud, e all’Italia intera.

M COME MAFIA DEI TRADITORI.

Cria il traditore, scrive Antonino Beninati su Carabinieri. Dai tesori caduti vittima della furia iconoclasta del fondamentalismo a un affresco “parlante”. Quello che, dalle pareti di una chiesa salentina, racconta una storia di straordinaria attualità: la vicenda di un foreign fighter di cinquecento anni fa. È tristemente nota la figura dei foreign fighters, uomini e donne che, dopo un processo di radicalizzazione religiosa, lasciano il proprio Paese per raggiungerne un altro nel quale, opportunamente addestrati, parteciperanno ad atti di guerra o di terrorismo che non hanno nulla a che vedere con la loro storia, la loro cultura. Individui capaci di usare l’arma del terrore anche per colpire il proprio stesso Paese, come è successo di recente a Parigi. Non si tratta, però, di un fenomeno inedito. Anche il nostro Paese, nei secoli scorsi, ha avuto dei casi di foreign fighters. Una preziosa testimonianza storica ci viene fornita in proposito dall’affresco che decora la parete sopra l’ingresso laterale della chiesa di Sant’Antonio (XII secolo), a San Pancrazio Salentino, villaggio appartenuto alla Terra d’Otranto e dall’anno 1927 comune della provincia brindisina. Quasi come una moderna illustrazione a fumetti, le scene dell’anonimo dipinto narrano del tradimento di Cria, un foreign fighter di epoca rinascimentale proveniente dal vicino comune di Avetrana, in provincia di Taranto. Il traditore, cosi viene definito nell’opera, abbracciata la fede mussulmana, si arruolò nelle milizie turche. Le cronache scritte da Girolamo Marciano di Leverano (Descrizione, origini, e successi della provincia d’Otranto) raccontano che «...San Pancrazio... soffrì le ultime sue rovine nell’anno 1547 da corsari turchi, i quali accostatisi con cinque galeotte nella marina della provincia, e presa terra in un porticello detto della Calimera (Torre Colimena), presero il castello di Veterana (Avetrana), la notte del 1° gennaio, ch’era il capo dell’anno, e sbarcarono da circa cento Turchi guidati da un certo rinnegato del detto castello chiamato Chria (Cria), il quale li menava per prendere Vetrana sua patria; ove essendo arrivati, ed inteso il suono di un taburretto, con cui facevansi mattinate, dubitando che non fosse la guardia di qualche presidio militare, passò avanti e li portò a saccheggiare questa piccola terricciuola di S. Pancrazio, avendola colta d’improvviso, e portatene tutte le genti che vi erano alla marina sopra de’ vascelli, parte ne furono allora riscattati, e parte menati in Turchia e venduti per ischiavi». Inspiegabilmente, però, Cria cadde in mano ai superstiti sanpancraziesi. Il traditore venne legato nudo ad una colonna e finito con il lancio di pietre e frecce. Oltre che per la raffigurazione dei galeoni battenti bandiera turca e per quella dei corsari lanciati al trotto, l’affresco colpisce per la presenza di alcuni dettagli di eccezionale attualità: braccia e gambe penzolanti da alberi di ulivo; corpi decapitati. Mutilazioni che richiamano in modo sinistro le efferate azioni delle odierne milizie ­dell’Isis. Le iscrizioni presenti sull’affresco, venuto alla luce durante i lavori di restauro della chiesa di Sant’Antonio nel 1983, datano l’episodio storico al1° gennaio 1547 e mostrano quanto sentita fosse, già allora, la questione dei foreign fighters nelle piccole realtà locali. Perché essere accusato di tradimento, in un’epoca in cui esso veniva punito con la pena capitale, poteva macchiare d’infamia un’intera comunità.

Illustri traditori del meridione, Crispi: l’eroe garibaldino, scrive Luigi Maganuco il 25 agosto 2018 su "Il Quotidiano di Gela. Gela. Abbiamo raccontato degli uomini del risorgimento Italiano, e con nostra grande sorpresa, abbiamo scoperto ch nessuno appartiene alla categoria degli onesti ma chi più chi meno si sono macchiati di crimini spaventosi, però nella vita hanno raggiunto posti di responsabilità invidiabili. Tra questi, visto che le nostre città sono pieni di questi uomini illustri, vogliamo ricordare il siciliano Francesco Crispi. Nasce a Ribera, provincia di Agrigento, di etnia Albanese nel 1818, non brillante avvocato a Napoli, fu prima carbonaro e mazziniano, complice di Orsini nell’attentato a Napoleone III. Al momento opportuno, trasformatosi in massone, divenne l’eminenza grigia, l’arruolatore e l’organizzatore della logica Garibaldina. Crispi si avvale delle sue originali e giovanili conoscenze mafiose, quando il 10 aprile del 1860 sbarcò segretamente a Messina, assieme a Rosolino Pilo e Giovanni Corrao per preparare quel disordine popolare che, provocando la repressione Borbonica, avrebbe giustificato la spedizione dei mille, ormai pronta. L’altro aspetto della missione segreta era contattare ed accordarsi con i capi dei picciotti di Carini, Terrasini, Montelepre, S. Cipirello, Piana degli Albanesi, Partinico e Trapani. Fu così che Crispi, che lo stesso Garibaldi diceva che “…arruolava tutti, in ispecia gli avanzi di galera…”, preparò gran parte del successo della spedizione dei mille. Una volta divenuto Primo Ministro del re Umberto I, soffocherà, usando un esercito che spara ed uccide, i Fasci Siciliani, facendo centinaia di morti e feriti tra i suoi conterranei: Crispi era stato un ex rivoluzionario, ex carbonaro, ex mazziniano, ex democratico, ex siciliano ma grande uomo di Stato per noi servili adulatori della malavita organizzata (da risorgimento o rivolgimento di Aurelio Vento). Nel 1887 diviene Presidente del Consiglio Italiano, ma nel tentativo di trasformare l’Italia in potenza coloniale, incappa nella disfatta africana di Adua, che provocò migliaia di morti in Abissinia e il fallimento provvisorio dell’avventura coloniale dell’Italia in Africa. Fu accusato di bigamia perché sessantenne sposò la chiacchierata giovane siracusana Lina Barbagallo, allora sposato con Rosa Monimasson, che fu l’unica donna vestita da uomo a seguirlo tra le camicie rosse garibaldine. Così, l’armata Garibaldina dei mille al porto di partenza da Quarto presso Genova assorbiva tra le sue file di piccoli borghesi spiantati e indebitati di Bergamo, una Legione Britannica, migliaia di picciotti arruolati dall’instancabile Francesco Crispi, con il permesso ottenuto dai capizona mafiosi, conosciuti e frequentati durante la sua gioventù vissuta in Agrigento. Secondo l’autore, Aurelio Vento, che cita uno scritto ironico di Massimo D’Azeglio “…quando s’è vista un’armata sbrindellata di 60.000 uomini conquistare un regno di sei milioni con la perdita di solo otto uomini e diciotto storpiati, bisogna pensare che sotto ci sia qualcosa di non ordinario…”. Il dubbio è perfettamente legittimo perché il tradimento operato dai nostri grandi uomini è eclatante e le documentazioni venute alla luce in questi ultimi anni dimostrano chiaramente come i generali e alti comandanti borbonici, si sono venduti per trenta denari ai nostri salvatori. Questi, con l’oro rubato al banco di Napoli e al banco di Sicilia, oggi venerati e ricordati nei nostri centri abitati con strade e piazze a loro dedicate per non dimenticare, hanno corrotto parte degli ufficiali borbonici. Tratteremo questo argomento e proviamo a ricordare l’onorario pagato per tradire. Un esempio eclatante è la storia del gen. Salvatore Landi, che aveva ottenuto direttamente da Garibaldi, un pagherò di 14.000 ducati, purchè nella battaglia del 15 maggio 1860, suonasse la ritirata delle forze borboniche, per permettere ai Garibaldini di dilagare e sconfiggere l’armata borbonica. L’esito della vittoria mise in crisi il grande scrittore Cesare Abba, al seguito come reporter di guerra, che aveva inventato la famosa frase indirizzata a Nino Bixio “qui si fa l’Italia o si muore”. Ma l’anno successivo il generale si presenta al Banco di Napoli per incassare il pagherò, si accorge che era falso e valeva solo 14 ducati. Aveva tradito per 13 danari e né morì di pena. Altro grande traditore fu il gen. Ferdinando Lanza che tenne bloccati i suoi 24.000 uomini al palazzo Reale per permettere ai Garibaldini di entrare a Palermo già ingrossati dei 2.000 picciotti forniti da Francesco Crispi e arruolati nel territorio (noi gelesi abbiamo dedicato una arteria importante della nostra città per i suoi meriti) Il gen. Lanza si affrettò a firmare l’armistizio di resa alle ridicole forze garibaldine, sulla nave dell’ammiraglio inglese Mundy, fermo sulla rada con una piccola flotta militare. Il gen. Lanza così potè partecipare al furto compiuto da Garibaldi al Banco di Sicilia e incassare 600.000 ducati d’oro, per spese di guerra. La ricevuta, debitamente firmata fu consegnata a Ippolito Nievo, intendente delle finanze Garibaldine. Anche questo poeta merita una arteria importante nelle nostre città meridionali. Il 20 luglio 1860 Garibaldi arriva a Milazzo e qui il capitano Amilcare Anquissola, della corvetta “la veloce”, si consegna, senza combattere, all’ammiraglio sabaudo Persano, così la flotta militare borbonica composta da 100 vascelli 796 cannoni, si consegnò alle forze Savoiarde nel porto di Napoli. La conquista fu completata quando il criminale gen. Enrico Cialdini, il 13 gennaio 1861, rade al suolo la città di Gaeta con 160.000 cannonate. Tutti gli scrittori apologetici hanno voluto mettere in evidenza la grande armata dell’eroe dei due mondi che conquista il Regno delle Due Sicilie per la sua bravura di combattente e grande stratega militare, come l’ammiraglio Carlo Pellion di Persan ex comandante borbonico, tradisce e diventa Ammiraglio del regno Sabaudo che il 20 luglio 1866, nel corso della III guerra di indipendenza, viene sconfitto pesantemente a Lissa da pochi vascelli di legno della flotta Austriaca. Atro grande traditore il gen. Pinelli che in una nota poteva cinicamente permettersi di bandire (come asserisce lo scrittore Aurelio Vento): “sua eccellenza il Ministro della guerra si rallegra con voi del vostro slancio e delle eroiche vostre gesta. Ufficiali e soldati! Voi molto operaste ma nulla è fatto quando qualcosa rimane a fare. Ancora ladroni si annidano tra i monti, correte e snidateli e siate inesorabili come il destino. Contro tali nemici la pietà è delitto! Noi li annienteremo e purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda bava”. Altra nota degna di rilievo, riguarda i fatti di Casalduni e Pontelandolfo, dove i soldati nordisti e sabaudi fecero stragi, saccheggi e stupri senza alcun processo e uccisero quattrocento persone per quaranta soldati nordisti. La stessa identica proporzione l’applicarono nel 1944 i soldati nazisti uccidendo trecento civili per trenta militari nazisti uccisi in via Rasella a Roma. E’ da mettere in evidenza l’onestà dei nazisti che non distrussero il quartiere di via Rasella a Roma, come fecero i piemontesi che saccheggiarono due centri di circa ottomila abitanti. Secondo i pennivendoli ufficiali, il massacro delle fosse Ardeatine non fu compiuto per vendetta dell’attentato di via Rasella ma per volontà del regime nazista. Così i partigiani che compirono l’attentato poterono continuare ad uccidere. A che serve ricordare questi epistemi storici? A chi servono? Sicuramente a nessuno legato ai colonizzatori nordisti o ai fanatici attuali al servizio della massoneria dominante. Hanno una enorme importanza per i meridionali onesti che tengono alla dignità e alla loro storia di uomini liberi e pensanti.

I FALSARI DELLA STORIA. 4 NOVEMBRE DIMENTICATO.

I falsari della Storia. Il nostro spirito nazionale forgiato in trincea. Sarà per questo che si fa di tutto per mascherare la ricorrenza da spot pacifista, scrive Marcello Veneziani il 3 Novembre 2018 su "Libero Quotidiano". Dopo un anno di commemorazioni masochiste per auto-mortificarci, arrivò finalmente il giorno in cui siamo costretti a ricordarci della Vittoria e del suo centenario. Eccolo, il 4 novembre, anzi il IV novembre, la giornata della Patria. Ma avrete già sentito come viene trasformato quell'anniversario nel Racconto Ufficiale fatto da presidenti, ministri, media e professori: la Vittoria sparisce, la Nazione pure, alla Patria solo un timido sbuffo di cipria e dei caduti se ne parla come povere vittime del nazionalismo e dei loro capi. Il resto sarà tutta una celebrazione della pace, dell'Europa, dell'umanità col sottinteso che eroi e vittime di guerra sono caduti invano, per una sanguinosa illusione. La memoria della Grande Guerra viene esattamente rovesciata: diventa la celebrazione dell'Europa e la mortificazione delle nazioni identificate nei nazionalismi. Ma la verità storica dice esattamente il contrario: la prima guerra mondiale fu il funerale dell'Europa e il trionfo dell'Italia, pur mutilato. Da quel conflitto l'Europa uscì infatti sfasciata e indebolita, non fu più il centro del mondo, perse gli Imperi Centrali che ne erano la spina dorsale, il mondo cominciò a dividersi tra l'Ovest americano e l'Est comunista, schiacciando l'Europa nel mezzo o relegandola a periferia. Nacque da quel conflitto il comunismo e poi la reazione ad esso, nacque la frustrazione tedesca che portò al nazismo, nacque il fascismo. Con la seconda guerra mondiale, il tramonto dell'Europa avviato dalla prima raggiunse il suo epilogo. Gli occhi dell'ideologia pacifista non vogliono vedere la realtà tragica e gloriosa di quell'evento. Invece, sul piano nazionale, la Prima Guerra mondiale consacrò l'Italia, per la prima volta uscita vincitrice da un conflitto, al rango di nazione e patria comune. Il Risorgimento era stato un'impresa di pochi, voluta da pochi, rispetto a una popolazione contadina, cattolica, soprattutto meridionale, in buona parte non partecipe se non refrattaria al processo unitario. Fu la Prima Guerra Mondiale a sancire nel sangue e nel dolore la comune appartenenza all'Italia. Quando dicono che la Prima Guerra Mondiale fu per noi la conquista di Trento e di Trieste, si rimpicciolisce – con tutto il rispetto per le terre irredente – la portata e il significato del Conflitto. No, in quella occasione per la prima volta, un popolo intero si sentì nazione, si scoprì patria. La leva obbligatoria, l'educazione nazionale seppure a tappe forzate, il sentimento di appartenenza tramite i propri ragazzi al fronte, portarono per la prima volta a sentirsi veramente italiani le genti del nord insieme alle genti del sud; i borghesi e i proletari, gli intellettuali e i contadini. Sarebbe ipocrita negare che molti di loro furono riluttanti e la prima guerra mondiale fu voluta anch'essa – come il Risorgimento – da una minoranza. Forse la Grande Guerra ebbe meno consenso popolare della seconda guerra mondiale, che almeno inizialmente godette di fervore e adesione degli italiani. Ma l'effetto che produsse la Vittoria fu il rafforzarsi del legame nazionale. La sua consacrazione avvenne con la proclamazione della Vittoria, il ritorno dei combattenti e reduci, il ricordo dei caduti, la salma del Milite Ignoto. E la consacrazione dell'Altare della Patria a lui, al Soldato italiano senza nome. Fu in quel passaggio, da Monumento funebre al Re Vittorio Emanuele II ad Altare per il Milite Ignoto, il vero passaggio da un Regno a una Nazione, un Popolo. Perciò quando si parla di IV novembre si deve ricordare insieme al sacrificio di tanti soldati, al dolore delle loro famiglie, anche l'orgoglio di dirsi italiani, pagato col sangue; la fierezza di un sentimento di appartenenza nazionale. Dove finisce invece nella retorica ufficiale l'amor patrio? Sparisce, per far posto alla parola umanità che almeno in questo caso è fuori luogo, è storicamente falsa e bugiarda, comunque fuori posto. Ma non solo. Si prosegue nell'autoflagellazione. Abbiamo visto nei giorni scorsi nei tg di Stato, che il ministro/la ministra della difesa ha ricordato in una speciale cerimonia apposita non i 650 mila caduti italiani ma qualche centinaio di caduti ebrei italiani nella prima guerra mondiale. Per poi dire: loro erano caduti per l'Italia e l'Italia poi li ripagò con le leggi razziali. Insomma tutti i discorsi servono per portare sempre là, alla nostra Autoflagellazione quotidiana. Senza considerare che gli ebrei si consideravano ed erano considerati italiani a pieno titolo, che gli ebrei – per esempio – a Trieste, furono ferventi patrioti e anche nazionalisti; e molti di loro diventarono pure fascisti. E comunque non si possono ricordare in modo speciale solo alcune centinaia di caduti di fronte a centinaia di migliaia di caduti... Ma questo è funzionale per far slittare l'amor patrio nell'antifascismo. Pura propaganda ideologica, pura distorsione. E se si parla dei soldati della prima guerra mondiale la preferenza va verso i disertori non verso gli eroi, verso chi fu ucciso perché non voleva combattere (proposito umano che merita pietà, non ammirazione) e non verso chi ha dato volontariamente la sua vita alla patria. Siamo rimasti eredi di Caporetto più che di Vittorio Veneto, siamo fermi a Cadorna, non siamo arrivati a Diaz. Per questo è necessario ricordare che il IV novembre fu il battesimo di una nazione antica in epoca moderna, fu la conversione di un'identità plurale in una patria comune, di un sentimento unitario e di una lingua gloriosa e plurisecolare in nazione. L'Italia disegnata dalla geografia finalmente combaciò con l'Italia disegnata dalla storia. Un grande evento di fondazione. Per questo dobbiamo onorare senza se e senza ma i caduti, la Vittoria e la nascita di un popolo che si scoprì nazione.

Chi calpesta la Vittoria umilia solo i ragazzi del '99. Per questo, trovo che parlare di inutile strage, nel giorno in cui si ricorda la vittoria, sia offensivo verso chi andò al fronte per fare il proprio dovere e magari non fu fortunato come Alberto ma perse la vita, scrive Alessandro Gnocchi, Lunedì 05/11/2018, su "Il Giornale". Ieri si festeggiava il centenario della vittoria italiana nella prima guerra mondiale. Si festeggiava nel senso che giornali e politici le hanno fatto la festa, smontandola pezzo per pezzo. Fu un'inutile strage, come sostenne Papa Benedetto XV in una storica lettera ai belligeranti. Non unì il popolo dalle Alpi alla Sicilia, come spesso si argomenta. Nord e Sud rimasero due mondi diversi. Il comportamento dei generali verso la truppa riottosa fu inqualificabile, tra fucilazioni sommarie e fuoco amico verso chi arretrava. Pose le premesse per il fascismo: il mito della vittoria mutilata e lo scontento dei reduci crearono l'atmosfera carica di violenza che Benito sfrutterà a suo vantaggio. Dimostrò, con la seconda guerra mondiale, che l'Europa unita è la strada maestra per un futuro pacifico. Ogni opinione porta con sé una parte (minore o maggiore) di verità. Forse l'Italia avrebbe potuto raggiungere i suoi obiettivi con un po' di buona diplomazia, scrive qualcuno. Quella stessa diplomazia fu però umiliata nel dopoguerra, nella conferenza di pace a Parigi dove la città di Fiume, che chiedeva di essere italiana, fu annessa al Regno dei serbi, croati e sloveni alla faccia dell'autodeterminazione dei popoli tanto sbandierata dagli Stati Uniti. Al netto di queste legittime discussioni, siamo sicuri di avere reso onore a chi impugnò il fucile? A mio avviso, no. Chiedo scusa se passo alla prima persona. Voglio raccontare una storia. Il protagonista è mio nonno, Alberto Gnocchi, nato a Pavia nel 1899. Quando l'Italia era allo stremo, la classe del '99 fu arruolata. Alberto era un liceale di buona famiglia. Per questo, l'esercito pensò bene di farne un ufficiale. Dopo un brevissimo corso d'addestramento a Orvieto, si trovò in prima linea sul fronte francese (ancora oggi il meno studiato). Era un diciottenne che doveva ordinare a uomini maturi, con famiglia, di uscire dalla trincea e gettarsi in combattimento tra le raffiche di mitragliatrice del nemico. Era una responsabilità tragica. Per guadagnare il rispetto dei commilitoni, si lanciava con loro, tra i primi. Fu gravemente intossicato dai gas nemici. Finì nella lista dei dispersi. Dopo avere atteso ulteriori notizie, che non arrivavano, la famiglia pianse Alberto come morto. In realtà era in ospedale, ad Aosta, privo di coscienza. Quando la riprese, dopo un periodo di convalescenza, tornò a Pavia in licenza, tra le lacrime di commozione dei genitori. Era come vedere un figlio resuscitato. Alla fine della guerra rimase in divisa per altri tre anni, a Chiavari. Interrogato su quel periodo, rideva sornione aggiungendo sottovoce che erano stati tre anni da incorniciare: si era divertito. Era un giovane ufficiale in una sbarazzina località di mare... Si congedò con il grado di tenente colonnello. Riprese gli studi e diventò avvocato. Alberto non era certo un nazionalista né un interventista. Era piuttosto un cattolico di ferro (e in subordine un monarchico). Guardava alla Chiesa più che allo Stato. Non parlava volentieri della guerra, doveva avere vissuto orrori inenarrabili. Però riteneva di avere fatto il suo dovere. Prima di morire, si fece fare una fotografia, tuttora nel mio salotto, in cui indossava i gradi e le onorificenze guadagnate sul campo di battaglia. Volle essere ricordato così, anche se era stato molte altre cose oltre a un soldato. Per questo, trovo che parlare di inutile strage, nel giorno in cui si ricorda la vittoria, sia offensivo verso chi andò al fronte per fare il proprio dovere e magari non fu fortunato come Alberto ma perse la vita.

Caporetto, sconfitta che va restituita. Un anno dopo Caporetto, alla vigilia di Vittorio Veneto, Benito Mussolini pubblicava questo articolo sul Popolo d'Italia, scrive Benito Mussolini il 24 ottobre 1918 (pubblicato da "Il Giornale" il 20/08/2016. Un anno dopo Caporetto, alla vigilia di Vittorio Veneto, Benito Mussolini pubblicava questo articolo sul Popolo d'Italia. "Un anno è passato, dodici mesi ricchi di eventi come dodici secoli ma noi cittadini italiani non sappiamo ancora come fu. Su la rotta oscura di Caporetto la Commissione di inchiesta non ha gettato alcun fascio né grande né piccolo di luce. Era da prevedersi. Le inchieste in Italia sono fatte perché c'è l'abitudine di farle. È un mezzo per mettere «in tacere» le cose specialmente ingrate. Le inchieste italiane non scoprono ma affogano le responsabilità. Ebbene non ce ne importa. L'on. Orlando può sciogliere quella Commissione di valentuomini. Tanto non ci farà sapere più di quanto si sappia. Sistema tristissimo degno della vecchia Italia che non ha avuto ancora il coraggio di pubblicare i bollettini nemici e la lista delle nostre perdite. Non sembri un paradosso ma io affermo che ai fini della Nazione non si è «sfruttato» abbastanza Caporetto. Una sciagura può essere utile come un colpo insperato di fortuna. À quelque chose malheur est bon opinava il vecchio fabulista francese. Ma perché Caporetto desse tutti i frutti che poteva dare bisognava scolpirne le linee nel cuore e nella coscienza degli Italiani. Non frasi ma cifre. Non attenuazioni del disastro ma piuttosto amplificazioni. Non anonimia vaga delle responsabilità ma individuazione con nome cognome e al caso plotone d'esecuzione. Chi di noi non ha sentito cadere e morire qualche cosa nel profondo del cuore durante la settimana che va dal 24 ottobre al 1º novembre? Diciamo oggi che non fummo sorpresi. Nelle retrovie e all'interno dominava l'ottimismo degli incoscienti nutriti di frasi. Ma chi era stato lassù, chi aveva vissuto lassù - soldato fra i soldati - immedesimato compenetrato in quel mondo - aveva notato da tempo le fenditure nella compagine. Era un lento processo di erosione. Qualche cosa si sfaldava. I soldati! Chi se ne ricordava più? Erano o sembravano assai lontani oltre un fiume che, sino alla vigilia della guerra, era perfettamente ignoto alla maggioranza degli Italiani. La Nazione invece di un contegno severo di guerra si esibiva ai ritornanti dalle trincee specie nelle città in una veste di urtante frivolezza. Curioso! Si pretendeva di conservare l'andamento della vita normale per una metà della Nazione mentre l'altra metà era condannata ad una anormalità terribile nella vita e nella morte. Stati d'animo di negazione si erano formati nelle masse profonde. Quando a precipitare la crisi giunsero gli episodi della nostra politica interna dell'agosto. Alle soglie dell'inverno dal Vaticano e dal Parlamento partirono voci di sfiducia, consigli di sedizione e di resa. Quelli che nelle due capitali di guerra e di pace - Udine e Roma - avrebbero dovuto avvertire i sintomi della crisi ignoravano o fingevano di ignorare. L'Italia era affidata a un vecchio che non aveva - ahimè! - la stoffa di Clemenceau. La situazione verso la metà d'ottobre era questa: la Nazione era estranea all'Esercito; l'Esercito stava per rendersi estraneo alla Nazione. La disfatta di Caporetto è la disfatta della Nazione. La rivincita di Caporetto è la rivincita della Nazione. Ed ecco da qualche tempo le voci che incitano all'oblio. Caporetto è un ricordo noioso e molesto. Tutti gli eserciti hanno avuto Caporetto. Dopo Caporetto c'è il Piave. Dimentichiamo. No. Non bisogna dimenticare. Bisogna vivere di questo ricordo. Come i romiti della Trappa che si ricordano vicendevolmente l'ineluttabilità della morte così gli Italiani dovrebbero nelle ore grigie del dubbio e anche in quelle della sorte lieta ricordarsi di Caporetto. Non consoliamoci col pensiero di quanto può essere capitato ad altri eserciti. È una consolazione da femminette superficiali. I popoli forti sanno guardare in faccia al loro proprio destino. Roma repubblicana non nascose a se stessa quella grande Caporetto che fu la battaglia di Canne. La utilizzò per tendere sino al possibile l'arco delle energie. Il bruciore rovente di una percossa può stimolare - muscoli e nervi - alla rivincita. C'è stata la nostra rivincita? Non ancora. Non siamo ancora tornati là dov'eravamo. Ed eravamo andati molto innanzi oltre il fiume sui monti verso Trieste, verso Trento. Dalle quote sabbiose del Carso si vedeva nei mattini chiari spazzati dalla bora Trieste biancheggiante fra monte e mare nel suo arco di case. Noi soldati finivamo per amare le nostre «quote». Dietro le «doline» brulicavano o stavano nell'immobilità trogloditica della trincea gli uomini mentre una vita tragica e primitiva uguagliava i giorni e le notti senza data e senza fine. Visioni indimenticabili! Ecco il Podgora spelato, il Sabotino lugubre, il San Michele bianco di ossa. Gorizia bella nella pianura verde e luminosa e i cimiteri continui lungo l'Isonzo. Poi il Sei Busi e il bastione pauroso di Seltz. L'altipiano di Doberdò. Il Vallone. Quota 144 col suo cimitero tormentato. Io chiedo a coloro che ci sono stati e che evocando i nomi del deserto di pietra devono sentire la mia stessa emozione: «Non vi pare che la parte più intima di noi stessi sia rimasta oltre Isonzo?» Sì perché là sono rimasti i nostri. L'immagine di quei luoghi è così netta nel mio spirito che io saprei riconoscere le pietre ad una ad una. Dormono là i soldati dei reggimenti magnifici che puntavano su Trieste. Due anni di battaglie, due anni di vittorie e di gloria! Quando pareva che si dovesse intraprendere l'ultima tappa ecco annullato in poche ore tutto ciò ch'era costato infinito sangue, infinito sacrificio. Eravamo alle porte di Trieste gli austriaci giunsero alle porte di Venezia... Non sono passati. Non passeranno più. Ma sono ancora sul Piave. Caporetto è vendicato soltanto a metà. Bisogna compiere l'ultimo sforzo. Difendersi non basta. Non si può attendere la pace sul Piave. Chi può ci dia i mezzi per osare. Per attaccare. Per ripagare gli austriaci. Per restituir loro Caporetto ma in proporzioni ancora più rovinose. La parola d'ordine di questo primo anniversario eccola: restituire Caporetto al nemico! Un anno fa Carlo e Guglielmo s'illusero di mettere fuori di combattimento l'Italia. Non ci riuscirono malgrado il colpo tremendo. L'Italia è in piedi ed ha il coraggio di ricordare, di notomizzare la sua disfatta mentre si accinge a saldare i conti con l'Austria-Ungheria. Date in questo momento, date presto una Caporetto agli Absburgo. Noi ci siamo ripresi perché siamo un popolo che ha un passato ed avrà un avvenire; ma con una quarta Caporetto la vecchia monarchia senza popolo non si rialzerà più. Fiamme nere. Fiamme rosse a voi! Cinque anni! Cinque anni di guerra mondiale! Ma ecco la Pace come noi la volemmo: vittoriosa. Ecco la Pace come noi la vorremmo: giusta. Ecco la pace che reca in una mano l'olivo e nell'altra l'edera repubblicana. La Germania che aveva dichiarato la guerra al genere umano è percossa a morte. È in ginocchio. La costruzione bismarckiana è tutta una rovina. Dov'è il Kaiser? Forse su una delle più deserte strade dell'Olanda. Dove sono gli altri re e principi del vivaio tedesco? Scomparsi. Fuggiti. Non dall'interno ma dall'esterno è venuta e verrà la salute del popolo tedesco. Coi cannoni e con le baionette dei liberi popoli quello che si riteneva il popolo eletto si contenterà d'ora innanzi di essere uguale se non inferiore agli altri. Ecco oltre alle rivendicazioni nazionali l'obiettivo più alto della guerra. Bisogna essere degni della pace come siamo stati degni della guerra e della vittoria. Bisogna pur nella gioia, pur nel grido irrefrenabile e umano della contentezza avere senso supremamente religioso di questa ora. È l'ora in cui il destino batte col suo martello d'oro alle porte del silenzio e chiama i nostri caduti alla seconda vita della immortalità. È l'ora in cui la Coscienza addita i più aspri doveri e segna le vette luminose verso le quali bisogna andare portando nel cuore l'odio necessario per nutrire il più grande amore. È la pace! In alto i cuori! Con dignità, con disciplina, con fede fermissima nei destini della Patria e del Mondo. 24 ottobre 1918".

IL CAOS ITALIANO.

Il caos italiano. Alle radici del nostro dissesto, il libro di Paolo Mieli.

Dettagli. Storie grandi e piccole, vicine o lontanissime, per riflettere sul nostro presente. Per provare a capire l'origine del male italiano. “Quella degli ultimi vent’anni è già storia. E sono accadute cose con cui è sgradevole e imbarazzante fare i conti.” "In guerra con il passato", uscito per Rizzoli nel 2016, ha raggiunto le 30.000 copie.

Descrizione del libro. L’Italia è un Paese pieno di contraddizioni e di problemi, ma anche di bellezza, di talento e di verità. Paolo Mieli con Il caos italiano cerca di fare chiarezza sulla condizione nostrana e lo fa con il consueto piglio giornalistico e storico dove mette a fuoco ogni situazione da quella politica a quella economica sino a giungere a quella sociale. Ad ogni livello c’è una certa confusione che non permette di vedere le situazioni con chiarezza e quindi di affrontarle con raziocinio. Bisogna quindi fare conto sulla memoria, osservare il passato per considerare il presente. Non vuole Mieli rivolgersi al passato in cerca di una legittimazione delle scelte di oggi, ma cerca di individuare in tempi lontani, a volte non troppo, contraddizioni che ci aiutino a modificare o a mettere a registro quel che pensiamo adesso. Paolo Mieli ricostruisce così storie grandi e piccole e le paragona con quelle contemporanee, mostrando al lettore che il caos non ci porta mai troppo lontano. Dal ricordo collettivo a quello individuale, Il caos italiano si rivolge poi al futuro, cercando una strada che non sia fatta solo di speranza o di sogno, ma di certezze reali e che possano trovare un riscontro nella quotidianità.

Paolo Mieli è giornalista, saggista ed esperto di storia; nasce da una famiglia di origini ebraiche, il padre è Renato Mieli, importante giornalista e fondatore dell'ANSA. Già dall'età di 18 anni inizia a lavorare per i quotidiani cominciando presso «L'espresso», dove lavorerà per circa un ventennio. Milita parallelamente in movimenti politici sessantottini che lo influenzeranno in campo giornalistico. Negli anni Settanta frequenta la facoltà di Storia moderna e presto inizia a lavorare per «Repubblica» fino a quando, negli anni Novanta, approda alla «Stampa», di cui diviene anche direttore. Dal 1992 al 1997 e dal 2004 al 2009 dirige il «Corriere della Sera». Dal 2007 Mieli diventa direttore editoriale del gruppo RCS e, dopo la scomparsa di Indro Montanelli, si occupa della rubrica giornaliera "Lettere al Corriere", dove dialoga con i lettori su temi prevalentemente storici. Nel 2008 Mieli lascia la direzione della testata per assumere l'incarico di presidente di RCS Libri. Da alcuni anni tiene regolarmente un seminario sulla "Storia dell'Italia Repubblicana" presso la facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell'Università degli Studi di Milano. È membro del comitato scientifico della Fondazione Italia USA e della Fondazione SUM, legata all'Istituto Italiano di Scienze Umane. In ambito televisivo è presente nelle trasmissioni storiche di Rai 3 curando la presentazione di alcune puntate di La grande storia e gli editoriali di Correva l'anno. Tra i suoi libri editi da Rizzoli: Le storie, la storia (1999), Storia e politica (2001), La goccia cinese (2002), I conti con la storia (2013), L'arma della memoria (2015). 

ALLE RADICI DEL NOSTRO DISSESTO. Mai come oggi la politica italiana sembra in preda a una paralisi. Da anni i partiti sono impegnati in una continua campagna elettorale, con l’unico scopo di minare la legittimità degli avversari e allo stesso tempo lasciare aperte le porte a tutte le alleanze possibili. Alleanze da stringere nel nome di un’eterna emergenza: economica, politica o sociale. Questa incapacità di educarsi all’alternanza, di comprendere che “è normale stare lungo una stagione parlamentare ai banchi del governo e nella successiva su quelli dell’opposizione”, sembra ai più una degenerazione della buona politica, il frutto avvelenato degli ultimi decenni, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. Ma potrebbe non essere così. Forse esiste un male originario della politica italiana. Paolo Mieli ripercorre la vita del nostro Paese attraverso una serie di storie – le convulse vicende politiche dei primi anni del Regno; la Grande Guerra; il fascismo; politici del dopoguerra come De Gasperi, La Malfa o Nenni; vicende oscure quali il golpe del generale De Lorenzo o il dirottamento dell’Achille Lauro; cronache giudiziarie come quelle del caso Montesi o dell’assassinio del giudice Caccia – che contribuiscono a disegnare un ritratto dell’Italia e della sua politica molto spesso diverso dalla storia ufficiale. E mostrano come l’incapacità di dar vita a meccanismi che creino un’alternanza tra gli schieramenti parlamentari costituisca la nostra anomalia di fondo.

Il caos italiano. Alle radici del nostro dissesto: Paolo Mieli ripercorre la vita del nostro Paese attraverso una serie di storie – le convulse vicende politiche dei primi anni del Regno; la Grande Guerra; il fascismo; politici del dopoguerra come De Gasperi, La Malfa o Nenni; vicende oscure quali il golpe del generale De Lorenzo o il dirottamento dell’Achille Lauro; cronache giudiziarie come quelle del caso Montesi o dell’assassinio del giudice Caccia – che contribuiscono a disegnare un ritratto dell’Italia e della sua politica molto spesso diverso dalla storia ufficiale. E mostrano come l’incapacità di dar vita a meccanismi che creino un’alternanza tra gli schieramenti parlamentari costituisca la nostra anomalia di fondo. Mai come oggi la politica italiana sembra in preda a una paralisi. Da anni i partiti sono impegnati in una continua campagna elettorale, con l’unico scopo di minare la legittimità degli avversari e allo stesso tempo lasciare aperte le porte a tutte le alleanze possibili. Alleanze da stringere nel nome di un’eterna emergenza: economica, politica o sociale. Questa incapacità di educarsi all’alternanza, di comprendere che “è normale stare lungo una stagione parlamentare ai banchi del governo e nella successiva su quelli dell’opposizione”, sembra ai più una degenerazione della buona politica, il frutto avvelenato degli ultimi decenni, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica.

«Il caos italiano» (Rizzoli, pagine 352, euro 20). Ma potrebbe non essere così. Forse esiste un male originario della politica italiana. Paolo Mieli denuncia in un libro tutti gli errori delle élite d’Italia. Un volume, in uscita per Rizzoli, che privilegia le interpretazioni storiografiche più innovative: l’autore mette sotto esame le classi dirigenti dello Stato unitario, scrive Paolo Macry il 3 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". L’Italia cominciò male, scrive Paolo Mieli nel suo ultimo libro Il caos italiano. Alle origini del nostro dissesto (Rizzoli). Ma non tanto perché, ad appena tre mesi dalla proclamazione del regno, fosse morto improvvisamente Cavour. O perché nel giro di un paio d’anni caddero uno dopo l’altro ben tre presidenti del Consiglio: Bettino Ricasoli per contrasti con il sovrano, Urbano Rattazzi in seguito ai fatti di Aspromonte e Luigi Carlo Farini a causa di una grave malattia mentale. Il nocciolo del problema fu l’affermarsi di una discutibile prassi politico-istituzionale che si sarebbe radicata a tal punto da segnare la storia successiva del Paese. E da indurre Mieli a un titolo così forte.

Lo si vide già nel 1876, con la cosiddetta «rivoluzione parlamentare». Dopo che il governo della Destra di Marco Minghetti era stato messo in minoranza dal Parlamento, il re decise di affidare l’incarico per il nuovo esecutivo non a un altro esponente della stessa area, ma al leader della Sinistra Agostino Depretis: il quale cercò e trovò in aula la sua maggioranza. Sei anni dopo, in vista delle elezioni, Depretis stipulò una serie di accordi con Minghetti, dando vita a un asse tra la Sinistra e importanti pezzi della Destra. E vinse le elezioni. Nato per escludere dal gioco politico le forze ritenute antisistema (socialisti, radicali, cattolici intransigenti), emergeva un modello di governo centrista che era il frutto di accordi e mediazioni parlamentari tra gruppi o singoli deputati. E il voto popolare? Veniva dopo, a maggioranza già fatta. E, di regola, nella storia italiana, gli elettori finivano per premiare l’esecutivo in carica. Il bipartitismo alla Westminster era molto lontano. Appesantita dal suo corollario di trasformismi e cambi di casacca, la convergenza al centro dei partiti (e il taglio delle «estreme») fece sì che non esistessero i numeri per l’alternanza. Divenne l’unica strada percorribile. Per sperimentare l’alternanza, l’Italia dovrà attendere la stagione del bipolarismo centrodestra-centrosinistra, inaugurata da Silvio Berlusconi. Ma nel frattempo, se non il caos, le criticità politiche del Paese avevano fatto molta strada.

Passando in rassegna una mole di storia e storiografia dell’Italia contemporanea, Paolo Mieli conferma il suo profilo anfibio. A metà fra presente e passato. La prospettiva storica e la consuetudine con tagli cronologici lunghi gli danno chiavi di lettura dell’attualità non comuni tra gli osservatori politici. Viceversa, l’esperienza pluridecennale di osservatore politico arricchisce i suoi libri di storia di un understanding inusuale tra gli accademici: una singolare capacità di entrare nelle pieghe degli avvenimenti, una certa inconfondibile saggezza. Il puzzle del passato, peraltro, non è mai attualizzazione corriva, nè mai un plot fine a se stesso (sebbene ci siano capitoli che si leggono come un romanzo). Le molte storie compongono comunque una storia unica, una specifica lettura della vicenda italiana. E naturalmente, data la biografia dell’autore, a farla da padrona è la politica: un ventaglio di successi, errori, strategie, tatticismi e, soprattutto, una questione di scelte. Cioè di uomini: da Quintino Sella a Mario Scelba, da Sidney Sonnino a Bettino Craxi. Non c’è nulla di deterministico, nelle pagine di questo libro. E nulla di acquiescente ai riti della correctness. Di una vasta letteratura, Mieli privilegia le opere e le interpretazioni che gli appaiono più innovative. Quelle che altri inchioderebbero allo stigma del revisionismo. Ed ecco perciò le molte pagine dedicate al dibattito (tuttora aperto) sul Risorgimento, sulla singolarità di un’unificazione realizzata in feroce contrasto con la Chiesa nazionale, sul carattere estremamente minoritario delle élite in un Paese di analfabeti, sulla repressione del brigantaggio meridionale, e via dicendo. A loro volta, le vicende del Risorgimento e poi dell’età liberale portano Mieli al nodo del fascismo, agli interrogativi sulla sua origine, alle responsabilità individuali. E anche qui non ci vuole molto a scorgere la mano dell’autore. Il quale sceglie di soffermarsi non tanto sull’improvvido estremismo di piazza dei socialisti o sull’incapacità dei partiti democratici di stabilizzare il quadro politico all’indomani del 1919, ma sulla risposta che al fascismo danno i liberali. Di Benedetto Croce, in particolare, Mieli ricorda la benevolenza verso il movimento di Mussolini, l’appoggio al suo governo, il disco verde alla legge Acerbo, il voto di fiducia concesso nel luglio 1924, cioè dopo il delitto Matteotti. Una clamorosa incongruenza con la teoria e i valori liberali che viene spiegata ricordando quanto profondamente quelle élite avvertissero l’urgenza di ristabilire l’autorità dello Stato, allontanando lo spettro della guerra civile. Ma anche con quanta perplessità giudicassero, se non il parlamentarismo tout court, di certo le performance del Parlamento del dopoguerra.

Giudizi troppo severi? C’è in tutto il libro di Mieli una diffidenza più o meno esplicita nei confronti delle élite colte e delle loro scelte politiche. Di volta in volta, quei piccoli gruppi gli sembrano accecati dall’antigiolittismo, come gli uomini di Giustizia e Libertà. Incapaci di scorgere i primi passi di una dittatura, come Gaetano Salvemini o Luigi Einaudi. Nostalgici di mitologiche rivoluzioni tradite, come gli innumerevoli seguaci di destra e di sinistra di Alfredo Oriani. Teorizzatori di un’ambigua «democrazia sostanziale», come Giuseppe Dossetti. Altre volte, costituiscono temibilissime lobby della cultura, come i comunisti della «cellula Einaudi», per dirla con il sarcasmo di Palmiro Togliatti. Degli intellettuali del Pci, Mieli ricorda l’incrollabile disponibilità a seguire il partito anche nei meandri meno gloriosi: sull’invasione dell’Ungheria, la Primavera di Praga, il caso Sinjavskij-Daniel’, eccetera. Talvolta scavalcando lo stesso Pci. Come quando, in occasione della crisi di Cuba del 1962, si schierano dalla parte di Castro e contro Kennedy. «Nazismo atomico», così Carlo Levi definirà la reazione di Kennedy ai missili sovietici.

Esistono eccezioni a un simile quadro? Sì, naturalmente. Fa eccezione, per esempio, Ugo La Malfa, «antifascista per davvero», figlio politico di Giovanni Amendola e Silvio Trentin, ostile all’occupazione clientelare del mercato da parte dei partiti, tenacemente critico di fronte al crescere della spesa pubblica. E, per questo, accusato di essere un ragioniere. «Ragioniere con i fiocchi», commenta Mieli. Ma anche un altro cameo spicca tra le pagine disincantate del caos italiano. Riguarda Marco Pannella, il leader di un partito piccolo che riuscì tuttavia a esercitare un’enorme influenza sull’opinione pubblica e sulle stesse dinamiche politico-parlamentari. Capace di prendere l’onda del Sessantotto, abilissimo nell’uso dei media, Pannella auspicò, in tempi non sospetti e in splendida solitudine, proprio quel modello conflittuale che tutti avevano sempre considerato come una iattura per il Paese e che invece avrebbe potuto cambiare faccia all’Italia delle mediazioni e del consociativismo. Fu un profeta disarmato? Non proprio. Dopotutto, se Romano Prodi è diventato un eroe (della sinistra) per aver sconfitto Berlusconi, Pannella sconfisse la Balena Bianca.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa. La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali. Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale. Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione. Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro. Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto.

Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità.

Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere.

Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto.

Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose. Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello Stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha. Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo:

L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”; brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille.

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato. In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

UNA COSTITUZIONE CATTO-COMUNISTA.

Le tre anime dell’Italia da cui nacque la Costituzione, scrive il 25 settembre 2016 Dino Messina su "Il Corriere della Sera". Mentre la Commissione dei 75, il collegio di esponenti dell’Assemblea costituente incaricato di redigere la Costituzione, discuteva sulle possibili composizioni del Senato, sul “Corriere della sera” si svolgeva un dibattito parallelo tra i rappresentanti dei partiti. Uno degli articoli cruciali, pubblicato come fondo del “Nuovo Corriere della sera” del 17 gennaio 1947 fu quello di Tomaso Perassi, eletto delle liste del Partito repubblicano, ma soprattutto docente di diritto internazionale all’università di Roma e segretario della Commissione dei 75. Assieme a un altro giurista di formazione liberale, Meuccio Ruini, presidente della Commissione, Perassi era in quel momento uno dei personaggi chiave della Costituente. Nell’articolo intitolato “Come sarà il Senato”, il professore che sarebbe entrato a far parte nel 1955 della prima Corte costituzionale, spiegava in poche parole che era stata scartata l’ipotesi di fare del Senato una camera in cui fossero rappresentate le diverse professioni e categorie sociali. Il ricordo della corporazioni fasciste era troppo recente, sicché si era stabilito di optare per una semplice rappresentanza su base regionale. Con un terzo dei senatori nominati dalle assemblee delle singole regioni e il resto dai consiglieri dei Comuni (ipotesi troppo macchinosa e quindi scartata) o meglio a suffragio universale. L’idea era che si volesse dare pari dignità alle due Camere, sicché alla fine si optò per una rappresentanza elettiva a suffragio universale in circoscrizioni regionali. L’unica differenza del Senato rispetto alla Camera sarebbe stata l’età per essere eletti (40 anni) e per votare (25) e la composizione (315 senatori contro 630 deputati). Come ha osservato Carlo Ghisalberti nella sua “Storia costituzionale dell’Italia” (Laterza), la Carta fondamentale della Repubblica italiana risente fortemente del suo tempo: dopo un ventennio di dittatura fascista e il ricordo della prepotenza di certi esecutivi anche in età liberale, la priorità era il garantismo delle istituzioni, magari a scapito dell’efficienza. Ne è venuta fuori una Costituzione che nell’equilibrio dei poteri, tra presidente della Repubblica, governo, presidente del Consiglio e parlamento, attribuisce le maggiori prerogative a quest’ultimo.

Una Costituzione figlia del suo tempo e forse proprio per questo una grande Costituzione. Il 2 giugno 1946, quando gli italiani furono chiamati a scegliere tra Monarchia e Repubblica (vinse la Repubblica con oltre il 54 per cento dei suffragi) votarono contemporaneamente anche per eleggere i membri dell’Assemblea costituente. Un’assemblea che, alleggerita della scelta istituzionale e anche della funzione legislativa, temporaneamente attribuita al governo, potè dedicarsi nei 18 mesi successivi alla stesura e all’approvazione della Carta fondamentale dello Stato. I tre maggiori partiti che si affermarono alle elezioni della Costituente del 1946 erano del tutto estranei alla tradizione liberale del Risorgimento. Lo era la Democrazia cristiana, con i suoi 207 deputati e il 35 per cento dei suffragi, il Partito socialista (allora Psiup) con 115 deputati (20,7 per cento) e il Pci con 104 deputati e il 18,9 per cento dei voti. Tuttavia i partiti maggioritari, cattolico e marxisti, non soffocarono le istanze dei partiti di ispirazione liberale, in particolare il gruppo dell’Unione democratica nazionale, con 41 rappresentanti (6,8 per cento), il Pri (23 deputati, 4,4 per cento) e il PdA (7 deputati, 1,5 per cento).

Così la nostra Costituzione repubblicana è un compromesso tra queste tre anime (cattolica, marxista e liberale). Già nell’articolo 1, attribuito a una trovata di Amintore Fanfani, che riuscì a trasformare in “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro” la frase di netta impronta marxista che voleva il nostro Paese “repubblica dei lavoratori”, è visibile il compromesso fra le due anime maggioritarie della Costituente. Ma se si guardano i vari articoli, in alcuni emerge l’impronta cattolica, in altri quella socialcomunista, in altri ancora quella liberale e garantista. Il riconoscimento dei Patti lateranensi, stipulati nel febbraio 1929 tra il Vaticano e lo Stato fascista, venne sancito dall’articolo 7 approvato nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1947 durante una clamorosa votazione che aveva visto schierarsi a favore della Dc e del Vaticano il Partito comunista di Palmiro Togliatti. L’accettazione dei Patti lateranensi da parte dei Pci, maturata anche grazie agli uffizi di monsignor Giuseppe De Luca che fece da tramite diretto tra il Vaticano e Togliatti, venne giudicata di importanza pari alla “svolta di Salerno”, con cui nel 1944 il Pci riconobbe il governo Badoglio. Tuttavia fu un successo del partito cattolico, che impose la sua impronta, come ben riportato anche negli articoli de “Il nuovo Corriere della sera” del 18, 27 e 29 aprile, anche sulle disposizioni riguardanti la famiglia, definita “società naturale fondata sul matrimonio” e in quelle sulla scuola, con la salvaguardia degli istituti di impostazione cattolica. Durante le votazioni degli articoli riguardanti la famiglia, per l’assenza di molti deputati democristiani, i cattolici non riuscirono a inserire il concetto di “indissolubilità” del matrimonio. Una vittoria dei partiti laici che nel 1970 avrebbe favorito l’ter per l’introduzione del divorzio. “Chiara espressione delle esigenze e delle idealità del movimento operaio – ha scritto Ghisalberti – sono, invece, quelle affermazioni di principio e quelle disposizioni che tendono a dare al testo un contenuto sociale avanzato…. La carta italiana del 1948…, imitando le costituzioni europee più recenti” affermava l’intervento dello Stato per la promozioni delle classi più deboli: dal diritto al lavoro alle molte disposizioni tese a superare l’individualismo ottocentesco. L’impronta liberale, infine, si vide soprattutto nell’attenzione alle garanzie e agli equilibri riguardanti i poteri dello Stato, negli articoli sulla libertà di stampa o in quelli sull’indipendenza della magistratura.

La commissione dei 75 lavorò sino al primo febbraio 1947, poi la parola passò all’assemblea. La Costituente, che si era insediata il 25 giugno 1946 e che il 28 aveva eletto Enrico De Nicola capo provvisorio dello Stato, ebbe due proroghe: la prima al 21 giugno 1947, la seconda al 31 dicembre. La Costituzione fu approvata il 22 dicembre 1947, promulgata il successivo 27 dicembre ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Una copia venne affissa in ogni Comune d’Italia. Come ognuno può vedere la nostra Costituzione non ha preamboli. Giorgio La Pira avrebbe voluto in poche righe un riferimento a Dio, sull’esempio della Costituzione americana, ma l’assemblea bocciò la sua proposta. “Il nuovo Corriere della sera del 25 dicembre” a pagina 3 salutò la fine dei lavori dell’assemblea costituente con un articoletto in cui si riportava i versi dal sapore goliardico dell’onorevole Paolo De Michelis: “Si è alla fine – finalmente – del lavoro costituente – con dolore di Colitto che non stette un giorno zitto – e dei vari Condorelli, dei Codacci Pisanelli – e di alcun che addirittura – una piccola pretura – vuole far del Parlamento per suo vano ciarlamento”. Dino Messina

“Fondata sul lavoro”. Il compromesso alla base della nostra Costituzione, scrive il 19 settembre 2017 Dino Messina su "Il Corriere della Sera". Dei 139 articoli che compongono la Costituzione repubblicana, entrata in vigore il primo gennaio 1948, quasi settant’anni fa, il più controverso è il primo. Intorno all’articolo 1 nei mesi di accesa discussione della prima sottocommissione della Commissione dei 75, incaricata di redigere il testo da presentare all’assemblea costituente, si misurarono le migliori menti politiche e alcuni valenti giuristi dell’epoca. La discussione continuò in sede plenaria fino a giungere alla sintesi che ancora oggi divide e lascia insoddisfatta una parte della cultura politica italiana. Il testo, che ognuno di noi conosce a memoria, è il seguente: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Un testo di una chiarezza e di una concisione esemplari in cui si trovò il compromesso fra le tre culture politiche: la marxista, la cattolica e la liberale. In realtà il compromesso lasciò pienamente (o quasi) soddisfatti comunisti e democristiani, mentre i liberali fecero buon viso a cattiva sorte. Una insoddisfazione la cui eco arriva sino ai giorni nostri, anche sulle colonne del nostro giornale, per esempio negli interventi di Angelo Panebianco e Sergio Romano. In risposta a un lettore che chiedeva lumi, Romano scrisse il 24 ottobre 2012 che nella scelta ideologica dietro l’articolo 1 c’era “più continuità che rottura”. Se la Repubblica era fondata sul lavoro in fondo anche il fascismo all’origine si proponeva come un patto tra produttori. In realtà, sosteneva Romano, “le Costituzioni sono tanto più utili quanto più si concentrano sulle istituzioni, sui loro compiti e sul loro funzionamento. Oggi per di più quell’articolo è diventato involontariamente ironico. Il lavoro continua a essere la migliore misura della dignità di una persona, ma esiste una parte importante della classe politica del Paese che al lavoro preferisce il vitalizio, la sinecura, la poltrona, la tangente, il malaffare, lo scambio di favori e quella pioggia di benefici che molti eletti, per esempio, hanno distribuito a se stessi. Non giova alla credibilità di una Costituzione, ormai invecchiata, cominciare con parole che suscitano nel lettore un amaro sorriso”. Angelo Panebianco in un intervento del 22 marzo 2011 aveva messo l’accento oltre che sul termine lavoro anche sulla parola democrazia. Democrazia e libertà non sono termini equiparabili, la liberaldemocrazia è diversa dalla democrazia socialista, argomentava in sostanza il politologo, rimpiangendo come un atto mancato quello di non aver sostituito il termine libertà al posto del lavoro. A ricondurre nei termini storici e teorici la questione dell’articolo 1, che sarà affrontata il 27 settembre alle 17 anche nell’incontro milanese a Palazzo Marino da Sabino Cassese, Simona Colarizi e Luciano Fontana, c’è un saggio di Nadia Urbinati appena edito da Carocci. Il volume, “Art.1 Costituzione italiana” (pagine 144, euro 13), fa parte di una serie dedicata ai dodici principi fondamentali che introducono la nostra Carta fondamentale. La costruzione dell’articolo 1, cui collaborarono tra gli altri il socialista Lelio Basso, il democristiano Giuseppe Dossetti, il liberale Roberto Lucifero, partì da una proposta del leader comunista Palmiro Togliatti, che voleva fortemente la dizione “Repubblica dei lavoratori”, un chiaro riferimento alle repubbliche socialiste. Dopo gli interventi di Giorgio Amendola, Nilde Iotti, Ruggero Grieco; Renzo Iaconi, Aldo Moro, fu Amintore Fanfani a trovare la sintesi del testo che oggi conosciamo. A esprimere la propria soddisfazione per il compromesso raggiunto furono lo stesso Togliatti e il cattolicissimo Giorgio La Pira, il quale sino all’ultimo giorno della discussione si battè senza successo per inserire un preambolo che certificasse l’ispirazione cristiana della Costituzione. Non meno qualificato e composito era il gruppo degli scontenti, che comprendeva anche esponenti della sinistra. Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione, ironizzò nella seduta del 4 marzo 1947 sull’espressione “fondata sul lavoro”: “Coloro che vivono senza lavorare o vivono alle spalle degli altri saranno ammessi come soggetti politici?”. Chi condusse la più dura (e inutile) battaglia contro l’articolo 1 fu il liberale Roberto Lucifero, che si espresse così sempre nella seduta del 4 marzo: “Di fronte alla Costituzione i cittadini sono cittadini; i lavoratori sono lavoratori in quello che riguarda questa loro particolare attività nella vita sociale, che deve essere tutelata, difesa, protetta…; ma però quando vanno a votare anche i lavoratori vanno a esercitare una funzione di cittadini, non di lavoratori”. Echi di questa polemica sono giunti, come detto, sino ai nostri giorni, per esempio nelle posizioni del Gruppo Milano fondato dal politologo Gianfranco Miglio. Secondo Nadia Urbinati invece dall’espressione “fondata sul lavoro” “emergono un universalismo e un principio di inclusione e di accoglienza le cui potenzialità sono enormi e non sufficientemente sottolineate e apprezzate”. Un articolo, dunque, proiettato nel futuro e ancora oggi fertile. Non un reperto un po’ vetusto, non da riformare ma da tollerare, come ebbe a scrivere Giovanni Sartori. Dino Messina

Articolo 7, lo scandalo dei Patti lateranensi in Costituzione, scrive il 28 settembre 2017 Dino Messina su "Il Corriere della Sera". L’accoglimento dei Patti lateranensi nella nostra Costituzione fu la pietra dello scandalo non soltanto negli ambienti della sinistra ma anche nel fronte moderato. Con l’approvazione dell’articolo 5 (futuro articolo 7) con 350 voti a favore e 139 contrari nella seduta della Costituente la notte fra il 25 e il 26 marzo 1947, il Vaticano riportò una clamorosa vittoria e vennero poste le basi di quel compromesso fra cattolici e comunisti la cui eco si riverbera sino ai nostri giorni. Il tema della libertà religiosa e dei rapporti con la Santa Sede si era imposto all’attenzione dei Costituenti già dal novembre 1946. Trascurata negli anni della Resistenza, a parte l’opuscolo di Artuto Carlo Jemolo del 1943, “Per la pace religiosa in Italia”, la questione si era fatta incandescente nei primi mesi del 1947. Papa Pio XII seguiva con grande attenzione la discussione e aveva chiesto a padre Giacomo Martegani, il gesuita direttore della “Civiltà cattolica”, di elaborare tre ipotesi di Costituzione: una desiderabile, che prevedeva oltre al riconoscimento del cattolicesimo quale religione di Stato anche un’ipoteca sulla confessione di futuri Capi di Stato, i quali non avrebbero potuto fare dichiarazioni di agnosticismo; una accettabile; e una non accettabile. Naturalmente il testo del think-tank gesuitico rimase a lungo segreto, mentre si svolgeva quasi alla luce del sole il via-vai tra i vari rappresentanti dei partiti e dei maggiorenti politici e il Vaticano. Il leader comunista Palmiro Togliatti, soprattutto nei giorni precedenti la votazione, aveva trovato il mediatore di fiducia in don Giuseppe De Luca, che riferiva a monsignor Giovanni Battista Montini. Giuseppe Dossetti, uno dei “professorini” cattolici che tanta parta ebbe nella redazione della Costituzione e che alla fine riuscì a imporre l’inserimento nella Carta fondamentale dell’articolo 7, per dialogare con la segreteria di Stato si affidava a monsignor Angelo Dell’Acqua. C’era, insomma, un via vai continuo tra le due sponde del Tevere. Un traffico dovuto anche alla crescente rilevanza diplomatica che il Vaticano aveva assunto in quella fase storica che vedeva l’Italia, sconfitta in guerra e isolata, debolissima al tavolo delle trattative di pace. Mentre la Santa Sede tesseva soprattutto con gli Stati Uniti relazioni favorevoli all’Italia. Vale la pena ricordare che anche all’interno della Democrazia cristiana non c’era accordo. Alcide De Gasperi e Mario Scelba, il cui cattolicesimo non faceva velo al loro fermo antifascismo, non credevano per esempio che inserire i Patti lateranensi in Costituzione fosse la soluzione migliore. Era troppo per chi come De Gasperi aveva subito due volte la galera e nel ventennio si era dovuto accontentare di un anonimo posto di bibliotecario in Vaticano, vedere riconosciuto in Costituzione uno dei successi e degli atti firmati personalmente da Benito Mussolini. Alla fine il leader della Dc si adeguò alla scelta della Prima commissione dei 75, dopo che erano abortite anche le proposte di Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato, e di Palmiro Togliatti. Quest’ultimo aveva proposto la seguente formula: “I rapporti fra Stato e Chiesa sono regolati in termini concordatari”, mentre De Nicola aveva fatto un passo ulteriore: “I rapporti tra Stato e Chiesa continueranno a essere regolati in termini concordatari”. Nessuna delle due formule piacquero alla segreteria di Stato vaticana, invece favorevole alla formula proposta da Dossetti approvata in quella fatidica notte del 25 marzo, all’1,30: “Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Cosicché sino al 1984, quando Bettino Craxi promosse la revisione del Concordato, abbiamo avuto una Costituzione che aveva una enorme contraddizione al suo interno: all’articolo 3 diceva che i cittadini sono uguali davanti alla legge a prescindere dal credo religioso, mentre all’articolo 7, con il rimando al Patti lateranensi, riconosceva il cattolicesimo quale religione di Stato. Una contraddizione evidenziata subito il 20 marzo dal fine giurista Piero Calamandrei, relatore tecnico sulla questione assieme a Giuseppe Dossetti. “Si introducono di soppiatto – disse Calamandrei – norme che sono in urto con altri articoli della Costituzione stessa”. Il riferimento era anche all’articolo 8, che al primo comma recita: “Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”. Da una dichiarazione di Giancarlo Pajetta in quella stessa seduta (“la formula di Cavour, libera Chiesa in libero Stato, non è superata”) sembrava che anche i comunisti fossero contrari alla formula proposta da Dossetti, invece il 25 marzo, tra la costernazione di molti, Palmiro Togliatti dichiarò che in nome della pace religiosa avrebbe votato come De Gasperi. Il capo comunista non voleva lasciare ai democristiani la palma di difensori della pace religiosa. Togliatti, da quel grande stratega che era, aveva in mente il rapporto con le masse cattoliche. Il socialista Pietro Nenni, che come tutti i suoi votò contro, come del resto gli azionisti, i demolaburisti, i repubblicani, parte dei liberali, il giorno dopo annotò con arguzia e lucidità nel suo diario: “E’ cinismo applicato alla politica. Non è il cinismo degli scettici ma di chi ha un obiettivo. E’ la svolta di Salerno che continua, applicata questa volta alla Chiesta e ai cattolici”. Anche tra i comunisti ci fu chi, come il latinista Concetto Marchesi e Teresa Noce, disobbedì agli ordini del capo e votò contro. La cultura laica uscì sconfitta sull’articolo 7. E ciò è testimoniato anche dalle dichiarazioni di alcune grandi personalità del mondo prefascista, come quella resa da Francesco Saverio Nitti, che in nome dei vantaggi politici dell’accordo, dichiarò: “Io, contrario, voterò a favore”. Il Partito liberale aveva lasciato libertà di coscienza ai propri deputati, ma Benedetto Croce, portabandiera e più alto rappresentante del pensiero liberale italiano, coraggioso estensore nel 1925 del Manifesto degli intellettuali antifascisti, tenne a chiarire la sua posizione in una lettera al “Corriere della sera” del 29 marzo. Il filosofo, che aveva potuto partecipare alla votazione per un malessere fisico, volle ricordare agli italiani la sua posizione. Il suo credo laico non aveva mai tentennato, come invece accadde a Nitti. Scrisse Croce: “Io parlai alla Costituente nel modo più chiaro contro l’inserzione dei Patti lateranensi in Costituzione, che stimo una mostruosità giuridica”. Dino Messina

«Pubblica o privata»: il diritto di proprietà nella Costituzione. Nell’articolo 42 c’è un punto di sintesi tra le tre principali tendenze ideologiche che permeavano l’intero ordito costituzionale: il marxismo, il solidarismo cattolico e il liberalismo europeo-continentale. La terza puntata della serie che ripercorre la storia degli articoli più controversi della Carta in vigore dal primo gennaio 1948, scrive l'1 ottobre 2017 Dino Messina su "Il Corriere della Sera". «La Costituzione italiana», disse Piero Calamandrei nel famoso discorso agli studenti milanesi del 1955, «è figlia della Resistenza». Un’affermazione che risulta tanto più vera quando si analizza il tema della proprietà privata, il quale non compare, come ci si potrebbe aspettare da una Costituzione liberale classica, tra i principi fondamentali, ma viene ampiamente trattato nel Titolo III, dedicato ai diritti economici della prima parte. 

La lotta contro i privilegi. Prima di prendere in considerazione gli articoli che definiscono la proprietà privata (non soltanto il 42, ma anche il 41, il 43 e il 44) bisogna accennare al clima politico-sociale dell’immediato dopoguerra in Italia. A guerra finita, nelle regioni industriali del Nord c’era stata l’esperienza dei consigli di gestione, con il congelamento della proprietà di alcune grandi imprese, tra cui lo stesso «Corriere della sera». Una stagione breve, conclusasi nei primi mesi del 1946, che tuttavia aveva lasciato un forte segno nel dibattito ideologico. Ne troviamo traccia nei congressi dei partiti e anche nel dibattito alla Costituente nel 1946-’47. Se era prevedibile che il campione di realismo e capo dei comunisti Palmiro Togliatti al congresso economico che il suo partito tenne nel 1945 tuonasse «non contro il capitalismo», ma «contro forme di rapina e speculazione». E se era nell’ordine delle cose che il socialista Angelo Saraceno promettesse «lotta a oltranza contro ogni privilegio e una conseguente politica di nazionalizzazione dei centri produttivi nei quali si annidano privilegi e monopoli», non ci si aspetterebbe accenti simili da esponenti della Democrazia cristiana (sfiora l’icona blu per leggere l’Extra degli Extra dello Scaffale di Storia curata da Dino Messina). 

La Dc contro egoismi e plutocrazieI liberali e la lotta al monopolio. C’è un motivo se il suo leader Alcide De Gasperi, campione di moderazione, definì la Dc un partito di centro che guarda a sinistra. E questo motivo lo si può trovare nella dichiarazione di Guido Gonella a un congresso di partito («Combattiamo gli egoismi e le plutocrazie») o nelle dichiarazioni alla Costituente di Piero Malvestiti sull’articolo 42: «Il divario tra politica ed economia è assurdo: … il sistema economico deve creare le condizioni di possibilità di esercizio della libertà politica; … le prerogative individuali sono illusorie per chi non è in grado di risolvere il problema del pane quotidiano…. La Dc si rifiuta nel modo più pieno e più impegnativo di essere l’estremo baluardo del privilegio economico». Nella Dc, in campo economico, coesistevano posizioni moderate e di radicale apertura sociale come questa appena citata. A completare il quadro c’era la variegata famiglia liberale, la quale andava dal citato Piero Calamandrei, giurista militante nel Partito d’Azione (nella foto sotto), che in campo sociale condivideva molte posizioni delle sinistre marxiste, e la pattuglia dei liberali duri e puri, rappresentata al meglio da Luigi Einaudi, il quale tuttavia aveva tra gli obiettivi politici la lotta al monopolio. Fatte queste premesse, si può citare ora l’articolo 41, che al primo comma recita: «L’iniziativa economica è libera», per aggiungere subito al secondo: «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Al terzo: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Fu perdente la battaglia di Einaudi di fermare l’articolo 41 all’enunciazione del primo comma, poiché riteneva l’intervento dello Stato e il dirigismo eccessivo una intrusione dannosa. 

Gli emendamenti della sinistra. Se Einaudi non ebbe partita vinta, furono bloccati due emendamenti di sinistra: il primo di Mario Montagnana e Giancarlo Pajetta diceva: «Lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l’attività produttiva». Il secondo vide contrapposti Giuseppe Dossetti a Lelio Basso, il quale aveva proposto questo emendamento: «Spetta ai pubblici poteri stabilire piani economici nazionali e locali per coordinare le attività attinenti gli investimenti alla produzione, allo scambio e alla distribuzione di beni e servizi». Dopo accese discussioni nella sottocommissione dei 75 e in seduta plenaria, il cuore del compromesso sulla proprietà privata venne trovato nell’articolo 42: «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà può essere, nei casi preveduti dalla legge e, salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità». 

«Non tutti proletari ma tutti proprietari». L’articolo 42 non è mai stato digerito dai liberali duri e puri come il politico e accademico Antonio Martino, che così lo ha commentato: «L’intero articolo è dedicato a sottolineare che il legislatore costituente certifica la proprietà privata come evitabile fastidio. Nell’elenco dei proprietari del primo comma i privati vengono per ultimi, lo Stato per primo; al secondo comma si pone la proprietà pubblica prima di quella privata; al terzo comma si chiarisce che questo fastidioso residuo del passato viene rapportato solo se accessibile a tutti e tale da svolgere una non meglio precisata “funzione sociale”…». Assieme all’articolo 7, questo riguardante la proprietà è il punto più stonato della nostra Costituzione secondo il pensiero liberale. Tuttavia, se si guardano ai rapporti di forza nell’Assemblea costituente gli enunciati appaiono conseguenti: dei 556 parlamentari, 207 erano democristiani, 115 socialisti, 104 comunisti, i liberali avevano 41 rappresentanti, il Partito d’Azione 7, i repubblicani 2. La componente liberale, di destra e di sinistra, era davvero minoritaria, anche se molto attiva. A loro si deve l’articolo 43 che limita i monopoli, mentre la parte dell’articolo 44 che prevede un aiuto alla piccola e media proprietà rispecchia l’ideologia della Dc riassunta nello slogan «non tutti proletari ma tutti proprietari».

La follia marxista di Orlando: la proprietà non è più un tabù. Il Guardasigilli: codice antimafia ok, tocca i ricchi, scrive Laura Cesaretti, Lunedì 02/10/2017, su "Il Giornale".  Il cosiddetto «codice antimafia» è buono, anzi ottimo, perché rompe il «tabù della proprietà privata» e «mette in discussione la ricchezza». E chi lo critica non è un garantista, ma un classista «cultore della proprietà privata». No, a parlare non è un esponente del Partito Marxista-Leninista d'Italia (non è uno scherzo, esiste davvero) ma un dirigente del Pd nonché membro autorevole del governo Gentiloni: Andrea Orlando. Che venerdì, dal palco della convention della sua corrente a Rimini, ha lanciato la piattaforma ideologica di una sorta di neo-comunismo giudiziario, di cui il codice antimafia sarebbe il primo manifesto. Se un provvedimento viene bocciato con parole pesantissime da giuristi di vaglia, costituzionalisti di ogni sponda, magistrati famosi e avvocati di peso, politici di ogni parte e imprenditori, e viene difeso solo da Rosy Bindi e Pietro Grasso, un dubbio - anche piccolino - dovrebbe venirti. Soprattutto se fai di mestiere il ministro della Giustizia. Invece no, ad Orlando di dubbi non ne sono venuti. Anzi: il ministro ha difeso a spada tratta il provvedimento varato dal Parlamento, e proprio nei suoi aspetti più devastanti e contestati, a cominciare dalla possibilità di sequestrare tutti i beni a chi sia semplicemente indagato - non condannato e neppure rinviato a giudizio - per comportamenti corruttivi (e si sa come vanno a finire, dopo lustri, la maggior parte dei processi in questo campo: nel nulla). E lo ha fatto, appunto, con un approccio tutto ideologico di fiero - ancorché un filo datato - stampo anticapitalista. «Il vero punto che ha fatto saltare sulla sedia tanti critici - ha esordito - non riguarda il garantismo, ma la proprietà privata». Diritto che - ancorché tutelato dalla Costituzione - evidentemente non convince il ministro. «Ora sui sequestri (dei beni ai presunti corrotti ndr) tutti dicono questo mette in discussione la certezza della proprietà». Allarme insensato, secondo Orlando: «Io penso, forse anche per il mio retaggio ideologico, che la certezza della proprietà possa essere messa in discussione, quando la proprietà è di dubbia provenienza». Se a un pm viene un dubbio sulla «provenienza» della tua casa o del tuo conto corrente, è dunque legittimo che ti venga (cautelarmente, ovvio) sottratta. E Orlando va all'attacco dei tanti che sono insorti proprio contro questa pericolosissima innovazione giuridica: «Io credo che la vera reazione su questo punto non è sulla tutela delle garanzie, ma sul tabù della proprietà privata. Perché secondo loro la proprietà privata, se è diventata in qualche modo presentabile, nessuno si deve permettere di metterla in discussione. Questa è una logica che appartiene alle classi dirigenti di questo paese, che non hanno interesse a vedere da dove arrivano i soldi ma solo al fatto che i soldi girino». La ricchezza, aggiunge, «va giustamente messa in discussione se sproporzionata, e a maggior ragione se di provenienza dubbia». Quindi, taglia corto Orlando, chi critica la legge «non è garantista, ma cultore della sacralità della proprietà privata». E il codice antimafia è il nuovo Libretto Rosso, affidato ai pm per ripristinare la giustizia sociale.

La Sinistra è morta. Suicida, scrive Nino Spirlì, Giovedì 28 settembre 2017, su "Il Giornale. Accade. Accade quando perdi di credibilità. Quando le tue denunce da farsa, pronunciate a voce stentorea e ferma, risultano essere delle fanfaronate da saltimbanco. Quando il tuo elisir di lunga vita, alle analisi, risulta essere meno che piscio di gallo. Accade quando dai del fascista, pensando di offendere, e poi ti comporti da nazista, sapendo di esserlo. Accade quando per costruire una verità di carta, pensi di poter nascondere con un ditino la montagna della verità di granito. Accade quando vai a casa del dio della comunicazione e pensi di metterlo nel sacco con grottesche scivolate sulla parete di specchio (magari anche oliata), raccontando di te e dei tuoi improbabili successi. Accade quando tenti di riempirti le tasche di danaro giustificandoti come farebbe il bambinello con la bocca sporca di Nutella davanti allo sportello del frigo. Accade quando sei massomafioso. Accade quando, in campagna elettorale, ti porti appresso gli sgherri delle peggiori ‘ndrine e ti riempi la bocca di antimafia e legalità. Accade quando cerchi di privatizzare a tuo guadagno l’acqua pubblica; quando ti ingrassi con l’accoglienza dei clandestini; quando ti organizzi per farti appaltare la raccolta della monnezza; quando amministri la cosa pubblica come fosse roba tua. Accade quando ti senti più tutelato degli altri davanti alla Legge, se la legge è rappresentata da qualche amichetto tuo. Accade quando ti senti superiore a Dio e ai Santi e pensi di governarne anche le processioni con inchini e carnevalate. Accade. Sì, accade…Ecco, la sinistra Sinistra, quella italiana, quella che all’anagrafe risulta essere figlia della defunta demoNcrazia cristiana e di qualche figlio spurio dell’incenerito PCI, è morta così. Con le mani in pasta. Ovunque. La gente non le crede più e si sparpaglia. Si allontana dal paese dei balocchi, da lucignolo e pinocchio e cerca lidi più sicuri. Magari non immacolati, ma certamente meno prostituiti. Di questo decesso, ne avremo conferma nelle prossime tornate elettorali. Intanto, recitiamo un requiem, mentre, inascoltata, lei ulula il proprio De Profundis…fra me e me.

IL PAESE DELLE BANANE ED IL REFERENDUM DA PRESA PER IL CULO.

Rieccoci: siamo il Paese delle Banane, scrive Carlo Fusi il 17 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". I leader politici invece di confrontarsi sulle ricette per portare l’Italia fuori dai guai, si accapigliano in una campagna elettorale da pifferai. Berlusconi promette ai pensionati dentiere e cinema gratis; Renzi ripropone l’eterno self-portrait: il premier sono io; Di Maio chiede l’intervento dell’Ocse per le elezioni in Sicilia. La campagna elettorale è appena cominciata e si ripropone l’immagine dell’Italia Paese delle Banane. I leader politici invece di ricette per tirare fuori il Paese si dilettano nei panni di magici Pifferai. Al via la campagna elettorale: riecco il Paese delle banane. Nel week end appena trascorso, dal punto di vista dei fatti politici sono accadute le seguenti cose: l’assicurazione fornita da Matteo Renzi che il candidato premier del Pd e del centrosinistra comunque articolato sarà lui punto e basta; l’avvertimento da parte di Silvio Berlusconi – tra un omaggio e l’altro all’uso del bidet – che o il centrodestra avrà la maggioranza alle elezioni oppure lui si ritirerà «perché vorrebbe dire che gli italiani non sanno giudicare» ; l’invettiva ( con annessa bestemmia sul blog, poi rimossa) di Beppe Grillo contro «i due imbroglioni» che hanno fatto la riforma elettorale: appunto Matteo e Silvio, peraltro mai citati per nome. Mentre Salvini, invece citato, «fa più schifo di entrambi». Potrebbe anche bastare. Ma è impossibile non sottolineare il recente nominato “capo politico” dei Cinquestelle, Luigi Di Maio, che invoca osservatori Osce nelle elezioni siciliane per timori di brogli. Ce n’è abbastanza per riprovare la consueta e sconsolante certezza di una campagna elettorale che è appena cominciata (?) e inesorabilmente ripropone l’immagine del- l’Italia come Repubblica delle Banane. Per capirci. Il Parlamento è alle prese con una riforma elettorale a metà del guado che dovrebbe aiutare la governabilità e che al contrario in tanti assicurano lascerà intatto il rischio ingovernabilità. Il governo ha dato via libera alla legge di Stabilità usando però la formula “salvo intese”. Vuol dire che il testo ufficiale del provvedimento non c’è e arriverà solo in un secondo momento: quando saranno state trovate le coperture economiche che tuttora mancano, insomma. Ciò nonostante, il titolare dell’Economia assicura che le risorse «sono poche ma ben indirizzate». Nel frattempo la Ue, riservatamente ma con forza, insiste a chiedere misure serie e credibili per diminuire il mostruoso debito pubblico: lo stesso che il ministro Padoan, ormai da anni, assicura che scenderà. Testardo, è in crescita continua e al momento ha toccato la quota record di oltre 2.260 miliardi di euro. Esaminando le cifre della manovra contenute nella Nota di aggiustamento al Def, l’Ufficio parlamentare di bilancio giudica «poco prudenziali» le stime di palazzo Chigi e Mef per il 2019 e 2020. Significa che, una volta chiuse le urne politiche del prossimo marzo, all’incertezza politica si sommerà la bomba ad orologeria economica che si sta allestendo. Problemi? Niente affatto: niente «lacrime e sangue» taglia corto il premier Gentiloni; e chi vivrà, vedrà. Si potrebbe proseguire, ma il quadro è sufficientemente chiaro. Per chi ama i paradossi: chiaro di riflessi oscuri. In sostanza il Paese è seduto su un vulcano e la coesione sociale si frantuma; lo sanno tutti, lo dicono tutti. Pur tuttavia i leader politici invece di accapigliarsi, ovvio, ma sulle ricette per portare fuori gli italiani dai guai nei quali si trovano, tranquillamente disputano a colpi di inattendibilità. Berlusconi ripropone sé stesso nel rifacimento del “ghe pensi mi” e promette sconti sui cinema e teatri agli anziani; pensioni minime a mille euro, dentiere e protesi gratis naturalmente senza specificare dove troverà le risorse. Renzi ha già spiegato nel suo libro Avanti che intende mettere il veto se la Ue non allargherà i cordoni della borsa. Tralasciando che quei cordoni sono già larghi: vedi flessibilità fin qui concessa ma che l’abolizione del Fiscal compact farebbe saltare con un aggravio di una trentina di miliardi di nuove tasse. Grillo non propone niente: i vaffa li ha spesi tutti, ora tocca a Di Maio. L’ex comico si limita a favorire l’abbraccio tra due signore notoriamente in dissenso: il sindaco di Roma Virginia Raggi e la candidata pentastellata alla regione Lazio, Roberta Lombardi. Il presente e il futuro dell’offerta politica grillina: c’è chi sente brividi correre per la schiena. Abbiamo parlato di inizio di campagna elettorale ma sappiamo bene che da noi quel periodo è ultra dilatato e dura un’intera legislatura. Adesso è forse arrivato il momento di fare uno stop. Di aggiustare il tiro. Di mettere la mordacchia alla demagogia. In Europa (vedi risultati elettorali austriaci) e nel mondo soffiano preoccupanti venti di insofferenza alimentati da paure che saranno pure irrazionali ma che attecchiscono su settori crescenti di opinione pubblica. Rilanciarli preparerebbe il peggio. Come pure seguire i tanti pifferai che indicano il paese di Bengodi, la terra di creduloni descritta da Boccaccio, dove c’era «una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli». Un incubo.

Così Grillo e Bossi hanno anticipato l'Europa di oggi. In Francia, Spagna e Germania le vecchie famiglie politiche vanno in crisi. È già accaduto. Con Lega e M5S.Il territorio senza politica di Bossi, scrive Marco Damilano l'11 ottobre 2017 su "L'Espresso". Secessionismo addio, ha intonato il capo leghista Matteo Salvini all’indomani del referendum catalano. Quando il 22 ottobre si voterà in Lombardia e Veneto «per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori e particolari forme di autonomia», come si legge nel quesito, il referendum avverrà «nel quadro dell’unità nazionale» e ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione. Due notazioni che servono a rendere costituzionale un voto puramente consultivo. Così, nell’ottobre della rivoluzione di Barcellona, la Lega costruisce la richiesta ai cittadini lombardi e veneti di più autonomia nel modo più moderato, senza strappi costituzionali, senza lo “sbrego” della Carta che tanti anni fa invocava il politologo Gianfranco Miglio. Da tempo, in effetti, la Lega non parla più di Padania, autodeterminazione dei popoli, secessione, macro-regioni, devolution alla scozzese e modello catalano, che negli anni Novanta suonava come versione soft dell’autonomismo hard. Forse perché quella bandiera è in mano al fondatore - oggi nemico di Salvini - Umberto Bossi, l’uomo della marcia del Po. Forse perché il nuovo vento separatista sorprende la Lega al momento di compiere il passaggio opposto, da Lega nord a Lega Italia, da partito del settentrione a movimento nazionale. Da partito che vorrebbe il Nord con la parte forte dell’Europa a formazione che vuole l’Italia fuori dall’euro. O forse perché, e non ce ne siamo neppure accorti, in Italia lo sbrego è già avvenuto. Da tempo. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, i “trenta gloriosi”, i trent’anni in cui le società europee sono cresciute a ritmi da capogiro (industrializzazione, piena occupazione, Stato sociale, benessere diffuso), era lo Stato nazionale a costituire lo spazio delle politiche pubbliche che favorivano e accompagnavano il miracolo economico. Mentre la mediazione tra le istituzioni centrali e la società in cambiamento era svolta da una rete di soggetti, i mitici corpi intermedi: sindacati, associazioni di categoria, cooperative. E, più di tutti, i partiti. Toccava a loro, i grandi partiti nazionali di massa, mettere in collegamento i cittadini con lo Stato, portare le masse nel cuore delle istituzioni, come si diceva all’epoca. Succedeva così in tutta Europa, nell’Inghilterra laburista e nella Germania della socialdemocrazia e del modello renano cattolico e democristiano, l’economia sociale di mercato. E così, ancor di più, nell’Italia della Repubblica dei partiti. Dove la giovane unità nazionale (solo nel 2011 sono stati celebrati i 150 anni dello Stato unitario), lo sviluppo del sistema industriale e delle infrastrutture produttive garantito dai grandi enti pubblici, l’Iri e l’Eni, la pedagogia civica delle masse affidata alla scuola dell’obbligo e alla televisione di Stato (la Rai), avevano consegnato al sistema dei partiti che tutto questo controllava in modo diretto il potere e il ruolo di rappresentare lo Stato presso i cittadini. Diffusi, onnipresenti, capillari. Una sezione in ogni comune, con i suoi organi direttivi, i partiti erano il vero ufficio di collegamento sul territorio tra lo Stato centrale e le periferie, tra Roma e la base. «La sezione Dc di Casalserugo ha aperto un ufficio di assistenza in via Umberto I n. 7, tutti i giorni, escluso il sabato, dalle 18 alle 19.30. Tutti i cittadini possono usufruire di questo servizio», avvisava un volantino della Dc che in Veneto negli anni Settanta superava stabilmente il 50 per cento dei voti. Chiedete e vi sarà dato. Invasivi, soffocanti. Banche, istituti di credito, casse rurali, concessionarie, autostrade e acquedotti, enti di bonifica. Cura del collegio, lettere di raccomandazione, clientele. Tutto era controllato in modo ferreo dai partiti. Il consenso era la moneta di scambio rispetto alla capacità di soluzione dei problemi. Ma anche la dimostrazione che i partiti di massa, non solo quelli governativi egemonizzati dall’eterna Democrazia cristiana, sapevano ascoltare le istanze dei cittadini, anche quelli più lontani dai centri del potere, e riportarli verso su, nel cuore dello Stato centrale, fino a Roma. Anche nel resto d’Europa funzionava così. I deputati di collegio inglesi. I notabili francesi che continuavano a essere sindaci dei loro piccoli comuni anche quando arrivavano agli incarichi ministeriali. Le classi dirigenti dei Länder tedeschi che salivano fino al vertice del sistema federale. E, sempre, in ogni caso, i partiti con le loro strutture elefantiache a far da camera di compensazione, a evitare che gli interessi particolari disgregassero il corpaccione statale anziché assicurarne il funzionamento. Erano i partiti la mano visibile dell’assistenza e dell’intervento pubblico, alternativa alla mano invisibile del mercato. È stato così nei gloriosi trent’anni. E nel resto d’Europa il sistema dei grandi partiti nazionali è sembrato reggere ancora a lungo anche dopo la recessione degli anni Settanta e la caduta del muro di Berlino. Oggi è in crisi ovunque. L’ultimo paese in cui è venuto giù, una settimana fa, è stata la Germania dei partiti-Stato, delle grandi fondazioni che costituiscono il motore di Cdu-Csu e di Spd. All’epoca della prima Grosse Koalition, nel 1966 con il cancelliere democristiano Kurt Kiesinger, i due partiti avevano raccolto il 90 per cento dei voti e sommavano nel Bundestag 447 seggi su 496, nel 2005 il 70 per cento e 448 su 614, nel 2013 il 66 per cento e 504 seggi su 631, dal voto del 24 settembre escono entrambi al minimo storico e insieme fanno appena il 53 per cento dei voti. In Francia, alle presidenziali di maggio, i socialisti sono usciti quasi azzerati e i repubblicani eredi del gollismo fuori dal ballottaggio, al loro posto brilla la stella di Emmanuel Macron, un senza partito. La Spagna, fino a due anni fa considerato il sistema politico più stabile d’Europa, quattro premier in quarant’anni di democrazia in alternanza tra destra e sinistra (Felipe González, José Maria Aznar, José Luis Zapatero, Mariano Rajoy), la formula perfetta, è alle prese al centro con la fragilità dei partiti (due elezioni politiche in sei mesi tra il 2015 e il 2016, un governo di minoranza) e nelle regioni con la rivoluzione territoriale della Catalogna, dove governa una strana coalizione centro destra-estrema sinistra tenuta insieme dalla bandiera dell’indipendenza, che potrebbe riaccendere altri separatismi, a partire dai paesi baschi su cui lo scrittore Fernando Aramburu ha scritto il suo capolavoro “Patria” (appena pubblicato da Guanda). La crisi degli Stati-nazione, l’impossibilità degli Stati di rispondere alle richieste di società divenute più ricche ma anche più esigenti e a rischio impoverimento, coincide in tutta Europa con la crisi dei partiti nazionali. Sostituiti da due nuove creature che l’Italia ha anticipato da decenni e poi esportato. Il territorio senza politica. E l’anti-politica senza territorio. Il territorio senza politica è stato anticipato dalla Lega Nord di Bossi che si chiama così dal 1989, anno non casuale, ed è ormai il più antico partito italiano. Alle elezioni europee dell’89 aveva conquistato in Lombardia l’8,9 per cento dei voti. L’anno dopo, alle regionali del 1990, aveva raggiunto il 18,6 per cento, con oltre un milione e 183mila voti, secondo partito della regione più ricca d’Italia dopo la Dc: vent’anni dopo, nel 2010, con la Lega partito cardine del governo e alla conquista delle regioni del Nord i voti assoluti saranno meno, un milione e 117mila. È il territorio che si organizza senza ideologie politiche, senza identità di destra e di sinistra, «una forza trasversale e interclassista», la definisce all’epoca il sociologo Giancarlo Rovati, tenuta insieme dal protagonismo del Nord e dalla rivolta contro Roma ladrona: fiscale, sociale, politica. La Lega è di destra quando parla di immigrati e di sinistra quando si atteggia a erede della Resistenza contro la «porcilaia fascista» alleata con Silvio Berlusconi. La Lega è il territorio pronto ad allearsi con chiunque per difendere gli interessi del Nord: è questa la sua politica. È poi arrivata, più di recente, l’anti-politica senza territorio. Il boom elettorale del Movimento 5 Stelle nel 2013 è il trionfo di una formazione eterea, di organizzazione virtuale, che nelle elezioni politiche del 25 febbraio raccoglie un quarto dei voti e arriva primo in cinquanta province e in undici regioni, da Trapani e Ragusa alla Lombardia forza-leghista o nelle Marche governate dal Pd. Un «partito senza territorio», l’ha definito Ilvo Diamanti, senza radici e senza culture politiche alle spalle, nato sull’onda della rivolta, il vaffa contro la politica tradizionale. In entrambi i casi, Lega e M5S, nel 1992-93 e nel 2013, a uscire sconfitti sono stati i partiti nazionali, organizzati sul territorio sulla base di identità politiche riconoscibili (il cattolicesimo democratico, il socialismo, il comunismo, la cultura laica liberale o repubblicana, la destra post-fascista), sostituiti da partiti come Forza Italia o Alleanza nazionale che mettevano il riferimento alla nazione o alla patria nel nome all’inizio degli anni Novanta, proprio quando il ruolo dello Stato-nazione si andava perdendo. E dunque c’è da chiedersi, ancora una volta, se l’Italia non abbia anticipato di anni i fenomeni che ora sconvolgono il panorama politico europeo: i partiti delle piccole patrie regionali, come quelli catalani, le formazioni senza passato alle spalle tenute insieme sulla rivolta contro il sistema come l’Afd in Germania. Mentre la sinistra di origine socialista e socialdemocratica, nata alla fine dell’Ottocento sulla spinta internazionalista e diventata nella seconda metà del Novecento il motore della nuova Europa fino a governare negli anni Novanta quindici paesi su 17 nell’Unione europea, risulta la famiglia politica più in crisi, perché la più legata allo spazio delle politiche pubbliche nazionali. Sempre più angusto e ridotto, destinato a essere spazzato via dalla doppia rivolta, dei territori e dell’anti-politica. Tentati da una santa alleanza contro l’Europa. Per questo, in Italia, il governo M5S-Lega, Di Maio-Salvini, che per ora è pura fantapolitica, potrebbe ritrovarsi tra qualche mese come l’ennesimo prodotto del laboratorio italiano destinato a fare scuola nel resto dell’Europa, con la storia e la geografia impazzite.

Secessione è una parola per ricchi. Il caso catalano rilancia i sogni separatisti delle regioni più floride del Vecchio Continente. Che vogliono staccarsi dallo Stato. Non dall’Europa, scrive il 2 ottobre 2015 Gigi Riva su “L’Espresso”. L'unico precedente giuridico a cui si può fare riferimento è l’arbitrato della Commissione Badinter, dal nome dell’allora presidente della Corte Costituzionale francese. La Comunità economica europea (non era ancora Unione europea) chiese, nel 1991, a un gruppo di esperti un parere non vincolante sulla secessione delle Repubbliche jugoslave. Oltre a una Costituzione che prevedesse la tutela dei diritti delle minoranze, la Commissione raccomandò il ricorso a un referendum. In Croazia e Slovenia si era già tenuto. In Bosnia Erzegovina no. Le autorità di Sarajevo lo promossero, vinse il sì, la Bosnia fu riconosciuta internazionalmente. E scoppiò la guerra. Benché quel vecchio arbitrato spostasse nei fatti il criterio sino ad allora accettato dell’inviolabilità delle frontiere verso il principio dell’autodeterminazione dei popoli, il paragone con la Catalogna di oggi, dal punto di vista legale, è indicativo ma zoppo. La Jugoslavia era una Federazione, la Spagna un Regno diviso in 17 comunità autonome. Madrid sostiene che un referendum indipendentista è anticostituzionale, Barcellona il contrario. Ma il “latinorum” da Azzeccagarbugli è un buon esercizio di scuola per studenti di diritto. La prassi delle separazioni dimostra quanto, davanti all’inerzia della Storia, valgano poco i principi giuridici, spesso siano anzi spudoratamente calpestati. O usati come foglia di fico per legittimare a posteriori una prova di forza. Non è stato forse il caso della Crimea tornata sotto Putin? Ai margini dell’Unione europea i confini si sono cambiati nel sangue. Balcani, Ucraina. Solo la Cecoslovacchia è l’esempio di un cammino ordinato e condiviso. Dentro l’Unione si assiste a un paradosso in realtà tale sono in apparenza. La presenza della forza centripeta di Bruxelles, un’entità sovranazionale, stimola per opposto una forza centrifuga, il riemergere dei localismi, in opposizione a un potere statale centrale vissuto con fastidio e come un raddoppio di delega. I più visionari tra i padri fondatori avevano del resto immaginato, alla fine di un percorso maturo, l’Europa delle regioni come alternativa all’Europa degli Stati: le radici lunghe di troppe diversità avrebbero finito col vincere su costruzioni ideali però arbitrarie al punto da scadere in mere espressioni geografiche. La guerra fredda aveva sconsigliato avventurismi perché aveva creato identità nell’opposizione al modello “altro”. Negli anni immediatamente successivi alla caduta del muro di Berlino, quando si credeva di andare verso un “nuovo ordine” e verso la pace perpetua kantiana, erano riemerse istanze poi temporaneamente congelate dalla crisi economica che ha ribaltato l’agenda nel nome della comune emergenza. Ci si era illusi che la vague secessionista fosse passata. Era stata solo messa tra parentesi. La Catalogna rischia adesso di essere esempio per rivendicazioni in sonno. Un indipendentismo dei ricchi stanchi di “mantenere aree più povere”, è il minimo comune denominatore nel Vecchio Continente (già fu lo slogan programmatico di Slovenia e Croazia). È il caso dei catalani come dei fiamminghi in Belgio, degli scozzesi che però devono rifare i conti sui proventi del petrolio ora che il prezzo del greggio è in picchiata. Della stessa Lega Nord, riconvertita in “nazionale” ma col retropensiero separatista che resiste nella base e non è stato abbandonato dal vertice se Matteo Salvini, pur temendo di toccare un tema troppo delicato, invoca i «piccoli passi» per ottenere pragmaticamente «ciò che è possibile». La Catalogna fa da battistrada ed era logico attenderselo da una regione che già nel 1992, all’epoca delle sue Olimpiadi, era riuscita ad ottenere che il suo idioma fosse considerato lingua ufficiale dei Giochi accanto a francese, inglese e castigliano (spagnolo): non era mai successo. Influì sul privilegio il fatto che il catalano Juan Antonio Samaranch fosse presidente del Comitato olimpico internazionale. La lingua, la maggiore ricchezza rispetto al resto della Spagna, una vena anarchico-repubblicana che mal si sposa col re di Madrid sono gli ingredienti peraltro insufficienti per il passo estremo. Ci vuole, al minimo, un referendum dall’esito incerto che spaccherà, facile pronostico, la comunità. L’Unione ha da preoccuparsi da un lato. Dall’altro può vedere il bicchiere mezzo pieno. Perché la stragrande maggioranza della gente che a Barcellona vuole il divorzio dalla capitale, per nessuna ragione lascerebbe Bruxelles e la garanzia di far parte di un consesso più largo. I secessionisti ricchi di euro e di Europa hanno bisogno.

Il referendum lombardo non è solo inutile, è anche ingiusto, scrive Stefano Colombo l'11 ottobre 2017. Operazione di facciata per scaldare i cuori dell’elettorato leghista tradizionale, il referendum potrebbe essere una cattiva idea sotto tutti i punti di vista. Sono passati ormai quattro mesi da quel 29 maggio in cui Roberto Maroni ha annunciato che il 22 ottobre si sarebbe tenuto un referendum sull’autonomia lombarda. Il governatore leghista stava architettando la consultazione da più di due anni – il consiglio regionale lombardo aveva già dato il via libera nel febbraio del 2015 – ma ha dato l’annuncio ufficiale soltanto questa primavera, in una giornata esoterica: la Festa della Lombardia, una ricorrenza istituita da lui stesso per ricordare la Battaglia di Legnano. Questo il quesito a cui saranno chiamati a rispondere i cittadini: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”

Un quesito piuttosto fumoso, che non indica di preciso cosa si intenda con “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” — e che risulta buffo e culinario quando prende in considerazione “la sua specialità.” Ma non è un problema, perché questo referendum in realtà non intende ottenere davvero qualcosa: è stato pensato per scaldare i cuori leghisti e fare un po’ di propaganda per il governatore al termine del suo mandato. Il governo aveva già dato disponibilità a trattare con la regione per venire incontro ad alcune delle richieste del Palazzo Lombardia, rendendo inutile il referendum. In realtà, essendo puramente consultivo e non vincolante, sarebbe stato inutile anche se il governo avesse ignorato le lamentele di Maroni— ma la propaganda viene prima di tutto. Com’è noto infatti l’autonomismo è sempre stato uno dei cavalli di battaglia della Lega Nord — il motivo stesso per cui la Lega è nata, forse. Specie nei primi tempi, la parola secesiùn era stampata nel programma e soprattutto nei cuori dei militanti. Col passare del tempo però — con il consolidarsi dell’amicizia con Berlusconi, l’istituzionalizzazione del movimento e l’ingresso al governo — le spinte indipendentiste si sono annacquate in rivendicazioni più blande: la richiesta di maggiore autonomia per le istituzioni locali, la devolution, la macroregione, eccetera. Negli ultimi tre anni, il segretario Salvini ha cercato di tenere insieme l’identità nordista col tentativo di fondare un partito populista di destra a base nazionale — mandando su tutte le furie il fondatore Bossi. Salvini, ovviamente, è entusiasta del referendum. Sa bene che non può scontentare la propria base polentona: nonostante le velleità nazionaliste infatti il suo partito è ancora radicato quasi esclusivamente al Nord, dove governa due regioni importantissime — Lombardia e Veneto. Tra lui e Maroni non scorre buonissimo sangue, ma senza dubbio la Lega arriverà al doppio referendum entusiasta e unita: lo stesso giorno, infatti, si terrà un referendum analogo in Veneto. Alcune fonti informate sulle dinamiche leghiste ci hanno riferito che i piani alti della Lega hanno paura che la partecipazione al referendum si riveli un flop, nonostante il chiacchiericcio pubblico diffuso intorno ad esso dopo i risultati esplosivi del referendum catalano. Ma questo referendum, se non si è leghisti, ha senso? Nessun esponente di spicco della politica lombarda si era espresso contro l’idea di una maggior autonomia della propria regione. Le critiche arrivate dall’opposizione, soprattutto quella del PD, che in Consiglio regionale è la principale formazione di minoranza, si concentrano tutte sul fatto che il referendum sarà un salasso non necessario per le casse lombarde. La consultazione infatti verrà a costare complessivamente 48 milioni di euro — di cui addirittura 23 per l’acquisto dei tablet su cui si voterà e 3 milioni per la propaganda di dubbio gusto promossa dalla Regione stessa, particolarmente martellante soprattutto nel capoluogo.

Il sindaco di Milano Giuseppe Sala si è esposto fino a dichiarare quanto segue: “Io consiglierò di votare positivamente. Questo non è un tema che appartiene alla Lega ma un po’ a tutti, e su cui il governo ha dato chiare aperture: a mio parere è un tema giusto. Ma il referendum è assolutamente inutile.” Altri personaggi di spicco come Maurizio Martina, il nuovo migliore amico di Renzi che proviene dalla bergamasca, o il segretario regionale del PD Alessandro Alfieri, hanno tutti mosso critiche su questa linea. Addirittura, a fine giugno si era costituito un comitato per il sì tra i sindaci dei capoluoghi lombardi controllati dal PD: Varese, Bergamo, Milano, Brescia, Mantova, Cremona e Sondrio — unico assente il sindaco PD di Pavia Depaoli. In particolare il sì è sostenuto dal primo cittadino bergamasco Giorgio Gori, probabile candidato di centrosinistra alle prossime consultazioni regionali. Quello che fa gola agli amministratori locali di ogni colore e dimensione – in modo magari comprensibile, dal loro punto di vista – è la possibilità che il governo conceda alla Regione Lombardia di tenere per sé una percentuale maggiore delle tasse versate allo stato dai propri cittadini. Oggi il residuo fiscale lombardo ammonta a 53 milioni di euro, e tutti sperano di poterlo ridurre per dare un po’ di respiro, ad esempio, alle casse dei comuni. Noi siamo già indipendenti, ma per rimanere tali abbiamo bisogno del vostro aiuto: sta per finire la campagna crowdfunding su Produzioni dal basso, se ti piace il nostro lavoro prendi in considerazione l’idea di donarci 5 euro. È il momento però di far notare anche che più competenze non significa necessariamente più soldi. Facciamo un esempio assurdo: ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione, lo stato centrale decide di trasferire alla regione la gestione dell’istruzione pubblica. I soldi che verranno girati dallo stato alla regione per gestire la sua nuova competenza – perché in ogni caso i soldi delle tasse passeranno da Roma che provvederà a farli ritornare sul territorio – saranno la stessa quantità di quanto era lo stato a gestire direttamente la materia. In altre parole: l’unica differenza potrebbe essere che sulla busta paga degli insegnanti ci sia solo un cambio di mittente, non di cifre.

Nonostante sia quantomeno discutibile che al PD convenga appoggiare anche solo in modo ambiguo una mozione così caratterizzante dei suoi principali avversari regionali, il punto di vista degli amministratori locali può essere anche comprensibile. Però, pur essendo le cariche pubbliche più numerose e vicine ai cittadini rispetto a quelle statali, gli amministratori locali non hanno necessariamente ragione. Siamo sicuri che l’aumento di potere delle istituzioni locali, in particolare delle regioni, sia anche a livello concettuale una buona cosa? Negli ultimi venticinque anni il discorso politico italiano ha visto crescere una vena di ostilità verso lo stato centrale, visto come un vampiro gestito da politici incapaci e parassiti. Questo non vuol dire, però, che dare più poteri alle regioni sia necessariamente una buona soluzione al malgoverno centrale. In particolare, in Lombardia e altrove, alcuni tra i maggiori scandali politici degli ultimi anni hanno coinvolto figure – anche di spicco – della politica locale e regionale. Un esempio lampante è il caso dell’ex Presidente della Regione Roberto Formigoni, più volte incriminato per intrallazzi vari, soprattutto nel settore della sanità: che a sentire il centrodestra è il fiore all’occhiello dell’amministrazione regionale, la testimonianza che il decentramento funziona. Forse non è proprio così. Solo un anno e mezzo fa è stato arrestato Mario Mantovani, vicepresidente della Regione e braccio destro di Maroni, con una lunga serie di accuse di corruzione.

Anche nel probabile caso in cui – tramite referendum o trattative dirette col governo – il governatore riuscisse ad ottenere una maggiore autonomia in qualche campo come l’istruzione, i trasporti o la sanità, c’è da chiedersi come verrebbero gestiti questo potere e queste risorse. Cosa ci si può aspettare da questa amministrazione regionale? Un finanziamento per un nuovo telefono omofobo? Qualche scritta sul Pirellone inneggiante alla famiglia tradizionale più di una volta ogni due mesi? Inoltre, anche se la nostra regione fosse governata dalla giunta più virtuosa possibile, è discutibile che fomentare e incentivare i piccoli campanilismi sia una buona idea. Quando si fa parte di una comunità è giusto versare il proprio contributo perché venga redistribuito. Anzi, soprattutto se si fa parte dello stato italiano, che è uno dei paesi con la più drammatica disparità di sviluppo economico e sociale al suo interno. Basta guardare questa cartina per rendersi conto che la questione meridionale, centocinquant’anni dopo la supposta unità d’Italia, è ancora il nostro problema numero uno di questo paese — nonostante non sia nemmeno tra i primi dieci argomenti più discussi dai nostri politici. Anziché consentire ai più ricchi di tenersi più soldi, si potrebbero usare le famose risorse che le amministrazioni locali vorrebbero per sé in un programma serio di investimenti pubblici per la crescita, non assistenzialista, del mezzogiorno. Il divario Nord-Sud è già enorme, allargarlo non è una buona idea.

Votare Sì al referendum lombardo per non pagare più dazio a Roma, scrive il 4 Ottobre 2017 Luigi Amicone su "Tempi". Una Italian California che non ci vede più nessuno in Europa. Faremo ripartire il lavoro da Trapani a Gorizia, valorizzando le risorse in loco. Questa mattina, 4 ottobre di san Francesco patrono dell’Italia, mi sento molto buono perché sono quasi arrivato all’età della ragione (ho sfondato i 60) e perciò non voglio litigare con quella pierina della Meloni che sfrutta il referendum all’hashish della Catalogna per picconare quello di Lombardia. Altro mondo il 22 ottobre autonomista lombardo dal primo ottobre bolscevico di Barcellona. Per altro, data storica al servizio di una vera Italia unita. Un sogno? Sì. Ma bellissimo quando andremo a comandare noi. E che detto molto in soldoni si sintetizza in questo: il sogno del taglio della mano morta di Roma. Padrino senza un Marlon Brando che ci taglieggia e digerisce nel nulla le risorse da sud a nord. Ma se ci mettiamo d’accordo noi, regioni del nord e del sud, bypassando l’artiglio parassitario dei palazzi del dazio romano, vedrete che ci rifacciamo un Paese federalista e solidale. Una Italian California che non ci vede più nessuno in Europa. Faremo ripartire il lavoro da Trapani a Gorizia, valorizzando le risorse in loco. E a quelli che prendono lo stipendio e le pensioni dorate per controllare i controllori del controllo di chi lavora e paga le tasse per farci il buco miliardario di tutti gli enti locali e statali romani tenuti nella famosa “legalità” dello status quo dell’unità ottocentesca trombona e magna magna del sudore e sangue del popolo, da paparazzi trasformisti e polverose Corti e azzeccagarbugli di Stato. Ma non voglio farmi subito querelare per “attentato” all’Unità dello Stato. Che L’Unità è già fallita da un pezzo. E lo Stato, il nostro Stato colabrodo, è ormai l’ultimo rifugio delle canaglie. Dunque, dicevo, siccome è il mio compleanno e scocca nel giorno del poverello d’Assisi che ci ha resi orgogliosi di essere italiani, per prima cosa dirò che il quotidiano romano Repubblica ci faccia il santo piacere di smetterla con questo ricicciamento della (falsa) notizia dell’“evasione fiscale” record in Italia. Che è la notizia che ha fondato il governo Monti, che la Merkel ha fortemente voluto e su cui la Ue (lato Nord Europa) scommette ancora per spazzolare i risparmiatori italiani e indurre una finanziaria da prelievo forzoso nei conti correnti (già lo fece Amato su spintarella di Soros, l’amichetto di D’Alema, e non mi pare una grande idea, vedi Ungheria che ha capito tutto). Per altro a Repubblica, la romana doc, bisogna dire questo: siete per il fisco? Ok, incominciate a far pagare al vostro padrone quel tot di centinaia di milioni di elusione fiscale che gli hanno sentenziato (e sono 26 anni che mette di mezzo avvocati per non pagare). E poi mettetevi il cuore in pace: sappiamo che il vostro Carlo De Benedetti, oltre a essere stato la tessera numero 1 del Pd è stato lo spavaldo, “moderno imprenditore”, che spiegò tranquillo al Financial Times, a proposito delle Olivetti di Prima Repubblica, chissà perché, adottate in ogni piega di ufficio statale, dalle poste ai ministeri: «Ho pagato le tangenti, lo rifarei, questo era il sistema». Già quando il sistema “era”, c’era chi aveva il privilegio di tangentare (gli altri: “in galera!”). Quando il sistema è, beh, 26 anni di avvocati per non pagare. Dalla panetteria Repubblica, cari cittadini, eccovi qui sfornate di giornata brioches di indignazione per tutti! Dopo di che, eccovi la notizia vera, suffragata dai dati regionali e statali, che ho pubblicato qui, su Tempi del 25 aprile 2015 e che ripropongo per rinfrescare la memoria alle pierine Meloni e per darvi buone ragioni, cittadini del nord e del sud, per andare il 22 ottobre a votare “sì”. E in un bellissimo giorno che verrà, a comandare bypassando il taccagno e sperperatore dazio di Roma.

Tratto da Tempi, 25 aprile 2015 – Domanda da terza elementare: quante sono le regioni italiane? Le regioni italiane sono 20. Bravo Pierino. E sapresti dirmi quali di queste venti regioni sono a “statuto speciale”, cioè sono regioni a cui la Costituzione italiana ha concesso, tra l’altro, il privilegio di trattenere sul proprio territorio chi il 60, chi il 70, chi il 90, chi il 100 per cento delle tasse pagate dai cittadini? Ma certo che lo so signora maestra! Le regioni a statuto speciale sono cinque: il Friuli Venezia Giulia, che trattiene il 60 per cento dei tributi; la Sardegna, che si tiene il 70; la Valle d’Aosta e il Trentino Alto Adige, il 90; la Sicilia, il 100 per cento. Molto bene, Pierino. Adesso vai a casa e studia i fatti. Perché al di là di quello che sta scritto nella Costituzione, in realtà le regioni a statuto speciale sono 19, mentre una, e una soltanto, è a statuto ordinario. La Lombardia. Il bancomat dello Stato centrale. Dopo di che capirai perché i grandi corpi dello Stato (procure), i grandi giornali statalisti (Repubblica) e i grandi partiti centralisti (Pd), sono ancora a mordere questa regione “ordinaria”, nel tentativo di radere definitivamente al suolo (come hanno fatto con Formigoni, non parliamo di Berlusconi e, più recentemente, con il politicamente lombardo Lupi) un modello di buon governo di cui si è voluto in ogni modo impedire l’affermazione a livello nazionale.

Quanti default mascherati. Ricapitoliamo. Il tema è: quanto pagano i cittadini per mantenere servizi e amministrazione pubblica (almeno) decenti? Quali sono le regioni che spendono meno e meglio le tasse dei cittadini? La settimana scorsa abbiamo illustrato i dati in cui emerge la distanza siderale che c’è tra il governo lombardo e tutti gli altri nell’uso dei soldi dei contribuenti. Dal costo pro capite del personale pubblico (19,8 euro in Lombardia, record nazionale di spesa minima, 177 euro in Molise, record di spesa massima; media nazionale: 43,9) alle spese per la sanità che rappresentano l’80 per cento del budget delle regioni (il costante pareggio di bilancio della Lombardia contro le decine di miliardi di buco accumulati dalle regioni del Sud con conseguenti piani di rientro, malasanità, pesanti ticket, disagi per l’utenza; l’arrancare anche delle regioni del Centro-Nord, i disavanzi di quelle a statuto speciale). Dalle aliquote fiscali Irpef e Irap (mediamente superiori ovunque alle aliquote lombarde) alla situazione del trasporto pubblico locale (dove ancora una volta la Lombardia si segnala per essere largamente al di sopra del livello minimo di efficienza, mentre da Roma in giù il servizio dei trasporti locali è allo sbando, tecnicamente “in default” se non fosse sussidiato dallo Stato). Da ultimo avevamo visto che mentre la Lombardia paga regolarmente i propri fornitori e perciò non chiede un cent allo Stato, la sola regione Lazio, per non fallire come pubblica amministrazione e, soprattutto, per non far fallire i suoi creditori, si è “mangiata” tra il 2013 e il 2014 una cifra pari a sei volte il presunto “tesoretto” del governo Renzi, incassando dallo Stato, cioè dalla collettività, oltre 9 miliardi in “anticipazioni finanziare” cosiddette. Che in realtà sono “mutui”, visto che il Lazio e le altre regioni che ne hanno usufruito (Campania e Piemonte su tutte) devono restituire questi soldi “anticipati” dallo Stato in 30 anni (ma allo Stato non è stato fatto divieto dalla Costituzione, articolo 119, di fare debito per la spesa corrente?).

La madre di tutte le sperequazioni. Come mai la Lombardia è l’unica regione italiana che non gode di uno “statuto speciale”? Osserva la tabella dei dati nazionali, Pierino. Non ti sembra che, eccetto la Lombardia, siano ormai “speciali” tutte le regioni italiane, in via di principio (costituzionale) o di fatto (per politiche di governo dello Stato)? Vediamo. La Lombardia ha il più alto residuo fiscale nazionale. Sfiora i 54 miliardi di euro l’anno. Significa che un buon 32 per cento del suo saldo positivo tra entrate e spese (comprese quelle per il buono scuola, per la difesa della vita nascente, per il sostegno alle famiglie e parecchi altri provvedimenti sociali assenti in quasi tutto il panorama regionale del Paese) la Lombardia lo devolve interamente allo Stato. In “solidarietà” alle regioni meno abbienti e in perequazione al gettito delle regioni più piccole. Ora, proprio tenendo presente questa percentuale di residuo fiscale, al di là delle cifre in valore assoluto versate a Roma (che dipendono ovviamente da quantità della popolazione e distribuzione di ricchezza e povertà nei vari territori), salta immediatamente agli occhi l’iniquità e l’ingiustizia pazzesca che lo Stato centrale esercita nei confronti della Lombardia. Essa, infatti, è la regione italiana che in percentuale trattiene il minore gettito (entrate). Solo il 68 per cento. Viceversa, in tutte le altre regioni succede il contrario. Succede che, benché 9 delle altre regioni italiane presentino residui fiscali in valore assoluto molto più bassi di quelli della Lombardia e le rimanenti altre 10, concentrate al Sud, addirittura residui negativi, tutte e 19 trattengono e spendono per sé percentuali altissime del gettito locale, e sono quindi divenute di fatto tutte regioni a statuto speciale. C’entrano niente, nel caso esaminato, le opinioni politiche. Le generalizzazioni demagogiche dei giornaloni contro la “casta” dei politici. Il vittimismo sulle regioni “povere”. Le furbastre ondate di indignazione orchestrate contro questo o quel “ladro” dal circuito mediatico-giudiziario. Qui – come per i dati esposti settimana scorsa e sintetizzati sopra – c’entra un sistema. Qui c’entra uno Stato centralista che fa dell’iniquità, della sperequazione e, quindi, dello sperpero delle risorse un sistema ben oliato e superlegalizzato. Approfondiamo. Dopo la Lombardia, la seconda regione più “spremuta” dallo Stato è il Veneto. Però siamo già 6 punti percentuali sopra la Lombardia, cioè al 74 per cento delle entrate trattenute, spese sul proprio territorio. Un “privilegio” superiore a quanto la Costituzione assegnerebbe alla Sardegna. Piccolo particolare: la Sardegna trattiene e spende in regione non il 70 e neanche il 100 per cento delle entrate. Bensì, il 100 più un rabbocco di un altro 26 per cento prelevato in solidarietà dalla cassa comune dei contribuenti italiani. Ma questo non è niente. Piemonte, Toscana, Marche, Umbria, Lazio e Liguria, a cui lo Stato concede di trattenere e spendere, nell’ordine, andiamo per difetto, l’83 per cento delle entrate, l’84, l’87, il 90, fino a picchi del 92 (Lazio) e 95 per cento (Liguria), sembrano regioni quasi più “speciali” del Trentino Alto Adige (96 per cento). Di sicuro, più “speciali” delle amministrazioni pubbliche trentine e altoatesine sono l’Abruzzo (105 per cento), la Basilicata (106), la Campania (107), il Molise (109) e la Puglia (109). Significa che a tutte queste amministrazioni regionali non soltanto lo Stato concede il privilegio di trattenere e spendere in loco l’intera posta fiscale, ma siccome spendono più di quello che incassano, lo Stato mette a disposizione di queste regioni un bancomat (dicesi “trasferimenti”) per prelevare altri soldi dalla cassa comune di tutti i contribuenti italiani (e specialmente lombardi).

Traduzione per i contribuenti. Domanda: lo Stato concede tale privilegio a queste regioni perché esse erogano servizi particolari, più “speciali”, di quelli erogati dal Trentino Alto Adige? Se così fosse, si capirebbe perché non è affatto la Sicilia la regione più “speciale” d’Italia (120 per cento), ma è la Calabria. Regione a “statuto speciale” per eccellenza, visto che incassa e trattiene e spende quasi il 128 per cento, tra entrate e rabbocchi statali. Tradotta in soldini pagati dalle comunità regionali dei contribuenti, la morale è la seguente. Come ci ricordano gli Uffici Studi della Cgia di Mestre sulla base dei dati Unioncamere e dei conti pubblici territoriali (Cpt), la Lombardia, pur gestendo mediamente bene le tasse dei suoi cittadini, pur mantenendo servizi mediamente superiori alla media nazionale, subisce da parte dello Stato centrale i maggiori tagli e prelievi di risorse. Tradotto in euro pro capite, ci ricorda la Cgia, significa che con residui fiscali annui pari a 53,9 miliardi di euro in Lombardia, «ogni cittadino lombardo (neonati e ultracentenari compresi) dà in solidarietà al resto del Paese oltre 5.500 euro all’anno». E tutte le altre regioni? Per lo più spendono. E soprattutto spandono. Tanto paga Pantalone lombardo.

Referendum autonomia, Vittorio Feltri l'Ottobre 2017 su "Libero Quotidiano": non diamo i nostri soldi a quelli che li spendono male. Il referendum che si voterà in ottobre circa l’autonomia delle regioni Veneto e Lombardia non viene pubblicizzato a dovere poiché infastidisce il potere centrale e il Mezzogiorno. I quali temono di perdere la tetta da cui succhiare risorse. È noto che il Nord produca più del Sud e mandi a Roma la quasi totalità dei proventi fiscali locali, che poi servono ad alimentare le casse dello Stato, incline a sprecare capitali a scopi elettoralistici. La novità consiste nel fatto che i lombardi e i veneti ne hanno piene le scatole di versare denaro a chi non è in grado di utilizzarlo convenientemente. Lavorare per gli altri che non lavorano affatto non è piacevole. Ecco perché i governatori Maroni e Zaia si sono impegnati legittimamente in questo plebiscito consultivo: si tratta di accertare se gli abitanti delle zone ad alta densità industriale vogliono o no amministrarsi in proprio, trattenendo sul territorio una quantità maggiore, rispetto ad oggi, dei loro quattrini sudati. Dove sia lo scandalo della iniziativa non sappiamo. La contrarietà da taluni manifestata a questo sano progetto si spiega soltanto col desiderio di negare a Milano e a Venezia il diritto di amministrare i loro beni in favore dei propri cittadini. Durante una trasmissione televisiva imperniata sul tema dell’autonomia, il direttore del Messaggero di Roma, Virman Cusenza, si è espresso contro il referendum senza una ragione plausibile. Egli infatti è siciliano, e di ciò almeno noi non abbiamo colpa, quindi di una regione che della autonomia ha fatto pessimo uso. Ebbene con quale faccia egli vieta alla Lombardia di avere le stesse facoltà gestionali di cui gode (inutilmente, per cronica inettitudine) la Sicilia? La quale, se fa schifo, non è responsabilità dei lombardi bensì dei concittadini di Cusenza. In Italia le regioni autonome sono cinque. Perché non averne sei o sette? Sul punto il direttore del Messaggero, come tutti i meridionali, tace o tergiversa. In silenzio stanno anche i giornaloni nazionali e le tivù più importanti. Gli addetti alla informazione sono quasi tutti terroni e terrorizzati alla idea che Lombardia e Veneto cessino di versare palanche sotto il Po. La questione è molto semplice. Ciascuno è obbligato a vivere del suo, come si diceva una volta. Nessuno impedisce al Mezzogiorno di creare imprese, posti di lavoro e ricchezza. Le popolazioni meridionali utilizzino i finanziamenti statali per realizzare infrastrutture, cioè le basi per incrementare l’economia. Non si illudano di campare in eterno alle spalle degli odiati nordici, che sono stanchi di essere sfruttati quali bancomat. Il mese prossimo lombardi e veneti pertanto voteranno sì al referendum per essere padroni del loro portafogli. Non c’è nulla di ideologico né di razzistico nella ricerca della autonomia, solo l’esigenza di essere uguali alla Sicilia e di dimostrare ad essa che tale autonomia si può sfruttare per crescere e non per sprofondare in un mare di debiti palermitani. Vittorio Feltri

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 16.03.2017. Da oltre mezzo secolo ascolto discorsi e leggo articoli che auspicano la crescita del Mezzogiorno. I politici meridionali in particolare predicano in continuazione che è necessario investire al Sud per migliorare le condizioni generali del Paese. Belle parole, ma soltanto parole. Fatti concreti se ne sono visti pochi, se si escludono vari foraggiamenti a pioggia distribuiti nelle regioni più disastrate dello Stivale, denaro non utilizzato poi per creare infrastrutture, bensì per arricchire mafie e oligarchie. Cosicché il divario tra il ricco Nord e il resto della penisola non è mai stato colmato. E oggi siamo ancora qui a blaterare sul modo per aiutare i terroni (senza offesa) a essere un po' meno terroni. I soliti pistolotti vacui, la solita retorica inconcludente. Risultato, la spaccatura tra le due Italie è sempre più profonda. Quando si dice che la politica è incapace di fare progetti e di realizzarli ci si attiene al realismo più crudo. Oltretutto, le cose non migliorano neanche per forza di inerzia, ma peggiorano. Per risollevare la Calabria e la Sicilia, prima Berlusconi e dopo Renzi si erano messi in testa di costruire il ponte sullo stretto di Messina. Una idea del cavolo ma comunque un'idea. Ovviamente abortita per motivi che è inutile elencare tutti, basta citarne uno: mancavano i soldi.

Ci domandiamo come immaginassero, sia Silvio sia Matteo, di trovare il grano necessario per legare col cemento l'isola alla penisola. Mistero. Sorvoliamo sulle velleità infantili dei due ex premier e veniamo alla più stringente attualità. I deficienti che amministrano la nostra vituperata nazione, per dare una mano ai fratelli calabresi hanno deciso di chiudere l'Aeroporto di Reggio. Perché non rende alle compagnie che gestiscono i voli, che pertanto si rifiutano di seguitare a decollare e ad atterrare nel suddetto scalo. Da giugno in poi i reggini che desidereranno venire a Milano e poi tornare nella loro città saranno costretti a usare mezzi diversi dal jet: il treno (non quello ad alta velocità che laggiù non c'è), l'automobile o la carrozza di San Francesco, cioè i sandali. Vi rendete conto, cari lettori, che avanti di questo passo il Mezzogiorno precipiterà a livelli africani?

Vi pare una mossa intelligente sopprimere l'aeroporto nel capoluogo di una regione che non dispone di altre infrastrutture, visto che l'autostrada è un sentiero accidentato e la ferrovia è ottocentesca? Dato che il ponte tra Scilla e Cariddi non si può erigere, per compensare il buco togliamo anche l'aerostazione e che i reggini vadano a fare in culo, loro, la 'Ndrangheta e la 'nduja. Il ragionamento cretino prosegue. La Calabria ha una sola risorsa importante, il turismo, e noi ci attrezziamo per ucciderlo abbattendo gli aerei perché costano di più di quanto ricavano. Ecco come i nostri meridionalisti del piffero intendono incrementare l'economia del Sud. Non sanno poveri idioti che i trasporti sono un servizio oneroso, questo è pacifico, ma indispensabile per creare giri di affari e quindi ricchezza. Hanno condannato a morte la regione e ne piangono la salma. Sono scemi o delinquenti? Entrambe le cose. Ai calabresi tocca soltanto l'incombenza di ospitare e assistere profughi portatori di miseria, malattie e problemi sociali. E ci stupiamo che essi preferiscano la mafia allo Stato.

"Guardatevi allo specchio e poi sputatevi": Feltri, lo schiaffo a (certi) napoletani, scrive il 13 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". Il Vesuvio è in fiamme. Chi ha appiccato il fuoco? Persone del posto, ovviamente, criminali che nessuno ha ostacolato e dei quali non si scoprirà mai l'identità per un motivo banale: essi agiscono grazie a una rete di complici che pascolano nella malavita locale, attiva più che mai, e sono al servizio di boss potenti.

Lo stesso fenomeno si registra in Sicilia dove non c' è verso di scoprire né gli autori materiali degli incendi né i loro mandanti, i quali non agiscono a capocchia, ma sono mossi da loschi interessi. Di fronte al fuoco che si propaga a grande velocità e su vasti territori, la maggior parte dei cittadini punta il dito accusatore sullo Stato, dice che l'autorità è inesistente, assente. Non c' è anima che si chieda cosa facciano le migliaia di guardie forestali, pagate dalla pubblica amministrazione, per sorvegliare le zone loro affidate ed evitare che siano incenerite. Il sospetto, anzi la certezza, è che si grattino il ventre e non svolgano neanche distrattamente i compiti loro assegnati in cambio di una buona retribuzione. Secondo la vulgata meridionale la colpa di ogni sfacelo è sempre del mitico Stato, quasi che questo fosse una divinità demiurgica. In realtà lo Stato che manifesta le proprie forze, o debolezze, a Napoli o a Palermo, è lo stesso presente a Pordenone e a Conegliano Veneto, per altro incarnato prevalentemente da funzionari del Mezzogiorno emigrati per questioni alimentari, i quali se al Nord sono efficienti significa che non sono stupidi e indolenti. Se sono bravi quassù perché laggiú sono asini? Evidentemente il problema nasce dal condizionamento ambientale. Non c' entra l'antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell'ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfettamente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perché analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c' entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non é stato provocato da calamità naturali: i napoletani - non tutti per carità - si sono bruciati da sé. Si guardino allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Vittorio Feltri

Il dopo referendum sarà il vero problema. Secondo il giurista Mario Speroni, nel caso in cui prevalga il sì molto dipenderà da chi vincerà le prossime elezioni, scrive Michele Mancino su "Varesenews.it" il 12 ottobre 2017. Il prossimo 22 ottobre si terrà, in Lombardia ed in Veneto, un referendum, al fine di ottenere una maggiore autonomia, da parte dello stato italiano.  Il quesito iniziale, che era il seguente  “Volete voi che la Regione Lombardia, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’art.116, 3° comma, della costituzione?” – e quindi piuttosto generico – è stato ora modificato con il decreto del presidente Maroni n.683 del 28/5/17, che indice il referendum per il 22 ottobre prossimo, utilizzando, per la prima volta, il voto elettronico. Esso suona così: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”. Lo stesso presidente Maroni – al meeting di CL di Rimini del 22 agosto– ha poi dichiarato: «Se vinco presenterò richiesta per ottenere lo statuto speciale in Lombardia. Voglio le stesse condizioni della Sicilia», creando un po’ di confusione, perché la maggiore autonomia, prevista dal referendum del 22 ottobre, non è quella cui fanno riferimento le regioni a statuto speciale – come appunto la Sicilia – che sono indicate dall’art.116 della costituzione italiana. Se la Lombardia dovesse aggiungersi ad esse, sarebbe necessaria una revisione costituzionale, il che prevederebbe lunghissime procedure e quasi certamente un referendum nazionale. Perché gli elettori delle regioni favorite dall’attuale sistema – cioè la grande maggioranza del paese – dovrebbero votare contro il loro interesse? Cerchiamo di essere seri. – Torniamo ora al nuovo quesito referendario. Esso ora chiarisce che le materie di cui si chiede l’attribuzione alla regione sono tutte quelle previste dal 3° comma dell’art.116 della costituzione italiana, nessuna esclusa. Si tratta, quindi, di ben 23 materie, di cui alcune di grande importanza, come l’ “istruzione” – sia nei suoi profili istituzionali, che in quelli contenutistici – l’ “ambiente ed i beni culturali”; i rapporti internazionali – sia con gli stati esteri, che con l’UE e le altre organizzazioni internazionali; il commercio con l’estero; l’ordinamento delle professioni; la ricerca scientifica; la tutela della salute; l’alimentazione; il governo del territorio; gli aeroporti e le grandi reti di trasporto; le comunicazioni; l’energia; le banche ed il credito fondiario regionali. Se tutte queste materie venissero interamente trasferite dalle competenze dello stato a quelle della regione Lombardia, questa diverrebbe un vero e proprio “stato confederato” con la repubblica italiana. Ma – attenzione – l‘art.116 della costituzione italiana non dice così: esso si limita a riferirsi solo “ad ulteriori forme” – oltre a quelle già esistenti – “di autonomia”, negli ambiti suddetti, da conferire alle regioni a statuto ordinario, non al trasferimento delle materie sopra nominate nella loro interezza. E qui la regione Lombardia avrebbe dovuto prima studiare quali competenze effettivamente chiedere, ma questo non è stato fatto, finora. Di conseguenza il cittadino elettore non saprà, votando sì, che cosa effettivamente la regione vorrà acquisire dallo stato. Ciò nonostante – da convinto federalista – auspico che il referendum passi ed il fatto che il PD abbia dato il suo – non so quanto sincero – appoggio, non mi fa dubitare che succederà. Più il governante è vicino – anche fisicamente – al governato, meglio viene gestito il potere – come già rilevava, nel 1944, Luigi Einaudi, esule in Svizzera ed avendo presente l’ordinamento della Confederazione, nel suo articolo “Via il prefetto”, cioè via il centralismo, apparso sul supplemento della “Gazzetta Ticinese”, del 17 luglio 1944, intitolato “L’Italia e il secondo risorgimento”. Il problema è il dopo: passato il referendum, dovranno iniziare le trattative con il governo. Molto dipende da chi vincerà le prossime elezioni. Ma anche una volta raggiunta un’intesa – come prevista dall’art.116, 3° c., della costituzione italiana – la relativa legge dovrà essere approvata dalle due camere “a maggioranza assoluta dei componenti”. Ritengo che ciò sia quasi impossibile, almeno che la regione Lombardia non si accontenti di poco. Dopo tutto, Lombardia e Veneto mantengono, con le imposte statali lì prelevate, gran parte del resto d’Italia, così come ha ben dimostrato il sociologo ed economista torinese Luca Ricolfi – allora vicino al PD – nel suo libro “Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale”, dove dimostra – dati alla mano – come oltre 50 miliardi di euro, ogni anno, se ne vanno ingiustificatamente dalle regioni settentrionali.

Il referendum truffa della Lega a spese degli italiani, scrive il 9/10/2017 Luigi Pandolfi, Giornalista e politologo, su "L'Huffingtonpost.it. C'è poco da fare: nonostante la svolta "italica" di Salvini, il vizio di giocare con i cittadini del Nord la Lega non lo perde mai. È nel suo Dna. L'ultima trovata (in Veneto, a dire il vero, c'avevano già provato qualche anno fa) è il referendum "consultivo" in programma per il prossimo 22 ottobre. Una roba da ridere, se non fosse che costerà milioni e milioni di euro all'erario. In un articolo apparso sul Tempo alcuni giorni fa a firma di Dario Martini, si parlava di un costo complessivo – tra le due regioni - pari a 64 milioni di euro, di cui ben 22 sarebbero serviti per comprare 24 mila tablet per il voto elettronico in Lombardia (916 euro a pezzo). Soldi spesi inutilmente, per chiedere ai cittadini della Lombardia e del Veneto se sono d'accordo acché le loro regioni negozino con il governo centrale una maggiore autonomia su alcune materie di legislazione concorrente e su altre di esclusiva competenza statale (giudici di pace, istruzione, ambiente). Un'opzione prevista dalla Costituzione, che non prevede, tuttavia, alcun referendum, ma, semplicemente, l' "iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali", e, infine, una legge che le Camere dovranno approvare a maggioranza assoluta dei componenti. Ma che significa "materie di legislazione concorrente"? Che già oggi, per queste materie, "spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato". Ergo: su tutta una serie di materie, dalla sicurezza sul lavoro all'energia, dal governo del territorio ai porti (e agli aeroporti), passando per le casse di risparmio, la protezione civile e la valorizzazione dei beni culturali, già oggi le regioni decidono e legiferano, sebbene nel rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento. A rendere maggiormente irritante questa farsa sono i quesiti proposti agli elettori, nei quali non c'è nessun accenno alla materie su cui queste regioni chiederebbero l'autonomia. In Veneto, addirittura, gli elettori saranno chiamati a esprimersi sul seguente quesito: "Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite forme e condizioni particolari di autonomia?". Più o meno come chiedere a un bambino se vuole bene a mamma e papà. Nessuna meraviglia, beninteso: nel 2012 il governatore Zaia, per farsi dire che un referendum sull'indipendenza del Veneto era inammissibile (ai sensi dell'art. 5 della Costituzione), si rivolse all'Avvocatura regionale, che, manco a farlo apposta (sic!), pronunciò un secco no. È il federalismo fiscale? Le magiche risorse che dovrebbero rimanere sul territorio? Macché, tra tutte le "chiamate" dell'articolo 117 il fisco non c'è. Autonomia sì, ma con i soldi di Roma. Non va dimenticato, peraltro, che, nel 2015, la Corte costituzionale aveva già censurato la norma contenuta nella legge n.15/2014 della Regione Veneto (quella relativa al referendum consultivo per l'autonomia), laddove si prospettava che la Regione mantenesse "almeno l'ottanta per cento dei tributi riscossi nel territorio regionale", con la motivazione che la "distrazione di una cospicua percentuale dalla finanza pubblica generale" avrebbe alterato gli equilibri della stessa e i "legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica". Capitolo chiuso. Sul piano formale, quindi, questo referendum è una farsa. Sul piano politico, come è stato riconosciuto da più parti, esso costituisce un mezzo attraverso il quale la Lega nazionalista cerca di rinsaldare il suo rapporto col Nord, recuperando, a pochi mesi dalle elezioni politiche (e a spese dei cittadini), il vecchio argomento dell'autonomia, su cui ha campato per oltre un ventennio. Com'è accaduto in passato – c'è stato un periodo in cui bisognava per forza dirsi "federalisti" -, anche questa volta, la legittimazione arriva dagli "avversari". Sindaci, amministratori, dirigenti locali del Pd che si affannano a dichiararsi per il Sì. Un sostegno ufficiale al referendum arriva, invece, dal Movimento 5 Stelle, che, in questo caso, pensa pure (e dichiara) che i soldi pubblici siano spesi bene ("I soldi spesi per interpellare i cittadini non sono mai uno spreco"). Piccoli e meschini calcoli di bottega, ipocrisia a gogò. Al fondo, problemi atavici di un Paese che, a furia di soffiare sul fuoco degli egoismi, complici stagnazione e disagio sociale, rischia la bancarotta (fraudolenta).

Referendum autonomie. Riscrivere il patto nazionale che ci tiene uniti, trasformando l’Italia in uno Stato federale, scrive il 23 Ottobre 2017 Mario Castellano su "Faro di Roma". Questa mattina, un collega giornalista straniero, pur essendo ottimo conoscitore dell’Italia, esprimeva il suo stupore per il risultato del referendum in Veneto. Abbiamo dovuto spiegargli che la Repubblica di Venezia durò più tempo dell’Impero Romano: esattamente dal 697, quando i profughi da Aquileia, distrutta dalle invasioni barbariche, trovarono riparo sull’isola di Rialto, nell’insalubre laguna, ed elessero il loro primo Doge, Paolo Lucio Anafesto, fino al 1797, quando – con l’arrivo del Generale Bonaparte – i rivoluzionari francesi trasformarono il vecchio regime oligarchico in una Repubblica democratica; la quale ebbe vita effimera, fino al tradimento consumato pochi mesi dopo da Napoleone a Campoformio. Ippolito Niervo ricorda quella pagina di storia, che aveva sentito raccontare da uno dei presenti, nelle “Confessioni di un Italiano”: il “Maggior Consiglio”, composto da tutti i figli maschi delle famiglie nobiliari, votò per la nuova Costituzione, ma ciò fu il risultato di un colpo di mano perpetrato dal settore democratico – molto minoritario nell’assemblea – che comunque deliberò in assenza del numero legale. Si dice anche che Manin, l’ultimo Doge, svenne nel momento di lasciare la sua carica. La bandiera con il Leone di San Marco, ammainata nelle colonie veneziane della Dalmazia, era letteralmente intrisa di lacrime, ed il testo della loro estrema dichiarazione di fedeltà alla Serenissima, redatto in lingua regionale, veniva imparato a memoria nelle terre chiamate in seguito “irredente”. Dall’altra parte, i fautori dell’Unità – durante il Risorgimento – citavano come prova della decrepitezza dei vecchi Stati regionali, e quindi della necessità di superarli, il fatto che le uniche unità militari a difendere l’indipendenza fossero quelle composte dai mercenari “schiavoni”, cioè sloveni: i soldati veneti, cioè “italiani” – non mossero un dito. Se la fine della Repubblica fu ingloriosa, era stata gloriosa la sua storia, durata esattamente millecento anni. Di quella vicenda rimane testimonianza nella vitalità delle lingua regionale, l’unica ancora parlata correntemente nell’Italia Settentrionale: quello che impropriamente chiamiamo “dialetto” fu sempre impiegato nei documenti ufficiali, mentre tutti gli altri “Antichi Stati” avevano adottato da tempo l’italiano; l’ultimo era stato il Piemonte, sotto Emanuele Filiberto, nel sedicesimo secolo. Perduta l’Indipendenza, il Veneto godette di una condizione privilegiata nell’ambito dell’Impero Austriaco, che mantenne l’italiano come lingua ufficiale ella sua Marina Militare anche dopo il 1866, in omaggio alla sola Trieste. La Regione di Venezia diede il maggiore apporto all’emigrazione, verso l’estero come verso il resto d’Italia – proporzionalmente più dello stesso Meridione – ma solo dopo l’annessione al Regno sabaudo. Il flusso degli Italiani verso l’estero cominciò in tutte le Regioni a partire da quel momento: la prima a scontarlo fu la Liguria, inglobata nel Piemonte fin dal Congresso di Vienna. In conclusione, possiamo dire che la Repubblica di Venezia fu il più radicato e solido tra gli Stati regionali italiani: la storia narrata dal Manzoni nei “Promessi Sposi”, in cui si compara la prosperità della Bergamasca – “Terra di San Marco”, come proclamò il Cardinale Roncalli nell’assumere la carica di Patriarca di Venezia – con la miseria e la corruzione di Milano, sottoposta al dominio spagnolo, intendeva significare quanto fosse importante e benefica l’Indipendenza anche senza l’Unità. Nel 1848, “l’anno dei portenti”, a Venezia non venne proclamata l’annessione al Piemonte, bensì la restaurazione della Serenissima Repubblica, sotto la guida di due personaggi tra loro agli antipodi, ed anche in pessimi rapporti personali: l’israelita Daniele Manin ed il cattolico integralista Nicolò Tommaseo; segno questo che la rivendicazione dell’Indipendenza – in chiave regionale – era, come si direbbe oggi – “trasversale”. La resistenza dei Veneti alla restaurazione austriaca fu tra i momenti più gloriosi del Risorgimento, caratterizzata da una grande partecipazione popolare: resistettero all’invasore le fortezze di Osoppo e di Marghera, i cui difensori vennero tutti uccisi, e la stessa Venezia; “Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca”, cantò nell’occasione il Poeta Fusinato. E’ quindi comprensibile, dati simili precedenti, che i Veneti chiedano più competenze per la loro Regione. Fin qui le loro ragioni storiche.

Sul piano economico, si ha un bel dire che l’autonomia fiscale non basta di per sé ad assicurare il benessere, citando l’esempio negativo della Sicilia: i Veneti hanno sotto gli occhi l’esempio virtuoso non solo del Sud Tirolo tedesco, ma anche del Trentino di espressione italiana, con cui anzi condividono la stessa lingua regionale. In queste due Provincie, erette in Regione a Statuto Speciale ma anche reciprocamente autonome, il principio per cui l’intero introito tributario deve essere gestito e speso “in loco” ha assicurato un tale livello di benessere che Bolzano preferisce stare dov’è, e cioè né con Roma, né con Vienna. Rimangono le ragioni politiche, che risultano da una miscela tra quelle di radice storica ed identitaria e le altre, di ordine finanziario contingente. Che la Lega abbia basato le sue campagne elettorali su di una costante sostanzialmente razzista, prima contro i Meridionali e poi contro gli immigrati stranieri, è un fatto incontrovertibile.

Il razzismo non può mai essere condiviso, e deve al contrario essere sempre combattuto. Rimane però da vedere se questo atteggiamento può essere superato abolendo la coabitazione forzata tra genti diverse, che acuisce – anziché attenuare – la loro reciproca avversione. Oggi nemmeno si ricorda, in Italia, il contrasto risorgimentale con l’Austria. Non soltanto perché è venuto meno il contenzioso bilaterale, che anzi – risolta nel 1918 la questione detta degli “irredenti” – si era rovesciato, con la richiesta di una adeguata tutela per i cittadini italiani di lingua tedesca abitanti al di qua del Brennero, ma soprattutto perché l’Impero Austriaco, quel “carcere dei popoli” contro cui predicava Giuseppe Mazzini, si è dissolto, lasciando nei suoi antichi sudditi un ricordo perfino nostalgico. Lenin, che aveva studiato il problema delle nazionalità nell’Impero Russo, affermò una grande verità quando disse: “Un popolo che opprime un altro popolo non può essere libero”; in effetti, anche i Russi – e non solo le genti a loro sottomesse – soffrivano a causa dell’autocrazia. L’affermazione di Lenin può essere però letta in un senso più ampio: la Francia e gli Stati Uniti uscirono, sia pure con molte ferite morali, dalla guerra di Algeria e dalla guerra del Vietnam proprio perché le democrazie possono cadere negli errori (e quali errori!), ma sono anche in grado di correggerli senza rinnegare sé stesse.

L’unione Sovietica crollò invece sotto il peso della sua guerra coloniale in Afghanistan e dell’oppressione che imponeva ai popoli del suo impero esterno ed interno; il regime comunista venne condannato dalla sua stessa sclerosi, che lo rendeva incapace di riformarsi. Quella che si è aperta ieri per la Spagna, oggi per l’Italia, domani – forse – per il Belgio e per altre democrazie dell’Europa Occidentale è una prova che mette in discussione la stessa natura democratica di questi Stati: i loro popoli – per usare l’espressione di Lenin – non sono oppressi da un potere, bensì da un problema.

Non si può certo dire che la Spagna opprima la Catalogna, che l’Italia opprima il Veneto, o che il Belgio opprima le Fiandre: l’identità di queste Regioni può esprimersi liberamente, né si riscontra quella sudditanza economica che caratterizzava i territori sotto regime coloniale, condannati alla monocoltura e ad altre forme di sfruttamento in base agli interessi della Madrepatria. Se la Catalogna, il Veneto e le Fiandre soffrissero una simile ingiustizia, i loro abitanti sarebbero più poveri degli (altri?) Spagnoli, Italiani e Belgi: essi godono viceversa di un maggiore benessere. Chi potrebbe in realtà lamentare il permanere di una situazione semicoloniale sono – per motivi storici, politici ed economici – gli abitanti del Meridione d’Italia. I quali – prima o poi – trarranno le conseguenze del trattamento subito. Quel giorno, l’indipendentismo leghista sarà ricordato come la farsa che – nel caso specifico – precede la tragedia, anziché seguirla. Come però si dice in francese, “chaque jour sa peine”, ed oggi siamo di fronte al problema posto dal Veneto di Zaia. Quando in Italia esisteva una classe dirigente degna del nome, dovemmo affrontare una ribellione separatista armata nel Sud Tirolo. Fu subito chiaro che la repressione dei reati non bastava per risolvere il problema, consistente nel diritto di alcuni cittadini italiani di vedere riconosciuta e tutelata la loro specificità culturale, come d’altronde esige la Costituzione della Repubblica. Ne uscimmo applicando il metodo negoziale su due distinti piani: quello internazionale con la Potenza protettrice dei cittadini sud tirolesi di lingua tedesca, cioè l’Austria, e quello interno con i rappresentanti di tale popolazione. La soluzione trovata allora ha fatto sì che questa minoranza fosse classificata dal Consiglio d’Europa come la seconda meglio trattata del Continente, dopo quella di lingua svedese delle Isole Aaland, appartenenti alla Finlandia.

Anche la Gran Bretagna ha evitato che la Scozia se ne distaccasse, in primo luogo accettando il principio dell’autodeterminazione mediante la celebrazione di un referendum concordato; e in secondo luogo concedendo più autonomia in cambio della rinunzia alla secessione. Merito del pragmatismo anglosassone, ma anche del fatto che a Londra – evidentemente – esiste ancora una classe dirigente. Se l’avessimo anche noi, Roma dovrebbe in primo luogo prendere atto del fatto che i Veneti hanno esercitato – in forma pienamente legale e legittima anche dal punto di vista del Diritto interno – il loro diritto all’autodeterminazione: per fortuna non rivendicando l’Indipendenza, bensì soltanto un ampliamento dell’autonomia. Questo non obbliga naturalmente gli organi della Repubblica a concedere loro tutto quanto reclamano: tanto più che bisognerebbe per prima cosa stabilire con precisione quali maggiori competenze vengono richieste per la Regione. La Repubblica è però tenuta – se non vuole vulnerare il Diritto Internazionale, ed aprire per giunta un contenzioso interno foriero in prospettiva dei peggiori sviluppi – ad aprire un negoziato.

Anche i bambini dell’asilo sanno che Zaia è un secessionista dichiarato, dal momento che il suo Partito reclama il distacco dall’Italia, non si sa bene di quali territori: mai si è chiarito, infatti, quali sarebbero i confini della “Padania”. Tuttavia, Roma in tanto si troverà dalla parte della ragione in quanto aprirà un negoziato, concedendo tutto quanto è ragionevole e motivando il rifiuto di ciò che risulta viceversa incompatibile con il principio dell’Unità nazionale: un principio che Zaia afferma, sia pure ipocritamente, di non voler mettere in discussione.

Si dice che accontentare le rivendicazioni del Veneto vorrebbe dire smembrare lo Stato italiano. Questo, però, non è vero: si presenta anzi l’occasione storica – che al contempo la è migliore, ma anche l’ultima – per riscrivere il patto nazionale che ci tiene uniti, trasformando l’Italia in uno Stato federale. E’ l’occasione migliore in quanto possiamo ancora far valere nei confronti dei secessionisti le ragioni di chi – essenzialmente i Meridionali – ha pagato e paga tuttora il prezzo più pesante alla causa unitaria. Siamo però dinnanzi all’ultima occasione perché Zaia, posto di fronte al rifiuto, o peggio alla manifesta incapacità da parte del Governo nazionale di aprire un vero negoziato – nel quale le reciproche concessioni sono inevitabili – dapprima innalzerà demagogicamente le sue pretese, e poi dirà ai Veneti che Roma non vuole trattare, che lo Stato italiano li prende in giro.

In quel momento, sarà tardi per salvare l’Unità d’Italia. Ricordiamoci che la crisi catalana è precipitata quando il Partito di Rajoy ha fatto cassare dal Tribunale Costituzionale gli articoli del nuovo Statuto della Generalità che riconoscevano l’esistenza di più Nazioni nell’ambito dello Stato spagnolo, mentre invece occorreva procedere speditamente verso una riforma che lo trasformasse in una federazione. Gentiloni e Renzi corrono ora il rischio di fare una figura ancora peggiore, perché non è questa la rivendicazione dei Veneti, che si accontenterebbero in fondo di qualche soldo e di qualche competenza in più.

Lincoln tentò di impedire la secessione, e la conseguente guerra civile, proponendo ai Sudisti di stabilire le condizioni alle quali sarebbero stati disposti a rimanere nell’Unione. A questo punto, risultò che i Confederati volevano comunque dissolverla, e fu dunque chiaro chi aveva ragione. La statura politica di Rajoy e di Gentiloni non è paragonabile a quella di Lincoln, ma purtroppo neanche a quella dimostrata a suo tempo da Adolfo Suarez e da Giulio Andreotti. E’ vero che Zaia ricorda più i “fire eaters” del Sud che Jefferson Davis, ma non è a lui che dobbiamo chiedere conto della preservazione dell’Unità nazionale. Questa causa si serve dimostrando di essere fermi sui principi e pragmatici nell’azione politica, non già schiavi della retorica ed incapaci di scelte concrete.

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

Referendum leghista sull'autonomia, una pistola puntata contro il Sud! Scrive Natale Cuccurese il 22 agosto 2017. Lombardia e Veneto celebreranno il 22 ottobre prossimo due referendum consultivi per chiedere maggiore autonomia regionale. Li hanno indetti a braccetto due presidenti di Regione leghisti, Roberto Maroni e Luca Zaia, con il sostegno di tutto il centrodestra, ma anche il voto decisivo del Movimento 5 Stelle, che sostiene l’iniziativa anche in un recentissimo post di Grillo. L'idea è quella di sfruttare l'articolo 116 della Costituzione per spingere il Governo a trattare la cessione di maggiori materie di competenza alle due Regioni. Nell’ultimo periodo anche parecchi sindaci lombardi del PD si sono aggiunti ai sostenitori dell’iniziativa, così come negli ultimi giorni il Presidente dell’Emilia-Romagna Bonaccini, escludendo però il passaggio referendario. Interessante rimarcare come prima in Veneto, poi in Lombardia si è saldata un'alleanza necessaria con il M5s per far passare i due provvedimenti nei rispettivi Consigli regionali, dov'era necessaria una maggioranza dei due terzi. I leghisti hanno tenuto i quesiti nel cassetto fino a un tempo per loro propizio. L'anno pre-elettorale del 2017. Una farsa, secondo alcuni dirigenti Dem, come il citato Bonaccini, che si sono invece poi ritrovati a rincorrere Maroni e Zaia una volta annunciata la data della consultazione per il 22 ottobre, anche perché essere contro la richiesta di maggior autonomia fiscale, che è nel Dna di molti cittadini ed imprenditori, potrebbe far pagare al Pd un prezzo alto in vista delle prossime elezioni politiche, forse ancora più alto di quello delle ultime Comunali. Un piano ben strutturato e di lungo periodo quello leghista, che parte da lontano con il “frutto avvelenato” della riforma del titolo V della Costituzione nel 2001. Nella forma, i due quesiti referendari sono però formulati in maniera diversa.

Essenziale, quello del Veneto: "Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?".

Più circostanziato, il quesito che gli elettori lombardi troveranno sulla loro scheda elettronica: "Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?".

E se il testo del referendum veneto si limita al virgolettato sopra riportato, quello lombardo, pur ripetendo la stessa identica frase, la inserisce in un contesto che rende il testo più cauto ed elaborato ma in fin dei conti ancor meno chiaro. Insomma, autonomisti nei proclami ma prudenti nella forma, forse per paura di risvegliare l’elettorato di sinistra (o la Corte costituzionale). Il quesito mescola due questioni, come recentemente analizzato dall’economista Gianfranco Viesti sulla rivista “Il Mulino”. La prima è l’attribuzione di ulteriori forme di autonomia alle regioni. All’articolo 116 della Costituzione si prevede che con legge dello Stato possano essere attribuite alle regioni a statuto ordinario «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», rispetto alla vasta lista delle materie a legislazione concorrente (terzo comma dell’articolo 117), e all’organizzazione della giustizia di pace, alle norme generali sull’istruzione e alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. D’altra parte l’articolo 116 prevede già che le regioni possano prendere l’iniziativa per richiedere maggiori dosi di autonomia, sentiti gli enti locali, senza alcun bisogno di referendum e dei relativi costi (dai 20 ai 50 Milioni di € secondo alcune stime). Strada questa che sembra voglia percorrere il Presidente Bonaccini per l’Emilia-Romagna.

L’iniziativa non precisa le materie sui cui si vuole maggiore autonomia, non nasce dall’individuazione di specifici temi su cui si ritiene sarebbe più opportuna una competenza regionale, ma il vero obiettivo sono le risorse finanziarie che si vogliono trattenere, detto che se si volesse trattenerle tutte si dovrebbe chiaramente parlare di secessione. La maggiore autonomia, infatti, è “a beneficio esclusivo del grande popolo lombardo che si vedrebbe così sgravato, grazie all’autonomia fiscale, di ampie porzioni di fiscalità regionale e godrebbe di uno spettro maggiore di servizi e di un’assistenza rafforzata”. Ma non finisce qui: perché il presidente della Regione Lombardia Maroni è impegnato a convocare un tavolo, dopo lo svolgimento del referendum, composto da tutte quelle regioni che vantano un credito annuale nei confronti dello Stato centrale, per costituire un “Fronte del residuo fiscale”, “applicando il sacrosanto principio, ormai non più trascurabile, che le risorse rimangano nei territori che le hanno generate”. Se vinceranno i Sì, (come probabile, chi mai non vorrebbe più autonomia fiscale in Italia?!) alle due Regioni non saranno attribuite di diritto maggiori forme di autonomia. La trattativa che potrebbe seguire i due referendum, come detto, sarebbe già possibile ora proprio sulla base dell'articolo 116 della Costituzione: è quello che inizialmente il centrosinistra aveva ricordato a Maroni e Zaia, i quali però hanno sostenuto di non essere mai stati ascoltati dai Governi in carica (evidentemente compresi quelli del centrodestra che li hanno visti anche ministri). La norma infatti stabilisce che la singola Regione interessata, sentiti gli enti locali, può chiedere di avere maggiori materie di competenza fra quelle elencate nel successivo articolo 117 in materia di organizzazione della giustizia di pace, ambiente, istruzione, oltre che fra quelle attualmente concorrenti con lo Stato, per un totale di 26 materie, come per esempio il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Una volta firmata, l'intesa fra Stato e Regione deve essere ratificata con una legge, che per essere approvata deve ottenere il voto della maggioranza assoluta dei componenti (non bastano i presenti) delle due Camere. Un iter non scontato e lungo. Il punto da cui nasce la necessità per i leghisti dell’iniziativa è in quel piccolo inciso all’interno del quesito: «con le relative risorse». Il vero obiettivo è quindi ottenere maggiori risorse pubbliche rispetto alla situazione attuale e alle Regioni “non virtuose” ed il referendum serve solo come arma di pressione sul Parlamento, nel caso questa richiesta fosse sostenuta da un forte mandato popolare (necessario un dato superiore almeno ai 5 milioni di cittadini nella sola Lombardia, a detta dei promotori). Così come avvenne in UK nel caso della Brexit. 

Si dice: per trattenere sul suolo regionale una maggiore quota delle tasse pagate dai cittadini. Ma le regole della tassazione e dell’allocazione della spesa nel nostro paese sono stabilite dai grandi principi costituzionali: ad esempio, la progressività della tassazione e l’istruzione obbligatoria e gratuita. Il «residuo fiscale» è semplicemente l’esito, in Italia come in tutti gli altri paesi civili, dell’applicazione delle norme costituzionali in presenza di differenze territoriali nei redditi, utile quindi per il principio di solidarietà redistributiva. Il tentativo del referendum, dietro le richieste di maggiore autonomia, è quindi semplicemente quello di ottenere dallo Stato l’allocazione, in via preventiva, di maggiori risorse, ovviamente sottraendole a tutti gli altri cittadini italiani. È una evidente scelta politica che si colloca nella tradizione egoistica leghista. Tratteniamo per noi più soldi, gli altri, in primis i meridionali, prima spremuti e poi fatti passare, grazie anche alla compiacenza dei media, per spreconi, si arrangino. Una deriva assai pericolosa, con una destra rampante, troppo spesso appiattita sui diktat leghisti, che dopo le elezioni politiche potrebbe trovarsi al governo del Paese e da lì sostenere l’iniziativa con degli effetti del tutto imprevedibili, visto che mira a scardinare gli assetti costituzionali su cui è basato il nostro Paese e a imporre l’egoismo territoriale dei più ricchi. In altre parole le Regioni “povere”, dovranno arrangiarsi con quel poco che passerà il convento romano (a cui sempre bisognerà obbligatoriamente rivolgersi dato il residuo negativo) e cioè ancora meno di oggi visto che verranno a mancare risorse, mentre le Regioni “ricche" potranno mantenere poteri, trattenere risorse e gestirsi autonomamente. Utile rimarcare come le Regioni del Sud non solo siano state messe in condizioni di squilibrio anche grazie alle politiche nazionali che da sempre privilegiano il Nord, ma siano in difficoltà a raggiungere l’utile anche per motivi tecnici. Basta ricordare ad esempio il caso emblematico dello spostamento della sede legale di Alenia, qualche anno fa, dalla Campania alla Lombardia. Spostare una sede legale comporta significative conseguenze fiscali, a cominciare dall’Iva, che è tassa pagata dal consumatore finale direttamente allo Stato ma che successivamente viene girata per circa il 40% – 45% del suo valore alla Regione del produttore. E' un caso fra i tanti che seguono le acquisizioni di aziende del Sud da parte di imprenditori con sede legale a Nord, per non parlare poi di chi produce ed inquina nel Mezzogiorno per arricchire Regioni del Nord, come visto sopra, grazie anche al solito ricatto occupazionale "o salute o lavoro" (Ilva, Basilicata...). Inoltre il Sud, terra di consumatori è penalizzato verso il nord, terra di produttori. Basta guardare le statistiche per vedere che nel solo 2008, nel confronto tra la Lombardia e la Campania, i produttori residenti in Lombardia hanno venduto beni in Campania che hanno sommato un’IVA di circa 20-25 miliardi di euro. Al contrario i produttori residenti in Campania hanno venduto in Lombardia beni che hanno sommato un’IVA di circa 2 miliardi di euro. La differenze tra queste due cifre è andata allo Stato centrale e successivamente è stata trasferita per il 40-45% alla Regione di residenza dei produttori. Come a dire: nel 2008 i campani hanno finanziato in contanti e per circa 10-12 miliardi di euro la regione Lombardia. E questo è solo un anno fra tanti, riferito ad una sola Regione del Sud, la Campania...In altre parole si vedrà sancita una differenziazione di opportunità fra territori nella stessa nazione, alla faccia della proclamata uguaglianza costituzionale che, seppur da sempre solo sulla carta, al momento ci permette ancora di rivendicare legittimamente uguali diritti e uguali servizi. E’ un piano che parte da lontano e che si interseca perfettamente in decenni di politiche pubbliche che hanno incremento uno scarto nel Paese fra Sud e Centro-Nord, come nel caso della disparità di investimenti spesa in opere pubbliche (come da tabella SVIMEZ) che si acuisce a partire dai primi anni novanta, cioè dalle prime affermazioni elettorali della lega nord, riducendosi sempre più fino ad arrivare agli attuali minimi storici. Al nord invece l'intervento è rimasto inalterato o è aumentato. Scarto di investimenti che ora forse permetterà appunto di concorrere a togliere legalmente diritti ad alcuni per dare privilegi ad altri. A questi mancati investimenti statali al Sud si sono poi ultimamente sommate le politiche di austerità europea, che non a caso hanno impoverito tutti i Mezzogiorno d’Europa (come da tabella Eurostat in allegato e come argomentato nel corso della conferenza stampa alla Camera del 27 Luglio scorso insieme a Pippo Civati). 

A questo quadro desolante si aggiunga che il governo sottrae da anni al Sud una notevole quota dei fondi di coesione, destinandoli poi al nord, fondi destinati originariamente alla costruzione di infrastrutture nel Sud. Occorrerebbe a questo punto, come da Rapporto SVIMEZ 2010, la creazione di una Macroregione Sud raggiungendo fra le Regioni del Sud tutte le intese necessarie, ai sensi dell'articolo 117, ottavo comma, della Costituzione, per l'esercizio unitario, anche attraverso l'istituzione di organi comuni, delle funzioni di propria competenza. Seguita dal centralizzare la gestione dei Fondi, ritornando ad un piano del Mezzogiorno e ad una Agenzia destinata a dirigere e a gestire progetti strategici: acque, rifiuti, difesa del suolo, infrastrutture strategiche ecc. In Calabria è in preparazione un referendum in tal senso, proposto dallo stesso centrodestra, anche in funzione evidente di non perdere consensi al Sud, ma a questo punto è una proposta giocata solo in difesa e tutta da definirsi nei tempi (comunque giudicata impossibile dall' On Gianluca Pini della Lega Nord, in una intervista sul QN Nazionale del 22 Agosto in riferimento all'ottenimento dell'autonomia basandosi sull'applicazione dei relativi articoli della Costituzione). D’altra parte la proposta della Macroregione, proprio basata sulla proposta Svimez era, in tempi non sospetti e giocando in attacco (anticipando cioè la propaganda leghista), fra i punti di programma che il Partito del Sud ha concretamente proposto a Michele Emiliano in occasione delle ultime elezioni regionali pugliesi 2015 e che Emiliano ha accettato inserendoli nel suo programma di governo regionale. Detto applicare il riparto che ovviamente serve, come visto, un accordo fra tutte le Regioni e detto che una collaborazione fra diverse Regioni del Sud si è andato a concretizzare pochi mesi dopo l'elezione, soprattutto in occasione del referendum di aprile 2016 contro le trivelle. In definitiva il Sud può uscire da questa stagione referendaria leghista con le ossa rotte, non solo definitivamente indicato al pubblico ludibrio, soprattutto dai media, quale cicala responsabile del proprio stato, ma soprattutto definitivamente marginalizzato, per non dire segregato. Da rimarcare che inefficienze di sistema, politici e politiche inefficienti al Sud ci sono e sono da combattere, non si afferma il contrario, ma ci sono in egual misura anche al Centro-Nord, dove tanti scandali finanziari e non solo si susseguono da decenni. Ad esempio quello recentissimo delle banche, le cui conseguenze e i cui costi sono però ripartiti anche sui contribuenti del Sud, mentre per il Banco di Napoli a suo tempo si agì in modo differente, o meglio consegnando, per problematiche molto inferiori, l’ultima grande Banca del Sud nelle mani del San Paolo di Torino. In poche parole nessuna preclusione verso l'idea di autonomia, anzi ben venga per tutti, ma partendo da pari opportunità. Oggi invece "il gioco" a cui ci vogliono far partecipare è truccato alla radice e va combattuto. C'è chi in questi ultimi decenni ha goduto di tutte le opportunità, pagate da tutti, ed ora si vuole sfilare col "bottino". Per prevenire ogni forma di egoismo territoriale, basterebbe semplicemente applicare il riparto del versamento dell’IVA in base alla sede territoriale della singola unità produttiva in cui la vendita è stata effettuata e non più in base alla sede legale dell’azienda produttrice, anche vincolando tutti i soldi così ottenuti in spesa in opere pubbliche per il Mezzogiorno tramite il governo nazionale. Nei fatti invece il ventennio leghista si concluderebbe così con un “delitto perfetto” contro il Sud. Inutile sottolineare cosa questo comporterebbe per il nostro futuro, con il Sud che già attualmente vede la metà della popolazione in povertà relativa e con una disoccupazione oltre il 30% (quella giovanile oltre il 50%) si possono facilmente prevedere scenari catastrofici, anche per la stessa tenuta democratica del Paese, se non ci si opporrà subito nelle opportune sedi a questa pericolosa deriva. Un referendum consultivo contro il quale è opportuno esprimersi in modo chiaro, anche sotto forma di invito all’astensione, da parte di chi ha a cuore le sorti del Sud e da parte di tutta la sinistra, visto che mira anche nei fatti a formalizzare la creazione di cittadini con opportunità e servizi di serie A e di serie B, il che è semplicemente inaccettabile!

Referendum autonomista: anche nel Salento c’è chi esulta, scrive Marcello Greco il 23 ottobre 2017 su "Tag Press". Andrea Caroppo, Consigliere di “Sud In Testa – Salvini Premier”, parla di risultato straordinario del Referendum: “Cittadini rifiutano decisioni prese lontano ma autonomia impossibile con amministratori inconcludenti”. Fino a qualche anno fa, quando nel sud Italia qualcuno votava Lega Nord c’era incredulità. Perché una persona del sud dovrebbe votare un partito nordista fondato proprio sull’antimeridionalismo e sulla volontà di secessione delle regioni del nord dal resto dell’Italia? Poi dopo qualche anno, un giovane rampollo della Lega Nord, nella corrente dei Comunisti Padani, un politico in carriera dal 1993, prima da Consigliere comunale a Milano, poi da Europarlamentare, di nome Matteo Salvini, riesce a far perdere la memoria a molti meridionali, grazie al suo trasformismo.

Il Salvini del primo ventennio è un padano convinto, indossa le magliette con la scritta “Prima il Nord”, non si sente italiano e non ha una buona considerazione dei meridionali. Alla festa padana di Pontida nel 2009 intonò con altri militanti leghisti un coro razzista contro i napoletani: “Che puzza, scappano anche i cani, sono arrivati i napoletani”. Successivamente (nel 2013) minimizzò scusandosi, sostenendo che si trattò di semplici cori da stadio. Quindi solo un mucchio di parole senza senso, da non prendere sul serio. Come il resto dei suoi discorsi, probabilmente. Nello stesso anno aveva anche proposto di istituire sui mezzi pubblici posti o vagoni riservati ai milanesi. Anche queste parole senza senso, probabilmente. Ma anche le parole hanno un peso, soprattutto per un leader politico. Non si è mai sentito italiano, come ha avuto modo di dichiarare: “Il tricolore non mi rappresenta, non la sento come la mia bandiera, a casa mia ho solo la bandiera della Lombardia e quella di Milano […] e è solo la Nazionale di calcio, per cui non tifo”. Quando era ancora pro-euro dichiarò che “i meridionali l’euro non se lo meritano, la Lombardia e il Nord l’euro se lo possono permettere. Io a Milano – disse – lo voglio, perché qui siamo in Europa. Il Sud invece è come la Grecia e ha bisogno di un’altra moneta”. Nel febbraio 2014 ha dichiarato di aver cambiato idea sui meridionali: “Probabilmente il Sud lo conoscevo poco, ho fatto e abbiamo fatto degli errori”. Vent’anni di pubblici insulti (quelli suoi) per poi ammettere che fossero il frutto di una scarsa conoscenza dei meridionali (in altre parole, pregiudizi). Forse sono tante le cose che conosce poco, magari cambierà idea anche sugli immigrati stranieri, ammettendo fra qualche anno di aver avuto qualche pregiudizio.

La trasformazione salviniana. La trasformazione di Salvini è cominciata nel 2013, con l’elezione a segretario della Lega Nord, intuendo che poteva aspirare ad essere un leader nazionale, contando anche sui voti dei meridionali. Il nemico allora non è più il meridionale, ma l’euro e l’immigrato, il musulmano. Sceglie di seguire la linea dell’estrema destra e smette di essere comunista. Ma il nordismo e la voglia di indipendenza delle regioni del nord sono stati solo tolti dai riflettori, tant’è che è lui stesso a promuovere nel 2014 il referendum in Lombardia per chiedere l’indipendenza della Regione dalla Repubblica Italiana. Nello stesso anno, per presentarsi al sud e al centro celando ogni riferimento alla politica settentrionalista, fonda “Noi con Salvini”, che altro non è che un volto diverso della Lega Nord. Passa il tempo, qualcuno non dimentica, altri lo fanno e il consenso intorno al nuovo Salvini crescono. Nascono i comitati locali e il leghismo viene sdoganato anche al sud.

Non deve sorprendere quindi se c’è chi nel Salento esulta per il risultato del referendum autonomista in Veneto e Lombardia. Ma è stato veramente un successo? Si è votato in sole due regioni e mentre in Veneto ha votato il 57,2% degli elettori, in Lombardia solo il 40% ha deciso di votare.

“I meridionali? Altro che cultura, hanno esportato solo mafia e pidocchi”, scrive il 9 dicembre 2014 Francesco Pipitone su "Vesuvio Live". In occasione delle elezioni europee dello scorso maggio Matteo Salvini e la sua Lega Nord hanno trovato il conquistato qualche decina di migliaia di voti al Sud: 43.180 nella circoscrizione meridionale, equivalente allo 0,75% dei voti; 15.235 voti in Campania, lo 0,66% del totale. Numeri piccoli, ma da non trascurare a causa dell’astensionismo e della capacità dei leghisti di far leva sugli istinti bassi delle persone, sull’intolleranza, sull’ignoranza, fattori che potrebbero determinare un aumento dei consensi per Salvini, specialmente se costui sarà messo a capo di una coalizione di “destra” sostenuta, tra gli altri, da Silvio Berlusconi, il quale ha già fatto sapere che intende elevare il segretario della Lega al rango di goleador. Grazie al potere mediatico di Berlusconi, prima che politico ed economico, ci dobbiamo insomma aspettare una rilevante presenza di Matteo Salvini in Televisione e sui giornali, dove avrà l’occasione di riferire le proprie sciocchezze atte a raggirare i poveri cristi che, pur avendo la memoria corta e capendo poco dei fatti della politica, intendono esercitare lo stesso il proprio diritto di voto: la Lega Nord incrementerà il proprio consenso al Sud, e troppo se non stiamo attenti e non creiamo un’alternativa a questi individui che da 154 anni stanno succhiando il sangue del Mezzogiorno. Non dobbiamo dimenticare i decenni di razzismo praticati dal Nord a discapito del Sud, non dobbiamo dimenticare che ci hanno chiamato e continuano a chiamarci scimmie, marocchini (in senso dispregiativo), terroni, colerosi, mafiosi, pidocchiosi, ladri, assassini, scansafatiche e tutto il resto. Milioni di persone hanno abbandonato la propria casa, la moglie e i figli per andare a produrre al Nord, il quale ha guadagnato con il lavoro degli emigrati del Sud, che vivevano peggio delle bestie in stanze piccolissime e affollate, tenuti alla larga dai signori “perbene” come fossero appestati. “Non si affitta ai meridionali”, questa è l’accoglienza dei nostri fratelli italiani. Su questi sentimenti la Lega Nord ha edificato la propria forza, per poi vedere un crollo dei consensi dopo due decenni in cui non ha fatto niente a parte rubare, e lo dimostrano gli scandali che hanno coinvolto gli uomini di punta del partito del Nord, compreso il fondatore Umberto Bossi che usava i soldi pubblici per pagare il proprio lusso. Nel video seguente potete ascoltare la registrazione di qualche telefonata degli ascoltatori all’emittente Radio Padania Libera, dove emergono il razzismo e il ribrezzo verso i “terroni”, ignoranti e nullafacenti, che hanno rubato il lavoro e esportato solamente la mafia e i pidocchi. Questa è la Lega Nord, votatela.

Quanto costano i referendum in Lombardia e Veneto. Si parla di diversi milioni di euro: la Lombardia spenderà più di tre volte i soldi del Veneto, a causa dell'acquisto di 24mila tablet, scrive sabato 21 ottobre 2017 "Il Post". Il 22 ottobre in Lombardia e Veneto si terrà un referendum consultivo sull’autonomia delle due regioni. Il referendum è stato promosso dalla maggioranza di centrodestra che governa sia in Veneto che in Lombardia, e in particolare dalla Lega Nord, di cui fanno parte i presidenti delle due regioni. La Lega ha difeso il referendum spiegando che in caso di vittoria dei Sì avrà sufficiente credibilità politica per chiedere allo stato una più ampia autonomia delle due regioni. I critici del referendum hanno fatto notare che una simile richiesta poteva essere avanzata senza alcun voto – come previsto dall’articolo 116 della Costituzione e come infatti ha scelto di fare la regione Emilia-Romagna – e hanno accusato la Lega di spendere fondi pubblici per un’iniziativa politica. Ma quanto costano esattamente i due referendum? La Lombardia spenderà molto più del Veneto, quasi 50 milioni di euro contro 14. I costi sono superiori a causa dell’acquisto di 24mila tablet che verranno usati per le procedure di voto e che dopo il referendum verranno donati alle scuole. Solo per l’acquisto dei tablet e dei software relativi, la Lombardia ha speso 23 milioni. Altri 24 serviranno per pagare gli scrutatori e garantire il resto delle operazioni, mentre altri 1,6 milioni di euro sono stati spesi per la campagna elettorale. Per avere un termine di paragone: 50 milioni di euro è più o meno quello che spenderà la Regione fra 2017 e 2019 per finanziare le tariffe agevolate del trasporto pubblico. Il presidente lombardo Roberto Maroni ha definito le polemiche sui costi del referendum «infondate», e ha aggiunto che considera l’acquisto dei tablet «un investimento»: «non sono schede che il giorno dopo vengono bruciate e buttate al macero. Sono strumenti che rimarranno in dotazione alle scuole».

In Veneto invece si voterà come al solito, con carta e penna. In Lombardia non sarà necessario raggiungere il quorum per considerare valido il referendum. In Veneto la legge regionale prevede invece che per considerare valido il risultato debba esprimersi almeno il 50 per cento più uno dei votanti. I seggi resteranno aperti dalle 7 alle 23.

Come è andato il referendum in Lombardia e Veneto? Le 5 cose da sapere. A poche ore dalla conclusione della domenica referendaria nelle due regioni, un primo bilancio dati alla mano, scrive il 23 ottobre 2017 "L'Agi".

Entrambi i referendum (sia quello in Lombardia che quello in Veneto) sono risultati validi. Come prevedibile, i “Sì” sono risultati nettamente maggioritari (oltre il 95% in Lombardia, ben il 98% in Veneto). Trattandosi di referendum consultivi, non avranno effetti legali diretti e immediati. Ma il segnale politico c’è, ed è forte, e “autorizza” i governi delle due regioni ad avviare una trattativa con il governo dello stato centrale per ottenere una maggiore autonomia in una serie di ambiti di competenza.

Il ruolo dell’affluenza. L’affluenza era la variabile più interessante di questi referendum. In Veneto lo era in modo particolare, perché per essere valido il referendum doveva recarsi al voto più del 50% + 1 degli aventi diritto. In Lombardia, invece, non era previsto quorum – e questo a causa delle differenti legislazioni regionali in materia di referendum consultivi. Alla fine in Veneto si è abbondantemente superata la soglia richiesta (con oltre il 57% circa di affluenza) mentre in Lombardia il dato è stato più basso, ma comunque non irrilevante, soprattutto per un referendum (perdipiù consultivo). Il dato politico è rilevante: soprattutto in Veneto, dove oltre il 56% degli aventi diritto è andato a votare e ha votato “Sì”. Per il governatore della regione Zaia si tratta di una incontestabile vittoria politica.

Mappe e caratteristiche dell’affluenza. La mappa dell’affluenza in Lombardia (relativa al dato delle ore 19, poiché mentre scriviamo non è ancora stato diffuso quello definitivo delle ore 23) mostra come ci sia stata un’affluenza nettamente maggiore nelle province (in particolare quella bergamasca) che nelle grandi città: a Milano la partecipazione è stata nettamente inferiore al dato regionale, così come a Brescia e a Mantova. Situazione simile in Veneto. La differenza tra comuni capoluogo e resto della provincia è evidente anche in Veneto: enormi le differenze di affluenza tra città come Padova, Verona, Venezia e Vicenza e quella (media) registrata nei comuni delle rispettive province. Più omogeneo il dato nel caso di Belluno e Rovigo.

Com’è andato il voto elettronico. In Lombardia c’era un’importante novità: si è per la prima volta sperimentato il voto elettronico, votato esclusivamente su dei tablet e abbandonando il tradizionale sistema di scheda cartacea. Il sistema non ha causato particolari problemi agli elettori (anche i più anziani si sono dimostrati in grado di utilizzare correttamente i supporti tecnologici) ma la raccolta dei dati ha presentato diversi problemi. In particolare, per diverse ore non sono stati disponibili i dati sull’affluenza né quelli finali relativi allo scrutinio. Inizialmente era stato messo online dalla regione Lombardia un sito apposito per il computo delle affluenze e dei risultati, ma quest’ultimo non si è rivelato all’altezza ed è stato reso irraggiungibile per gran parte del tempo. Una sperimentazione interessante, ma certamente da rivedere nei suoi effetti pratici.

Chi ha votato di più? Un grafico ci dice molto della natura politica di questa consultazione, perlomeno per ciò che riguarda il Veneto. Emerge una correlazione molto significativa tra la partecipazione al voto (e quindi il favore verso la richiesta di autonomia, viste le percentuali di “Sì”) e percentuali di voto al “No” in occasione del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre 2016. In altre parole, maggiore fu la percentuale di “No” alla riforma costituzionale, maggiore è stata questa volta l’affluenza. In effetti questa correlazione non dovrebbe stupire, visto che nella riforma bocciata l’anno scorso veniva rivista in senso centralista la ripartizione di competenze tra stato e regioni.

Referendum autonomia, scoppia la "rivolta" degli scrutinatori: "Bloccati nelle scuole". "Con il vecchio sistema in mezz'ora ce la saremmo cavata", scrive il 23 ottobre 2017 “Il Giorno”. Referendum Lombardia, a Milano scoppia la "rivolta" degli scrutinatori. "Siamo bloccati all'interno delle scuole", "siamo qui a caso": è questa la protesta di diversi scrutatori che oggi hanno lavorato nei seggi dove si è usato per la prima volta il voto elettronico. Dopo la fine di tutte le operazioni, è necessario attendere di ricevere la conferma che la lettura delle penne usb, che contengono i dati di voto dei singoli tablet, è andata a buon fine. In caso contrario i digital assistants devono ricavarli direttamente dalle memorie interne delle voting machine. "Non possiamo uscire e si prospetta che dovremo restare qui fino alle quattro o cinque del mattino" hanno spiegato da una scuola nella zona di Turro a Milano, convinti che "con il vecchio sistema in mezz'ora ce la saremmo cavata". A due ore e mezza dalla chiusura delle urne, i presidente e gli scrutatori sono bloccati all'interno delle sezioni "senza fare nulla". In una scuola di San Siro a Milano, i presidenti hanno minacciato di andarsene chiudendo i verbali con gli agenti della polizia locale che prospettano loro una denuncia se chiuderanno senza autorizzazione.

Referendum, stravince il Sì. Zaia: «Con questo voto esistono solo i veneti, vogliamo i 9/10 delle tasse», scrive “Il Mattino" Domenica 22 Ottobre 2017. Il referendum in Veneto ha raggiunto il quorum. Alle ore 23, con i seggi chiusi, l'affluenza è stata registrata al 57.2%. Il dato più alto a Vicenza (62.7%) e il più basso a Rovigo (49.9%). Il 98.1% (2.272.970 elettori) ha votato Sì, chiedendo per il Veneto maggior autonomia dallo Stato centrale. Raggiante naturalmente il governatore Luca Zaia, che fino all'ultimo ha spronato i veneti ad andare a votare con un post su Facebook e con un messaggio vocale diventato virale su WhatsApp.  «Ho convocato la giunta regionale per domani mattina per il progetto di legge sull'autonomia - ha dichiarato subito dopo aver saputo i primi risultati ufficiali -. Sarà il nostro contratto da presentare al governo. Penso che con questa elezione si dimostri che non esiste il partito dell'autonomia, esistono i veneti che si esprimono a favore di questo concetto. Noi chiediamo tutte le 23 materie, e i nove decimi delle tasse». «Vincono i veneti, il senso civico dei veneti del "paroni a casa nostra" - ha aggiunto il governatore - Nell'alveo della Costituzione si possono fare le riforme. Il Veneto c'è, i veneti hanno risposto all'appello. Vince la voglia di dire che siamo padroni a casa nostra».

La polemica si è subito innescata tra Roma e il Veneto: da una parte Gianclaudio Bressa, sottosegretario per gli Affari regionali, che ha specificato che di autonomia si parlerà ma non per quanto riguarda il fisco, dall'altra Maurizio Martina, ministro dell'Agricoltura e vicesegretario del Pd, in un'intervista a Repubblica: «Zaia e Maroni potranno avviare lo stesso percorso di confronto aperto dal presidente emiliano Bonaccini», ma «le materie fiscali - e anche altre, come la sicurezza - non sono e non possono essere materia di trattativa né con il Veneto, né con la Lombardia e neanche con l'Emilia Romagna. Non lo dico io: lo dice la Costituzione, con gli articoli 116 e 117 che indicano chiaramente gli ambiti su cui ci può essere una diversa distribuzione delle competenze». Ed ecco che nella mattina dopo la festa per la vittoria del "Sì" arriva la risposta del presidente della Regione Veneto Luca Zaia, intervenendo ai microfoni di RTL 102.5: «Io ero rimasto al punto, e lo dico anche da ex ministro, che Martina si occupa dell'agricoltura e penso che il nostro interlocutore sia il Presidente del Consiglio. Non c'è alcuna volontà di cercare la rissa ma sentirci dire che con una chiamata del popolo come questa la trattativa deve essere come quella dell'Emilia-Romagna che ha chiesto solo cinque materie e a tutt'oggi non ha firmato nulla di valido giuridicamente vuol dire disconoscere il popolo veneto. Se questa è la scelta del Governo ne prendiamo atto, ma me lo dica ufficialmente il Presidente del Consiglio». Il Presidente del Veneto ha elencato poi le prossime mosse: «oggi approviamo la piattaforma negoziale, per cui vuol dire che tratteremo su questa base direttamente con questo Governo. Il problema è che le cose vanno fatte bene, con tutta un procedura chiara e sancita dalla legge - ha chiarito - per questo ho detto che l'Emilia-Romagna non ha firmato un'intesa come prevede la legge ma una dichiarazione di intenti, così è titolata perché tale è, perciò non è vero che l'Emilia-Romagna ha fatto la trattativa». Quindi a lei il "modello" Emilia-Romagna non va bene? «Noi tifiamo per l'Emilia-Romagna affinché porti a casa tutte le competenze scritte in Costituzione, non 5 ma 23, tifiamo per loro - ha concluso -. Per quanto riguarda la richiesta è una richiesta di 23 materie e 9/10 delle tasse, esattamente quello che la Costituzione prevede». «È una bella giornata perché i veneti hanno dato una bella espressione di civiltà, di democrazia e di partecipazione: oltre due milioni e mezzo di cittadini che vanno a votare è un bel segnale», ha concluso Zaia. È Belluno con il 2,6 dei votanti la provincia che ha percentualmente mostrato il maggior numero di no al quesito referendario sull'autonomia in Veneto.  Sono stati 109.533 a votare il referendum per la Provincia di Belluno, pari al 52.25% degli elettori (non conteggiando gli Aire - residenti all'estero la percentuale sale al 66.24%). Il 98.67% ha votato Sì. Al contrario, i più convinti per il sì sono stati gli abitanti delle province di Vicenza e Verona, dove il consenso ha toccato il 98,3%. Interessante il dato sull'affluenza nell'arco della giornata, che dimostra come l'affluenza sia stata particolarmente alta nelle ore serali: complessivamente alle 12 era del 21,1%, alle 19 del 50,1% e alla chiusura dei seggi alle 23 del 57,2%, peraltro in una giornata in larga parte dominata, soprattutto al pomeriggio, da forti piogge. Già alle 19 parte delle province venete aveva superato il quorum: si attestava alle 52,1% a Padova, al 51,7% a Treviso, al 55,9% a Vicenza. Sotto al quorum alle 19 erano ancora Belluno al 45%, Rovigo al 41,9%, Venezia al 47,1%, Verona al 47,2%. Nonostante l'ora tarda i veneti hanno continuato ad andare a votare e così alle 23 il quorum provinciale è stato superato a Belluno con il 51%, sfiorato a Rovigo con il 49,9%, superato a Venezia con il 53,7% e a Verona con il 55%. A quel punto le altre province erano già bel al di sopra del 'tettò del 50% più 1: Padova che ha chiuso alle 23 con il 59,7%, Treviso con il 58,1 e Vicenza con il 62,7%.

Tutto quello che non ha funzionato al referendum, oltre ai tablet, scrivono Alessandro Massone e Stefano Colombo il 23 ottobre 2017 su "The Sub Marine". Mentre scriviamo quest’articolo, non sono ancora stati diffusi i risultati ufficiali dell’affluenza e delle percentuali del referendum per l’autonomia lombardo. Un ritardo clamoroso, se si pensa che i risultati sarebbero dovuti arrivare ieri sera verso le undici e che il costosissimo sistema di voto elettronico era una delle novità più rilevanti della consultazione elettorale e, secondo quanto ha dichiarato Maroni ieri sera, il principale motivo per cui il Movimento 5 Stelle ha appoggiato la consultazione. È difficile analizzare il voto di ieri senza arrivare alla conclusione che Roberto Maroni sarà costretto a dimettersi. Questo ovviamente non succederà, perché viviamo nell’epoca della completa de-responsabilizzazione della politica, e non ci sarà nessuna conseguenza ad aver sprecato risorse e martellato una regione intera di propaganda per un referendum che chiaramente non era sentito come necessario dalla cittadinanza. Il risultato — che commentiamo seppure appunto ancora nebuloso — indica una partecipazione da record–al–contrario, in particolare a Milano. Questo dato mina persino la diffusa critica che il referendum fosse riassumibile nelle volontà autonomiste di una regione ricca rispetto ad un paese mediamente più povero. Non è bastato nemmeno il sostegno quasi unanime delle principali figure politiche lombarde, compresi molti amministratori di centrosinistra che si sono schierati dalla parte del referendum, a convincere la gente ad andare alle urne — ops, ai tablet. Il confronto in termini di affluenza tra Milano e il resto della Lombardia — e rispetto al Veneto — rivela un altro dato: che si sia trattato di un voto largamente mosso da un ampio analfabetismo politico, nutrito di propaganda spesso completamente scollegata dalla realtà, che ha potuto attecchire soprattutto per colpa della mancanza di qualsiasi tipo di opposizione ai messaggi sotto-testuali progressivamente sempre più deliranti della campagna per il Sì. Almeno il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, avrà sperato da qualche parte nel suo cervello elettorale di poter salire sul tanko del vincitore in vista dell’esame prossime elezioni regionali, che si avvicinano sempre più. Invece si ritroverà a salire sul carro della vergogna, almeno davanti alla maggior parte della popolazione lombarda. Il costo esorbitante dei tablet — sostanzialmente l’unica critica mossa dal centro democratico lombardo e dallo stesso Gori — è un utile segnale se letto nel contesto dell’analfabetismo politico: visto che non è in nessun modo un dovere della popolazione essere informata riguardo alla politica e ai suoi codici, il contenuto della politica sta sostanzialmente perdendo importanza di fronte ad un pubblico sempre più influenzabile dalla propaganda. È difficile pensare che questo referendum sarebbe stato possibile anche solo dieci anni fa. Ed è proprio il suo completo vuoto ideologico e tecnico che tenterà i suoi tanti sostenitori, storici e ultimi arrivati di svicolare dalla sconfitta in nuove piroette comunicative. Gori e il suo partito infatti avrebbero potuto impersonare la fazione del buonsenso e spiegare ai cittadini perché questo referendum era, in sostanza, una presa in giro sotto un punto di vista sia economico che politico. Invece ha scelto di essere d’accordo con il referendum dichiarando di andare a votare sì però gli stavano sulle balle tutti i soldi spesi da Maroni quindi uffa il referendum l’avrebbe fatto diverso però insomma alla fine non per fare un favore a Maroni eh però votiamo sì.

Una posizione non chiara. E difficilmente sfruttabile alle prossime elezioni. Cosa sapevano gli elettori che si sono recati alle urne per votare Sì? Erano coscienti delle conseguenze economiche e politiche del proprio voto? Il voto in Veneto e in pianura padana evidenzia un elettorato disagiato, che vota per la proposta che fa stare meglio, senza preoccupazione delle conseguenze. È facile legare le conseguenze politiche — in Veneto ci saranno, in Lombardia no — al risultato del voto, ma si tratta soprattutto di un risultato forzoso, costruito su anni di propaganda e comunicazione politica, anche dal basso, che prometteva molto di più del trattenere qualche euro in più dalle casse dello Stato. Ma se è facile giungere alle conclusioni che Maroni debba dimettersi, idealmente oggi, magari domani se il suo tablet ci mette un po’ a caricarsi, viceversa questa dovrebbe essere occasione generale per un utile esame di coscienza per non solo i politici leghisti, noti per non averne affatto, ma per la classe politica italiana. All’indomani di una campagna elettorale che si preannuncia nucleare, è impossibile non leggere questa campagna referendaria come una sorta di anteprima dei livelli di bassezza a cui assisteremo nei prossimi mesi. Così, mentre non è lecito aspettarsi un vero programma elettorale e propaganda elettorale dalla Lega — o forse da tutto il centrodestra italiano — che non si è mai sforzato in questo senso, è impossibile non riguardare alle dichiarazioni di pancia delle scorse settimane di tanti sindaci e attivisti democratici e chiedersi, ragionevolmente, se loro saranno capaci di produrre un programma elettorale organico: finora, l’hanno sempre fatto. Oggi, è più difficile crederci, e getta ombre profonde sulla credibilità di tutto il Partito democratico alle politiche. Con tatticismo fantozziano, il partito ha deciso di abbracciare una battaglia tradizionalmente nemmeno propria del centrodestra ma della destra vera — ritenendo di non potersi esimere dal coro autonomista. Così, per quanto incredibile possa sembrare, anche a causa di questo atteggiamento fumoso del PD, il vincitore morale di questa manifestazione, o almeno la parte politica che ne trarrà i vantaggi più cospicui, è il centrodestra.

Il Pd, che avrebbe dovuto contrastare in tutti i modi questo voto ha piegato tutti i propri valori scommettendo che questa volta dovesse “dire qualcosa di destra.” Ed è riuscito a perdere anche questa volta, anche insieme alla peggior destra che poteva scegliersi.

Tutti i partiti erano per il sì al referendum.

Referendum. Grillo: “Chi parla di truffa o soldi buttati via fa a pugni con un dato numerico”, scrive il 24 ottobre 2017 "La Prima Pagina". Beppe Grillo ringrazia chi “ha votato e capito questi referendum storici: è la loro vittoria, non della Lega e dei partiti”. E’ quanto scrive il leader del M5S sul suo blog. Il commento arriva dopo il voto in Lombardia e Veneto che ha registrato il successo di partecipazione.

Grillo sostiene che “chi parla di truffa o soldi buttati via fa a pugni con un dato numerico: 5,5 milioni di italiani hanno detto sì all’autonomia”. Il comici genovese rimarca che “l’affluenza è stata alta nonostante la strumentalizzazione della Lega”, “che si è comportata vergognosamente”. “Noi raccogliamo la sfida lanciata da veneti e lombardi”, conclude.

Gli elettori M5S hanno votato come i leghisti al referendum in Veneto. L'analisi dell'Istituto Cattaneo: la promozione dell'autonomia del Veneto è stata percepita come uno strumento da utilizzare contro il "sistema" a cui il M5s si oppone, scrive "Next Quotidiano" martedì 24 ottobre 2017. Secondo un’analisi del voto, effettuata dall’Istituto Cattaneo su tre città – Padova, Treviso e Venezia – in comparazione con le politiche del 2013, anche gli elettori del M5S hanno votato in massa per il sì al referendum per l’autonomia. «A ogni votazione secondo il Cattaneo – “il partito di Grillo” identifica un chiaro obiettivo politico. La promozione dell’autonomia del Veneto è stata, evidentemente, percepita come uno strumento da utilizzare contro il “sistema”». Un dato certamente interessante è quello che mostra in tutte e tre le città considerate gli elettori del M5s unanimemente favorevoli al Sì. Come hanno votato gli elettori dei principali partiti al referendum per l’autonomia (Corriere della Sera, 24 ottobre 2017). In questo caso, la promozione dell’autonomia del Veneto è stata, evidentemente, percepita come uno strumento da utilizzare contro il “sistema” a cui il M5s si oppone. Gli elettori che nel 2013 scelsero il Pd invece si dividono. A prevalere è la scelta del non-voto, a cui aderisce una quota compresa fra il 57% di Venezia e il 66% di Padova. Vi è però anche una fetta rilevante pari a un terzo che, in linea con l’indicazione di alcuni esponenti di questo partito, ha scelto di recarsi alle urne e votare Sì. Vi è infine un 3% che sulla scheda ha votato No. Il risultato della consultazione lombarda è sicuramente meno importante, in termini numerici, rispetto a quello veneto, ma indica comunque la presenza di un terzo dell’elettorato lombardo favorevole alla richiesta di maggiore autonomia nei confronti dello Stato centrale”, prosegue l’Istituto Cattaneo che, in merito ai flussi, osserva: “la partecipazione alle urne è più elevata nelle province del nord-est, in particolare nei territori di Bergamo, Brescia e Sondrio (zone, per inciso, di maggior radicamento della Lega nord). Invece, l’affluenza si affievolisce spostandoci verso sud, con riferimento soprattutto alle province di Mantova, Cremona e Pavia”. “Rispetto al Veneto, dove l’alta partecipazione ha avuto un carattere fortemente trasversale, nel caso della Lombardia l’affluenza sembra essersi maggiormente caratterizzata, almeno a livello geografico, dal traino – non esclusivo ma significativo – della Lega nord”, conclude.

Vi racconto i balletti del Pd di Renzi sui referendum in Lombardia e Veneto, scrive Giuliano Cazzola su "Formiche" il 24 ottobre 2017. Ma il Pd ha una propria linea o continua ad imitare quella degli altri partiti e movimenti? A volte si infila sotto il tavolo dei populisti (ad esempio, con il disegno di legge Richetti sui vitalizi e con la mozione su Bankitalia) nella speranza che gli resti qualche osso da spolpare. In altri casi, come nel referendum lombardo-veneto di domenica, una parte importante di quel partito (le strutture delle regioni in cui si è votato) si è accodata alla Lega Nord e alle altre forze di centrodestra, capovolgendo completamente l’impostazione centralistica contenuta nella legge Boschi di revisione della Carta costituzionale. È vero che alcuni esponenti dem hanno criticato – tardivamente – quella (inutile?) esibizione muscolare. Ma, in politica, quando si vota in un referendum, chi è contrario lo dimostra attraverso la campagna elettorale. Non si limita a stare alla finestra e ad accorgersi, il giorno dopo, di quanto è accaduto. Del resto, a parte le procedure, non mi pare ci sia una differenza sostanziale tra il governatore “rosso” e quelli “verdi”.

Il PD e il Referendum sull’autonomia della Regione Lombardia, scrive Maurizio Montanari su "PD Monza" l'11 Ottobre 2017. Andando all'incontro sul referendum pensavo ai miei conoscenti sicuri sulla posizione da tenere: “Ci si astiene! il PD è sempre stato contrario a questo referendum! Perché Gori e alcuni Sindaci ora sono per il Sì?”. Immaginavo di non trovare i miei conoscenti all'incontro e questo articoletto è stato scritto pensando al loro. Parto da una di quelle “chicche” che arricchiscono questi incontri. Nel 2007 la richiesta di maggiore autonomia venne approvata da tutto il Consiglio regionale lombardo, compresi DS e Margherita. Venne quindi dato mandato a Formigoni di trattare con il governo di allora guidato da Romano Prodi. Caduto Prodi, Formigoni venne convocato ad Arcore dal neo primo ministro Berlusconi. Indovinate chi trovò con Berlusconi? Gli allora ministri Roberto Maroni e Luca Zaia (sì proprio loro!). In quell’incontro Formigoni si sentì dire che la richiesta di autonomia lombarda doveva essere lasciata cadere! Certo che le persone vengono proprio prese in giro da una certa politica che vorrebbe essere popolare e populista…. La “chicca” è stata raccontata da Formigoni in una recente intervista ed è stata riportata da Enrico Brambilla. Veniamo ai contenuti veri e propri dell'incontro. Le posizioni dei due relatori: Enrico Brambilla a favore del non voto e Roberto Invernizzi per il Sì. Ma, entrambi, favorevoli ad una richiesta di maggiore autonomia nell'ambito di quello che viene chiamato “federalismo differenziato”. Ed entrambi concordi sull’inutilità di questo referendum che costerà circa 50 Milioni di euro, tanto quanto la Regione spende per tutti i piani di zona socio-sanitari. Il consiglio della Regione Emilia Romagna ha approvato, col voto contrario della Lega Nord!!!, una richiesta di maggiore autonomia su alcune materie (tutela del lavoro, istruzione, commercio con l’estero, rigenerazione urbana, tutela della salute e dell’ambiente, governance locale; qui il link per chi volesse approfondire), evitando lo spreco referendario. Spreco che, ricordo io, in Lombardia è passato con l'approvazione del Movimento 5 Stelle. Certo i grillini sono “animali strani”: si indignano per i biglietti gratuiti dati negli stadi ai consiglieri comunali (costo per la comunità qualche centinaio di euro) e minimizzano una spesa inutile di 50 Milioni di euro. Spesa inutile? Sì inutile! Anche il prevalere del Sì non comporterà alcuna conseguenza a breve termine. Per di più allo scadere della legislatura e quindi con la necessità di aspettare la formazione del nuovo governo per intavolare qualsiasi trattativa. Altre informazioni emerse riguardano i messaggi scorretti contenuti nel sito istituzionale della Regione Lombardia. Prima di tutto la promessa di trattenere in Regione almeno la metà del residuo fiscale per un importo pari a 27 Miliardi di euro. Enrico ha spiegato che il residuo fiscale consiste nella differenza tra le tasse raccolte in Regione e i servizi ricevuti dallo Stato e ha valutato la cifra di 27 Miliardi assolutamente spropositata. A questo proposito l'ottenimento di una maggiore autonomia comporta non il trasferimento di più soldi ma quello di nuove competenze. Infine Maroni sta dicendo che chiederà più autonomia su tutte le 23 materie possibili. Anche su questo Enrico si è detto scettico: che senso avrebbe portare a livello regionale le decisioni sulle grandi reti di trasporto e di navigazione? Per finire le mie conclusioni dopo l’incontro: al referendum non andrò a votare dovremo, come PD, riprendere la discussione sulla forma e sui contenuti di una maggiore autonomia. Per esempio riusciremo a proporre alle prossime elezioni regionali un modello di sanità diverso da quello costruito da Formigoni e Maroni? Costoso e che sta indebolendo la Sanità pubblica a favore di quella privata.

Referendum autonomia, Maroni: "Grazie ai sindaci Pd per il sì". Referendum autonomia, Maroni "tira le orecchie" ai Cinque Stelle e ringrazia i sindaci del Pd schieratisi a favore del sì. Intanto Galli attacca Martina, scrive Lunedì, 9 ottobre 2017, "Affari Italiani". "Se vince il sì, con qualsiasi percentuale, andrò a Roma per iniziare le trattative. Se vince il no, fine delle trasmissioni e non si parlerà più di autonomia": così il governatore lombardo Roberto Maroni. Che ha anche rivolto un pensiero ai sindaci del Pd favorevoli alla consultazione: Voglio ringraziare tutti gli amministratori in particolare i sindaci del Pd" che si sono impegnati per il 'si'' al referendum per l'autonomia della Lombardia. I sindaci dem lombardi, ha sostenuto Maroni, hanno dimostrato di saper "anteporre l'interesse dei cittadini agli ordini di partito". "Io l'ho fatto per Ema, ho dato la disponibiltà" del Pirellone, "avendo la Lega contro", ha ricordato. Maroni non ha voluto dare previsioni sull'affluenza e su quale sarà il limite entro il quale considerare il referendum un successo o un flop. Diversamente dal Veneto, in Lombardia non c'è il quorum, ha ricordato, "a me interessa capire se vince il sì o vince il no". "Più saranno i sì più potere negoziale io avrò" nella trattativa col governo, ha garantito, ribadendo che se l'affluenza sarà alta chiederà un accordo per "tutte le competenze" per cui può negoziare più autonomia. E sulle scelte in casa Pd è intervenuto anche Stefano Bruno Galli, a capo del gruppo consiliare "Maroni Presidente - Lombardia In Testa" al Consiglio regionale lombardo e relatore del referendum per l'autonomia della Lombardia: ""La crepa che attraversa il Pd sul tema dell'autonomia non potrebbe ricevere rappresentazione più surreale che nella città di Bergamo. Da una parte Giorgio Gori, sindaco e promesso sfidante (e le primarie?) di Roberto Maroni, ha capito da tempo che se non si fosse schierato per il sì al referendum per l'autonomia della Lombardia non avrebbe avuto senso nemmeno scendere in campo per le Regionali del 2018. Dall'altra parte, Maurizio Martina, ministro bergamasco e campione di preferenze quando venne eletto consigliere regionale nel 2013, detesta il referendum al punto da vederne solo i costi organizzativi. Un ministro della Repubblica, un lombardo, che davanti all'oggettivo fallimento dell'istituto del regionalismo differenziato, ossia al fallimento che dura da 16 anni di ogni trattativa tra Stato e regioni ex art. 116 terzo comma, non è in grado di guardare oltre ai costi della democrazia, lascia senza parole. Anche perchè Martina è ministro dell'Agricoltura e la Lombardia è la prima regione agricola del Paese. Senso della realtà, visione prospettica, fiuto per il futuro: zero. Ogni considerazione sacrificata sull'altare di un brevissimo calcolo politico". Maroni oggi ha presentato ai sindaci e ai responsabili degli uffici elettorali lombardi il sistema di voto elettronico, introdotto per la prima volta in Italia: "Sarà semplicissimo - ha detto -, basta un tocco per scegliere tra sì, no o scheda bianca", ha spiegato il governatore lombardo Roberto Maroni, simulando il voto davanti alle telecamere.  Le voting machine, ha continuato, chiederanno una conferma del voto e poi un beep segnalerà la conclusione dell'operazione. "A chiusura del seggio la macchina stamperà immediatamente la scheda con il dato del seggio", ha proseguito, "non ci sarà spoglio, nè rischio di brogli, conosceremo immediatamente il risultato del referendum". Nel frattempo il governatore Regionale Roberto Maroni fa il punto sulla campagna verso il 22 ottobre. E tira le orecchie ai Cinque Stelle: "Si stanno impegnando tutti. Non tanto i 5 stelle". Il voto favorevole dei 5 stelle in Consiglio regionale lombardo fu determinante per il via libera alla consultazione. Maroni ha anticipato che sentirà Silvio Berlusconi nei prossimi giorni e lo inviterà a "venire sabato mattina" all'incontro sul referendum organizzato dal coordinamento regionale di Forza Italia a Milano.  "Io ci sarò. Lo sentirò, so che è molto impegnato ma magari un'oretta libera la trova", ha continuato Maroni. "La Lega ha organizzato la chiusura a Bergamo", ha ricordato il governatore lombardo. "Grazie al M5S la sperimentazione sul voto elettronico per il referendum del 22 ottobre è una realtà e rappresenta una grande vittoria per la democrazia, per i cittadini e per la Lombardia. Per l'immediato futuro la possibilità che i cittadini si esprimano con il voto elettronico va ampliata fino alla realizzazione della democrazia diretta; un obiettivo che terrorizza tutti i partiti che hanno dimostrato ampiamente di essere allergici alle urne". Così Andrea Fiasconaro, capogruppo del M5S in Consiglio regionale lombardo.  "Continuano poi le mistificazioni di Maroni sul referendum e dopo le balle sui miliardi di euro arrivano quelle sul M5S. Se dal 22 ottobre si farà qualche passo in avanti in Lombardia sull'autonomia è solo grazie al M5S che, oltre a proporre il quesito e a portare a casa il voto elettronico, sta facendo un lavoro capillare sui territori per smontare le fake news indipendentiste della Lega", ha concluso. Per il sindaco di Milano Giuseppe Sala, il referendum per l'autonomia dalla Lombardia del prossimo 22 ottobre "si poteva evitare perchè è un referendum non deliberativo e si poteva avviare un tavolo di contatto con il Governo". "Pero', posto che ci sarà - ha detto Sala ai microfoni di Rtl 102.5 -, io andrò a votare sì e da parte mia cercherò di spiegare perchè, non è che si può votare sì perchè rimarranno più tasse lombarde ai lombardi, non è vero, ma una maggior autonomia funzionale, quella è auspicabile". "Se la devo dire tutta - ha osservato il sindaco di Milano - penso che questo Paese se vorra' andare avanti con 8000 Comuni, 93 province, 14 città metropolitane, 20 regioni, non va da nessuna parte". Il comitato bergamasco per il 'si' al referendum per l'autonomia della Lombardia ha organizzato per venerdì 20 una cena di chiusura della campagna elettorale cui hanno finora confermato la loro partecipazione, per la Lega, Matteo Salvini e Roberto Maroni, e, per Forza Italia, Giovanni Toti e Mariastella Gelmini. Alla cena - 25 euro alla Fiera di Bergamo - è stato invitato anche Silvio Berlusconi, che invece non è dato presente, sabato mattina, all'evento, sempre sul referendum, organizzato a Milano dal coordinamento lombardo di FI. Nel capoluogo orobico attese circa 2000 persone, tra imprenditori e rappresentano della società civile.

Referendum autonomia, il Pd: "I costi stanno lievitando, siamo già a 55 milioni". La Lega: "E' il costo della democrazia", scrive Martedì 10 Ottobre 2017 "Leggo". A conti fatti il referendum per l’autonomia del 22 ottobre costerà «più di 55 milioni di euro». Lo denuncia il Pd in Regione che sulla spesa per la consultazione già aveva sollevato critiche. Ma ora, secondo il capogruppo Enrico Brambilla, i numeri stanno anche lievitando. «Ormai siamo a un costo di oltre 55 milioni di euro, si tratta di uno spreco di risorse. La democrazia ha un costo, lo sappiamo, ma lo spreco va correlato all’inutilità della consultazione», ha attaccato ieri. Tra le voci principali elencate dal Pd «i 22 milioni per il voto elettronico e l’acquisto delle voting machine, i 24,5 milioni di euro per la gestione della consultazione, con anche i rimborsi ai Comuni, tre milioni per la comunicazione e cinque per l’invio di lettere ai cittadini». Numeri che secondo l’opposizione pesano soprattutto se confrontati con quelli per le politiche per i cittadini. «La Regione Lombardia per i piani sociali dei 1500 Comuni, per esempio – ha detto Brambilla - quest’anno ha stanziato 48 milioni di euro, mentre per il referendum siamo oltre i 55». La replica è arrivata dal capogruppo della Lega Massimiliano Romeo. «Si tratta - ha sostenuto - di costi della democrazia, e quelli del Pd sono «pretesti per attaccare la consultazione». Sul voto i democratici lasciano in ogni caso libertà di scelta, anche se, è la posizione del partito, la consultazione si poteva evitare, aprendo direttamente la trattativa con lo Stato per ottenere maggiori competenze. Ieri sul referendum iri è intervenuto anche l’ex presidente della Regione Roberto Formigoni, mostrando più di una perplessità. «Voterò sì, anche se sono amareggiato e deluso perché l’autonomia è una cosa seria che viene affrontata in modo banale». E ha aggiunto: «Invece il quesito è molto vago, è come chiedere se vuoi bene alla mamma, tutti rispondono sì». E poi: «Se Maroni avesse voluto poteva comunque chiedere di aprire la trattativa in qualsiasi momento».

I preti schierati per il "Sì" benedicono il referendum. Parrocchie venete e giornali diocesani invitano i fedeli al voto: "Sarebbe d'accordo pure don Sturzo, ne parlava", scrive Stefano Filippi, Venerdì 20/10/2017, su "Il Giornale". Il parroco è anonimo, la chiesa pure (è in provincia di Treviso), ma l'assessore regionale veneto Giampaolo Bottacin, leghista, garantisce che è tutto vero: ne fa fede la foto scattata con il telefonino e pubblicata sulla sua bacheca Facebook. È un avviso parrocchiale che invita a votare domenica. «Partecipare al Referendum (la maiuscola è nell'originale, ndr) in massa è un segnale importante che viene mandato alla dirigenza del Paese», esorta il prete. Che poi cita Platone: «Una delle punizioni che ti aspettano per non avere partecipato alla vita politica è di essere poi governato da esseri incapaci». E chiude con un grave monito: «Per un cristiano, poi, è dovere morale assumersi le proprie responsabilità e non far parte della massa degli impotenti e dei vili e che scarica sempre la colpa sugli altri». Impotenti e vigliacchi: il parroco («un prete autonomista come ce ne sono tanti», scherza Bottacin) non va per il sottile. Più argomentata è la posizione della Chiesa veneta, ma il senso è quello: croce sul Sì. «Il referendum è nella legalità e nella legalità va tutto bene», ha detto monsignor Corrado Pizziolo, vescovo di Vittorio Veneto (Treviso). Domenica scorsa vari settimanali diocesani hanno aperto il giornale con titoli sul referendum. Verona Fedele ha pubblicato i pareri di quattro politici locali (lista Zaia, Pd, Cinque stelle, Forza Italia): favorevoli 3 su 4. Guglielmo Frezza, direttore della Difesa del popolo (Padova) e Lauro Paoletto, numero uno della Voce dei Berici (Vicenza) hanno scritto così: «Il referendum c'è. Si poteva certo avviare la procedura per richiedere maggiore autonomia anche senza. Ci si sarebbe riusciti? Forse. Ma con i se, i ma e i forse non si va lontano. Oggi il referendum c'è e vale pena interrogarsi su come fare in modo che sia un'occasione per crescere come comunità, veneta e italiana». L'appoggio non è smaccato ma in Veneto il referendum prevede il quorum del 50 per cento più 1; perciò ogni invito a prendere sul serio il quesito autonomista rappresenta di fatto un endorsement al Sì. Del resto, così ha spiegato Paoletto al Corriere Veneto: «Federalismo e autonomia fanno parte della dottrina evangelica, ne parlava già don Luigi Sturzo. Ora il problema è quale autonomia coniughi solidarietà ed efficienza. Se il Sì avrà ben riconoscibile il marchio del Veneto, sullo sfondo della bandiera italiana, potrà essere davvero fattibile e condivisibile». Autonomia solidale è la parola d'ordine degli ambienti ecclesiastici davanti al referendum. Nelle curie venete si ricorda che vent'anni fa i vescovi del Nordest scrissero all'allora premier Massimo D'Alema una lettera intitolata «Il federalismo dei campanili» avallando le istanze anti centraliste e che la Chiesa stessa, pur essendo una monarchia assoluta, di fatto ha una struttura «federalista» con le diocesi e le Conferenze episcopali: le questioni locali affrontate in autonomia in un contesto unitario. Non si schiera il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia. Dopo aver dichiarato, a proposito della Catalogna, che «l'autonomia è la grande sfida che le democrazie di oggi, in questo periodo, si trovano innanzi», ha fatto sapere che non intendeva prendere nessuna posizione su temi politici, né intervenire «a gamba tesa su competizioni elettorali in atto, a cominciare dai referendum». Invece il nuovo arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, non si è fatto problemi a sollecitare gli elettori a partecipare a «consultazioni importanti per le istituzioni politiche e amministrative» che costituiscono «un'occasione per riflettere, confrontarsi, esprimersi sugli aspetti istituzionali della società civile».

Referendum, Berlusconi: "Soddisfatto, non è contro lʼunità nazionale". "Se Veneto e Lombardia crescono ne guadagna il Paese intero", scrive il 23 ottobre 2017 TGcom 24. Silvio Berlusconi si dice "soddisfatto per il risultato dei referendum della Lombardia e del Veneto, che abbiamo sostenuto con convinzione e con impegno attivo". Secondo il leader di Forza Italia, "era giusto consentire ai cittadini di esprimersi, ed ora è necessario che da questo voto nasca un processo di riforma federalista, che avvicini le scelte di governo alla gente. Non è un risultato che va contro l'unità nazionale, che per noi è sacra". "L'unità nazionale è sacra", dice Berlusconi che aggiunge: "Sono convinto che se Lombardia e Veneto potranno crescere più velocemente, tutto il paese ne guadagnerà". Per il leader di Forza Italia, in una nota. "Il principio di sussidiarietà, quello secondo il quale il pubblico non deve fare ciò che può fare il privato, e nel pubblico le decisioni vanno prese al livello più vicino possibile ai cittadini, è da sempre al centro dei nostri programmi. Gli elettori del Veneto e della Lombardia hanno dimostrato di condividerlo - prosegue Berlusconi -. Ora comincia una fase nuova: credo che toccherà a noi, quando torneremo alla guida del paese dopo le elezioni, dare compiuta attuazione a una riforma che potrà riguardare tutte le regioni italiane".

Autonomia Veneto, Berlusconi: "Sì convinto, non è contro unità", scrive il 13 ottobre 2017 "TgCom24".  Il referendum "non ha ovviamente nulla in comune con le drammatiche notizie che ci vengono dalla Catalogna". "Se il Veneto deve tornare ad essere una delle locomotive d'Italia, ha bisogno di istituzioni che siano in grado di supportare e non ostacolare il lavoro dei veneti. Per questo voteremo 'sì' con grande convinzione al referendum di domenica 22". Lo ha detto il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, precisando che il referendum per l'autonomia "non è contro l'unità nazionale, anzi: un Veneto più libero e avanzato è un vantaggio per l'Italia intera". "Non ha ovviamente nulla in comune con le drammatiche notizie che ci vengono dalla Catalogna - prosegue Berlusconi -. Quello Veneto è un referendum per affermare il principio di sussidiarietà, che è nel nostro programma fin dal 1994.

Berlusconi e le uscite razziste, scrive l'11 ottobre 2016 "Lettera 43". «Una che va con un negro mi fa schifo», disse B riferito a Fico e Balotelli. Ma non è stato un caso isolato. «Che poi, te lo dico, a me una che va con un negro mi fa schifo». No, non è l'ennesimo video rubato di Donald Trump. Arcore, Villa San Martino. Silvio Berlusconi sta parlando amabilmente nel suo salotto con Marysthelle Polanco e altre due ragazze della relazione tra Roberta Fico e Mario Balotelli. «Raffaella Fico…Raffaella…», dice la showgirl domenicana al Cav che le risponde, ignorando di essere ripreso: «A me una che va con un negro mi fa schifo».

«PAPI, ANCHE IO SONO NEGRA». Polanco a quel punto fa notare al gentile e generoso ospite che in fondo anche lei proprio caucasica non è. «Papi, ma io sono negra!». «No tesoro», risponde lui sorridendo, «lascia stare, tu sei abbronzata». Con Polanco quel giorno ad Arcore c'erano anche altre due ragazze accorse per chiedere all'ex premier un posticino in televisione. Come la Fico, oppure come «quella di Sipario» o come Emilio Fede. «Devi chiamare e dire: lui non fa più il direttore, lo faccio io il direttore del Tg4», scherza Polanco che per inciso era l'olgettina che durante i dopocena eleganti raccontò di essersi travestita anche da Ilda Boccassini.

L'INCHIESTA RUBY TER. Il video di 27 minuti, il cui contenuto è stato reso pubblico da Giustiziami, è stato depositato agli avvocati dalla Procura di Milano e proviene dalla rogatoria Svizzera condotta nell’ambito dell’inchiesta Ruby ter. «Abbronzato, bello e giovane» per il Cav era pure Barack Obama. Una dichiarazione del 2008 che fece scoppiare una bufera. Non è stato però l'unico scivolone a sfondo razzista di Berlusconi.

OSSESSIONE BALOTELLI. Il 21 febbraio scorso, festeggiando a Milanello i suoi 30 anni di Milan, era tornato su Balotelli «che è italiano, ma ha preso un po' troppo sole». Quella del calciatore bresciano pare essere una ossessione di famiglia visto che a febbraio 2013 a cadere in fallo era stato pure Paolo. «E adesso», chiuse un suo intervento durante la campagna elettorale il fratello dell'ex premier, «andiamo a vedere come se la cava il negretto di famiglia, la testa calda». Il meglio di sé B. però lo diede nel giugno 2009.

«MILANO? UNA CITTÀ AFRICANA». «Non posso accettare che quando circoliamo nelle nostre città ci sembra di essere, e mi è capitato nel centro di Milano, in una città africana e non in una città europea per il numero di stranieri che ci sono». Città africana nella quale però una giovane marocchina fermata in questura venne fatta rimettere in libertà su pressione di B perché «nipote di Mubarak». Karima El Mahroug forse non era al 100% africana, ma solo abbronzata.

II Mattino del 15 aprile 1995. Ieri sera l'onorevole Berlusconi a "Tempo reale" ha indiret­tamente offeso napoletani e meridionali usando l'aggettivo borbonico in senso spregiativo incorrendo in uno dei più squallidi luoghi comuni che si perpetuano da tanto tempo. Rispondendo ad un articolo comparso sulla Voce molti mesi fa su questo giornale avevo dimostrato l'infondatezza del "facite ammuina", un falso decreto che facendo bella mostra di sé in tanti uffici e in tante case settentrionali e non, morti­fica i meridionali facendoli passare per quello che non sono stati, e noto con amarezza che per ridare alla nostra gente la dignità che gli spetta non basteranno cent'anni. Il lavoro scientifico di denigrazione e di cancellazione della memoria operato per più di un secolo è proprio difficile da smontare. Quando sostengo che noi meridionali veniamo alla luce con delle tare genetiche e siamo quindi un po' mafiosi, un po' camorristi, un po' furbetti, un po' ladruncoli, un po' lazzari non lo dico per piangermi addosso, lo dico solo perché sono i fatti che lo dimostrano. Le pubblicità con i napoletani della Findus o quella della pizza surgelata, oggetto di polemiche in questi giorni ne sono la dimostrazione. Ieri davanti a milioni di italiani Berlusconi ha usato l'aggettivo borbonico per ricor­dare per l'ennesima volta quel falso regolamento di marina che campeggia forse anche nei suoi uffici. Quel "facite ammuina" inventato per denigrare i napoletani, per farli passare sempre e comunque per fannulloni e imbroglioni conti­nua a dilettare la gente soprattutto quella che ci vuole male. E' lo stesso andazzo che fa sì che un manuale Mondadori per le scuole medie riporti come immagine di Napoli capitale del Regno delle Due Sicilie un piccolo e "folkloristico vicolo dei quartieri spagnoli". Berlusconi faccia ricercare i regolamenti della marina napoletana, che fu la terza d'Europa e vedrà che di quel decreto non v'è traccia e se pensa seriamente di ope­rare in favore di quel Sud di cui tutti si riempiono la bocca senza poi far niente o pensando di sradicare ancora una volta i suoi abitanti per farli emigrare di nuovo, magari con una ventina di milioni per incoraggiamento, vedi vicenda dei portalettere, trovi modo di fare ammenda e di rettificare. Se non lo farà saranno i meridionali e i napoletani a regolarsi di conseguenza.

Berlusconi, il ritorno: dal “bidet per scopatori africani” all’apprezzamento per moglie e figlia di Trump, scrive Gisella Ruccia il 15 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Gag, barzellette, freddure, ode per gli animali “esseri senzienti”, battute pruriginose assortite. Silvio Berlusconi non smentisce il suo tradizionale repertorio nel lungo “one man show” tenuto a Ischia per presentare i punti del programma di Forza Italia. Lo spauracchio principale del Cavaliere è il M5S, movimento “pericoloso, incapace e pauperista”, che, a suo dire, ha un frontman chiamato Luigi Di Maio, con un deus ex machina che è nientepopodimeno che il magistrato Piercamillo Davigo: “So che ci sono stati tre incontri tra Grillo, Casaleggio e Davigo che ora smentisce. Guardate chi è Davigo: è un concentrato di odio, invidia e rabbia. I suoi collaboratori dicono che non l’hanno mai visto sorridere nemmeno una volta. Non so perché abbia dei brutti denti oppure perché non ne sia proprio capace”. Via libera quindi agli strali contro i giustizialisti pentastellati, occasione per annunciare la riforma della giustizia secondo Silvio: cambiamento assoluto delle intercettazioni, non appellabilità delle sentenze di assoluzione, pm con stessi diritti degli avvocati della difesa, carcere prima del processo solo a chi commette atti di violenza, per tutti gli altri varrà invece la cauzione, secondo il modello americano. “C’è qualcuno di voi che ancora si fida di dire al telefono alla propria mogliettina un complimento birichino?”, chiede Berlusconi al pubblico. Poi un tributo a Donald Trump: “Che pena vedere i candidati alle presidenziali che gli americani hanno messo in campo. C’è un’incredibile crisi di leadership a livello internazionale. Ora c’è questo signor Trump, di cui ammiro la moglie e la figlia”. Immancabile il ricordo di Gheddafi: “Sono andato nei centri di accoglienza e non ho visto bidet. Ho cercato di dire che erano necessari e ho pensato: ‘Voglio insegnare a questi scopatori africani che anche i preliminari sono importanti’. Vedo che la signora Carfagna in prima fila si è scandalizzata, e questo va bene”. Infine, una battuta sul Paradiso: “Dio mi ha chiamato e mi ha detto: la tua idea di trasformare il Paradiso in società per azioni e quotarla, mi è piaciuta moltissimo. C’è solo una cosa che non capisco: perché dovrei fare il vicepresidente?”

Saviano: «I piemontesi non facevano il bidet». Lo scrittore risponde ad Amandola. Scrive "Lettera 43" il 22 ottobre 2012. Il tweet di Roberto Saviano dopo la dichiarazione del giornalista del Tgr Piemonte, Giampiero Amandola. La frase infelice che il giornalista della Rai, Giampiero Amandola durante il Tgr Piemonte ha espresso nei confronti dei napoletani («Puzzano») ha sconvolto anche il giornalista e scrittore campano Roberto Saviano. Su twitter, lunedì 22 ottobre, ha espresso il suo disappunto: «Quando i piemontesi videro il bidet nella Reggia di Caserta lo definirono oggetto sconosciuto a forma di chitarra». Amandola intanto è stato sospeso. La decisione è stata presa dalla Rai che ha definito il comportamento del giornalista «inqualificabile». Il mister dei partenopei Walter Mazzarri era entrato a gamba tesa: «Spero che chi ha sbagliato paghi. Se la giustizia permette che si sentano i cori che ho sentito io (i cori razzisti cantati allo Juventus Stadium, ndr), è una vergogna. Gli organi competenti facciano quel che si deve. Vale per tutti, che lo facciamo noi o i tifosi Juve. Spero paghino». «VOI LI DISTINGUETE DALLA PUZZA?». A scatenare la furibonda reazione dei napoletani è stato un momento del servizio del Tg regionale piemontese trasmesso sabato 20. «I napoletani sono ovunque, come i cinesi», ha detto un tifoso bianconero. Amandola ha rincarato la dose: «E voi li distinguete dalla puzza, a quanto pare...».

Certo, però, che al piemontese Gramellini la puntualizzazione non è andata giù.

Fogne e bidet, scrive il 23/10/2012 Massimo Gramellini su “La Stampa”. Quando si scriverà il libro più lungo del mondo - l’enciclopedia della stupidità umana - due righe verranno dedicate al servizio trasmesso l’altra sera dal Tg3 Piemonte. Il giornalista inviato a Juve-Napoli per uno di quei famigerati pezzi che si definiscono «di colore» chiede a un tifoso juventino se sia in grado di distinguere i napoletani dai cinesi in base alla puzza. Nella scenetta tutto è grottesco: l’intento ironico incomprensibile e persino il fatto che a discettare razzisticamente sui «terroni» sia un ragazzo dal vistoso accento meridionale. Un tempo il siparietto penoso non avrebbe oltrepassato le valli piemontesi, ma ormai la potenza della Rete amplifica le fesserie. Così la puzza dei napoletani (un po’ meno quella dei cinesi) è diventata argomento di discussione nazionale, riaprendo le solite ferite freschissime che risalgono al Risorgimento. Anche Saviano si è sentito punto sul vivo e ha pensato bene di inzupparci la penna in modo spiritoso: «Quando i piemontesi videro il bidet nella reggia di Caserta lo definirono “oggetto sconosciuto a forma di chitarra”». Vero: in Piemonte all’epoca non avevano i bidet. Però avevano le fogne. Mentre i rimpianti Borbone, per potersi pulire le loro terga nel bidet, tenevano la gran parte della popolazione nella melma. Ora, che agli eredi diretti di Franceschiello dispiaccia di non potersi più pulire le terga nel bidet in esclusiva, posso capirlo. Ma che i pronipoti di quelli che venivano tenuti nella melma vivano l’arrivo dei piemontesi come una degradazione, mi pare esagerato. Vedete un po’ dove ci ha portati quel servizio razzista. Comunque, a scanso di equivoci, per lo scudetto io tifo Napoli. 

Son razzisti anche se comunisti…Scrive Stefano Di Michele per "il Foglio" il 22 ottobre 2012. Prima l'uovo o la gallina? Oppure: prima il bidet o la fogna? Non bastassero le primarie ad aprire epocali questioni a sinistra - sotto le palme alle Cayman o alla pompa a Bettola? - ora è il momento della disputa: ha da considerarsi segno di maggiore civiltà l'oggetto che consente agevolmente di detergere le terga o la destinazione finale, diciamo così, della produzione fuoriuscita dalle stesse? Tra molte dispute che in zona sfiorano temerariamente il sanitario - intese quali questioni che richiedono conforto e spiegazioni di appositi luminari, adesso si è passati più prosaicamente allo scontro intorno ai sanitari - intesi quali manufatti che richiedono innanzi tutto il conforto di capaci idraulici. E' una questione esplosa tutta all'interno del faziano programma "Che tempo che fa" - con un'impennata che a questo punto necessita non solo di meteorologiche previsioni sull'anticiclone, ma anche di condominiali valutazioni sui tubi di scarico. E' come rivedere in campo Sua Maestà borbonica e Sua Eccellenza il conte di Cavour - nella fattispecie, Roberto Saviano (dal Regno delle Due Sicilie) e Massimo Gramellini (dal Regno di Sardegna). Tutto è cominciato con quel giornalista della Rai piemontese che ha avuto la bella pensata di chiedere ai tifosi juventini, in attesa della squadra dei napoletani, se dalla puzza avrebbero riconosciuto i medesimi. A parte la battuta godibile (per non allontanarsi dalla metafora) come una merda di cavallo sotto i piedi, la questione del puzzare più a nord o più a sud ha richiesto l'intervento dei due più avvertiti intellettuali del cenacolo regolato e adunato da don Fazio: appunto Saviano e dunque Gramellini - "i gioielli preferiti", ironizza il Corriere del Mezzogiorno.

Il primo ha espresso subito il suo disappunto igienico-borbonico-antirisorgimentale con un tweet, rievocando lo stupore dei piemontesi quando nella Reggia di Caserta si trovarono davanti l'innovativo bidet, e ignorando sia la forma sia la praticità del manufatto, con gaddiano trasporto lo definirono "oggetto sconosciuto a forma di chitarra" - il che, peraltro, non pochi dubbi accende tanto sullo stato igienico sottostante dei militi nordici, quanto sulla loro personale arguzia.

Gramellini (cavouriano: si desume dal collo delle camicie, oltre che dal ritratto del Conte che spicca sopra il suo letto), non volendo essere da meno, ha immediatamente fatto conoscere il proprio fervido disappunto igienico- savoiardo-risorgimentale sulla prima pagina della Stampa, concedendo l'onore del bidet al napoletano, ma rivendicando ai piemontesi quello non meno fondamentale delle fogne, "mentre i rimpianti Borboni, per potersi pulire le loro terga nel bidet, tenevano la gran parte della popolazione nella melma". Polemica di sostanza e sapori (per non dire odori) forti. Urge in trasmissione rapida convocazione di filosofi e storici a consueta transumanza faziana - oltre alla cara Littizzetto, che dibattendo così spesso tanto del "Walter" quanto della "Jolanda" (nello specifico: Quello e Quella) né sul bidet né sulle fogne dovrebbe mostrarsi impreparata. E all'uovo e alla gallina, pertanto, si torna: si può avere il bidet senza fogne? e se c'hai le fogne ma non il bidet, con le fogne che ci fai? C'è materia per un'intera prima serata su RaiTre, così da consentire alle due colonne portanti della trasmissione di poter pubblicamente e una volta per tutte chiarire la vexata quaestio. E invece del solito raffinatissimo gruppo musicale, al centro dello studio una riproduzione della famosa fontana, da ognuno inteso "pisciatoio", di Duchamp: così che nei pressi, sia Cavour sia Franceschiello possano finalmente liberarsi (di ogni dubbio storico).

Bidet. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il suo nome deriva dal francese bidet, termine che indica anche il pony. L'omonimia è dovuta alla somiglianza della posizione che si assume durante l'utilizzo del bidet con quella della cavalcata del pony. La parola deriva dalla radice celtica bid, col significato di piccolo, e bidein, piccola creatura.

Il bidet inizia a comparire negli arredamenti francesi tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII secolo, ma non si conosce ovviamente né la data certa né il nome del suo inventore. La prima testimonianza certa risale al 1710, anno in cui tale Christophe Des Rosiers, lo installò presso l'abitazione della famiglia reale francese. In realtà i bidet, immediatamente dopo l'introduzione, furono poco utilizzati in Francia; a Versailles ne esistevano in circa cento stanze, ma furono dismessi tutti in una decina di anni. I pochi esemplari usati finirono nelle case d'appuntamenti. Nella seconda metà del Settecento la Regina di Napoli Maria Carolina d'Asburgo-Lorena volle un bidet nel suo bagno personale alla Reggia di Caserta, ignorandone l'etichetta di "strumento di lavoro da meretricio". Secondo l'anedottica l'inizio della diffusione di questo sanitario in Italia coinciderebbe con questo evento e, sempre secondo una leggenda priva di riscontri, dopo l'unità d'Italia, nella Reggia di Caserta i funzionari chiamati a redigere l'inventario dei beni si sarebbero trovati di fronte al bidet che non conoscevano e l'avrebbero catalogato come "oggetto per uso sconosciuto a forma di chitarra". In realtà il bidet si è diffuso in Italia in tempi relativamente recenti dopo il secondo dopoguerra. Tanto i gabinetti comuni delle case operaie dei grandi centri urbani, quanto le latrine contadine ne erano generalmente privi. Ancora negli anni '60 del Novecento non era raro che soprattutto i nuovi immigrati nelle grandi città del nord usassero il bidet come lavatoio per i panni o "pulisci piedi". 

Dal 1900, durante l'età vittoriana, con la diffusione delle tubature all'interno delle case private, il bidet divenne un oggetto utilizzato non più in camera da letto, ma nel bagno, insieme al water, che sostituiva il pitale tenuto in camera.

Nel 1960 invece ci fu l'introduzione sul mercato di un sanitario risultante dall'unione del water con il bidet, particolarmente utile in piccoli ambienti in cui i due sanitari non troverebbero posto; esso è a volte detto "bidet elettronico", ma in Italia non ha incontrato favore e non si è diffuso.

I bidet non sono presenti in tutti i paesi europei: sono comuni solo in Grecia, Spagna, e soprattutto in Italia e in Portogallo, paesi nei quali l'installazione di un bidet fu resa obbligatoria nel 1975. Secondo un sondaggio francese del 1995, è l'Italia il paese in cui il bidet è utilizzato più di frequente (97%), seguito dal Portogallo al secondo posto (92%) e dalla Francia al terzo (42%); in Germania il suo uso è raro (6%) e in Gran Bretagna rarissimo (3%). In America Latina i bidet si trovano in Brasile, Paraguay e Cile, e soprattutto in Argentina e Uruguay, dove sono installati nel 90% delle case private; sono abbastanza comuni anche in Medio Oriente. In Giappone, pur essendo pressoché assenti, sono però sostituiti nella funzione da un sanitario che unisce le funzioni del water e quella del bidet, detto washlet, presente nel 60% delle case private e non raro negli alberghi. In Francia, Paese d'origine del bidet, a partire dagli anni settanta, per ragioni di economia e di spazio, sono raramente installati bidet nei nuovi appartamenti (dal 95% di presenza nei bagni nel 1970, la percentuale è scesa al 42% nel 1993) e una grande quantità di persone ha eliminato il bidet dalla propria casa. Un fenomeno analogo si sta riscontrando in Spagna, dove è sempre più frequente la mancanza del bidet nelle nuove abitazioni e nelle vecchie case ristrutturate, per un uso diverso dello spazio, sebbene gli appartamenti di lusso e con almeno due stanze da bagno continuino a esserne equipaggiati. I residenti di paesi in cui il bidet domestico è raro (come gli Stati Uniti d'America e il Regno Unito, ad esempio) spesso non hanno alcuna idea di come usarlo quando ne trovano uno all'estero. Gli statunitensi hanno visto per la prima volta il bidet nei bordelli francesi durante la seconda guerra mondiale e ancora collegano questo sanitario all'idea che le prostitute lo usassero per lavarsi i genitali in seguito ai rapporti sessuali. I pregiudizi sono comuni tra gli abitanti di questi paesi, che a volte considerano il bidet un oggetto strano e anche sporco; ciò fa parte dei tabù legati all'igiene personale.

Quando al nord ancora mangiavano con le mani...

Dopo il bidet un altro primato meridionale: la forchetta, scrive il 20 ottobre 2014 Angelo Calemme. Lo sapevate che la forchetta con cui quotidianamente tutto il mondo attorciglia gli spaghetti è un’invenzione napoletana? In stretta controtendenza con lo “SputtaNapoli” e le menzognere letture risorgimentali e filosabaude della storia d’Italia diffondiamo questa notizia curiosa che in questi giorni grande clamore e consensi sembra suscitare sul web e, soprattutto, sui social network: la forchetta a 4 rebbi è un’invenzione duosiciliana e, più precisamente, napoletana. La forchetta ha origini antiche e, in base agli ultimi studi storici e archeologici, si presume sia una specificità della civiltà antica, mediterranea e romana. La forchetta venne sin da subito concepita come uno strumento da affiancare ai ditali d’argento con i quali i delicati polpastrelli delle famiglie patrizie greche e romane preferivano non ustionarsi durante i banchetti. Con la scomparsa della civiltà romana d’Occidente la forchetta sopravvisse solo nell’Impero romano d’Oriente e reintrodotta in Europa a partire dal 1003 dai veneziani, in seguito al matrimonio tra Maria Argyropoulaina, nipote di Costantino VIII, e Giovanni Orseolo, figlio del Doge Pietro II Orseolo. In seguito al boicottaggio della Chiesa che la definì un “demoniaco oggetto” essa ebbe una diffusione travagliata per circa 767 anni fino a quando il Regno di Ferdinando IV di Borbone e la regina Maria Carolina, nella persona del gran ciambellano Gennaro Spadaccini, non la secolarizzò, e ridisegnò, con 4 punte, ribattezzandola con il nome di modello broccia o napolitania.

Quest’ultima è la forchetta che tutto l’Occidente in particolare e la ristorazione in generale utilizza quotidianamente e che, solitamente, viene associata alla degustazione degli spaghetti al sugo di pomodoro.

Peccato Gramellini…anche le fogne in Italia sono nate prima al sud.

Fognatura. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Per fognatura (più formalmente sistema di drenaggio urbano o impianto di fognatura, volgarmente chiavica) si intende il complesso di canalizzazioni, generalmente sotterranee, per raccogliere e smaltire lontano da insediamenti civili e/o produttivi le acque superficiali (meteoriche, di lavaggio, ecc.) e quelle reflue provenienti dalle attività umane in generale. Le canalizzazioni, in generale, funzionano a pelo libero; in tratti particolari, in funzione dell'altimetria dell'abitato da servire, il loro funzionamento può essere in pressione (condotte prementi in partenza da stazioni di pompaggio, attraversamenti, sifoni, ecc.). Le prime testimonianze storiche di fognature risalgono ad un periodo compreso tra il 2500 e il 2000 a.C. circa e sono state trovate a Mohenjo-daro, nell'attuale Pakistan. Dai resti si è potuta ricostruire la fisionomia della città che, sotto il livello stradale, presentava una vasta rete di canali in mattoni in grado di convogliare le acque reflue provenienti dalle abitazioni. Anche la città di Ninive, capitale del regno assiro tra l'VIII e il VI secolo a.C. era fornita di una rete fognaria. Le fognature antiche più efficienti furono però quelle di Roma. La prima cloaca romana di cui si abbia notizia risale al VII secolo a.C. e fu progettata per bonificare gli acquitrini che occupavano le vallate alla base dei colli dell'Urbe, e far defluire verso il Tevere i liquami del Foro Romano, di Campo Marzio e del Foro Boario. La realizzazione più importante fu però la cloaca massima, la cui costruzione fu avviata nel VI secolo a.C. sotto il leggendario re di Roma di origine etrusca Tarquinio Prisco. Con la cloaca massima (inizialmente era un canale a cielo aperto ma successivamente fu coperto per consentire l'espansione del centro cittadino), di cui si possono vedere alcuni tratti e lo sbocco presso i resti del Ponte Rotto, i romani ci hanno tramandato uno dei più importanti esempi di ingegneria idraulico-sanitaria. Con la caduta dell'impero, non vennero più costruite nuove fogne e spesso quelle esistenti furono abbandonate. Solo molto più tardi, nel XVII secolo, si sentì nuovamente l'esigenza di costruire fognature a seguito della forte urbanizzazione di città come Parigi e, dal XIX secolo, Londra.

DIECI COSE CHE NON SAI SULLE FOGNE Cosa c'è da sapere sulle fogne? Tante cose, almeno 10. Eccole! Scrive "Focusjunior.it".

1. Fogna, chiavica, cloaca sono tutti nomi che indicano la stessa cosa: un sistema di canalizzazioni per raccogliere e smaltire le acque di scarico. La più antica che si conosca è stata ritrovata fra i resti di Mohenjo-Daro, una città della Valle dell’Indo, nell’attuale Pakistan, e risale al 2500 a. C.

2. Roma può vantare la rete di scarico più efficiente dell’antichità. L’asse portante era la Cloaca Maxima, un canale di scolo sotterraneo che, nel punto di maggiore ampiezza, era alto 3,3 metri e largo 4 metri e mezzo!

3. Le fogne più famose dell’età moderna sono quelle di Parigi. I cunicoli descritti nei Miserabili di Victor Hugo sono una vera città sotto la città: a ogni strada in superficie corrisponde la sua galleria sotterranea, con tanto di segnaletica, per un totale di 2.300 chilometri di percorso.

4. Nell'Ottocento a Londra c'erano solo 24 km di fognature: il grosso dei rifiuti organici finiva nei pozzi neri, che nessuno svuotava. Nel 1858 il fetore era così forte che non si poteva uscire di casa senza un fazzoletto sul naso: ancora oggi è ricordato come l'anno della Grande Puzza.

5. Non era solo questione di odori: la mancanza di igiene era una continua fonte di malattie. Dopo l’episodio della Grande Puzza (v. punto 4), a Londra si iniziarono i lavori per 2.000 km di tunnel fognari che in pochi anni misero fine alle epidemie di colera, prima frequentissime.

6. Mai sentito parlare di coccodrilli nelle fogne di New York? È ovviamente una leggenda metropolitana, ma con un fondo di verità. Nel 1935, sotto la 123a strada fu realmente avvistato (e catturato) un alligatore di 2 m, forse fuggito dal carico di una nave ormeggiata al porto.

7. Spesso nelle fogne finisce anche l’olio usato, che oltre a essere inquinante rischia di provocare danni anche seri. Nel 2013 i tecnici chiamati a ispezionare le fogne di Londra per un’ostruzione, trovarono un enorme grumo di grasso di 15 tonnellate. Per rimuoverlo ci sono voluti 3 giorni di lavoro.

8. Nelle fogne c’è anche chi ci abita. Nel 2013 la polizia di Bucarest ha fatto sgomberare un canale fognario divenuto la dimora di 35 ragazzi. Purtroppo non è una storia nuova: da tempo la sorte dei ragazzi di strada romeni è stata denunciata dal clown francese Miloud, che dal ’92 li coinvolge nei suoi spettacoli.

9. Mai sentito parlare del Musée des Egouts? È il museo delle fogne di Parigi, visitato ogni anno da circa 100 mila persone. Si entra (ovviamente) da un tombino, al 93 di quai d’Orsay, e si percorrono circa 500 metri nel sottosuolo, alla scoperta della storia e del funzionamento della rete fognaria.

10. “Oggi mi sento una cacca”. Al museo della Scienza e della tecnica di Tokyo si è tenuta un’interessante mostra sulle toilette dove, calandosi con uno scivolo in un enorme water, si poteva provare l’ebbrezza di un viaggio virtuale nelle fogne. Obbligatorio, però, indossare un casco protettivo... a forma di escremento!

Le fogne borboniche e la melma… di Venezia, scrive il 24 ottobre 2012 Angelo Forgione. Riflessivo sul bidet e colto da un impeto d’orgoglio piemontese, Massimo Gramellini nega che nella Napoli borbonica esistesse una rete fognaria e dice che dappertutto fosse melma. Lo scrittore si è infilato in un vicolo cieco dal quale è uscito scrivendo su Facebook di voler approfondire la lettura della storia dei Borbone ma non rettificando le sue inesattezze sul giornale dove le aveva scritte. Nella foto tratta da una relazione del Centro Speleologico Meridionale si può notare una fogna borbonica in disuso. Certo, la rete fognaria era statica, proprio perché antica; divenne sempre più inadeguata con l’espansione demografica e urbana, non vi è alcun dubbio, e si arrivò al punto di dover mettere mano al sottosuolo di Napoli all’epoca del “Risanamento”, ma accadde 34 anni dopo l’unità d’Italia, non 5 e nemmeno 10. Del resto, come dimostrano i tecnici del Comune di Napoli in una relazione sugli “interventi di razionalizzazione del sistema fognario cittadino” di qualche anno fa, “il mutato assetto degli insediamenti sul territorio richiedeva interventi urgenti sulla rete fognaria cittadina, in parte risalente ad epoca borbonica”. D’altronde, quando due settimane fa Napoli si allagò per il primo temporale autunnale, tutti i quotidiani si affrettarono a scrivere che “Napoli è dotata di un impianto fognario che risale all’epoca dei Borbone…”. La melma a Napoli? Wolfgang Goethe raccontò nel Viaggio in Italia del 1787 la pulizia delle strade della città dovuta anche ad un formidabile riciclaggio degli alimenti in eccesso che si attuava tra la città e le campagne tutt’intorno, un’operosità che faceva persino in modo che, nonostante girassero numerose carrozze per le strade della città, lo sterco dei cavalli fosse praticamente inesistente. Lo descrisse così: “E con quanta cura raccattano lo sterco di cavalli e di muli! A malincuore abbandonano le strade quando si fa buio, e i ricchi che a mezzanotte escono dall’Opera certo non pensano che già prima dello spuntar dell’alba qualcuno si metterà a inseguire diligentemente le tracce dei loro cavalli”. A Napoli, in pratica, si faceva una specie di “compost” ante litteram. Una pulizia che lo scrittore tedesco (tedesco!) reputò superiore agli altri posti visitati: Trento, Verona, Vicenza, Padova, Venezia, Ferrara, Bologna, Firenze, Perugia, Roma, e poi le città siciliane. E vide pure la melma, si, proprio quella buttata da Gramellini su Napoli, ma non a Napoli bensì a Venezia, che trovò sporchissima. Per la precisione la definì “melma corrosiva” lungo le strade. Inutile far notare che il viaggio in Italia del grande letterato tedesco non passò per Torino. Piuttosto bisognerebbe domandarsi perchè la città pulita del Sette-Ottocento sia divenuta sporca nel Novecento.

Referendum per l’autonomia: pensavamo di essercene liberati, invece ritorna la fiera delle identità, scrive Francescomaria Tedesco il 23 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Pensavamo di esserci liberati della farsa in costume delle identità, di esserci finalmente tolti la zavorra del particolarismo linguistico, culturale e perfino etnico. Lo pensavamo dopo le vicende giudiziarie della Lega Nord, ma anche dopo la svolta “nazionale” di Salvinie di quel partito che aveva smesso di gridare “prima il Nord” (certo, ahimè Salvini si è messo a gridare “prima gli italiani”, non è che sia meglio…). Ma soprattutto pensavamo di esserci liberati di quei bislacchi progetti dopo decenni di studi in cui la linguistica, l’antropologia, l’etnologia, ci avevano detto e ripetuto che le identità sono porose, osmotiche, comunicanti, che le lingue sono vive, e che rintracciare e isolare i singoli “contributi” alla costruzione delle culture è un’opera non solo e non tanto pericolosa (poiché, come dice il poeta, i frutti puri impazziscono), ma inutile. Avevamo letto le Comunità immaginate di Anderson e ci eravamo fatti un’idea sul ruolo del capitalismo-a-stampa nella costruzione delle identità, avevamo compulsato il celeberrimo volume curato da Hobsbawm e Ranger sull’Invenzione della tradizione, che iniziava proprio così: “Le ‘tradizioni’ che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta”. Eravamo anche riusciti a elaborare il fatto che l’invenzione delle identità e delle tradizioni aveva avuto una funzione “ideologica”, e che dunque esse non necessariamente andavano scartate come fanfole e carnevalate. In fondo anche l’identità nazionale è un’invenzione, ci eravamo convinti a ragione. E avevamo però detto, come ha scritto Alain Touraine, che “è perché ci opponiamo risolutamente agli Stati comunitari che rimaniamo attaccati agli Stati nazionali. Poiché in essi delle popolazioni e culture differenti si mischiano per costituire una civiltà”.

Lo Stato nazionale come comunità di diritto e non di destino, in cui non siamo consanguinei per via di una madre comune, ma fratelli posticci, affratellati da un patto (che si chiama Costituzione). Certo, si dirà: questo progetto è nato male, traballante, violento, tranchant, e oggi più che mai è fragile, stretto tra le spinte esterne, la tensione omologante delle istituzioni sovranazionali e internazionali, e le spinte interne. E non è un caso che la rimessa in discussione di quel progetto avvenga nel momento della gravissimacrisi economica di questo decennio, poiché essa spinge verso la rivendicazione del “nostro” suolo, della “nostra” lingua, della “nostra” cultura e – perché no? – dei “nostri” soldi. Così, quello che non era riuscito alla Lega è riuscito alla crisi: rimettere di nuovo in discussione le nostre acquisizioni, minare l’idea della creolizzazione delle culture, rilanciare il progetto di una cristallizzazione e musealizzazione (e ri-politicizzazione) delle identità e delle lingue attraverso fantasiose grammatiche e discutibili alberi genealogici. Con l’esito che dalla critica dello Stato nazionale promanino, attraverso un paradossale avvitamento, progetti di creazione di piccoli Stati nazionali che procedano attraverso gli stessi schemi di quelli: nazione, lingua, cultura, perfino etnia (o addirittura “razza”). Gli stessi schemi, ma senza l’apparato critico che ne è seguito, senza la rielaborazione che ha permesso di mettere all’opera la fictio e passare dall’identità nazionale alla comunità di diritto attraverso la finzione giuridica della cittadinanza. E se oggi dallo Stato nazionale siamo potuti approdare allo Stato tout court, le piccole patrie propongono il ritorno a piccoli staterelli nazionali, comunità di destino. Ma lo Stato nazionale è una fratria inventata, ed è tramite essa che possiamo costruire il vivere insieme. Questo non vuol dire dismettere ogni rivendicazione di autonomia, ma smontare il dispositivo che le sottende quasi tutte. Perché ad oggi non si vedono all’opera rivendicazioni autonomiste o indipendentiste che usino il lessico della comunità di diritto, che segnalino l’esigenza di comunità interconnesse a livello europeo con altre comunità, municipalità, esperimenti di autogoverno. Comunità aperte agli altri, all’integrazione. Ciò a cui si assiste è la recrudescenza delle classiche rivendicazioni nazionali in scala ridotta. E certo, i lombardi e i veneti rivendicano i loro soldi (che poi occorrerebbe capire come calcolare il residuo fiscale, cosa da far tremare le vene e i polsi), ma gratta gratta al fondo c’è l’idea di un tufo profondo, un’identità particolaristica, un “noi” 2.0.

Referendum Lombardia Veneto, a ribellarsi dovrebbero essere le persone del Sud, scrive Alessandro Cannavale il 22 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Oggi, in Italia, una parte di una parte del Paese chiede di tenere per sé più risorse perché in questa fase storica il suo reddito pro capite è più alto e, per mantenere standard di servizi più alti per i propri cittadini, decide bene di spendere circa 70 milioni di euro per un referendum dall’orizzonte quanto meno fumoso. Sempre positivo il ricorso alle urne, ma il fine non giustifica i mezzi, in alcuni casi, dato che le Regioni hanno ben altri strumenti, senz’altro più economici, per invocare più autonomia. È il caso del referendum Lombardo-Veneto, basato sull’idea che troppo alto sarebbe il residuo fiscale delle regioni coinvolte: intorno ai 50 miliardi. In realtà, secondo Paolo Balduzzi, l’ammontare vero di quel residuo, sarebbe circa la metà. Mi pare sempre più frequente il ricorso all’immagine comoda e rassicurante dello steccato, a livello globale. Da Donald Trump, che sostiene: “A Nation Without Borders Is Not A Nation” ai referendum autonomisti, fino alla Brexit. Ovunque, la paura dell’uomo occidentale lo sta portando a erigere muri di protezione: contro i migranti, contro il nemico. Aggiungerei, contro i meridionali. Eppure, in Italia vige ancora una Costituzione. Questa Costituzione sostiene all’art. 117 lett.m che occorre provvedere alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Parole che rischiano di rimanere una dichiarazione formale e vuota, se tutti i cittadini italiani non vedono riconosciuti eguali diritti: la Costituzione rischia sempre più di esser violata nella sostanza e tutto ciò che conduce verso una simile aberrazione è in conflitto con quel dettato, violandone i principi fondamentali. L’esperienza quotidiana insegna, purtroppo, che in molte regioni (meridionali) il livello dei servizi offerti ai cittadini è sempre più basso. Trasporti, sanità, asili, scuola, università. Le migliaia di studenti che emigrano nelle università del Nord e l’emorragia di capitale umano hanno fatto sì che in dieci anni il Sud abbia perso 3,3 miliardi di euro di investimento in capitale umano e 2,5 miliardi di tasse, che emigrano verso le università del Nord. Infatti, il Sud ha perso 716 mila persone, in questi anni, di cui circa 198 mila laureati, solo negli ultimi anni. Queste ingenti somme il residuo fiscale, evidentemente, non le conta. Come il quotidiano acquisto di prodotti e servizi. E che dire della spesa drammatica dei migranti della sanità che, per avere cure migliori, si trasferiscono quotidianamente al Nord con un triste indotto collegato? Chi solletichi le paure e gli egoismi della gente, sa perfettamente che un Pil più alto oggi è il frutto di spese sostenute da tutto il Paese per arricchire aree più sviluppate e farne “locomotori” che avrebbero dovuto trainare tutto il paese. E invece non trainano nulla a quanto pare. Bisognerebbe metter mano alla gravissima discrepanza tra trasferimenti alle Regioni e livelli dei servizi, mettere a nudo l’inettitudine di chi i fondi trasferiti non riesce a metterli a frutto, invece di aggiungere confusione demagogica. Un bell’articolo di Francesco Sabatino su Lettera43 ricorda che “il divario tra Sud e Nord nelle risorse pubbliche va ben oltre il residuo fiscale, anche tenendo conto che i centro settentrionali possono contare sul supporto di un sistema semipubblico come quello delle fondazioni (patrimonio totale di 40 miliardi quasi interamente collocato sopra Roma) o che gli incentivi a fondo perduto sono stati sostituiti da strumenti legati all’acquisto di macchinari e servizi (la nuova Sabatini o i superammortamenti di Industria 4.0) che premiano soprattutto le aree più produttive”. Si fa sempre così, in Italia: anziché metter mano ai problemi si elucubra e si divide nel segno della demagogia. Dove vanno a finire i soldi trasferiti? Perché non si chiarisce questo punto? Perché non si mette il cittadino nelle condizioni di sapere la ragione di questi buchi e di queste disfunzioni? Dovrebbe esser la gente del Sud a ribellarsi, di fronte a tanto spreco di risorse. Infine, le interdipendenze dell’economia globale rendono ridicolo ogni sussulto neonazionalista. Il concetto di confine è superato e scandaloso e rischia di mettere in discussione il più nobile progetto europeo che, pur con gravi defaillance, è riuscito ad avvicinare le popolazioni del nostro continente come mai nella storia. Non confondiamo l’oro con le patacche. Ringrazio Natale Cuccurese per le gradevoli conversazioni sul Sud.

Referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto, le scomode verità da non dire, scrive Lavoce.info il 14 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il 22 ottobre si tengono in Lombardia e Veneto due referendum per “ottenere maggiore autonomia”. Circolano molte inesattezze sui cosiddetti residui fiscali e sulle materie su cui si chiede la competenza. Forse un negoziato avrebbe prodotto più risultati. Di Paolo Balduzzi (Fonte: lavoce.info).

La questione dei residui. Si avvicina la data del referendum sull’autonomia in Veneto e Lombardia. L’obiettivo dei proponenti, dando per scontata una vittoria del “sì”, è quello di ottenere una partecipazione al voto molto elevata. Nel tentativo di suscitare tanto l’interesse di chi è favorevole quanto lo sdegno di chi è contrario, si assiste perciò all’ennesima campagna elettorale farcita di esagerazioni e inesattezze. L’inesattezza maggiore ruota interno ai cosiddetti residui fiscali. Si tratta della differenza tra entrate e spese della pubblica amministrazione riferite a ogni singola regione. Il calcolo dei residui è molto critico, soprattutto per la componente di spesa regionalizzata. Come considerare infatti la spesa per la difesa nazionale, concentrata prevalentemente nelle sole regioni di confine? O la spesa per tutti gli organi costituzionali, localizzata esclusivamente nel Lazio? È evidente che quelle spese devono essere ricollocate anche rispetto alle altre regioni, utilizzando un criterio discrezionale (per esempio, la dimensione demografica). Sull’entità dei residui esistono dunque stime molto diverse. Per esempio, Eupolis Lombardia ha pubblicato uno studio in cui confronta le proprie stime (47 miliardi di euro come media nel triennio 2009-2011 per la Lombardia) con quelle di altre ricerche, alcune più ottimistiche e altre meno. Curiosamente, Eupolis viene citata dai proponenti come fonte di un’altra cifra (57 miliardi) la cui precisa origine, tuttavia, rimane ignota. In entrambi i casi si tratta di numeri abbastanza irrealistici: contributi di maggiore rigore scientifico li hanno stimati in circa 30 miliardi. Ma fossero pure47 o 57 miliardi, il punto è che i residui vengono originati per differenza. È ovvio che se lo Stato concederà autonomia a una regione su una quota, a seconda della dimensione delle competenze trasferite, smetterà di spenderli esso stesso sotto forma di spesa regionalizzata: il residuo fiscale rimarrà dunque identico.

Anche sulle materie trasferite si sono sentite molte inesattezze. Innanzitutto, le regioni possono chiedere di ottenere competenza esclusiva in tutte le materie a competenza concorrente (art. 117 terzo comma, Costituzione). Possono anche chiedere competenza esclusiva su alcune materie che la Costituzione attribuisce in maniera esclusiva allo Stato: organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Quantitativamente, la più rilevante tra tutte è sicuramente l’istruzione, escludendo la sanità che già però occupa in media l’80 per cento dei bilanci regionali.

Cosa farà il governo? Cosa succederà poi il giorno successivo alla chiusura delle urne? Innanzitutto, la regione avvierà l’iter necessario e previsto dall’articolo 116, vale a dire aprirà ufficialmente il procedimento di richiesta e sentirà gli enti locali. In seguito, avvierà la trattativa con lo Stato (il governo). Ora, se la regione avesse a disposizione un criterio tecnico per sostenere la propria richiesta (ad esempio, l’equilibrio di spese e entrate, come era previsto dall’articolo 116 della riforma costituzionale bocciata nel 2016), il governo avrebbe poche armi a disposizione per dire di no o per non procedere (come avvenuto in tutti i tentativi precedenti). Sulla base del semplice risultato di un referendum, invece, il governo avrà certamente più libertà e discrezionalità nel temporeggiare e nell’argomentare contro la sua valenza politica. Infatti, c’è un pericolo sottovalutato dai proponenti del referendum: che il governo decida di non dare alcun credito alla consultazione per mandare un segnale alle altre regioni. In altri termini, se domani il governo concede maggiore autonomia a Lombardia e Veneto sulla base di un referendum, è lecito aspettarsi che dopodomani anche le altre regioni a statuto ordinario organizzino un’analoga consultazione. Ma è difficile credere che il governo sia disposto a concedere maggiore autonomia a tutte le regioni italiane. Come scoraggiare quindi referendum di questo tipo? Dando poco peso a quelli già svolti. Ciò non vuol dire che Veneto e Lombardia non otterranno nulla: ma quello che otterranno, se lo otterranno, arriverà sulla base di criteri tecnici e non politici. L’articolo 116 contiene un richiamo ai principi dell’articolo 119. Tra questi, vi è anche quello organizzativo di garantire l’equilibrio tra entrate e spese a seguito della concessione di maggiore autonomia. Certo, è una cosa ben diversa dal criterio selettivo che è rimasto escluso dall’articolo 116; è comunque con molta probabilità l’unico che sarà fatto valere. Ci si sarebbe potuti arrivare direttamente per via negoziale (come sta cercando di fare la regione Emilia-Romagna), senza il rischio di un flop referendario che – quello sì, invece – metterà la parola fine alle velleità di (maggiore) autonomia delle regioni per i prossimi dieci o venti anni. Con buona pace di chi sostiene un referendum a soli fini meramente ed egoisticamente elettorali.

Se già son razzisti tra loro…

Referendum, la rivincita del «Leon» e i malumori veneti nei decenni di Lega a dominio lombardo. Da anni e anni i leghisti veneti soffrivano verso gli amici lombardi di una sorta di sudditanza venuta meno, probabilmente, solo ieri, scrive Gian Antonio Stella il 23 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Né con Roma, né con Milano!», diceva uno striscione alla «Festa dei Veneti» indetta una decina di anni fa dalla associazione «Raixe Venete», cioè radici venete, nata «co l’intento de tegner viva la identità…». Va da sé che l’altra sera, davanti alla schiacciante superiorità percentuale dei veneti sui lombardi al referendum per l’autonomia, non c’è leghista da Peschiera a Bibione che non abbia fatto l’occhiolino al vicino: «Tò!». Per carità, Roberto Maroni si è precipitato a precisare subito che «non c’era nessuna gara con Luca Zaia». E il governatore veneto è andato più in là dicendo che non si è trattato d’una vittoria del «Leon che magna el teròn» e meno ancora del Carroccio: «Questa elezione dimostra che non esiste il “partito dell’autonomia”, esistono i veneti che si esprimono a favore di questo concetto». Scelta che fa dire a Bepi Covre, a lungo parlamentare leghista poi espulso («solo dai trevisani») che «il giovanotto è cresciuto. Molto. Ha imparato a muoversi con intelligenza. Per questo deve restare qua. Guai se dovesse ascoltare certe sirene romane. Col referendum abbiamo fatto lo zaino con la borraccia, i panini, la corda e tutto quel che serve per scalare la montagna. La scalata, però, deve ancora iniziare. E sarà durissima».

«In difesa della lingua, dei costumi e delle tradizioni veneta». Certo è che da anni e anni i leghisti veneti soffrivano verso gli amici lombardi di una sorta di sudditanza venuta meno, probabilmente, solo ieri. Sudditanza sfociata non di rado in malumori sotterranei e aperte contestazioni. Basti ricordare l’«era berlusconiana» della legislatura trionfalmente iniziata nel 2001. Lombardo era il segretario del partito e ministro per le riforme Umberto Bossi (come il suo successore Roberto Calderoli), lombardo il ministro della giustizia Roberto Castelli, lombardo il ministro del lavoro Roberto Maroni, lombardo il capogruppo alla Camera Andrea Gibelli, lombardo il primo e il terzo dei capigruppi al Senato Castelli e Pirovano, lombardi tre su quattro degli europarlamentari a Bruxelles, lombardo il direttore del quotidiano la Padania, lombardo il direttore di Radio Padania Libera e via così. Per non dire dei segretari: il «quasi a vita» Umberto Bossi, Roberto Maroni e Matteo Salvini. Tutti e tre, ovvio, lombardi. Senza che mai sia stata manco ipotizzata una candidatura padovana, veronese o trevisana. Era scontato: il potere era lì, tra Milano e Varese. Eppure i primi a tirar su la testa autonomista erano stati i veneti. Racconterà mistico Franco Rocchetta: «La prima volta che dissi che volevo fondare la Liga fu il 18 agosto 1968, nella chiesa di Santa Maria di Danzica». Conosceva il polacco? «Neanche una parola». E allora? «Come cominciai a parlare le parole presero a sgorgarmi naturalmente...». Polacchi a parte, i pionieri veneti decisero di dar vita nel lontano dicembre ’79 a un partito che si trattenesse «in difesa della lingua, dei costumi, delle tradizioni venete». Fondato ufficialmente l’anno dopo, in uno studio notarile di Padova.

Lo strappo di Comencini. Primi a metter su la Liga Veneta, primi ad eleggere nel 1983 un deputato e un senatore presto espulsi da Rocchetta («il padre della madre di tutte le leghe») e dalla moglie Marilena Marin, primi a raccogliere nell’87 quasi 300.000 voti mancando il quorum per un soffio, primi ad allearsi con Umberto Bossi e la Lega Lombarda nata nel frattempo per fondare nell’89, dal notaio, la Lega Nord. Dalla quale sarebbero stati poi espulsi lasciando agli archivi parole infuocate: «Riconosco le mie colpe: pensare con la mia testa ed esser coerente coi miei ideali legittimati dal voto popolare in quel Veneto che si ostina a non essere colonia politica dei pretoriani della “Legaboss”». Di più: «Bossi è ormai come Hitler nel bunker con Erminio Boso al posto di Eva Braun. Certo, Erminio non ha la stessa femminilità ma ama il Capo con la stessa “vis amandi”». Arsenico. Fatto sta che per anni e anni la «Liga» è rimasta fedele al Senatùr, avendone in cambio la parata annuale veneziana in riva degli Schiavoni, lo spostamento del sedicente Parlamento della Padania nella villa vicentina «La Favorita» a Sarego e poco più. Inquieta ma fedele. Nonostante certe battute bossiane di rivendicazione della primogenitura: «L’effetto Lega è ormai uscito definitivamente dalla Lombardia entrando in Piemonte, in Liguria e in Emilia Romagna, con un solo anello debole: il Veneto». Fedele ma inquieta, tanto da spingere nel ’98 allo strappo l’allora segretario veneto Fabrizio Comencini: «Avevamo votato con Giancarlo Galan una risoluzione per l’autonomia del Veneto. Fu letta come una rivolta venetista. Uscì sulla Padania un articolo firmato “Il Capitano” che diceva peste e corna, sostenendo che io non avevo capito che era una manovra di Berlusconi per rompere la Lega». Fu espulso insieme con quattro parlamentari e sette consiglieri regionali.

«Più Liga e meno Lega». Un malessere carsico, quello «lighista». Un malessere che per tanto tempo ogni tanto si inabissava e tornava a galla. Come quando una dozzina di anni fa saltò la mosca al naso perfino a Giancarlo Gentilini, l’ex sindaco-sceriffo di Treviso, che finì per sbottare contro i «lumbard» dopo l’ennesima «prepotenza» rovesciando su di loro l’accusa più rovente: «La Lega veneta è sempre forte, forse troppo, e può darsi che questa forza e questo consenso popolare abbiano messo sul chi va là qualche esponente romano della Lega Nord». Peggio: «C’è sempre qualcuno, in questo ambiente, che è pronto a piantarti un coltello nella schiena non appena volti le spalle. E io penso che qualche responsabile della Lega a Roma abbia azionato il coltello». «Più Liga e meno Lega», sarebbe diventato lo slogan di tanti venetisti insofferenti. E questo, come gli riconoscono anche gli avversari, è forse il vero miracolo compiuto da Luca Zaia forzando sul referendum. Essere riuscito a tenere insieme, al voto di domenica, senza sventolare troppo la bandiera del partito, tante anime diverse. I fedelissimi e gli scontenti, i tiepidi e gli entusiasti e perfino un po’ di espulsi che comunque sono riusciti a ritrovarsi. Oltre a tantissimi che, come dicono i numeri, non sono mai stati leghisti e magari mai lo saranno. Gli sarebbe andata bene, dirà lui, anche se l’affluenza fosse stata altrettanto massiccia in Lombardia. Il distacco sui lombardi, però, non è solo «lo sfizio» supplementare. C’è di più. Molto di più...

Lombardia e Veneto ci guadagnano di più con il sì al referendum? I vincitori rilanciano l’idea di trattenere più soldi delle tasse, ma più autonomia significa meno spesa dello Stato. La somma resterebbe la stessa, scrive Luca Zorloni il 23 ottobre 2017 su "Wired". Le urne dei referendum sull’autonomia indetti da Lombardia e Veneto si sono chiuse senza sorprese, almeno sotto il profilo politico. La vittoria del sì con percentuali bulgare era nell’aria. Le due regioni sono a guida leghista e di quell’ala della Lega che ancora sostiene le politiche secessioniste e federaliste che hanno ispirato la fondazione del movimento. C’è stata una convergenza di altri partiti sul sì, come il Pd. E più in generale nelle province di Lombardia e Veneto l’argomentazione del “Nord vessato da Roma per coprire le spese degli altri” ha gioco facile. Lo stesso quesito è risultato a molti osservatori quasi scontato nella risposta. Tuttavia l’esito della consultazione, costata 14 milioni di euro in Veneto e 50 milioni in Lombardia, di cui circa la metà è servita a comprare i tablet per votare, che non hanno funzionato a dovere, avrà riflessi diretti sulle tasche dei contribuenti delle due regioni? È probabile che gli elettori restino delusi.

Le campagne per il sì sono state incardinate sul principio del residuo fiscale: a veneti e lombardi lo Stato centrale restituisce meno di ciò che versano. L’autonomia, nei loro piani, dovrebbe servire a trattenere più tasse. “È ovvio che se lo stato concederà autonomia a una regione su una quota, a seconda della dimensione delle competenze trasferite, smetterà di spenderli esso stesso sotto forma di spesa regionalizzata: il residuo fiscale rimarrà dunque identico”, è la conclusione a cui giunge su lavoce.info l’accademico Paolo Balduzzi. Balduzzi è docente all’università Cattolica di Milano ed è stato nella commissione per la revisione della spesa pubblica, guidata da Carlo Cottarelli. Contesta i numeri sui residui fiscali della Lombardia, stimati dall’istituto statistico regionale Eupolis per il 2009-2012 in 47 miliardi di euro, diventati poi 57 miliardi “la cui precisa origine, tuttavia, rimane ignota”. “In entrambi i casi si tratta di numeri abbastanza irrealistici: contributi di maggiore rigore scientifico li hanno stimati in circa 30 miliardi”, aggiunge. Lo stesso studio di Eupolis evidenzia che le altre regioni con un alto residuo fiscale sono, nell’ordine, Emilia Romagna, Lazio e Veneto, che oscillano tra i 13 miliardi e gli 11 miliardi.

In un’analisi comparata delle entrate fiscali e delle spese delle Regioni la Banca d’Italia, gli autori, Alessandra Staderini ed Emilio Vadalà, osservano che “i residui fiscali finiscono spesso, impropriamente, per essere presi come indicatori del finanziamento da parte del Nord delle inefficienze e degli sprechi che caratterizzano le finanze pubbliche nel Mezzogiorno”. Ma, spiegano, “dalla nostra analisi è emerso come il problema delle finanze pubbliche del Mezzogiorno non vada ricercato nell’esistenza di residui positivi, perché, come si è mostrato, a parità di dimensioni dell’operatore pubblico e dato il divario di sviluppo economico tra le due macro aree del paese, essi non possono cambiare di segno e non possono comunque scendere sotto una soglia minima”. Al contrario, aggiungono, “il problema delle finanze pubbliche meridionali risiede nella qualità dei servizi ricevuti dai cittadini, nel fatto cioè che essa sia in media nettamente inferiore al Sud, nonostante un livello di spesa pro capite analogo”.

I due referendum, quindi, difficilmente potranno confermare le promesse dei governatori di Lombardia e Veneto, Roberto Maroni e Luca Zaia, di trattenere più soldi nelle loro casse. Con questo mandato, più forte per Zaia perché ha posto un quorum del 50%+1 e l’ha superato, i due politici potranno negoziare spazi di manovra nelle materie che il titolo V della Costituzione assegna alla legislazione “concorrente” di Stato e Regioni. Temi come il commercio con l’estero, il lavoro, l’istruzione e la formazione professionale, la ricerca scientifica, le infrastrutture di trasporto e di comunicazione, energia e previdenza, casse di risparmio ed enti di credito fondiario. Le Regioni potranno chiedere di gestire con maggiore autonomia settori che influenzano la vita economica dei loro territori, che le possono rendere più competitivi all’estero e creare maggiore ricchezza per le famiglie. Nel 2015 la Lombardia ha generato un pil di 357.200 milioni di euro, pari a 36.600 euro a testa, e il Veneto di 151.634 milioni di euro, di 31.600 euro pro capite. La somma è quasi un terzo del prodotto interno lordo italiano e il valore pro capite è più elevato dei 27.800 euro della media nazionale. Il governo ha tutto l’interesse a sminare una campagna politica che potrebbe generare reazioni a catena e quindi a concedere qualche risultato per appagare il fronte del sì senza sollevare una corsa all’autonomia delle altre regioni. Sarà un lavoro di lima. Ma il residuo fiscale resterà fuori dai giochi. I primi a non guadagnarci sarebbero gli stessi lombardi e veneti.

Referendum sull'autonomia, i numeri del divario Nord-Sud. Rispetto alle tasse pagate, nelle due Regioni non tornano complessivamente 8.400 euro per cittadino. Dal crollo degli investimenti nel Mezzogiorno alla fuga di braccia e cervelli: la situazione ai raggi X, scrive Francesco Pacifico il 21 ottobre 2017 su "Lettera 43". Prima della crisi ogni cittadino della Lombardia, rispetto alle tasse pagate, si vedeva restituire quasi 6 mila euro in meno rispetto a quanto aveva versato. Il Veneto ha visto scendere da quasi 3 mila euro a poco meno di 2.400 la differenza. Contemporaneamente la Campania, che storicamente ottiene in trasferimenti più di quanto versa in tributi, ha perso quasi 1.000 euro procapite, la Sicilia 375. Sulla Voce.info gli economisti Paolo Di Caro e Maria Teresa Monteduro hanno chiarito quanto valgono i residui fiscali nelle Regioni che sono andate al referendum. Non a caso il cavallo di battaglia dei governatori Roberto Maroni e Luca Zaia, che in nome della perequazione e con questo voto chiedono una non meglio specificata autonomia, che potrebbe tradursi in minori trasferimenti verso il centro, mantenendo più risorse sul proprio territorio. Eppure questo dato rischia di creare confusione, perché il divario tra Sud e Nord nelle risorse pubbliche va ben oltre il residuo fiscale, anche tenendo conto che i centri settentrionali possono contare sul supporto di un sistema semipubblico come quello delle fondazioni (patrimonio totale di 40 miliardi quasi interamente collocato sopra Roma) o che gli incentivi a fondo perduto sono stati sostituiti da strumenti legati all’acquisto di macchinari e servizi (la nuova Sabatini o i superammortamenti di Industria 4.0) che premiano soprattutto le aree più produttive.

CROLLO DEGLI INVESTIMENTI AL SUD. Tra il 2015 e il 2016 il Sud è cresciuto più del Nord perché la spesa per investimenti (+2%) ha guardato soprattutto in direzione della parte più debole del Paese. Un’eccezione, perché non sempre le cose sono andate così. Soltanto nel 2014 la spesa pubblica in percentuale del Pil in conto capitale era calata nel Mezzogiorno del 2,1% contro lo 0,8 del Centro-Nord, con un effetto depressivo sia sui servizi sia sui consumi. Non a caso lo Svimez ha fatto notare che soltanto negli anni della crisi, «a livello settoriale, c'è stato un crollo epocale al Sud degli investimenti dell'industria in senso stretto, ridottisi dal 2008 al 2014 addirittura del 59,3%, oltre tre volte in più rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (-17,1%)».

CERVELLI E BRACCIA IN FUGA. Prima del riequilibrio avuto con i nuovi parametri di valutazione della ricerca, l’università meridionale si è vista tagliare le risorse di un valore superiore al 15%. In base alla qualità dei servizi offerti e alle altissime aliquote legate al dissesto dei conti della sanità, i cittadini meridionali finiscono per spendere di più proprio attraverso strumenti di rientro come i ticket. Ed è anche per questo che nel Mezzogiorno, come avverte la stessa Svimez, circa 10 abitanti su 100 vivono in povertà assoluta, contro i sei del Centro Nord. Senza contare che negli ultimi cinque anni sono emigrati dall’area più debole del Paese 1,7 milioni di persone a fronte di 1 milione di rientri: la perdita secca è stata di 716 unità, il 72,4% under 34 e 198 mila i laureati. Cervelli e braccia che per lo più stanno arricchendo il Nord con il loro lavoro e le loro competenze.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…

Dal Piemonte alla Basilicata, tutti vogliono l'autonomia: "Inizia l'era del neoregionalismo". Dopo il voto in Lombardia e Veneto, sono moltissime le regioni a volersi accodare. Al nord come al sud. Salvini: «Proporremo referendum ovunque». Ma c'è anche chi non ci sta. Il governatore della Toscana Rossi: «È solo un tentativo di mascherare i veri problemi», scrive Federico Marconi il 23 ottobre 2017 su “L’Espresso”. Adesso tutti vogliono l’autonomia. L’esito del referendum in Lombardia e Veneto, che si aggiunge al protocollo d’intesa firmato dal governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonacini con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, ha aperto il dibattito in moltissime regioni italiane. Poco dopo la chiusura delle urne, Roberto Maroni aveva annunciato «l’inizio di una nuova stagione del neoregionalismo». E le reazioni del giorno dopo gli danno ragione. Dalla Puglia alla Toscana, dal Piemonte alla Basilicata, non c’è regione che non voglia ridiscutere con il governo le competenze attribuite dalla Costituzione. «Proporremo a tutte le regioni che lo chiederanno un referendum per l’autonomia» gongola il segretario della Lega Matteo Salvini: a leggere le dichiarazioni di giornata, non saranno pochi i consigli regionali che si tireranno indietro.

La Liguria è in trepidazione: vuole essere tra le prime regioni a seguire Veneto, Lombardia e Emilia. «Siamo pronti sia a celebrare un referendum, sia a trattare a livello parlamentare. C’è voglia di autonomia, di valorizzare le autonomie locali, di maggiori poteri a sindaci e regioni» afferma il governatore ligure Giovanni Toti. Che chiede una riforma ampia degli statuti regionali: «Il governo dovrebbe aprire un dibattito serio e vero con la Conferenza delle Regioni e tutti i governatori, e le forze parlamentari dovrebbero iniziare a scrivere una riforma costituzionale che parta proprio da quella richiesta di maggiore autonomia e maggiori poteri che arriva dai veneti e dai lombardi».

In Piemonte scaldano i motori. «Preso ci sarà un referendum anche qui» afferma il segretario regionale della Lega, Riccardo Molinari. «Abbiamo già una legge pronta, depositata dal Gruppo della Lega in Consiglio regionale, abbiamo costituito un Comitato apolitico che sta lavorando per informare i cittadini sui benefici dell'autonomia» continua Molinari «basta solo la volontà del presidente Chiamparino per partire. Chiediamo, quindi, al presidente di far approvare la nostra proposta di legge in modo da dare voce nel più breve tempo possibile ai cittadini piemontesi oppure di proporne una propria, che se andrà nella direzione di una consultazione popolare in tempi certi avrà il nostro appoggio».

In Campania, il governatore De Luca sembra più cauto. Non parla di referendum, ma si inserisce nella linea di chi chiede riforme. «Se la sfida è quella dell'efficienza, del rigore, della gestione corretta delle risorse, io sono davanti ai nostri amici lombardi e veneti» afferma De Luca. «Per quanto mi riguarda va bene anche un ragionamento sul riparto delle risorse, a condizione però che non si faccia il gioco delle tre carte» continua l’ex sindaco di Salerno «vi sono ambiti nei quali il Sud è fortemente penalizzato, a cominciare da quello della sanità». Porta l’esempio della regione Campania che «viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi e ai nostri concittadini perchè considerata la regione più giovane Italia. Questo è un assurdo».

Sempre al Sud, un altro governatore Dem vuole aprire il dibattito su una maggiore autonomia. Ma non attraverso una chiamata alle urne dei cittadini. «Non ho i soldi per fare un referendum. Faremo una cosa più tranquilla, faremo un grande forum regionale nel quale tutti coloro che vorranno discutere di questa ipotesi della autonomia diranno la loro» ha affermato il presidente della Puglia Michele Emiliano. «Noi abbiamo una legge sulla partecipazione molto evoluta ma anche molto economica» continua «spenderemo poche decine di migliaia di euro».

Anche in Basilicata c’è bisogno «di un nuovo patto democratico, di una rinnovata democrazia lucana che parta dall'attuazione dello Statuto, approvato dopo anni di attesa, sino ad un contesto normativo che contempli la nuova legge elettorale, un nuovo assetto delle funzioni dei diversi livelli istituzionali accompagnato da risorse come il fondo unico per gli enti locali». Lo ha affermato il consigliere regionale Piero Lacorazza, per cui la vera sfida non è non è «invocare un'indipendenza o un'autonomia pasticciata poiché le piccole patrie non sono la risposta per ridurre i rischi e far crescere le opportunità della globalizzazione».

«Proporremo il referendum anche in Lazio» ha dichiarato il segretario della Lega Salvini. Ma il governatore Zingaretti frena: «Noi, come tutte le regioni, abbiamo bisogno dell'Italia: servono efficienza e coesione, più che l'autonomia. Lo stato federale deve essere l'Europa». E anche in Toscana il presidente della regione non si è fatto prendere dalla febbre autonomista. «Si alimentano divisioni tra gli italiani che danneggeranno la già fragile architettura istituzionale del Paese» ha dichiarato il governatore Enrico Rossi. «Per la destra del Nord conta solo l'autonomia, la rivendicazione della “piccola patria” regionale e l'illusione che si pagheranno meno tasse. Le vere questioni non valgono» continua Rossi «i tagli alla sanità e alla scuola, i salari e le pensioni basse, la precarietà del lavoro, la lotta agli sprechi e all'evasione fiscale, le diseguaglianze sociali. Solo una sinistra politica e sociale può fermare questa deriva».

La “Grande Lucania”, tra autonomia e secessione, scrive Luigi Iannone il 18 ottobre 2017. Quando si parla di “Grande Lucania”, si rispolvera una storia poco conosciuta al di fuori dell’area in questione, ma secolare e complessa, che sostiene le aspirazioni di autonomiae le velleità di secessione portate avanti dalla passione e dall’azione dei cittadini di un territorio peculiare, omogeneo dal punto di vista culturale e geografico, ma diviso a livello amministrativo tra l’attuale provincia di Salerno e la regione Basilicata. Questi attuali confini geografici della Basilicata risultano solo in maniera approssimativa corrispondere a quella che era “Grande Lucania”, un’entità precisamente identificabile attraverso un lungo percorso storico. Nel corso dei secoli quel territorio fu teatro di scontro e, al tempo stesso, di preziosissimo incontro di civiltà diverse che contribuirono a forgiarne l’identità. Ogni presenza ha lasciato tracce del proprio passaggio, dando vita ad un composto mosaico di arte, cultura e tradizioni.

Ad abitare per primi la Lucania furono gli Enotri (detti anche Itali) e gli Joni, stanziati gli uni sulle coste tirreniche, gli altri su quelle opposte. Dalla fine del VIII secolo a.C. in poi si avviò in Italia la colonizzazione greca, che segnò profondamente il territorio. Intorno alla fine del V secolo i Lucani, popolazione di stirpe osco-sannitica, provenienti dall’Italia centrale e guidati dal mitico Lucus, avanzarono dalle montagne alle zone costiere. Poi, con ondate successive, muovendosi dal Tirreno presero il controllo della parte interna della Basilicata. Si spinsero attraverso le pianure del fiume Sele, all’interno di quella regione che fu poi detta Cilento. Nasceva così, nel corso del IV secolo, la “La Grande Lucania”. La conquista e la conseguente amministrazione romana preserva grosso modo l’unità del territorio così costituito per numerosi secoli. Mantenutasi pressoché indipendente nonostante conflitti, invasioni e dominazioni anche durante i tumultuosi secoli del tramonto della civiltà antica e dell’epoca medievale, la divisione comincia solo a partire dal basso Medioevo, quando dapprima i Normanni (che si sostituirono ai Longobardi nella dominazione del Mezzogiorno), e poi definitivamente gli Angioini, spezzarono l’unità dell’antica regione lucana, dividendola sommariamente tra territori ionici e tirrenici, per varie ragioni di equilibrio politico-dinastico. Tutte le successive dominazioni, dagli imperi dell’età moderna fino all’unità d’Italia, conserveranno distrattamente questa scissione, e inoltre non riterranno necessario attribuire ad entrambi i territori di quella regione autonomia amministrativa, di cui invece altre realtà godono e hanno goduto, né valorizzeranno in nessun modo la caratteristica identità lucana e lo sviluppo della regione.

Anche l’amministrazione del Regno dei Savoia e poi della Repubblica Italiana si iscriveranno nel solco dei numerosi predecessori, per altro nel contesto di un deterioramento significativo della situazione economica. La monarchia e i governi dall’Ottocento al 1945 dimostreranno scarsa attenzione, quando non aperta ostilità, verso l’autonomia e le istanze locali, soprattutto durante il fascismo. Inoltre la politica socio-economica del regno nei confronti della regione lucana e del meridione in generale, che meriterebbero una trattazione vasta ed approfondita, sono stati notoriamente caratterizzati più da ombre che da luci. Il riconoscimento delle autonomie locali e la promozione di un costruttivo decentramento territoriale presente nella Costituzione repubblicana del 1948, a cui seguì l’istituzione delle Regioni completata compiutamente negli anni successivi, non muta significativamente la situazione, innanzitutto a livello territoriale: ancora oggi la ex “Grande Lucania” si divide tra Campania e Basilicata.

Forse proprio questi secoli di mortificazione, insieme economica e culturale, di una comunità accomunata da un territorio ben determinato da storia e tradizioni uniche, hanno comportato nell’area del Cilento e del Vallo di Diano, oggi in provincia di Salerno, la nascita di un movimento che a più riprese ha preteso il riconoscimento morale ed amministrativo di una antichissima specificità territoriale, declinabile attraverso una forte autonomia, o realizzato compiutamente tramite il ricongiungimento con la controparte lucana in Basilicata, che alcuni sentono come irrinunciabile. Alcuni, ma quanti? E soprattutto, come? Cerchiamo di rispondere a questi interrogativi ripercorrendo la storia recente del progetto “Grande Lucania”. Il movimento, basato come detto soprattutto su una comune memoria storica e culturale, nasce da un sentimento spontaneo diffusissimo presso comunità locali, che ha covato a lungo sotto la pelle del territorio ma che mai si è tradotto in concreta e rilevante azione politica fino al XXI secolo. È con il costituirsi, a partire dal 2005, di numerosi comitati civici in diversi comuni dell’area che il progetto “Grande Lucania” prende definitivamente forma e sostanza, promosso dall’omonima associazione, coadiuvata da fondazioni culturali e non, ed animata da importanti personalità locali e da numerosi cittadini. L’associazione e i comitati si danno l’obiettivo di applicare l’articolo 32 della Costituzione per la celebrazione di una discussione pubblica e di referendum popolare, che, in caso di esito positivo, comporterebbe l’agognata secessione e il passaggio alla regione Basilicata dei territori lucani in Campania con il suffragio e la partecipazione dei cittadini. Il referendum avrebbe in realtà valore consultivo, ma il Governo sarebbe obbligato, sentiti i Consigli Regionali interessati, a recepirne gli esiti e ad applicarli mediante un processo legislativo rinforzato. Tuttavia le amministrazioni comunali che hanno deliberato a favore del quesito referendario da sottoporre ai cittadini per separare il proprio Comune dalla Campania sono state relativamente esigue, non più di una ventina (come riportato dal quotidiano online Onda news), laddove invece i promotori erano ben più ambiziosi: intervistato da La Gazzetta del Mezzogiorno, uno degli ideologi del progetto, il procuratore Raffaele De Dominicis, era infatti arrivato a dichiarare: «Il nostro obiettivo è di coinvolgere almeno un’ottantina di paesi della zona per poi presentare ufficialmente la richiesta di un referendum». Lo stesso De Dominicis, ancora speranzoso, riconosceva nel 2011 che «le adesioni ci sono, ma quelle già acquisite non bastano a giustificare un referendum. Spero che altri decideranno di seguirci.» Questo non è ad oggi avvenuto, e forse conseguentemente, ma per ragioni in verità imprecisate e attinenti alle dinamiche politiche locali e nazionali, il processo ha conosciuto un pesante rallentamento, fino praticamente ad arenarsi quasi del tutto ormai da diversi anni, caratterizzati tra l’altro dalla volontà dei vari governi di ridurre il numero gli enti locali e di tagliare i fondi destinati al territorio. Solo sporadici, negli ultimi anni, sono stati i tentativi di riportare in auge la “questione lucana”, mai coronati da considerevoli successi. Ma quella che può sembrare la sconfitta su tutti i fronti di un localismo ritenuto da più parti come esasperato e non più attuale, non è in realtà classificabile come tale: la presenza e il gradimento dei temi posti dall’iniziativa sul territorio è ancora forte, appoggiata da numerosi sindaci, ed espressione di una volontà, più culturale che politica, che batte ancora nei cuori delle popolazioni del Cilento e del Vallo di Diano. Questa volontà di autodeterminarsi e di rappresentarsi come realtà territoriale e culturale specifica non è sopita, e non potrà esserlo.

Molto spesso proprio istanze simili, e il caso lucano non fa certo eccezione, incubano ed esprimono disagi e difficoltà di intere popolazioni che vogliono contare di più in termini di democrazia e di valorizzazione e distribuzione di risorse, che semplicemente desiderano una maggiore autonomia e riconoscimento. Quel riconoscimento, prima morale, e poi amministrativo ed economico, delle proprie caratteristiche e peculiarità a cui si faceva riferimento qualche riga più in alto, imprescindibile tanto per la tenuta democratica quanto per l’unità territoriale di un moderno paese europeo. Elementi di strettissima attualità in un continente sempre più attraversato da forti aspirazioni indipendentiste, non sempre serene e plurali come quelle lucane, che rischia di implodere e precipitare verso il caos e una conflittualità sociale e territoriale pericolosissima. Come i recenti fatti catalani hanno dimostrato, per scongiurare simili rischi è necessario promuovere l’autonomia e costruire rapporti armonici e rispettosi con le comunità locali, e non prevaricarne i diritti fondamentali. La Grande Lucania non è la Catalogna, non vuole e forse non può esserlo, ma la questione di fondo trascende i singoli casi, e suggerisce l’urgente promozione di una nuova logica nell’amministrazione del territorio, che non abbia paura di sostenere le autonomie per affermare l’unità. Luigi Iannone

FRANCESCO SAVERIO NITTI, LE ORIGINI DEL DIVARIO NORD-SUD ED IL MILLANTATO CREDITO.

Il Sud ha dato tanto al Nord. E Nitti lo spiega bene, scrive Giuseppe Galasso l'1 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Fra le richieste fondamentali dei referendum di Veneto e Lombardia è quella di una redistribuzione del prodotto fiscale, che porti a una decisa riduzione dei relativi trasferimenti dall’una all’altra parte del paese. Si pensa, come si sa, da parte dei promotori del referendum, a un Mezzogiorno parassita che — si dice — produce 10 e consuma 15 a spese delle regioni che produrrebbero 20 e consumerebbero di meno. Lasciamo stare la fondatezza (dubbia) di questa tesi. Lasciamo stare tutte le sue implicazioni polemiche e politiche. Lasciamo stare pure la questione della possibilità che la ripartizione delle entrate fiscali fra le varie parti di un paese possa mai avvenire o sia mai avvenuta sulla sola base della provenienza regionale del gettito fiscale. Prendiamoci, piuttosto, la libertà di qualche indugio sui precedenti storici italiani in questo campo. Gioverà, a tale scopo, uno dei libri che in questa materia hanno avuto maggiore importanza nella storia politica e culturale dell’Italia unita, ossia il Nord e Sud di Francesco Saverio Nitti, edito a Torino nel 1900. Erano, per l’autore, le «prime linee di una inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese pubbliche dello Stato in Italia». Era anche l’autore più abilitato a parlarne, avendo pubblicato a Napoli nello stesso anno Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97, del quale il volume torinese offre una redazione più discorsiva.

I risultati della ricerca di Nitti erano più che interessanti. Il Sud — egli affermava — «ha dato dal 1860 assai più d’ogni altra parte d’Italia in rapporto alla sua ricchezza; paga quanto non potrebbe pagare; lo Stato ha speso per essa, per ogni cosa, assai meno, e vi sono alcune provincie in cui è assenteista per lo meno quanto i proprietari delle terre». Tutto ciò era dimostrato con grande abbondanza di cifre e di calcoli, che provavano come «per cause molteplici (unioni di debiti, vendita dei beni pubblici, privilegi a società commerciali, emissioni di rendita) la ricchezza del Mezzogiorno, che poteva essere il nucleo della sua trasformazione economica, fosse trasmigrata subito al Nord». Poi «le imposte gravi e la concentrazione delle spese dello Stato fuori dell’Italia meridionale avevano continuato l’opera di male». Nitti valutava perciò che, in conseguenza di questi fattori, ossia della politica dello Stato, non meno di 4 o 5 miliardi delle lire del tempo dell’unità si fossero trasferiti via, via dal Sud al Nord. Il beneficio che il Sud ne aveva ricavato era stato, invece, sempre assai più esiguo del contributo fornito allo sviluppo dell’Italia, che era tutta molto cresciuta nel 1900 rispetto al 1860, ma al Sud decisamente molto di meno che al Nord.

Quella di Nitti non era, né voleva essere una recriminazione antiunitaria o, meno che mai, l’espressione di nostalgie borbonizzanti. Al contrario. Il suo senso dell’Italia e dell’italianità era fortissimo, e per lui la sperequazione fra le due Italie non rispondeva a nessun piano o calcolo predeterminato. Era stata la conseguenza delle necessità di condizioni oggettive del nuovo Stato formato nel 1860. Ad esempio, le minacce di guerra erano tutte sui confini settentrionali, ed era naturale che lì si concentrasse la spesa militare (fortificazioni, comunicazioni, presidii etc.), che era allora una molto grande parte del bilancio statale. Con la necessità, anche l’ignoranza vi aveva contribuito. Si riteneva il Sud un paese ricchissimo, senza percepire le molte sue ragioni di svantaggio, se non altro, geografico e naturale. Né Nitti mancava di riconoscere che ci si trovava in una condizione infelice «soprattutto per colpa stessa dei meridionali». Trovava, però, insopportabile che il Nord fosse stato così pronto a dimenticare un passato e lo stesso presente ad esso così vantaggiosi, e trattasse il Sud come un incomodo parassita. Per parte sua Nitti reclamava soltanto una più equa ripartizione sia del peso fiscale che della spesa pubblica, e non solo per ciò che il Sud aveva dato al paese in termini molto concreti di miliardi di imposte e di posposizione dei suoi interessi a quelli nazionali. Riteneva, infatti, altrettanto a ragione, che di un diverso Sud il Nord si sarebbe avvantaggiato anche più di quanto non si fosse già avvantaggiato per il proprio sviluppo, tenendolo, alla fine, in così poco conto.

Divario Nord-Sud: tutto iniziò con l’Unità d’Italia. L’incapacità genetica non c’entra, scrive Alessandro Cannavale il 25 marzo 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Ancora una volta, gli scritti dei grandi meridionalisti del passato trovano un riscontro perfettamente congruente in studi e ricerche attualissimi. Francesco Saverio Nitti, politico lucano e grande esperto di finanze, ne “Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897” sostenne che l’Italia del Regno delle Due Sicilie portava in dote “minori debiti e più grande ricchezza pubblica”, fino a ricordare che nel primo periodo si ebbe un notevole “esodo di ricchezza dal Sud al Nord”. Dunque, al contrario di quanto – purtroppo – si continua a leggere e dire a sproposito circa l’incapacità – persino genetica – delle genti del Sud di produrre sviluppo e progresso, lo scenario senza veli e pregiudizi è ben diverso: gli Stati preunitari versavano in condizioni tra loro affini, se non congruenti. La grande soluzione di continuità che innescò la creazione e l’accrescimento del divario tra Nord e Sud del paese furono proprio il processo di unificazione risorgimentale e, soprattutto, le successive politiche in materia di industrializzazione e infrastrutturazione.

In “La finanza italiana e l’Italia meridionale”, ancora Nitti: “Nei venti anni che seguirono l’unità, le più grandi fortune furono fatte quasi esclusivamente dagli imprenditori di opere di Stato: e fra essi non vi erano quasi meridionali, come un documento parlamentare, presentato dall’on Saracco, dimostra a evidenza. La situazione della Valle Padana ha reso più facile la formazione delle industrie, cui la politica finanziaria dello Stato, in una prima fase, e in una seconda le tariffe doganali, hanno preparato l’ambiente; di quasi tutte le industrie di cui lo Stato italiano negli ultimi trenta anni ha voluto assumere la protezione, nessuna quasi è meridionale: dalla siderurgia allo zucchero, dalle industrie navali alle industrie tessili, ecc., tutto è nelle mani degli stessi gruppi capitalistici”. E questa è, come si suol dire, storia nota. Cosa oltremodo interessante è scoprire come recenti ricerche condotte dai ricercatori Vittorio Daniele (UniCz) e Paolo Malanima (Cnr)abbiano portato nuovi riscontri scientifici a quanto sosteneva Nitti. Un loro articolo molto interessante del 2013, riporta una indagine accurata inerente la nascita e l’evoluzione delle disparità regionali nel nostro paese. Il divario economico tra Nord e Sud come noi lo conosciamo nacque solo alla fine dell’Ottocento. Nel 1861 tutto il paese unificato presentava prevalentemente una economia preindustriale (64% di lavoratori in campo agricolo, la restante parte suddivisa tra industria e servizi). I due scienziati riportano una assenza di differenze significative nello sviluppo industriale, per tutto il primo decennio successivo all’unificazione. Il grafico che riporto, (con il consenso degli autori), mostra chiaramente come il numero dei lavoratori impiegati nell’industria fosse sopra la media nazionale in Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Sicilia. Già nel grafico che fotografa la situazione del 1911 si assiste alla formazione del “triangolo industriale” in Nord-Ovest.

Nel 1891, solo il 19% dei lavoratori era impiegato nell’industria (21% al Nord e 16% al Sud). Dunque, il divario industriale era ancora esiguo su base territoriale. Vi erano regioni più e meno industrializzate in tutte le zone del Paese. Nell’articolo viene specificato che la prima grande ondata di emigrazione coinvolse oltre 5 milioni di cittadini italiani provenienti prevalentemente da Veneto, Venezia Giulia e Piemonte, (“relatively underdeveloped areas of the North”). Dopo il 1900, prevalse il numero di emigranti provenienti dal Sud. La concentrazione di industrie nel Nord del Paese si accentuò nel periodo tra le due Guerre. I dati relativi al reddito pro capite sono congruenti con quelli inerenti l’occupazione nell’industria. L’immagine di sopra mostra come, rispetto alla media nazionale, il Gdp (cioè Pil) su base regionale era distribuito in modo diverso da come avremmo potuto immaginare: al Sud solo la Calabria e la Basilicata presentavano un Pil pro capite inferiore alla media nazionale, nel 1891. L’ultima immagine che ho tratto dal lavoro di Daniele del 2013, mostra in modo palese come la situazione sia drammaticamente peggiorata in termini di polarizzazione “geografica”, nel corso dei decenni. A 150 anni dall’unificazione, lo scenario è quello che si legge, senza bisogno di commenti, nel grafico sottostante.

Francesco Saverio Nitti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Non vi è quasi avvenimento che interessi l'anima nazionale, o l'avvenire del paese, in cui non si ripeta che manca l'uomo. L'uomo è in noi stessi, può esser dato dallo sforzo di tutti, dalla coscienza di tutti: e noi lo attendiamo invece come una forza operante all'infuori di noi». Francesco Saverio Vincenzo de Paola Nitti (Melfi, 19 luglio 1868 – Roma, 20 febbraio 1953) è stato un economista, politico, saggista e antifascista italiano. Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d'Italia, più volte ministro. Fu il primo Presidente del Consiglio proveniente dal Partito Radicale Italiano e il primo nato dopo l'unità d'Italia. La sua attività di economista fu apprezzata a livello internazionale e diverse sue opere furono distribuite anche all'estero. Tra i massimi esponenti del Meridionalismo, approfondì le cause dell'arretratezza del sud a seguito dell'unificazione nazionale, elaborò diverse proposte per affrontare la questione meridionale e analizzò le ragioni del brigantaggio nel sud Italia. Durante il fascismo, a causa di violente persecuzioni da parte degli squadristi fu costretto all'esilio all'estero, da dove sostenne e finanziò attività antifasciste. Nato a Melfi da Vincenzo e Filomena Coraggio, suo padre fu professore di matematica nella "Scuola di agronomia e agrimensura" di Melfi, ispettore dei Monti Frumentari e commissario prefettizio, mentre sua madre fu una contadina. I suoi ascendenti, di ideali laico-patriottici, parteciparono attivamente a rivoluzioni di stampo liberale. Suo padre, convinto repubblicano di tendenze socialiste, fu un volontario garibaldino, milite della Guardia Nazionale, membro della Giovine Italia e della Falange Sacra di Giuseppe Mazzini e affiliato all'Associazione Emancipatrice Italiana di Giuseppe Garibaldi. Due zii paterni furono condannati a morte durante l'insurrezione antiborbonica a Napoli nel 1848, ma riuscirono a salvarsi con la fuga e l'esilio. Il nonno paterno Francesco Saverio, medico con un passato da carbonaro, fu ucciso dalle bande di Carmine Crocco durante l'assedio di Venosa, il 10 aprile 1861. La vita della famiglia non fu mai serena, a causa di deboli condizioni economiche, peggiorate dal carattere ribelle e tutt'altro che acquiescente del padre, il quale era spesso protagonista di risse che finivano in guai giudiziari. All'età di sei anni, Nitti si trasferì ad Ariano Irpino per frequentare le scuole elementari e nell'autunno del 1877 entrò nel Convitto Nazionale "Salvator Rosa" di Potenza ove continuò gli studi fino al ginnasio. Nel 1882, Nitti si trasferì a Napoli per concludere il liceo e intraprendere gli studi universitari. Durante la sua permanenza a Napoli ebbe modo di conoscere Giustino Fortunato, anch'egli originario della Basilicata, che sarà una grande influenza per la formazione culturale e politica del giovane Nitti. Nel 1888, ancora studente universitario, divenne redattore del "Corriere di Napoli" e corrispondente della "Gazzetta Piemontese". Nello stesso anno pubblicò il saggio L'emigrazione italiana e i suoi avversari, che Nitti volle dedicare al suo mentore Fortunato. Nel 1890 conseguì la laurea in giurisprudenza con una tesi sul "Socialismo cattolico" e collaborò per i giornali La Scuola Positiva e Il Mattino. Insieme a Benedetto Croce e ad altri intellettuali napoletani fondò la Società dei Nove Musi. Nel 1894 divenne direttore della rivista La Riforma Sociale. Nel 1899 ricevette l'incarico di professore di scienza delle finanze e diritto finanziario presso l'Università di Napoli e praticò l'insegnamento anche alla Scuola superiore di agricoltura di Portici. In questo periodo, Nitti si dedicherà strenuamente al tema meridionalista ma anche all'economia italiana e ai destini delle democrazie in Europa.

Nitti affrontò diversi temi per risolvere l'emergenza economica del sud, come lo sviluppo industriale di Napoli e la valorizzazione delle risorse naturali presenti nel territorio meridionale, con particolare riferimento alla sua terra di origine, la Basilicata, e inoltre propose molte leggi speciali per il progresso del mezzogiorno. Proprio su questa materia elaborò un programma organico e innovativo di solidarietà sociale e di interventi per l'espansione delle forze produttive. Nei suoi saggi Nord e Sud (1900) e il successivo L'Italia all'alba del secolo XX (1901), Nitti espose la sua tesi sulle origini del dislivello economico e sociale tra settentrione e meridione italiano e criticò il procedimento in cui avvenne l'unità nazionale, che per lui non produsse benefici in maniera equa in tutto il paese e lo sviluppo dell'Italia settentrionale fu dovuto in grande misura ai sacrifici del Mezzogiorno. Fu molto polemico con i governi del suo tempo che, oltre a stanziare fondi di sviluppo maggiormente nelle zone settentrionali, istituirono un regime doganale che favoriva Liguria, Piemonte e Lombardia, accentuando così il divario tra le due parti e mantenendo il sud, a sue parole, come un «feudo politico». Attraverso le sue ricerche, osservò una grande disparità a livello fiscale tra nord e sud, notando che città meridionali come Potenza, Bari, Campobasso avevano una pressione tributaria superiore a città settentrionali come Udine, Alessandria e Arezzo. Nitti, tuttavia, non lesinò critiche anche alla classe politica del meridione stesso, accusandola di mediocrità e disonestà. La scienza delle finanze (1903) fu tra le sue opere di economia più rappresentative ed ebbe una distribuzione a livello mondiale. Fu tradotta in diverse lingue (russo, francese, giapponese, spagnolo e portoghese) e adottata in diverse università, in Italia (fin quando il fascismo lo rese possibile), Russia, Europa centrale e Sudamerica. Con La conquista della forza (1905), Nitti cercò una soluzione per sopperire allo sfruttamento di risorse minerarie come ferro e carbone (di cui l'Italia è carente), puntando sulle potenzialità delle risorse idriche, criticandone la scarsa attenzione della classe politica nei confronti dell'acqua e proponendo una nazionalizzazione del settore idroelettrico.

Attività di deputato e ministro. Nitti esordì in politica nel 1904, con l'elezione a deputato nel Collegio di Muro Lucano. Il suo inizio si rivelò tutt'altro che facile a causa degli strascichi polemici della sua attività meridionalista, i quali resero complesso il suo rapporto con gli altri deputati della Camera e dove il suo primo intervento fu denigrato dal ministro Francesco Tedesco. In questo periodo, Giovanni Giolitti si avvale della sua consulenza tecnica per elaborare la legge sullo sviluppo di Napoli, ispirata al suo saggio Napoli e la questione meridionale (1903). Il progetto nittiano verrà solo realizzato in parte, con la nascita dell'Ente Volturno per la produzione di energia elettrica e di uno stabilimento Ilva a Bagnoli per la produzione dell'acciaio. Assieme ad Antonio Cefaly e Giovanni Raineri, partecipò alla stesura dell'inchiesta sulla Basilicata e la Calabria, interrogando direttamente il ceto popolare per poter migliorare la sua ricerca. Nitti criticò la Legge speciale sulla Basilicata (1904), poiché riteneva superfluo il piano di lavori pubblici, considerando la formazione del commercio dei prodotti agricoli e la diffusione dell'istruzione come alternativa migliore per lo sviluppo regionale. Nel 1911 fu nominato da Giolitti Ministro dell'agricoltura, industria e commercio del suo quarto governo, divenendo così il primo meridionalista a ricoprire incarichi ministeriali. Nell'aprile dello stesso anno, Nitti presentò alla Camera il progetto di legge sulla monopolizzazione delle assicurazioni sulla vita, che produsse forti dissensi da parte delle grandi compagnie private e di economisti di pensiero liberista come Luigi Einaudi. La proposta divenne comunque legge nel 1912 e portò alla nascita dell'Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA), conosciuto oggi come INA Assitalia. Nel 1914 elaborò il progetto per la sistemazione idraulica della fiumara di Muro Lucano, che permise la distribuzione di energia elettrica per far funzionare nuovi opifici e industrie. Grazie al suo impegno l'opera fu ribattezzata con il nome di "Lago Nitti". A lui si deve anche la nascita dell'Istituto Zootecnico a Bella, a tutt'oggi punto di riferimento per studi e ricerche universitarie a carattere nazionale e internazionale. Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, fu ministro del Tesoro del governo Orlando, dedicandosi ai problemi della guerra e della ripresa economica. Uno dei suoi atti come capo del dicastero del Tesoro fu, con la collaborazione di Armando Diaz, la creazione di una polizza gratuita d'assicurazione di 500 lire per i soldati e di 1.000 per i graduati. Con il termine del conflitto, seguì le vicende del trattato di pace intravedendo le conseguenze drammatiche per il futuro dell'Europa provocate dall'eccessiva chiusura dei paesi vincitori (compresa l'Italia) in difesa degli interessi nazionali. Sotto il governo Orlando, Nitti istituì nel 1917 l'"Istituto Nazionale per i Cambi con l'estero", al fine di arginare la speculazione dei cambi e quindi l'aggravamento della situazione finanziaria del Paese. Nello stesso anno, con la collaborazione di Alberto Beneduce, fondò l'Opera Nazionale Combattenti, con il compito di elargire assistenza economica e morale ai combattenti e attuare programmi di bonifica delle terre incolte.

Presidenza del consiglio. In veste di Presidente del Consiglio, fra il 1919-1920, Nitti si oppose in particolare ad atteggiamenti punitivi nei confronti della Germania e alla politica delle riparazioni imposte a quel paese dal Trattato di Versailles. Il 10 settembre 1919, sottoscrisse il Trattato di Saint-Germain, che definiva i confini italo-austriaci (quindi il confine del Brennero), ma non quelli orientali. Le potenze alleate, infatti, avevano rinviato all'Italia e al neo-costituito regno dei Serbi, Croati e Sloveni (che nel 1929 avrebbe assunto il nome di Jugoslavia) la congiunta definizione dei propri confini. Il governo Nitti si trovò davanti a questioni molto delicate come la crisi economica postbellica e l'occupazione di Fiume da parte di Gabriele D'Annunzio. Sul piano più strettamente politico Nitti si impegnò in quell'opera di cancellazione ed eliminazione delle vecchie clientele giolittiane che contrastavano con le sue convinzioni spiccatamente democratiche, sostituendo il vecchio sistema elettorale uninominale con il sistema proporzionale, richiesto con entusiasmo dai gruppi popolari e socialisti. Per risollevare l'economia, il primo ministro attuò una politica che prevedeva misure per favorire le esportazioni, processi di riconversione delle industrie da belliche a pacifiche, e misure fiscali rigide per i ceti più alti. Al fine di andare incontro ai bisogni degli ex-combattenti (nel frattempo inquadratisi nell'Associazione nazionale combattenti), venne promulgata la prima legge per le pensioni ai mutilati e agli invalidi di guerra, legge che fu ritenuta fra le migliori d'Europa, ad opera del Ministro per l'Assistenza Militare e Pensioni di Guerra Ugo Da Como; infine varò, il 2 settembre 1919, il decreto legge n. 1633 noto anche come Decreto Visocchi, dal nome dell'allora Ministro dell'Agricoltura, teso a favorire la concessione di proprietà di terra ai contadini reduci dalla prima guerra mondiale. Tuttavia le scelte adottate dal suo governo non sortirono grandi effetti e i problemi economici e sociali, ancora persistenti, sfociarono in violenti scontri politici e sindacali (il cosiddetto Biennio Rosso). La presidenza di Nitti si trovò sempre più in bilico quando il 12 settembre 1919, una forza volontaria irregolare di nazionalisti ed ex-combattenti italiani, guidata dal poeta Gabriele d'Annunzio, occupò militarmente la città di Fiume chiedendo l'annessione all'Italia. D'Annunzio detestava Nitti e lo accusava di non tutelare gli interessi dello Stato, tanto che il poeta lo soprannominò con l'epiteto di "Cagoja" (chiocciola in dialetto giuliano), nomignolo in origine affibbiato ad un rivoltoso triestino che, una volta arrestato, divenne noto al tempo per essere una persona sottomessa. Le tensioni con il poeta e le aspre rivolte sociali indebolirono sempre più la sua legislatura. Il 2 ottobre 1919, istituì la Regia Guardia per la Pubblica Sicurezza, corpo di polizia destinato a mitigare le agitazioni e i tumulti popolari e che sostituì il Corpo delle Guardie di Città. Le elezioni politiche decretarono la vittoria dei socialisti e Nitti, nonostante gli fosse confermata la fiducia del governo, scelse di dimettersi il 16 novembre, preoccupato anche dalle agitazioni sul fronte interno degli operai e degli agricoltori, ma il re Vittorio Emanuele III lo confermò alla guida del governo. Nell'aprile 1920 Nitti partecipò alla Conferenza di Sanremo, in cui figurarono i rappresentanti delle quattro nazioni vincitrici della prima guerra mondiale. Il 21 maggio 1920, Nitti formò un nuovo governo ma il mandato fu breve. A Pallanza, il nuovo Ministro degli Esteri Vittorio Scialoja iniziò i negoziati con i rappresentanti jugoslavi per la definizione del confine orientale; tali colloqui non ebbero esito in quanto la controparte insisteva per la fissazione dei confini sulla cosiddetta “Linea Wilson”, che portava il confine a pochi chilometri da Trieste e l'esclusione di Fiume dalle richieste italiane. Ne conseguirono le dimissioni del Governo Nitti II, nel giugno 1920 dopo essere stato anche messo in minoranza sul decreto di aumento del prezzo politico del pane. Il suo posto verrà ripreso da Giolitti. Nel 1922 Mussolini invitò Nitti ad un'alleanza, con l'intento di formare una coalizione che comprendesse popolari, fascisti, socialisti e chiedendo un posto nel ministero. Nitti (interessato anche nel mettere fuori gioco il suo eterno rivale Giolitti) accettò a due condizioni: niente ministeri politici e militari, scioglimento dei Fasci. Mussolini, concorde, si mostrò interessato solo ad un posto come ministro del lavoro. Nitti (come gran parte dei politici della sua era) sottovalutò la natura del fascismo e iniziò ad opporsi fermamente all'imminente regime. Il 16 novembre 1922, Mussolini, neopresidente del consiglio, pronunciò alla camera dei deputati il suo primo discorso, il cosiddetto discorso del bivacco. Mentre esponenti politici come Giolitti, Orlando, De Gasperi, Facta e Salandra diedero la fiducia a Mussolini, Nitti si rifiutò di riconoscere la legittimità del governo fascista e abbandonò l'aula per protesta. A causa della sua astensione, iniziò ad essere vittima di intimidazioni fasciste e, nel frattempo, si ritirò nella sua villa ad Acquafredda di Maratea, sul litorale tirrenico.

La persecuzione fascista e l'esilio. Durante il soggiorno ad Acquafredda, continuò a svolgere l'attività pubblicistica relativa alle problematiche internazionali e collaborando con i più prestigiosi quotidiani europei. In questo periodo si diede alla composizione di una trilogia sull'andamento politico in Europa composta da L'Europa senza pace, La decadenza dell'Europa e La tragedia dell'Europa, la quale verrà ultimata nel 1923. In aggiunta, scrisse diversi articoli per la United Press International, agenzia di stampa statunitense e mantenne stretti contatti con alcune personalità politiche, in particolare con l'amico Giovanni Amendola. In questo periodo, scampò ad un'aggressione di un gruppo fascista giunto davanti alla sua villa, il quale decise di andarsene a seguito della difesa dell'abitazione da parte di alcuni cittadini suoi amici, che vennero a conoscenza del loro arrivo. Gli squadristi rivolsero, tuttavia, minacce di un imminente ritorno. Dopo il soggiorno, Nitti tornò a Roma tentando di fermare il governo fascista per l'ultima volta. Nel